Storia arte e cultura nel 1900

 


 

Storia arte e cultura nel 1900

 

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SOCIETÀ DI MASSA E LE CONSEGUENZE POLITICHE: PARTITI, SINDACATI, ESERCITI

 

“Agli inizi del ‘900 non c’erano più i protagonisti ma soltanto cori di persone”. Acquisisce la sua forma definitiva la SOCIETÀ DI MASSA. Una realtà nuova e complessa risultante dall’intreccio di processi economici, mutamenti politici e culturali. Era caratterizzata da:

  • vita in agglomerati urbani medio-grandi, dove si fanno molti incontri, ma la conoscenza è sempre più anonima;
  • le relazioni sociali sono affidate alle grandi istituzioni nazionali. Non è più la parrocchia, la piazza e la locanda a rappresentare la centralità nelle relazioni, ma lo Stato, i partiti e i sindacati;
  • è governata dall’economia di mercato.

Nel ventennio precedente la 1° Guerra Mondiale l’economia dei paesi industrializzati ebbe un’espansione intensa (e interessò anche gli ultimi paesi arrivati: Russia e Italia). I prezzi crebbero costantemente, ma furono equilibrati da un incremento in misura maggiore dei salari, tanto da portare ad un aumento del potere d’acquisto dei salari. Questa situazione di benessere favorì i consumi provocando un allargamento del mercato. Nascono nuove forme di vendita (per corrispondenza e con pagamenti rateali). L’esigenze dovute alle richieste costrinsero le imprese alla corsa alla meccanizzazione e alla razionalizzazione della produzione. Nel 1913 alla Ford di Detroit fu messa in funzione la prima catena di montaggio, che rappresentava l’extrema ratio della competitività (la lavorazione era spezzettata in tante piccole semplici operazioni che erano assegnate a tanti lavoratori che l’eseguivano in sequenza. Questo provocò una spersonalizzazione del lavoro e sfruttamento del capitale umano, sulla base di dottrine economico-industriali, la più celebre è il taylorismo che miravano a minimizzare gli spechi, finendo spesso per attuare direttive efficienti, ma abberranti. Queste trasformazioni produssero anche un aumento della stratificazione sociale. Nascono le differenze tra i lavoratori qualificati e la manodopera, introducendo un nuovo concetto di ceto medio, che andava sempre più avvicinandosi alla borghesia, arrivando a rifiutare ogni accostamento alla classe operaia (i nuovi borghesi). Crescono anche i lavoratori autonomi e soprattutto i dipendenti pubblici, grazie all’inevitabile espansione dello stato e delle burocrazie. Diventa evidente la divisione tra “colletti bianchi” (dirigenti) e“colletti blu” (lavoratori). Proprio la piccola borghesia impiegatizia era destinata a diventare uno dei perni sociali del nuovo millennio, per la loro numerosità e per il loro livello culturale intermedio.
Proprio sulla scuola si era giocata una partita importante per dimostrare che era un’opportunità sulla quale ci si poteva giocare il futuro. Per questo non sembrava più sufficiente l’opera della Chiesa, ma necessitava l’intervento diretto dello Stato. L’idea della scolarizzazione per tutti aveva i suoi contrari negli ambienti più tradizionalisti, ma era caldeggiata dagli industriali che chiedevano a gran voce dei “cervelli” per lo sviluppo. A partire dagli anni 1870 quasi tutti gli Stati europei s’impegnarono a rendere la scuola obbligatoria e gratuita, pur avendo tempi e risultati molto diversi a seconda del livello d’influenza della Chiesa nei diversi stati. L’incremento della scolarizzazione provocò lo sviluppo degli strumenti di comunicazione, come libri e soprattutto la stampa con la nascita di quotidiani che avrebbero avvicinato le grandi masse ai problemi della vita sociale e alla politica (OPINIONE PUBBLICA).
Prima della I guerra mondiale la leva diventò obbligatoria ovunque a eccezione dell’Inghilterra. Questo provocò enormi malcontenti e situazioni difficili da affrontare:

  • un problema economico. Era molto oneroso mantenere e addestrare per almeno tre anni i militari; si ingenerarono così criteri arbitrari per privilegiare i ricchi (l’acquisto dell’esonero, che però era possibile solo ai borghesi);
  • un problema politico. Armare persone di estrazione operaia o contadina, e riconoscergli  il diritto di voto voleva dire aumentare il potenziale di quelle fasce sociali più favorevoli alle idee rivoluzionarie.

Alcuni fattori avevano spinto alla trasformazione degli eserciti:

  • un fattore militare Un grande esercito per essere un deterrente per le mire espansionistiche di paesi ostile doveva essere numericamente garantito;
  • un fattore produttivo Lo sviluppo industriale rendeva disponibili armi a costi accessibili e le produzioni diminuivano i costi all’aumentare delle quantità. I grandi gruppi industriali avevano visto nello sviluppo dell’esercito un settore d’affari molto prolifico. La rete ferroviaria permetteva il rapido spostamento d’ingenti quantità di militari;
  • un fattore politico e un grande esercito controllava la società.

La società di massa non coincide con democrazia, già nel XIX secolo si erano avuti casi di pseudo-democrazia plebiscitaria di regimi autoritari. Alla società di massa  si accompagnò una maggiore partecipazione alla vita politica. Il segno più evidente di questa tendenza fu l’estensione del diritto di voto, che nel 1915 portò quasi tutta Europa ad avere introdotto il suffragio universale maschile. L’allargamento del diritto di voto comportò la profonda trasformazione del sistema dei partiti introducendo un nuovo modello. Primo esempio fu il Partito Socialista, basato sull’inquadramento di larghi strati della popolazione in una struttura permanente, articolata in sezioni e facente capo a una dirigenza. Alla vigilia della Prima Guerra i vecchi partiti di notabili, avevano capito la necessità di dialogare con le grandi masse per mantenere il controllo del potere. Questa nuova situazione provocò un nuovo sviluppo delle associazioni sindacali che comparvero in tutta Europa (non solo in Inghilterra e Germania)
I sindacati erano in crescita per la nuova dimensione della lotta politica, nonostante le resistenze degli imprenditori. Si federarono in organismi nazionali, i più importanti dei quali furono quelli di matrice socialista (CGL, 1906) ma non mancarono, anche, casi di  associazionismo sindacale cattolico.

 

54 LE ORIGINI DEL MOVIMENTO FEMMINILE

Con la società di massa presero forma una serie di lotte per l’emancipazione, tra le quali quella della “questione femminile”. Ad eccezione di Stuart Mill, autore  nel 1869 del libro “Sulla schiavitù della donna”, il problema della sudditanza femminile era stato ignorato dai grandi pensatori liberali. I primi movimenti femministi, nati dapprima nella Francia Rivoluzionaria, poi nell’Inghilterra della rivoluzione industriale, avevano avuto clamorosi insuccessi. Così alla fine del ‘800 le donne erano escluse dalla vita politica e sociale, nonché all’accesso alle università e alle professioni in moltissimi paesi. Le donne impegnate nei lavori comuni, subivano un trattamento economico inferiore a quello degli uomini.  L’impiego delle donne al di fuori del focolare domestico non era una scelta d’emancipazione ma una necessità. Ma fu proprio la Società di massa a fare acquisire alle donne la coscienza della propria situazione e a reclamare giustizia.  Solo nel 1902, in Inghilterra, su iniziativa di Emmeline Pankhurst nacque la Women’s social and political union, che concentrò le sue azioni di protesta sul diritto di voto, guadagnandosi il nome di SUFFRAGETTE, e mettendo in pratica proteste decise e anche attentati contro edifici pubblici. Nel 1918 la Gran Bretagna concesse il voto alle donne, nonostante l’atteggiamento  disinteressato dei socialisti che temevano, appoggiandole, di favorire i partiti d’ispirazione cristiana. Prima della Grande Guerra erano cadute le limitazioni più gravi (istruzione e professioni) ma ovunque restavano escluse dal voto e discriminate sui luoghi di lavoro.

 

 

55 I PARTITI SOCIALISTI, LA II INTERNAZIONALE, IL DIBATTITO TRA I MARXISTI.

Quello socialista fu il primo partito di massa Dopo una iniziale tendenza rivoluzionaria radicale, acconsentì d’allargare la base di consenso ai borghesi.
Il primo e più importante partito socialista fu quello tedesco SPD (’75), divenuto un modello organizzativo ed ideologico (marxismo) per tutti gli altri.
In Francia poco dopo la nascita, nel 1882, il POF si divise in due correnti che si fecero un’acerrima battaglia prima di tornare a confluire in un partito unico nel 1905: SFIO (Sezione francese dell’internazionale operaia).
In Inghilterra i gruppi socialisti non riuscirono ad imporre la loro egemonia sulle Trade Unions; maggiore influenza ebbe la Società fabiana, composta da intellettuali e con intenti temporeggiatori anziché rivoluzionari. Furono quindi gli stessi dirigenti delle Trade Unions a organizzare nel 1906 il Partito Laburista (Labour Party), che si fondava sull’adesione sindacali e non presentava una precisa ideologia.
Nonostante le numerose difformità tutti i partiti socialisti d’inizio ‘900 proponevano di:

  • superare il capitalismo con una gestione sociale dell’economia;
  • principi d’internazionalismo e pacifismo;
  • rivendicazioni sociali per l’uguaglianza sostanziale delle persone.

La nascita della SECONDA INTERNAZIONALE SOCIALISTA si fa risalire al 1889 a Parigi, dove i principali partiti socialisti europei fissarono alcuni importanti obiettivi, tra i quali rivendicava un monte ore lavorativo massimo di otto ore giornaliere. Nell’occasione fu istituita la giornata mondiale di lotta per il 1° maggio. La ricostituzione dell’Internazionale fu ufficializzata al congresso di Bruxelles del ’91 vide un’ulteriore affermazione della dottrina marxista, che culminò con l’esclusione degli anarchici e di quanti rifiutavano l’attività parlamentare come strumento politico di rivendicazione. A differenza della prima internazionale che aveva la pretesa di essere il centro dirigente dei lavoratori mondiali, quest’ultima assunse le sembianze di una federazione di partiti autonomi e sovrani, diventando un  luogo fondamentale di discussione e coordinamento tra le realtà operaie di tutto il continente. Il marxismo, nella sua forma adattata da Engels era diventata la dottrina ufficiale del socialismo e aveva trovato uno dei suoi interpreti più autorevoli in Kautsky che pur prevedendo l’inevitabilità dello scontro, non escludeva lotte democratiche per la realizzazione delle sue fasi intermedie. Sarebbero state le forze borghesi ad avviare lo scontro perché incapaci d’arginare la diffusione delle idee socialiste. Nacquero due tendenze:

  • il riformismo di Bernstein che, accusato di revisionismo perché prevedeva una revisione di alcune delle teorie di Marx che si erano rivelate sbagliate, e che il socialismo consisteva nelle graduale trasformazione della società attraverso gli strumenti della politica. La società socialista sarebbe nata da una trasformazione graduale realizzata grazie al lavoro delle organizzazioni sindacali;
  • gli ortodossi e rivoluzionari: che respingevano le teorie moderate. Soprattutto fra i giovanissimi, fiorirono queste nuove correnti estremistiche (Rosa Luxemburg), arrivando anche a minacciare l’egemonia dei centristi.

Una dissidenza particolare si manifestò nel partito socialista Russo, che aveva come protagonista Nikolaj Lenin. Con l’opuscolo “Che fare?” del 1902, Lenin propose un partito votato alla lotta, di rivoluzionari di professione, un modello particolarmente adatto alla clandestinità. In un congresso, svoltosi tra esiliati, a Londra nel ’03 furono accettate le idee di Lenin, provocando una scissione nel partito:

  • la maggioranza (in russo bolscevica), facente capo a Lenin;
  • la minoranza (in russo menscevica), facente capo a Martov.

Il dibattito politico maturò altre dissidenze. In Francia si profilarono teorie di sindacalismo rivoluzionario per cui il compito delle organizzazioni era di addestrare gli operai alla rivolta; per questo l’arma più importante per l’operaio era lo sciopero che avrebbe paralizzato la società borghese. Fu  George Sorel nel 1904-’05 ad elaborare la teoria dello sciopero generale come mito per trascinare gli operai alla lotta. Nonostante il sindacalismo rivoluzionario non riuscì a radicalizzarsi nei partiti socialisti contribuì ad inasprire la lotta politica.

 

56 LEONE XIII: I CARATTERI DEL SUO PONTIFICATO E LA RERUM NOVARUM.

Di fronte ai notevoli sviluppi dei movimenti socialisti e alle riottosità dei gruppi operai la chiesa cercò di riorganizzarsi. Sotto il pontificato di LEONE XIII (1878-1903) fu promosso il tentativo di rilanciare il ruolo sociale della chiesa, unico baluardo etico per combattere i fenomeni di disgregazione sociale derivanti dalla nuova situazione della società di massa. La politica del pontefice voleva proporre le parrocchie e le associazioni cristiane come elemento di collante per le situazioni di disagio, con la loro capillarità potevano lenire le storture della società, proponendo un’alternativa alle idee socialiste. Il Papa sollecitò la nascita di partiti politici di ispirazione cattolica. Nell’enciclica Rerum novarum del maggio ’91 il pontefice si proponeva di ufficializzare il problema della condizione operaia, inquadrato in un’esigenza di rispetto dei reciproci doveri: i lavoratori dovevano essere frugali, rispettosi delle gerarchie e lavorare, i proprietari dovevano dare la giusta mercede.
Le società operaie e artigiane cattoliche proponevano il coporativismo tra le classi, buona negli intenti, ma di difficile applicazione. Verso la fine del ’800 nascevano così, soprattutto in Italia e Francia movimenti politici cristiana più impegnati nel sociale con idee che finirono per assomigliare più alle società di mutuo soccorso. I fautori furono chiamati modernisti (Ernesto Buonaiuti), in quanto proponevano di conciliare il cattolicesimo col progresso filosofico della civiltà moderna.
Gli spazi aperti dalla politica di Leone XIII furono subito chiusi dalla salita al soglio pontificio di Pio X, nel 1903, che si preoccupò di richiamare all’ordine i democratici-cristiani sino agli estremi di scomunicare nel 1907 i modernisti. Nonostante questa politica “repressiva” la base consensuale dei democratici-cristiani da rappresentare un embrione di quella forte componente politica che sarà in futuro.

 

57 LA CULTURA DEL POSITIVISMO, LA SUA CRISI, LE NUOVE SCIENZE.

La nascita della società di massa portò a numerosi cambiamenti anche in campo culturale. Fino a questo momento il panorama europeo era dominato dal positivismo, che aveva caratterizzato un solido riferimento ad ogni campo del sapere umano. Ora il suo modello appariva inadeguato a spiegare i fenomeni politici e sociali e all’evoluzione delle scienze. Nella filosofia che si andava proponendo un nuovo irrazionalismo e vitalismo, che si ricollegava all’istinto, alla volontà, allo slancio vitale, da ricercare in una realtà psicologica studiata come oggettiva con proprie leggi e proprio tempo.Primo e principale filosofo che proponeva una critica al positivismo era Nietzsche, che contrapponeva alla visione lineare e positiva del tempo il concetto dell’eterno ritorno. Solo l’uomo nuovo, il superuomo poteva effettuare una svolta realizzando la propria individualità al di fuori della morale corrente.
In Germania la reazione al positivismo segnò una ripresa della filosofia kantiana, con una più approfondita riflessione sui problemi della conoscenza storica e un ritorno alle scienze dello spirito.
In Italia ci fu una rinascita dell’idealismo. Benedetto Croce, che dopo una critica al materialismo marxista, elaborò un complicato pensiero filosofico che tendeva a risolvere tutta la realtà nella storia. Ricordiamo anche Giovanni Gentile.
Nei paesi anglosassoni si sviluppò il pragmatismo, che imponeva una verifica continua tra teoria e pratica rivalutando in tal modo le scienze pratiche come la psicologia e pedagogia.
L’elemento comune che coagulava le diverse filosofie europee era da ricercare nella crisi di fiducia nelle scienze esatte, messe in dubbio dall’interno con le scoperte scientifiche di Thomson, Rutherford (esperimenti sugli atomi), Planck (quantismo), Einstein (relatività nel 1905), che incrinavano i principi cardine della fisica classica. Proprio alla relatività del tempo si collegarono molte delle principali esperienze intellettuali. Un altro dei principi cardine del nuovo dialogo era un’attenzione alle motivazioni non razionali dell’uomo (Sorel, Pareto). Particolarmente importante fu l’opera di Freud, fondatore della psicanalisi, che introduceva il concetto di “vita inconscia” (ES) diversa dalla “vita conscia” (IO).  In questo modo si poneva una grande critica nei confronti dei massimi sistemi.
Altrettanto importanti furono le nuove scienze sociali, con Weber, che si proponeva di oggettivare delle realtà attraverso aspetti soggettivi capaci d’influenzare la realtà stessa. Notevole impulso si verificò anche nelle scienze politiche, con:

  • Mosca : il potere non poteva sottostare alla sovranità popolare, ma doveva essere detenuto da un’elite di professionisti:
  • Pareto, confermava le idee di Mosca evidenziando come la politica fosse uno scontro di élites.

Al filone politico si collegarono le teorie sociologiche del tedesco Michels, che stabiliva un nesso inscindibile tra la società di massa e la creazione d’oligarchie burocratiche inamovibile. Per Weber la tendenza alla crescita delle burocrazie era inarrestabile.
Elemento comune di molte di queste teorie è un forte pessimismo sulla sorte degli ordinamenti democratici, destinato a portare ad una serie d’azioni-reazioni che condizioneranno fortemente la situazione politica internazionale, all’inizio del ‘900.

 

58 NAZIONALISMO, ANTISEMITISMO, SIONISMO ALLA FINE DEL ’800.

Per tutto l ‘800 il concetto di nazione era legato ai valori politici e culturali che legavano le popolazioni. Tra il 1815 e il ’70 il nazionalismo era stato il principio ispiratore dei movimenti indipendentisti. Le cose cambiarono con l’unificazione tedesca di Bismark, e con lo svilupparsi delle idee socialiste, che preoccupavano seriamente le classi borghesi; per questo la battaglia nazionalista finì spesso con l’identificarsi con lo scontro con il socialismo. L’orgoglio nazionale indusse quasi tutte le classi politiche a sviluppare una coscienza nazionalista. Il nazionalismo in buona parte d’Europa assumeva le forme di una supremazia etnica-culturale nei confronti delle altre nazioni, ponendosi politicamente nell’ultradestra. Con lo svilupparsi del nazionalismo presero forma le politiche razziste e discriminatorie.
Precursore delle teorie razziste fu il francese De Gobineau, che nel ’55 pubblicò il Saggio sulle ineguaglianze delle razze umane, che spacciava per teorie scientifiche d’orientamento positivista, credenze ataviche e pregiudizi, che trovavano successo soprattutto nelle classi meno colte. Il neonazionalismo dei primi del ‘900 si può spiegare come il successo delle componenti irrazionali della psicologia collettiva rinfocolata dai sistemi di propaganda tipici della società di massa, la base ideologica fa riferimento a caratteri tribali irrazionali e alla capacità di affascinare con riti collettivi come le grandi adunate di piazza che raggiungeranno il loro apice con il fascismo e il nazismo.
In Inghilterra il consenso alla causa imperialista non assunse posizioni polemiche con le cause dei partiti liberali, anche perché trovò riscontro nella classe dirigente, da Disraeli a Chamberlain, per cui i suoi effetti furono mitigati dall’accettazione istituzionale.
In Francia invece fu il terreno d’incontro di molti movimenti d’origine diversa: bonapartista, cattolico-leggitimista, rivoluzionaria; raggruppando realtà accomunate dalla forte critica alla classe dirigente corrotta. Il nazionalismo francese, non era tanto rivolto verso l’esterno, nella sua forma imperialista quindi, quanto verso l’interno, contro: protestanti, immigrati e soprattutto gli ebrei.
Una forte componente antiebraica, unita ad una sottile vena anticapitalistica e antiborghese si manifestarono nei paesi di lingua germanica. Fu proprio in Germania che le teorie sulla “razza ariana” ebbero le loro formulazioni più organiche e terribilmente fortunate.  Ad affascinare le popolazioni tedesche fu il mito del Volk che, concepito come un legame quasi mistico delle popolazioni di lingua tedesca, mutuato dalla cultura romantica. Questa deviazione ideologica portò alla formazione della Lega pantedesca nel’94, senza riuscire però ad influenzare in modo decisivo la politica estera del Reich, ma rafforzarono in modo decisivo lo spirito militarista nazionale.
Contrapposto ai movimenti pangermanici, è da segnalare nell’Europa del SUD-EST, il panslavismo: nato in Russia come strumento ideologico per giustificare l’imperialismo zarista; era condito di connotazioni molto antisemite. In Russia la politica zarista concedeva tacitamente la pratica dei pogrom: libertà di saccheggi e devastazioni ai danni degli ebrei per fare sfogare il popolo.
La naturale reazione allo sviluppo delle ideologie antisemite fu la nascita di un forte movimento: il sionismo, fondato nel 1896 dallo scrittore Herzl, col proposito di restituire un’entità nazionale e politica alle comunità israelitiche disperse nel mondo costituendo uno stato ebraico in territorio palestinese.

 

 

59 LA FRANCIA TRA DEMOCRAZIA E RIFORME

Alla fine del ‘800 la Francia aveva compiuto passi avanti sulla strada della democrazia, eppure le istituzioni furono il bersaglio principale delle critiche nazionaliste, alle quali si aggiunsero quella clericale che criticava aspramente il laicismo della classe dirigente. Le correnti d’opposizione si coagularono mettendo in crisi la vita della Terza Repubblica. Ciò avvenne in occasione di un clamoroso caso giudiziario: il caso Dreyfuss. L’ufficiale ebreo fu condannato nel ’94 con prove false, o costruite e fatto oggetto di una violenta campagna di stampa, cui fu negata la revisione dopo la scoperta di prove per la sua innocenza. Quando nel ’98 Zola lancia il j’accuse fu processato e condannato per offese all’esercito. Il caso era ormai sollevato e l’opinione pubblica si divise in due schieramenti: socialisti e repubblicani, innocentisti, contro clericali e nazionalisti, colpevolisti. Il caso privato divenne presto caso politico. Nel 1899 si giunse alla revisione del processo ove Dreyfuss si vide confermata la condanna nonostante fossero emerse prove evidenti della sua innocenza. Sconfitti sul piano giudiziario i socialisti-radicali democratici si trovarono vincitori politici alle elezioni del 1899. Per reazione si realizzò un’epurazione nell’esercito, ed una dura battaglia dello stato laico contro il potere politico clericale che portò alla la rottura dei rapporti diplomatici con il Vaticano nel 1905. I governi che si succedettero fra il 1906-’10, sotto la guida di Clemanceau e Briand, condussero in porto alcune importanti riforme sociali ma non riuscirono a fare approvare un’imposta sul reddito che avrebbe cambiato radicalmente la politica francese.
Ma sulla spinta della debolezza della classe dirigente, il nuovo governo repubblicano fu ben presto soggetto ad un’involuzione moderata che lo portò ad una politica economica-sociale poco brillante, tale da provocare una necessaria sterzata politica verso destra che consentirà il ritorno al potere delle forze moderate nel 1912 con Poincarè. Il nuovo Governo spostò la politica dai temi delle riforme a quello dello sviluppo militare e del rafforzamento dell’esercito.

60 IMPERIALISMO E RIFORME IN GRAN BRETAGNA.

 

Alla fine del ‘800, anni dell’esaltazione imperialista, della guerra ai Boeri, anche in Inghilterra al governo prevarrà la compagine conservatrice con Chamberlain Ministro delle Colonie, che cercarono di contemperare le politiche imperialiste con moderato riformismo sociale. Tra il 1897-1905 vararono leggi che inquadravano le responsabilità degli imprenditori in materia d’infortuni sul lavoro e misure atte a favorire il collocamento. A mettere in crisi il predominio conservatore, fu il tentativo di reintrodurre le tariffe doganali (tariffa imperiale) venendo meno alla tradizione liberoscambista di mezzo secolo. Così alle elezioni del 1906 i liberali ottennero la maggioranza con 30 deputati laburisti. Il nuovo piano politico prevedeva una linea coloniale meno aggressiva e una politica sociale spregiudicata. Lo scontro si fece particolarmente duro quando fu proposta un’imposta sui redditi fortemente progressiva che, per sopperire alle spese delle riforme, voleva a colpire i grandi patrimoni. La Camera dei Lords, roccaforte dell’aristocrazia, (che avevano diritto di veto tranne che sulle questioni finanziarie, che avrebbe bloccato l’iniziativa legislativa) non approvò il preventivo di legge finanziaria dei liberali e nacque un conflitto istituzionale che vedeva contrapposti i conservatori (House of Lords) contro i liberali (House of Commons). Grazie alla mediazione del nuovo sovrano Giorgio V, si arrivò faticosamente all’approvazione di un nuovo progetto di legge (Parliamentary Bill- 1909) che toglieva il diritto di veto ai Lords su questioni finanziarie. Questa fu la consacrazione definitiva alla politica liberale di fine secolo, ma non fu sufficiente a riportare la tranquillità politica, perché i progressi nella legislazione sociale non avevano portato ad un aumento dei salari, così da favorire ulteriori agitazioni dei lavoratori che, uniti a quelle delle suffragette e degli irlandesi avrebbero reso vita dura al governo.
Ad assestare il colpo di grazia al governo liberale fu la presentazione del progetto di Home Rule (1911) secondo cui l’Irlanda avrebbe avuto un suo parlamento, ma sarebbe stata legata alla corona per i comuni interessi. La proposta finiva con lo scontentare sia gli irlandesi nazionalisti, che miravano alla piena indipendenza, che la minoranza protestante dell’Ulster che organizzò un movimento paramilitare clandestino per opporsi all’autonomia (IRA). Nonostante i contrasti la legge fu approvata nel 1914 ma subito sospesa, per lo scoppio della Guerra Mondiale.

 

 

61 LA GERMANIA GUGLIELMINA

Era stata la politica interna a provocare l’allontanamento del cancelliere Bismarck nel 1890. L’imperatore Guglielmo II, fortemente critico alle leggi antisocialiste di Bismark, era stato categorico nel suo desiderio di volere inaugurare un nuovo corso politico(NEUE KURS). Nonostante il cambiamento al vertice della Cancelleria, il gruppo di potere dominante non cambiò nella sostanza, l’unica differenza significativa era l’incremento d’influenza dei militari. A livello istituzionale il governo rimaneva al di sopra dei partiti e la ricca borghesia rimaneva la sola proprietaria dei cartelli nell’economia ed industria; se da una parte era un limite dall’altro, aveva contribuito a rafforzare l’economia tedesca sino a portarla ad allinearsi a quell’americana. La forte struttura istituzionale che da oltre mezzo secolo aveva contraddistinto l’organizzazione tedesca ingenerò nella classe dirigente e in quella popolare un sentimento di superiorità nei confronti degli altri europei. Per cercare di sanare le differenze coloniali, che vedevano la Germania fortemente penalizzata rispetto a Inghilterra e Francia, nacque una corrente nazional-imperialista che proponeva una “politica mondiale” (Weltpolitik). La spinta nazionalista finì con influenzare quasi tutte le correnti politiche, l’unica forza ad opporvi si fu la socialdemocrazia che per questo rimase isolata. Nonostante questo esclusione la socialdemocrazia radicò sempre più la proprio presenza nella massa popolare arrivando a controllare i sindacati. Il sostegno popolare non fu sufficiente ad impedire un ammorbidimento politico, allora per fare sentire la propria influenza la linea politica del partito confluì progressivamente in quella conservatrice nel. La Spd venne tacitamente a patti con le idee nazional-imperialiste anche a causa della sensibilità della classe popolare alle nuove idee nazionaliste. Nel 1907 la Spd subì una grave sconfitta elettorale che contribuì ad allontanarla dalla politica socialista per abbracciare una linea più conservatrice.

 

 

62 I CONFLITTI DI NAZIONALITÀ IN AUSTRIA-UNGHERIA.

A fine ‘800 l’impero Austrio-ungarico era economicamente poco più sviluppato dell’Italia. Concentrava tutta la sua ricchezza in poche città (Vienna e dintorni) relativamente industrializzate. Palpabile era la contrapposizione tra lo sviluppo culturale e l’immobilismo politico dovuto, oltre che alla scarsa apertura dell’impero alle nuove idee di fine secolo, anche all’influenza del clero che dominava le genti delle campagne. La situazione istituzionale era paragonabile a quella tedesca, anche se la popolazione austriaca era molto meno unita e logorata in continui scontri etnici che rappresentavano il principale motivo di disagio.
Nel ‘67 si raggiunse un compromesso coi magiari, il popolo più influente: l’impero fu diviso in due stati, uno austriaco e l’altro ungherese uniti nella figura dell’imperatore e Re ungherese; (l’Ungheria acquistava una sorta di autonomia sotto il protettorato austriaco). Accordandosi con il gruppo nazionalista più numeroso, l’imperatore finiva con lo scontentare le popolazioni slave sottomesse ai magiari. L’opera di mediazione imperiale non riuscì ad impedire l’entusiasmo che si verificò in tutte le correnti nazional-indipendentiste. I più irrequieti erano proprio i popoli slavi che da tempo covavano idee di una grande nazione slava, ma non da meno furono i Cechi (i giovani cechi), nonché dei Magiari che chiedevano la totale indipendenza. Per cercare di tamponare le crescenti pressioni, in seno alle istituzioni di governo incominciò a farsi strada l’ipotesi di progetto trialistico, per la suddivisione dell’impero in: Austria, Ungheria e Jugoslavia. Al progetto si opposero i magiari, perché vedevano sacrificate parte dei loro territori, e anche serbi e croati (appoggiati dalla Russia) che desideravano uno Stato indipendente. Questa situazione esplosiva fu uno degli elementi fondamentali che avrebbero portato alla Guerra del 14.

 

64 I CONFLITTI INTERNAZIONALI PRECEDENTI LA I GUERRA MONDIALE

Prima del ‘14, alla competizione fra la Germania e l’Inghilterra per la supremazia navale, si sommarono due punti di frizione principali in politica internazionale:

  • la questione orientale: il Marocco(confronto franco-tedesco, animato dal revanscismo francese).

Il Marocco era uno degli ultimi stati africani non colonizzati, da tempo sotto le mire francesi(avvallate dall’“Intesa cordiale” con gli inglesi). La Germania decise d’intromettersi nel gioco provocando due contrasti diplomatici che portarono l’Europa vicino alla guerra(1905 e ’11).
La Francia si vide riconosciuto il protettorato sul Marocco, in cambio la Germania ottenne una striscia del Congo francese. La situazione mostrò l’isolamento di cui era vittima la Germania, provocando un inasprimento dell’aggressività tedesca.

  • la situazione nei Balcani (rivalità austro russa);

La crisi sopraggiunse per il definitivo indebolimento dell’impero turco, causato dalla rivolta dei giovani turchi 1908, quando un gruppo di militari marciò sulla capitale costringendo il sultano a concedere la Costituzione. Studenti ed intellettuali chiesero a gran voce una monarchia costituzionale e numerose riforme, ma il nuovo regime non fu in grado di risolvere i problemi locali e internazionali. L’approssimativa situazione interna provocò l’accentuarsi delle influenze imperialiste nei Balcani.
L’annessione della Bosnia all’impero austro-ungarico 1908, avvallata dalla Germania senza alcuna comunicazione all’Italia (così da causare malcontento nella “Triplice”), provocò un forte malcontento nella Serbia, e nell’alleato Russo, che ponendosi a protettore delle popolazioni slave, aveva in realtà mire espansioniste. Forte dell’episodio, l’Italia decise di muoversi occupando la Libia nel 1911, muovendo guerra alla Turchia, che terminò con la vittoria italiana, l’occupazione del Dodecanneso. La sconfitta turca alimentò le mire indipendentiste slave provocando due conflitti:

  • nel 1912 Serbia, Montenegro, Grecia e Bulgaria mossero guerra alla Turchia sconfiggendola e cacciandola dalla penisola. (Da un accordo tra Italia e Austria nasce nel ’12 il principato d’Albania per impedire alla Serbia lo sbocco sul Mediterraneo).
  • Nel 1913 La Bulgaria, scontentata della divisione del bottino di guerra attaccò la Grecia e la Serbia, ma dovette capitolare agli avversari.

Il risultato globale delle guerre balcaniche fu di penalizzare gli imperi centrali; il loro maggiore alleato nella penisola (la Turchia) era stato spazzato via e l’influenza russa sulla zona si faceva sempre più minacciosa.

 

 

65 LA GUERRA RUSSO GIAPPONESE E LA RIVOLUZIONE DEL 1905

Lo scontento sociale in Russia, soffocato dall’autoritarismo finì per organizzarsi in un moti rivoluzionari. L’elemento scatenante che fu lo scoppio della guerra col Giappone:

  • nel 1903 il Giappone, con l’appoggio britannico, propose alla Russia un accordo per la spartizione della Manciuria, ma i russi che già occupavano il paese rifiutarono ogni accordo sottovalutando la potenza militare del sol levante. Nel febbraio 1904 il Giappone attaccò quella russa nel Mar Giallo e a Port Arhtur, che cade dopo un anno d’assedio. La flotta giapponese sconfisse quella russa a più riprese. Non rimase alla Russia che accettare la mediazione americana di Roosvelt e firmare la pace di Portsmouth, nel 1905,con la quale gran parte dei territori della Manciuria passarono sotto i nipponici. In questo modo tra i grandi imperialisti mondiali entra di diritto anche il Giappone imperiale.

La sconfitta militare con il Giappone aumentò gli stenti e acuì la crisi economica interna. Nel gennaio 1905,a Pietroburgo, la gente scese in piazza in direzione del Palazzo d’Inverno per chiedere allo zar una costituzione e le riforme. L’esercito e la polizia spararono sui civili - la domenica di sangue – che provocò lo scoppio di tumulti ovunque. Fino ad autunno inoltrato fu la Russia visse in uno stato di semianarchia. Con il grosso dell’esercito impegnato contro il Giappone, nacquero spontaneamente nuovi organismi rivoluzionari i soviet, forme di rappresentanza popolare a democrazia diretta. Dopo una serie di manovre istituzionali poco chiare, nell’ottobre 1905 lo zar promise l’istituzione della Duma, un’assemblea rappresentativa che avrebbe dovuto aprire ampi spazi liberali. Ma nel giro di breve tempo apparì chiaro che l’esperimento riformatore istituzionale era fallito e lo zar riuscì a spostare nuovamente il timone della politica in senso conservatore sino a portare al potere il conte Stolpyn che attuò una forte repressione militare su tutti i rivoltosi. Al tempo stesso cercò però anche di fornire al regime una base di consenso; proponendo una riforma agraria, con la quale furono dissolte le mir e i contadini furono messi nella condizione di riscattare e diventare proprietari delle proprie terre. Il risultato sebbene portò alcuni vantaggi, non fu epocale come nei piani del premier. Dei nuovi piccoli proprietari terrieri, una parte andò ad ingrossare le fila dei contadini ricchi (Kulaki), ma i più non riuscirono a migliorare le proprie condizioni di vita.

 

66 LA RIVOLUZIONE IN CINA

La vittoria giapponese sulla Russia nel 1905 diede nuovo vigore ai movimenti indipendentisti in Asia. Da poco sedata la rivolta dei Boxers (1900), nuovi moti tipicamente rivoluzionarie nacquero in Cina, sempre più intimorita dall’imperialismo nipponico.
L’ormai screditata dinastia Manciù apriva la strada ad un moderno sistema politico. Nel 1905, un medico di Canton, Sun Yat-sen fonda una società segreta, il Tung meng hui il cui programma mira all’indipendenza, al benessere e alla democrazia rappresentativa. Intanto l’imperatore prese impegni che favorivano la penetrazione commerciale straniera. La decisione d’assegnare alle compagnie straniere la costruzione della rete ferroviaria provocò una sommossa popolare nel 1911. Stanchi della debolezza del regime imperiale, nel 1912, l’Assemblea della società clandestina dichiarava decaduti i Manciù e nominava Sun Yat-sen presidente. Nell’Aprile dello stesso anno il generale Yuan Shi-kai, inviato dal governo imperiale per sedare la rivolta, ammutinava schierandosi dalla parte dei rivoltosi ottenendo in cambio di essere eletto presidente. Ma la neonata repubblica dimostrò una carenza istituzionale endemica che la portò ad inevitabili dissensi tra i liberali-democratici, uniti nel nuovo Partito Nazionale, e i conservatori di Yuan Shi-kai. Nella situazione di caos che si venne a creare, nel 1913 lo stesso presidente scioglie il parlamento, dichiarò fuorilegge il partito democratico e prese le redini del potere. Con un autentico colpo di stato istituzionale, il nuovo presidente riprese la politica conservatrice autoritaria dell’ex-imperatore Manciù, appoggiato nel progetto dalle potenze straniere che avevano ottenuto vantaggi economici prima della rivoluzione. Nulla varierà nella repubblica del 1913 per almeno un trentennio, fino a quando non si arriverà alla nuova rivoluzione e alla repubblica di Mao Tse-tung nel 1949.

 

 

67 IMPERIALISMO E RIFORME NEGLI USA

Agli inizi del ‘900 gli Stati Uniti erano la potenza economica emergente. L’imperialismo americano in questo periodo si orientò non verso il Sud America, dove l’influenza inglese era ancora rilevante, ma piuttosto verso il centro America, in questa direzione s’orientò la politica del nuovo presidente, Theodore Roosevelt (repubblicano progressista) salito al potere nel 1901. Grande fu la sua decisione nella sua politica in difesa degli interessi americani inaugurando l’epopea del BIG STICK(grande bastone); cioè l’uso alternato della pressione economica e militare per l’ottenimento dei risultati.
Uno degli esempi più indicativi si ebbe relativamente alla questione di Panama. Nel 1901 gli USA ottennero l’incarico di eseguire i lavori per l’effettuazione del canale. Nel 1903 il parlamento colombiano, con un moto d’orgoglio nazionale, decise di non ratificare l’accordo. Roosevelt provocò dapprima una sommossa interna, poi presentò delle autentiche minacce di un’invasione militare. Il risultato fu che Panama divenne una repubblica indipendente sotto la tutela statunitense e nel 1914 furono terminati i lavori del nuovo canale,che rappresentava un elemento indispensabile per lo sviluppo economico americano. 
In politica interna Roosvelt attuò una timida legislazione sociale a favore delle classi povere, aumentò l’impegno dei poteri pubblici in economia e limitò i trust, senza intaccare il principio del capitalismo USA.
L’accanimento in difesa degli interessi americani fece di Roosvelt uno dei più amati presidenti, ma una volta lasciata la presidenza nel 1908 il partito repubblicano si spaccò. Questo provocò l’avvento al potere del partito democratico dopo un periodo di transizione. Nel 1912 sale al potere Wilson che lasciò più autonomie ai singoli stati e abbassò i dazi, aboliti definitivamente nel 1913.
In politica estera Wilson si dimostrò più moderato e incline al concetto di autodeterminazione dei popoli, che diventerà il fulcro della dottrina Wilson. Nel gioco delle parti, il ruolo degli stati uniti doveva essere quello d’esportatore della democrazia e tutore dell’ordine mondiale.

 

68 L’AMERICA LATINA E LA RIVOLUZIONE MESSICANA

 

Nonostante un certo sviluppo rispetto ai primi del ‘800, l’economia dell’America latina era molto arretrata e ancora molto legata a quella europea. Persistevano le grandi monoculture indirizzate all’esportazione nel vecchio continente. Quasi ovunque era ancora presente il latifondo con la conseguente condizione dei contadini in uno stato di semi servilità. Lo scarso sistema educativo aveva consentito il radicarsi di una classe politica strutturata sulla ricca borghesia e grandi proprietari terrieri. Nonostante l’aspetto istituzionale di democrazie rappresentative la maggior parte degli stati americo-latini erano di fatto governati con forme di dittatura personale; in cui le masse popolari erano escluse dal governo.  Uniche eccezioni  si verificarono in Argentina e in Messico dove ci furono decisi tentativi di democratizzazione.
In Argentina alle elezioni a suffragio universale del 1912 vinse l’Unione radicale, una frangia politica ad indirizzo progressista.
In Messico, dove governava il dittatore Diaz, ci fu una cruenta sollevazione popolare, nel 1910, dei peones (i contadini) guidati da Madero, Zapata e Pancho Villa. Dopo una sanguinosa lotta Madero arrivò alla presidenza nell’1911. Il nuovo governo dimostrò però subito forti contraddizioni fatte di contrasti tra i borghesi-moderati che miravano soprattutto ad una liberalizzazione economica, e i contadini-rivoluzionari che si auspicavano una riforma agraria capace di risollevarne le sorti economiche. La situazione di caos, come in molte altre realtà mondiali, finì col favorire il golpe militare del generale Huerta (1913), ma la nuova dittatura non riuscì a sedare la guerra civile. Gli scontri continuarono fino al 1921, con la presa del potere del moderato Obregon, che concesse una costituzione democratica e laica e con una serie di riforme ad indirizzo sociale. In questo modo agli inizi del nuovo millennio il Messico aveva il grado di democrazia maggiore dell’America Latina.

 

69 DESTRA E SINISTRA DOPO IL 1861 IN ITALIA

Con la morte, il 6 giugno 1861 del Cavour, la classe dirigente della Destra-moderata perdeva il suo esponente di maggior riferimento. Il partito della “DESTRA STORICA” mostrava notevole compattezza sociale (aristocrazia e proprietari terrieri), ma aveva un suo limite nella limitazione dei propri elementi ad esponenti politici dell’Italia centro-settentrionale. Negli anni ’70, aumentò il numero di deputati che non si collocavano né a destra né a sinistra.  La vera destra, quella clericale, si era autoesclusa dalla maggioranza (non riconosceva ufficialmente lo Stato) perché riteneva l’indirizzo politico del governo troppo riformista.
Una situazione di crisi l’ebbe anche la Sinistra, che incassò il rifiuto dei mazziniani e dei repubblicani. La sua base di consenso era composta dalla piccola e media borghesia delle città e dai primi gruppi di operai-intellettuali del nord, che erano ancora esclusi dall’elettorato. L’indirizzo politico della sinistra si giocava principalmente sulle rivendicazioni democratiche risorgimentali:

  • suffragio universale,
  • decentramento amministrativo;
  • completamento dell’unità d’Italia da raggiungere attraverso le sommosse popolari.

Nel corso di questi anni, entrambi gli schieramenti politici persero le loro caratteristiche peculiari tanto da rendere difficilmente individuabile la separazione fra gli schieramenti.
Destra e Sinistra avevano finito per confluire in un’unica classe dirigente, creando una grossa scollatura tra: il Paese Legale (parlamentari) e il Paese Reale (popolazione).
La legge elettorale piemontese estesa a tutto il Regno, che prevedeva il diritto al voto a tutti quelli che avevano compiuto il 25esimo anno, sapessero leggere e scrivere e pagassero almeno 40 lire di imposte; penalizzava una vasta quantità della popolazione, rendendo il Parlamento poco rappresentativo.
La lotta politica divenne una competizione tra due schieramenti politici, senza un coinvolgimento popolare, dove finivano per risaltare più le identità dei singoli che gli indirizzi politici dei gruppi. Questa situazione provocò un grande isolamento nella classe dirigente, sintomo del bisogno di un rinnovamento immediato.

 

 

70 ITALIA DOPO IL ‘61 ACCENTRAMENTO STATALE E QUESTIONE SOCIALE

La Destra, ammiratrice della devoluzione inglese (self government), nei fatti si rivelò rigidamente accentratrice, (forte gerarchizzazione dei funzionari rispetto al centro). Del resto le premesse d’accentramento erano implicite nel modo stesso in cui si era pervenuti all’unificazione.
Tra il giugno ’59 e il gennaio ’60, il governo La Marmora, visti i poteri straordinari dello stato di guerra con l’Austria, aveva varato, senza alcun controllo parlamentare, alcune leggi-speciali riguardanti i settori-chiave del Paese (legge Casati sull’istruzione statale obbligatoria, Rattazzi sulla riorganizzazione dei Comuni e sulle province).
La politica d’accentramento diede vita a un ulteriore malcontento che raggiunse le forme più acute nel Mezzogiorno, dove la popolazione vedeva il nuovo stato come una continuazione di quello borbonico. L’inquietudine, incoraggiata dalla Chiesa, si concretò in autentiche sommosse popolari.
Nell’estate 1861 in tutte le regioni del Mezzogiorno inizia la guerriglia; ai contadini e repubblicani si mescolarono presto anarchici e borbonici. Le bande assaltavano e occupavano i piccoli centri, quindi si ritiravano per preparare nuovi attacchi. Il governo postunitario risponde con la dichiarazione dello Stato di Guerra nel Mezzogiorno ed estrema energia, inviando l’esercito con Nino Bixio, dichiarando lo “stato d’assedio” nelle province dove il brigantaggio assumeva le sue forme più acute.  La straordinaria determinazione con cui l’azione militare fu messa in pratica non impedirono, nel 1865 di considerare sconfitto il brigantaggio, nonostante rimasero irrisolti i motivi che avevano reso possibile la diffusione del fenomeno. Una politica sociale poco determinata ed innovativa portò al radicalizzarsi del problema e alla nascita di quella questione meridionale, che caratterizzerà tutta la storia d’Italia.
Oltre ai problemi sociali il governo della destra Storica dovette affrontare anche quello dell’unificazione economica, con la necessità di uniformare i sistemi monetari e fiscali e di rimuovere le barriere doganali.
La legislazione doganale liberista fu subito estesa a tutto il territorio. Molto rapido fu lo sviluppo delle infrastrutture ed in particolare della rete di ferrovie. Da questo impulso l’agricoltura trasse significativi vantaggi, anche se soprattutto quella nel Nord del Paese; mentre il settore industriale fu penalizzato dalla liberalizzazione rispetto alle imprese straniere più competitive. Dopo un ventennio dalla data dell’unificazione l’Italia risultava più unita ed avanzata politicamente, ma i vantaggi si erano distribuiti eterogeneamente nella società. Vi furono grandi sperequazioni tra classi sociali e soprattutto si acuirono le fratture tra Nord e Sud. Responsabile delle insoddisfazioni delle classi più povere fu la politica fiscale di estremo rigore. Per fare fronte alle spese di modernizzazione (comunicazioni, amministrazioni pubbliche, esercito e istruzione) i governi, soprattutto quelli della Destra, dovettero ricorrere a misure d’inasprimento fiscale. Nel ‘67 fu introdotto il Corso forzoso della moneta, ossia la circolazione obbligatoria della carta moneta (e la non convertibilità della stessa in metallo prezioso). Nell’estate ’68 fu introdotta la tassa sul macinato, che finiva col penalizzare soprattutto i più poveri. L’introduzione di quest’ultima misura risultò particolarmente impopolare e provocò nel ’69 lo scoppio di numerose agitazioni sociali. La sommossa raggiunse dimensioni così preoccupanti da richiedere la repressione da parte dell’esercito.
La politica del rigore estremo, dovuta soprattutto al ministero di Quintino Sella, portò al pareggio di bilancio nel ’75,  accompagnato però da un deciso allargamento del fronte degli scontenti. La situazione, accompagnata dalla sempre maggiore connivenza del sistema politico con i grandi gruppi industriali,  avrebbe prodotto la caduta politica della destra storica.

 

81 LA SVOLTA LIBERALE DI ZANARDELLI E GIOLITTI

Grazie anche al miglioramento della congiuntura economica internazionale, la situazione politico-istituzionale italiana ad inizio ‘900 apparve più distesa. Il nuovo Re, Vittorio Emanuele III, si dimostrò più propenso del predecessore ad assecondare le forze progressiste e a riportare quindi un po’ di serenità.
Nel febbraio 1901 salì al governo Zanardelli appartenente alla sinistra liberale, e Giolitti  agli Interni, inaugurando una svolta liberale che produsse effetti tangibili:

  • norme contro il lavoro minorile e femminile;
  • assicurazioni: obbligatorie per il lavoro, volontarie per la vecchiaia;
  • istituzione del Consiglio superiore del Lavoro, organo consultivo per la legislazione sociale, comprendente anche rappresentanze dei lavoratori;
  • Municipalizzazione d’alcuni servizi come il gas, l’elettricità, i trasporti.

Il punto forte della nuova linea di governo era la neutralità nei conflitti di lavoro, che fece rifiorire le Camere del lavoro e le organizzazioni sindacali.
Nel 1911 nasce la Federterra con l’intento di:

  • Socializzare la terra, aumenti dei salari, diminuzione delle ore di lavoro.

Il neoriformismo provocò lo sviluppo d’imponenti manifestazioni sindacali e scioperi che portò all’aumento generalizzato dei salari (anche del 35%).

 

82 LO SVILUPPO INDUSTRIALE IN ITALIA IN EPOCA GIOLITTIANA

La scelta protezionistica dei governi di fine ‘800 e le congiunture economiche permisero all’inizio del ‘900 un notevole decollo industriale, assicurato soprattutto dallo sviluppo dalle infrastrutture, ed in particolare della rete ferroviaria.
In questi anni si ebbero importanti innovazioni strutturali:

  • riordino del sistema bancario. Nel 1894 furono fondati i primi istituti di credito sul modello della banca mista: la Banca commerciale italiana e il Credito italiano.
  • Siderurgia: lavorazione del ferro (Piombino, Savona, Bagnoli),
  • Tessile: il cotoniero.
  • Alimentare: coltivazione dello zucchero.
  • Chimica: la Pirelli a Milano.
  • Meccanica: boom auto (nasce la FIAT a Torino), armi e nelle ferrovie.
  • Primi passi l’industria elettrica.

Nel periodo 1896-1907 il tasso medio di crescita fu del 6.7%, dal 1896 al 1914 il volume della produzione industriale raddoppiò e il reddito pro-capite aumentò del 30% (sebbene rimanesse ancora quasi la metà di quello tedesco).
La maggioranza dei lavoratori era dedito all’agricoltura e la competitività dell’industria non avrebbe mai retto all’abbassamento delle barriere doganali.
La diffusione dei servizi pubblici, dell’illuminazione, dei trasporti, dell’acqua corrente e delle reti fognarie migliorarono le condizioni di vita, anche se il divario con il resto dell’Europa era ancora ampio. Rimanevano insoluti ancora gravi problemi:

  • la casa nelle grandi città per il proletariato operaio;
  • l’analfabetismo;
  • il divario fra Italia settentrionale e Meridionale.

Ancora una volta gli effetti dello sviluppo economico non si distribuirono uniformemente nel paese acuendo il divario tra Nord e Sud, privilegiando le grandi industrie del Nord, a scapito di quelle del Sud, dove anche l’agricoltura non riuscì ad ammodernarsi. I mali storici del meridione erano nell’analfabetismo diffuso e nell’assenza di una classe politica moderna e moderata, fortemente subordinata ai grandi latifondisti e agenti di un sistema fortemente clientelare.

 

 

83 IL SISTEMA DI GOVERNO DI GIOLITTI E I SUOI CRITICI

L’opera di governo di Giolitti si esercitò per oltre un decennio in una realtà complessa e contraddittoria come l’Italia d’inizio ‘900. La sua fu definita da molti come una sorta di dittatura parlamentare, (simile a quella di Depretis). Nella gestione del potere cercò

  • il sostegno delle forze più moderne della società (dagli industriali al proletariato organizzato);
  • di condurre nel sistema parlamentare anche quei movimenti che sino a poco prima erano considerati sovversivi;
  • la tendenza ad allargare l’intervento dello stato per correggere gli squilibri sociali.

Il limite maggiore delle politiche di Giolitti era nella sua capacità-necessità di controllare le Camere con una concezione ottocentesca della Democrazia. Grazie anche ad un’eccezionale conoscenza della burocrazia, la sua capacità di prendere e lasciare il comando nei momenti di tensione ridisegnava le politiche trasformiste della Sinistra storica. Il controllo del Parlamento era quindi pagato a caro prezzo, concretandosi anche in atteggiamenti spregiudicati nelle lotte elettorali: intervento che si manifestava soprattutto nel Mezzogiorno con ripetute ingerenze. Questa politica se da una parte spostava consensi in favore di Giolitti, dall’altra contraddiceva alla linea di rinnovamento di cui si era fatto sostenitore.
Su questi aspetti si concentrarono le critiche dei detrattori che videro:

  • socialisti e cattolici democratici che l’accusarono di fare opera di corruzione all’interno dei rispettivi movimenti (gli attuali voti di scambio);
  • liberali conservatori(Albertini, Sonnino) che gli rimproverarono di venire a patti con i nemici delle istituzioni (i radicali e clericali). Secondo Sonnino le riforme non dovevano essere patteggiate ma essere un’iniziativa dei liberali;
  • I meridionalisti (Salvemini) lo indicarono come colui che favoriva l’industria del Nord e manteneva nello status quo dell’oligarchia terriera il Sud.

Critiche come queste erano eccessive ma nel corso del periodo del governo Giolitti furono fatte proprie da molti intellettuali che influenzarono ampi settori dell’opinione pubblica. L’impopolarità di Giolitti dipese in parte dalla debolezza di un sistema e in parte dalla spaccatura profonda che esisteva tra politici e gente comune.
I sintomi di difficoltà che inevitabilmente ne derivarono si fecero evidenti nel 1911 con la guerra di Libia. Quando apparve chiaro ai più che fu concessa come favore alle lobby degli industriali (conservatori), per avere ottenuto la ratifica della legge sul suffragio universale maschile e il monopolio statale nel settore assicurativo (entrambe ratificate nel 1912).

 

 

84 LE RIFORME DI GIOLITTI

Nel novembre 1903 Giolitti divenne primo ministro, con l’idea di proseguire e ampliare l’esperimento liberal-progressista. Offrì un posto nel governo al socialista Turati, il quale rifiutò ritenendo la situazione ancora prematura (ancora poco consenso). Il suo orientamento progressista finì con l’indirizzarsi verso un centro-moderato, subendo i limiti dell’allargamento dell’alleanza ai conservatori. Proprio l’eterogeneità della sua ampia coalizione di governo gli impedì d’attuare la politica spregiudicata che avrebbe immaginato; per questo sacrificò importanti riforme per mantenere la compattezza della maggioranza.

  • Nel 1904 fa approvare due leggi speciali per il Mezzogiorno, per migliorare agricoltura (Basilicata) e industria (Napoli). Nel concreto, pur non riuscendo a risolvere tutti i problemi produssero una boccata d’ossigeno per una situazione stagnante;
  • Nel 1904-’05 con la statalizzazione delle ferrovie incontra parecchie opposizioni sia dalla destra, che dalla sinistra. I socialisti avversarono il provvedimento perché prevedeva l’abolizione del diritto di sciopero ai ferrovieri, in quanto neodipendenti pubblici.

A fronte della crisi di governo che ne derivò, consapevole del proprio potere, Giolitti si dimise. Fu richiamato al governo nel maggio 1906, in Giugno fece approvare la legge sulla conversione della rendita dei titoli, in questo modo sarebbero stati corrisposti interessi minori ai possessori di titoli del debito pubblico così da ridurre gli oneri gravanti sul bilancio statale. La crisi economica che nel ‘07 colpì l’Europa si avvertì anche in Italia ma che fu superata da:

  • una riorganizzazione bancaria che aveva il suo fulcro in un rafforzamento della Banca d’Italia nel panorama creditizio italiano.

Nel 1908, alla ripresa economica consegue un inasprimento delle lotte sociali. Per naturale reazione allo sviluppo dei movimenti operai (nel 1906 era nata la CGIL)e alle loro vittorie sindacali, nasce la Confindustria nel 1910. Associazione di categoria del padronati nata per opporsi al nuovo potere sindacale.  La nuova situazione d’agitazione sociale convinse l’abile Giolitti a dimettersi, nel Dicembre 1909. Tornò al governo Sonnino, poi Luzzatti (approvò la legge Daneo-Carrero per l’istruzione, che avocava allo Stato gli oneri dell’istruzione). Nessuno degli statisti che rimasero al potere nel biennio ’09-’11 riuscì a riportare l’ordine, così nel Marzo 1911 fu richiamato al governo lo stesso Giolitti che dimostrò subito di volere affermare un’ulteriore sterzata a sinistra con la richiesta di riforme per:

  • il suffragio universale maschile (1912);
  • il monopolio statale del settore assicurativo (1912).

I suoi meriti furono enormi, anche se ad offuscarne l’operato intervenne la decisione di partecipare alla guerra in Libia, concessa come contropartita ai conservatori. La misura avrebbe messo in crisi il sistema giolittiano.

 

 

85 LA POLITICA ESTERA DI GIOLITTI I NAZIONALISTI E LA GUERRA DI LIBIA

Dopo la caduta di Crispi nel 1896 la politica estera italiana subì una svolta. Iniziò un attenuazione del rapporto nella Triplice Alleanza, provocando un riavvicinamento con la Francia che porterà nel 1898 alla fine la guerra doganale che durava dal’88. Nel 1902 le due nazioni si divisero le sfere d’influenza nell’Africa settentrionale: all’Italia furono riconosciuti i diritti di priorità sulla Libia e alla Francia fu lasciata mano libera sul Marocco. La nuova linea politica provocò malcontenti nella Triplice Alleanza: la Germania non approvò l’accordo con la Francia, e l’Italia disapprovò l’annessione unilaterale della Bosnia all’Austria nel 1908, cosicché l’Italia usciva come la potenza minore nella Triplice. Questo provocò un’ondata di risentimento nazionale misto ad irredentismo e imperialismo. Molti intellettuali cominciarono a supportare l’idea di fare diventare l’Italia una grande potenza. Significativo fu il pensiero dello scrittore Corradini per descrivere il cambiamento di ottica cui si andava incontro in questo scorcio d’inizio secolo; nel nuovo millennio i conflitti sociali non erano più tra padroni e proletari, ma tra nazioni ricche e nazioni proletarie.
Nel 1910 nacque l’Associazione nazionalista italiana, formata da borghesi irredentisti e imperialisti conservatori (aventi legami con la finanza vaticana e la Banca di Roma), che propose una campagna d’influenza sul governo per promuovere la conquista della Libia.
Quando nel ‘11 la Francia vinse la seconda guerra con il Marocco, ne occupò i territori, l’Italia si sentì legittimata in base ai trattati del 1902 a muoversi nei confronti della Libia. Nel settembre 1911 il governo italiano inviò un contingente in Libia provocando uno scontro cruento con i Turchi, che esercitavano sui territori una sovranità poco più che nominale. La guerra si dimostrò più difficile del previsto, anche perché i turchi l’impostarono sul piano della guerriglia. L’Italia si vide costretta a rimpolpare il primo corpo di spedizione per fare fronte alle perdite e ad estendere il proprio campo d’intervento; occupò Rodi e alcune isole del Dodecanneso. Solo nel 1912 con la pace di Losanna, i turchi rinunciarono alla sovranità sulla Libia, mantenendo solo l’autorità religiosa. L’occupazione, dal punto di vista economico si rivelò un magro affare: le risorse prime erano scarse e nessuno ancora aveva ancora scoperto la presenza dei numerosi giacimenti petroliferi. Il successo fu soprattutto di facciata e l’impresa fu poco più che un moto d’orgoglio; ma non fu immune da critiche. In seno all’opinione pubblica si vennero a formare due correnti in contrapposizione fra loro:

  • gli oppositori: i socialisti, alcuni indipendenti (Salvemini) e i repubblicani, che manifestarono tutta la loro disapprovazione  verso la politica imperialista;
  • i sostenitori: intellettuali, borghesi, industriali e conservatori che mischiarono sentimenti patriottici ad interessi personali ed economici.

Nonostante il successo politico e propagandistico il governo uscì piuttosto malconcio dalla situazione. Il sistema Giolittiano fu molto scosso favorendo le ali estreme del parlamento. Sia i neoconservatori imperialisti che i socialisti videro crescere di molto il proprio consenso, introducendo una nuova situazione d’instabilità politica nel panorama nazionale che ci avrebbe accompagnato sino alla 1° guerra mondiale.

 

86 RIFORMISTI E RIVOLUZIONARI NEL PARTITO SOCIALISTA

La svolta liberale di Giolitti d’inizio secolo aveva avuto successo soprattutto su alcuni dirigenti del PSI (Turati, Treves, Bissolati, Prampolini) che appoggiarono appassionatamente la via delle riforme. Per consolidare i risultati ottenuti e per mettere in atto le riforme, alla maggioranza giolittiana necessitava l’accordo con la borghesia progressista. La nuova situazione sembrò dare ragione alle idee di Turati che vedeva nella via delle riforme con la collaborazione della borghesia l’unica soluzione possibile per migliorare, almeno nell’immediato, la situazione sociale, incontrò oppositori nel partito.
Gli intransigenti, come (Ferri e Lazzari, in genere i più giovani), proponevano un’opposizione classista contro i limiti del giolittismo, che rivelavano la vera natura dello stato borghese (repressione dei conflitti sociali a spese del proletariato). Questi guardavano al modello socialista francese e alla teoria dello sciopero generale, come esempio da seguire.
Nel congresso di Bologna dell’aprile 1904 i rivoluzionari intransigenti si trovarono in maggioranza e assunsero la guida del partito e, dopo l’ennesimo episodio di repressione poliziesca di movimenti operai (l’eccidio di Buggerru, in Sardegna) proclamò per il 9 aprile 1904 il primo sciopero generale nazionale. Nonostante il risultato organizzativo, mezzo fallimentare, segnò una svolta nella vita socialista, perché divenne un segno tangibile dell’evoluzione dei movimenti operai, ma se da una parte questo era segno di nuovo potere acquisito, dall’altro diventava elemento di destabilizzazione da parte di quell’opinione pubblica che era stata educata ad emarginare i sovversivi socialisti.
Proprio per questo il Giolitti lasciò che le proteste si sedassero spontaneamente. All’indomani della nuova tornata legislativa, nel Novembre 1904, la sinistra perse parecchie posizioni. Questa sconfitta portò a un rinnovamento nel movimento, a partire dall’organizzazione strutturale. Nel 1906, nacque la CGL Confederazione generale dei lavoratori che era saldamente controllata dai riformisti (Rinaldo Rigola). La componente rivoluzionaria del partito finì con l’essere emarginata, per essere poi espulsa nel 1907 (quest’ultimi si riorganizzarono nel 1911, nel sindacato l’USI unione sindacale italiana.
Ma anche tra i riformisti si verificarono delle divisioni interne che videro emergere i revisionisti, di Bissolati e Bonomi. Questi si rifacevano al Labour inglese e proponevano una collaborazione con i liberali. I revisionisti riprendevano le teorie di Berstein: il partito socialista avrebbe ottenuto il suo risultato solo con un riformismo diplomatico, disponibile al dialogo con le forze liberali e conservatrici.
Quando la situazione politica interna tornò in crisi per l’impopolarità dell’impresa libica, all’interno del partito socialista furono in molti ad osteggiare il dialogo con il governo, per questo al congresso di Reggio Emilia del luglio ’12, i rivoluzionari tornarono a mietere consensi e imposero l’espulsione dei riformisti dal partito.
Tra i rivoluzionari spiccò per la veemenza e la sanguigna impulsività, Benito Mussolini. Chiamato alla direzione del quotidiano di partito ”Avanti!” inaugurò un nuovo modo di scrivere, con appelli diretti alle masse e formule propagandistiche.

 

87 DEMOCRATICI CRISTIANI CLERICO MODERATI PATTO GENTILONI

Nel panorama di crisi istituzionale d’inizio 900, che evidenziava il rafforzamento delle ali estreme del Parlamento, diventava indispensabile trovare un contrappeso al rafforzamento del partito socialista. Per questo il peso dei movimenti di matrice cattolica aumentarono la loro attività.
Il movimento cristiano-democratico era capeggiato da don Romolo Murri, che dopo avere militato tra gli intransigenti era passato a posizioni più riformatrici. Proponeva una criticava dura allo Stato borghese e al capitalismo. Il suo operato tollerato dal pontificato di Leone XIII, fu duramente osteggiato dal successore, Pio X. Il nuovo Pontefice nel 1904, temendo che l’Opera dei Congressi potesse finire sotto l’influenza del partito, non esitò a scioglierla. Al suo posto creò tre nuove organizzazioni distinte che in seguito riunirà sotto la Direzione generale dell’Azione cattolica. Nonostante il conservatorismo del pontefice, nel 1909 prese vita il primo sindacato cattolico, Le leghe bianche, che vedeva tra i principali artefici don Sturzo, raccoglieva adesioni tra i piccoli proprietari e mezzadri, ed erano nate principalmente per contrapporsi allo strapotere delle leghe rosse. Preoccupati per il crescente successo delle idee socialiste, il Papa e i vescovi (con il benestare dello stesso Giolitti) appoggiarono i movimenti clerico-moderati. Nel 1904, il Papa annullò il non expedit. L’influenza delle nuove forze clericali fu evidente alle elezioni del 1913, le prime a suffragio universale maschile, quando Gentiloni (presidente dell’Unione elettorale cattolica) appoggiò i liberali purché il governo s’impegnasse a portare in Parlamento le richieste cattoliche, tra cui lotta contro il divorzio. Con l’elezione dei gentilonizzati la separazione Stato Chiesa fu messa definitivamente in discussione, riconoscendo l’influenza dei cattolici.

 

 

88 LA CRISI DI GIOLITTI E L’INTERVENTO NELLA I GUERRA MONDIALE

L’elezione del 1913 vedeva la nascita di un governo indebolito dalle difficoltà di governabilità, per la convivenza dei gentilonizzati clericali assieme ai socialisti, e ai nazionalisti. Nel maggio’14 Giolitti, scontento dalla nuova maggioranza, lascia il governo a Salandra della destra liberale, con l’idea lasciarli a logorare per rifare la propria comparsa una volta esauritasi la situazione di crisi. Ma la grave situazione economica, aggravata dai costi della guerra di Libia, e istituzionale che vedeva conservatori contro rivoluzionari inasprì la situazione provocando violente manifestazioni. Una rivolta popolare antimilitarista, nel giugno 1914, definita la settimana rossa, organizzata in Romagna e nelle Marche da anarchici, repubblicani e socialrivoluzionari (tra i quali Mussolini) fu sottoposta a dura repressione poliziesca. Dall’episodio apparve evidente l’inasprimento conservatore dell’esecutivo, il che era favorevole al il ritorno del Giolitti, ma a sconvolgere i piani intervennero gli eventi che segnarono l’inizio della prima guerra mondiale che segnò per converso la fine del giolottismo come sistema capace di fronteggiare le tensioni nate in seno alla nuova società di massa.
A guerra iniziata, il 2 agosto 1914 l’Italia si dichiara neutraleappellandosi al carattere difensivo della Triplice Alleanza (anche per il mai sopito risentimento anti austriaco). In seno all’opinione pubblica non mancarono le marcate differenze tra:

  • gli interventisti:
    • i repubblicani e i radicali;
    • i socialriformisti di Bissolati e gli eretici di Corridoni, che vedeva la guerra come mezzo di rafforzamento sociale e internazionale;
    • gli irredentisti di Battisti;
    • i nazionalisti (per affermare l’Italia come potenza imperiale);
    • liberali conservatori (Albertini, Salandra, Sonnino, ministro degli Esteri nell’ottobre del ‘14),
  • i neutralisti:
    • Giolitti e i liberali moderati;
    • Benedetto XV (non potendo scegliere tra Francia anticlericale e Austria cattolica);
    •  i socialisti moderati e i riformisti;
    • le confederazioni sindacali tra cui  la CGL.

Il socialista Benito Mussolini passato repentinamente da neutralista ad interventista fu espulso dal partito, fondò il giornale “Popolo d’Italia” nel novembre ’14, dal quale incominciò la sua opera di propaganda in favore dell’intervento. Nel giro di non troppo tempo, il governo si rese conto che restare neutrali equivaleva a tirarsi fuori dalla politica internazionale. Nonostante l’eterogeneità dei due schieramenti, gli interventisti potevano vantare elementi comuni molto forti come il sentimento di rivalsa contro l’Austria e contro la “dittarura giolittiana”. La loro capacità di fare presa sulle folle, con nuovi strumenti propagandistici li mise in una posizione privilegiata. Ma l’ago della bilancia fu l’atteggiamento del capo del governo Salandra e del ministro degli esteri Sonnino, appogiati dal Re. Con contatti segretissimi Salandra-Sonnino firmarono il patto di Londra il 26 aprile 1915 con Francia, Inghilterra e Russia. Al ritorno in Italia il Parlamento decise di non ratificare gli accordi stipulati, perché l’operazione diplomatica era avvenuta in gran segreto e senza alcuna discussione Parlamentare. Salandra presentò le dimissioni, che furono respinte dal Sovrano.
Tale rifiuto del Re dimostrò l’appoggio del sovrano alla politica interventista. Dopo un ennesimo successo propagandistico nelle piazze, il 20 maggio 1915 il Parlamento votò per l’intervento in guerra con voto contrario dei socialisti (che non seppero opporsi in modo convincente). Il 23 Maggio 1915 fu dichiarata guerra all’Austria e il 24 iniziarono le operazioni militari.

 

 

89 LO SCOPPIO DELLA I GUERRA MONDIALE CAUSE PROSSIME E REMOTE.

Nel 1914 i rapporti tra le grandi potenze erano tesi :

  • Austria-Russia per il predominio nei Balcani;
  • Francia-Germania per il revanscismo;
  • Germania-Gran Bretagna a causa delle competizione navali e coloniali.

Il punto più delicato dello scacchiere internazionale erano
i Balcani, dov’era acuto il contrasto tra Austria e Russia.  La Russia, millantando il ruolo di grande protettrice delle popolazioni slave, sosteneva la Serbia contro l’Austria, già colpevole dell’annessione unilaterale della Bosnia (1908). Nella realtà l’intento dei sovietici era l’espansione verso Ovest, nella penisola stessa.
La scintilla che fece precipitare gli eventi fu l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914, che portò all’uccisione del granduca Francesco Ferdinando erede al trono asburgico da parte dell’anarchico slavo Princip. La reazione del governo austriaco fu di volere dare una lezione alla Serbia, provocando una reazione a catena che avrebbero coinvolto molti stati europei nel conflitto.

  • Fu l’Austria a fare la prima mossa, il 23 Luglio ‘14  inviò un ultimatum alla Serbia;
  • Per tutta risposta la Serbia ottenne l’immediato appoggio della Russia.
  • L’accettazione solo parziale delle condizioni austriache provocò lo scoppiò della guerra il 28 Luglio 1914 tra Austria e Serbia.
  • Il giorno dopo la Russia mobilitò le proprie truppe sul confine occidentale;
  • la Germania interpretò le manovre come atto ostile (da tempo soffriva del complesso d’accerchiamento, rivendicando prestigio internazionale).
  • Il 31 Luglio 1914 la Germania inviò un ultimatum alla Russia intimandole di smobilitare le truppe.
  • la mancata risposta provocò la dichiarazione di guerra tedesca alla Russia  il 1 Agosto.
  • La Francia, fortemente ostile alla Germania (revanscismo), il giorno stesso mobilitò le proprie truppe alleandosi con Russia e Serbia.
  • L’iniziativa tedesca di fare partire immediatamente le operazioni militari fece precipitare definitivamente gli eventi, provocando la discesa in campo della Gran Bretagna che dapprima era favorevole al non intervento.
  • Il 5 Agosto l’Inghilterra dichiara guerra alla Germania dopo che l’esercito tedesco invase il Belgio, neutrale.

 

 

90 FASI E VICENDE MILITARI DELLA I GUERRA MONDIALE

Mezza Europa si trovò invischiata nel conflitto dopo la decisione tedesca d’invadere la Francia passando dal Belgio neutrale. Anche la Gran Bretagna deciderà d’intervenire, intimorita dalla presenza tedesca nel Mare del Nord.
Il piano tedesco del generale Von Schlieffen prevedeva le azioni su  due fronti:

  • un fronte, occidentale, contro la Francia;
  • Un fronte, orientale, contro la Russia.

Secondo le previsioni tedesche il piano avrebbe dovuto articolarsi con un intervento lampo sul fronte occidentale, per poi concentrare tutti gli sforzi su quell’Orientale. Ma lo svolgimento fu più complesso e distinguibile in tre fasi.

Prima fase

FRONTE OCCIDENTALE:

  • 4 agosto ‘14 la Germania attaccò la Francia passando dal Belgio. Fu modificato sostanzialmente il modo di combattere. Al suo esordio la Guerra di movimento, permise all’esercito tedesco di sbaragliare i francesi sino ad attestarsi sulle sponde della Marna, a pochi chilometri da Parigi, mentre il governo locale s’affrettava a lasciare la capitale.
  • 6 settembre’14 le truppe francesi, del generale Joffre, sfruttarono lo spostamento di truppe tedesche sul fronte orientale per contrattaccare, facendo ripiegare i nemici presso i fiumi Aisne e Somme. Il piano tedesco subì un arresto.

FRONTE ORIENTALE: le truppe tedesche, guidate da Hindenburg, sconfissero i russi nelle battaglie di Tannenberg e dei laghi Masuri. Certi della superiorità sul fronte francese richiamarono numerosi rinforzi per riposizionarli ad Oriente.


La guerra si trasformò da guerra di movimento, in guerra di logoramento.

In questo momento altri stati si gettarono nella mischia desiderosi di potere rivendicare vantaggi internazionali.

  • Il Giappone dichiarava guerra alla Germania, in vece del trattato d’amicizia che lo legava alla Gran Bretagna;
  • La Turchia si schierava con la Germania in funzione anti russa.
  • L’Italia, dichiarava guerra all’Austria sperando d’ottenere i territori irredenti.
  • gli USA si schierarono contro la Germania, in risposta agli attacchi sottomarini che avevano provocato problemi alla navigazione militare e civile alleata. Gli USA si proposero come magazzino d’approvvigionamento per armi e viveri.

La situazione di stallo venutasi a creare finì col rafforzare il ruolo strategico dell’Inghilterra, forte della formidabile flotta e delle risorse dell’impero coloniale.

Seconda fase

Questa fase del conflitto passò alla storia come La Grande Strage (‘15-‘16).

  • FRONTE ITALIANO.
    • ‘15 i  militari italiani s’attestarono sull’Isonzo e sul Carso, agli ordini del generale Cadorna, scontrandosi quattro volte con gli austriaci e capitolando tutte le volte;
    • Giugno ‘16 un’altra offensiva austriaca sul fronte italiano (Strafexpedition, spedizione punitiva). Il nostro esercito colto di sorpresa, batté  in ritirata per riposizionarsi sugli altipiani d’Asiago; combattendo  altre cinque battaglie sull’Isonzo non riuscì a mutare le sorti del conflitto. L’ennesimo fallimento militare fece cadere il governo Salandra, in favore di una coalizione nazionale guidata da Boselli.

 

  • IL FRONTE FRANCESE.
  • Per tutto il 1915, il susseguirsi d’offensive e controffensive non modificò nella sostanza la situazione provocando solamente un elevato numero di vittime.
  • All’inizio del 1916 la Germania propose una nuova offensiva. Con la battaglia della roccaforte di Verdun cercarono di tagliare in due l’esercito francese, ma il costo dell’intervento fu troppo oneroso anche per i tedeschi che misero a dura prova la loro macchina militare.
  • Nel giugno 1916 seguì il contrattacco delle forze alleate sulla Somme, senza però riuscire ad ottenere ancora risultati significativi, se non quello di mettere in luce l’iniziale incrinatura della micidiale macchina da guerra teutonica.
  • IL FRONTE ORIENTALE.
  • Una serie di successi degli austro-tedeschi provocò  la cacciata dei russi dalla Polonia nell’estate 1915.
  • La Serbia attaccata dall’Austria e dalla Bulgaria, fu cancellata dalla carta politica dell’Europa.
  • Dalla metà del ’16, furono i russi a prendere l’iniziativa riuscendo a recuperare parte dei territori persi in precedenza.

Intanto la marina inglese attuò il blocco navale nel Mare del Nord. Per evitare l’embargo, la marina militare tedesca decise di attaccare la flotta inglese. Nella battaglia dello Jutland, i tedeschi persero clamorosamente. L’episodio segnò la fine delle velleità egemoniche tedesche sui mari.

La svolta

  • La vera svolta ci fu nel 1917, allo scoppio della rivoluzione in Russia Con la firma del trattato di Pace separata di Brest-Litovsk, l’esercito russo si ritirò dal fronte orientale. I tedeschi poterono così spostare tutte le loro forze sul fronte occidentale.
  • Solo allora anche gli USA decisero d’entrare in guerra attivamente.

 

Intanto la guerra di logoramento aveva ottenuto il suo effetto. Il disagio fra le truppe aveva assunto spesso le connotazioni degli ammutinamenti, così come anche tra le popolazioni civili si segnalavano NUMEROSE RIVOLTE.

  • Nell’Agosto 1917 si verificò a Torino una manifestazione tumultuosa per la mancanza di pane.

Gli austriaci approfittarono della situazione per attaccare nuovamente: a Caporetto il 24 ottobre ‘17Avanzarono in profondità nel territorio italiano ma furono bloccati da un esercito italiano, guidato dal generale Diaz (succeduto a Cadorna, perché considerato umanamente più adatto alla guida delle truppe) che aveva trovato motivo d’orgoglio patriottico nell’invasione straniera.

Terza fase

  • FRONTE ITALIANO.
    • Gli austriaci furono respinti da una furiosa difesa italiana sul Piave;
    • Il 24 ottobre 1918 L’esercito italiano vince a Vittorio Veneto, il 4 novembre firma l’armistizio con l’Austria.
  • IL FRONTE FRANCESE.
    • Le forze tedesche tentarono un nuovo affondo forti delle forze prelevate dal fronte orientale. Riuscirono a sfondare a Saint Quentin e Arras e s’attestarono nuovamente sulla Marna.
    • A metà luglio ‘18, un nuovo attacco tedesco fu respinto dalle forze unificate di Francia e Inghilterra sulla Marna.
    • Agosto ’18 la battaglia d’Amiens arrise all’Intesa.

A questo punto l’invincibilità tedesca appare irrimediabilmente compromessa e la violenta crisi politica che ne deriverà in Germania porterà il paese alla guerra civile che segnerà la fine del conflitto.

 L’11 novembre 1918 a Rethondes, fu firmato l’armistizio tra gli alleati e il nuovo capo dell’esecutivo tedesco Ebert

 


91 LE NOVITÀ DELLA GUERRA NUOVI ARMAMENTI MOBILITAZIONE CIVILE

La Prima Guerra mondiale fu estremamente innovativa, furono stravolti tutti gli ambiti dell’arte della guerra. La parte del leone fu giocata dalla tecnologia che produsse nuovi armamenti sempre più potenti e sofisticati. Numerose furono le invenzioni che trovarono il loro impiego nel conflitto:

  • i primi fucili automatici e le mitragliatrici.
  • le nuove e potenti armi chimiche che si proponevano di aggirare il problema delle trincee;
  • Auto e mezzi motorizzati d’assalto blindati con placche d’acciaio, per spostare uomini in modo veloce. Il loro impiego fu limitato dal solo impiego su strada;
  • Aerei usati per ricognizione, ancora poco utilizzati perché scarsamente affidabili.
  • La radio che consentiva di coordinare il movimento d’interi eserciti.
  • Il Carro Armato, sperimentato per la prima volta nel ’16 dagli inglesi, ma utilizzato in pianta stabile solo dal ’17.
  • I sottomarini, punta di diamante della flotta tedesca. Venivano utilizzati come mezzi guastatori, per affondare le navi cariche di rifornimenti. Fu l’affondamento del transatlantico inglese Lusitania, che trasportava 140 passeggeri americani  e rifornimenti per l’esercito a portare all’entrata in guerra degli USA.

La produzione bellica, ebbe uno sviluppo spropositato e molte economie mondiali basarono la loro ripresa proprio su questo settore. Si verificarono enormi interventi statali, così da parlare d’economie di guerra:

  • la maggior parte delle risorse erano dedicate allo sforzo bellico;
  • la manodopera sottoposta ad un inquadramento semimilitare.

Lo sviluppo esorbitante delle industri belliche era dovuto al fatto che il cliente principale era lo Stato, che badava più alla rapidità delle consegne che ai prezzi. L’intervento accentratore si dilatò a tal punto che interi settori dell’industria passarono direttamente sotto il controllo dello stato.
In Germania, il paese in cui la pianificazione economica raggiunse le sue forme più spinte si arrivò a parlare di socialismo di guerra. Per attuare questo indirizzo i governi furono costretti a rafforzare l’esecutivo in vece del legislativo ad allargare a dismisura gli apparati burocratici.
Il potere dei militari all’interno degli esecutivi si rafforzò ovunque, arrivando ovunque a raggiungere una sorta di dittatura militare:

  • in Germania guidata da Hindemburg;
  • in Francia da Clemanceau;
  • in Inghilterra da Loyde George.

Durante il conflitto anche le popolazioni civili furono investite dallo sforzo produttivo e dalle trasformazioni che accompagnarono l’armamento. Ovunque fu chiesta la partecipazione attiva della popolazione, che doveva mostrare entusiasmo e attaccamento al proprio paese. Fu fatto largo uso di strumenti propagandistici e si attaccarono ferocemente quelle frange pacifiste e moderate che mostravano disfattismo verso le scelte degli esecutivi. Fu proprio la propaganda, una delle armi più subdolamente appuntite, usata per fomentare l’opinione pubblica.
Nonostante tutti gli sforzi propagandistici, nei territori segnati dal conflitto, si verificarono episodi d’insofferenza e frequenti casi d’ammutinamento. 

  • In Francia il comando dell’esercito fu assunto dal generale Petain, che aveva una concezione più morbida della disciplina del suo predecessore Joffre.
  • In Germania in aprile ci furono diversi scioperi, mentre in maggio alcuni marinai della flotta tedesca nel mar Baltico ammutinarono.
  • In Austria-ungheria i vari stati dell’impero davano segni d’insofferenza ed evidenziavano il rafforzamento delle rivendicazioni indipendentiste. In seguito alla costituzione di un governo cecoslovacco in esilio seguì, di lì a poco, una accordo tra serbi, croati e sloveni che per uno stato unitario degli slavi del sud, la Jugoslavia.

 

 

92 LA SVOLTA DELLA GUERRA IL 1917 E LA POLITICA DI WILSON

Nel 1917 accaddero due fatti decisivi per le sorti della guerra:

  • la rivoluzione russa di febbraio che provocò il crollo militare-politico dell’esercito zarista. Dopo la firma della pace separata di Brest-Litovsk i tedeschi poterono spostare tutte le truppe sul fronte occidentale.
  • Il 6 aprile 1917 gli USA entra in guerra contro la Germania (in conseguenza dei reiterati attacchi sottomarini tedeschi), sollecitato anche dagli eventi preoccupanti che avevano accompagnato il “vento comunista” della rivoluzione russa.

Il presidente americano si fece promotore della “dottrina Wilson” e del processo di democratizzazione del mondo, sostenendo la guerra alla Germania per la costituzione d’un nuovo ordine democratico  in un mondo libero.

Nel Gennaio ‘18 pubblicò il documento in 14 punti della sua dottrina:

  • L’abolizione della diplomazia segreta;
  • la libertà di navigazione;
  • l’autodeterminazione dei popoli;
  • organismi internazionali per la pace: la SOCIETÀ DELLA NAZIONI.

 

93 LE RIVOLUZIONE DI FEBBRAIO E OTTOBRE 1917, IN RUSSIA

Nel marzo 1917 (febbraio per il calendario russo) una rivolta di soldati e operai di Pietrogrado portò alla deposizione degli zar e al governo provvisorio di orientamento liberale, formato da:

  • i cadetti;
  • menscevichi;
  • socialrivoluzionari

I bolscevichi si rifiutarono di prendere parte ad un governo “borghese”. Alla guida dell’esecutivo andò il principe L’vov, con un programma politico basato sul proseguimento della guerra e l’occidentalizzazione del paese. La scarsa omogeneità del nuovo esecutivo, unito all’impreparazione politica della classe dirigente non permise la costituzione di un sistema funzionale. Al potere legale del governo si era in breve affiancato quello dei soviet (in particolare quello di Pietrogrado), una sorta di parlamento proletario eletto dai lavoratori.
Il movimento rivoluzionario russo era un fenomeno di massa animato da un entusiasmo enorme alla ricerca di un’utopia d’emancipazione universale. L’idea di un’autorità centrale era tacitamente respinta da una popolazione soggiogata per troppo tempo sotto regimi eccessivamente autoritari.
Lenin rientrò a Pietrogrado dalla Svizzera nell’aprile ’17 e divulgò in un documento le sue TESI DI APRILE redatte in dieci punti. Proclamò ed esaltò la propria condanna alla componente borghese della rivoluzione e pose il problema della presa del potere da parte del popolo. Riuscì in breve a cavalcare l’euforia delle masse, contribuendo ad aumentare la spaccatura fra popolazione e socialisti-moderati.
I bolscevichi finirono col prendere il posto dei menscevichi attraverso un’abile manipolazione del popolo. I primi episodi d’insofferenza si ebbero nel luglio 1917 col fallimento di una rivolta bolscevica a Pietrogrado. In seguito alle sconfitte militari col Giappone e alla pessima situazione in politica interna, il principe L’vov si dimise in favore di Kerenskij che, non riuscendo a rovesciare le sorti del conflitto mondiale finì con l’essere sfiduciato dal suo stesso partito. La situazione di estrema confusione che si era creata necessitava della figura dell’uomo forte, per questo fu chiamato al potere il generale Kornilov, che avrebbe dovuto assicurare nuovamente la tranquillità nel paese. Invece, lo stesso generale, tentò un autentico colpo di stato nel settembre 1917, sventato da una reazione popolare armata dai bolscevichi e avvallata dalle stesse forze armate. Ad uscire rafforzati dall’episodio furono i bolscevichi, tanto che alle elezioni dei soviet di Mosca e Pietrogrado raggiunsero la maggioranza. Nuova parola d’ordine di Lenin fu tutto il potere ai soviet”.
Lo stallo istituzionale consentì, il 23 ottobre 1917, di rovesciare il governo Kerenskij  ad opera del partito bolscevico. Contrari erano Kamenev e Zinov’ev, mentre Trotzkij si dimostrò favorevole all’iniziativa. Il 7 novembre 1917 (il 25 ottobre per il calendario russo) soldati e guardie rosse s’impadronirono del Palazzo d’Inverno a Pietrogrado; contemporaneamente il congresso panrusso dei soviet (convocato per ufficializzare il colpo di stato) fece passare due decreti proposti da Lenin, secondo cui:

  • ci si appellava ai paesi belligeranti per arrivare ad una pace senza spartizioni territoriali e senza pagamento d’indennità;
  • abolizione immediata senza indennizzo della proprietà privata, assicurandosi in questo modo l’appoggio del popolo.

Fu istituito un nuovo governo di formazione bolscevica, chiamato Consiglio dei commissari del popolo. Le opposizioni protestarono violentemente e decisero di puntare tutte le loro carte sulle imminenti elezioni dell’Assemblea Costituente convocate per novembre. Il risultato delle urne fu una cocente delusione per i bolscevichi che videro trionfare il partito socialdemocratico(i moderati), ma non avendo alcuna intenzione lasciare il governo, alla prima riunione usando la forza l’Assemblea Costituente fu sciolta, rompendo con la tradizione democratica ponendo le premesse per un regime autoritario.

 

 

94 LA TERZA INTERNAZIONALE (L’INTERNAZIONALE COMUNISTA)

Con la rivoluzione d’ottobre (1917) era nato il primo stato socialista, con l’intento di una rivoluzione socialista mondiale.
Nel marzo ‘18 nasce il Partito comunista bolscevico di Russia, che sancisce la definitiva rottura con le socialdemocrazie occidentali, colluse con la borghesia.
Nel 1919 Lenin sostituisce la internazionale socialista con la nuova internazionale comunista (Comintern). La prima riunione, nel marzo del ’19 a Mosca fu un atto formale, visto che la rappresentatività era quasi un’esclusiva del partito russo, ma si strutturò  meglio durante il II Congresso di Mosca, nel luglio del 1920, cui parteciparono 69 partiti operai di tutto il mondo. Per aderire al  CominternLenin propose il documento dei 21 punti secondo cui i partiti:

  • dovevano ispirarsi a quello bolscevico;
  • cambiare il nome da socialista in comunista;
  • rompere con i borghesi e iriformisti;
  • impegnarsi a difendere la causa della madre Russia.

Condizioni così estreme suscitarono numerosi dibattiti che portarono a:

  • una rete di partiti comunisti sul modello sovietico, con l’intento di fare della RUSSIA il centro ispiratore del comunismo mondiale
  • ma anche gravi lacerazioni nei partiti socialisti europei che portarono a numerose scissioni, soprattutto dove la struttura istituzionale era più radicata (i bolscevichi rimasero in minoranza rispetto ai socialisti).

 

 

95 COMUNISMO DI GUERRA, NUOVA POLITICA ECONOMICA E NASCITA DELL’URSS

Il governo bolscevico trovò una situazione economica di grave dissesto.
-La socializzazione della terra creò piccole aziende adatte allautoconsumo;
-l’apparato industriale rimase sotto il controllo dei vecchi proprietari affiancato dai consigli operai.
L’impreparazione politica amministrativa mostrò tutte le carenze mettendo definitivamente in ginocchio la finanza, riportando il commercio al baratto.
A partire dal 1918 i dirigenti bolscevichi cercarono di reagire con una politica rigorosa elaborando il comunismo di guerra, con cui realizzarono:

  • Istituti per la distribuzione del cibo nelle città;
  • incentivi alla realizzazione di comuni agricole volontarie, fattorie collettive (kolchoz e sovchoz) gestite dallo stato o dai soviet locali;
  • nazionalizzazione dei settori più importanti dell’industria.

Lo scopo principale era di centralizzare le decisioni economiche.

Le strutture gerarchiche furono riorganizzate, cercando di utilizzare i vecchi quadri, affiancandoli con funzionari del partito. Accanto a queste misure ne furono prese altre che cercavano d’introdurre criteri d’efficienza, creando contrasti con l’indirizzo ideologico e disuguaglianze nei salari.
Col comunismo di guerra i bolscevichi riuscirono solo a rattoppare le emergenze. L’inconsistenza di un mercato privato favorì lo sviluppo della borsa nera, e la carestia nell’estate 1921, aumentò gli scontenti in tutto il paese.
La drammatica situazione, vide nel 1921 una ribellione di marinai a Kronstadt, roccaforte bolscevica, repressa duramente dal governo. Nello stesso mese del 1921, al X congresso del Partito furono proibite le correnti dissenzienti  e abbandonata l’economica di guerra per una nuova scelta più liberoscambista.
Nacque la NEP, Nuova Politica Economica, che permetteva a contadini e artigiani di vendere i prodotti in eccesso dopo averne dato la quota spettante allo Stato (una specie d’imposta in natura). Ma nemmeno la NEP riuscì a ristabilire l’economia, se da una parte portò al raggiungimento di alcuni risultati, dall’altra causò l’acuirsi di scompensi sociali, come il proliferare dei kulaki, degli speculatori (nepmen).


Nel luglio del ’18 era stata varata la 1° Costituzione, chiamata “Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato

Il nuovo stato avrebbe avuto:

  • il potere alle masse lavoratrici che esprimevano il loro volere attraverso l’istituto dei soviet;
  • carattere federale basato sull’uguaglianza delle singole realtà la possibilità d’inglobare altre, future, repubbliche sovietiche. Nella zona dell’Europa orientale numerose repubbliche si unirono alla Russia (Ucraina, Bielorussia, Azerbaigian Armenia e Georgia).

Nel dicembre ’22 i congressi dei soviet delle singole repubbliche decretarono la nascita dell’URSS.
Con la nuova costituzione del 1924 si creava una complessa struttura burocratico-amministrativa che assegnava il potere al Congresso dei soviet. Nella realtà il potere era esclusivamente nelle mani del PCUS che gestiva la polizia politica.
La politica era organizzata secondo criteri centralizzati.
Il voto elettivo avveniva su lista unica con voto palese.

 

96 I TRATTATI DI PACE DEL 1919 E LA SOCIETÀ DELLA NAZIONI

Dopo la 1° Guerra Mondiale, i rappresentanti delle potenze vincitrici si riunirono a Versailles il 18 gennaio 1919 per discutere il nuovo assetto post-bellico; ispirandosi a principi di democrazia e giustizia della dottrina Wilson.
I principali partecipanti furono:

  • Wilson (USA);
  • Clemenceau (Francia);
  • Lloyd George (Inghilterra);
  •  per l’Italia partecipò il ministro Orlando che svolse un ruolo marginale.

Apparve chiaro da subito la contrapposizione tra due indirizzi:

  • una pace democratica  caldeggiata  da inglesi, americani e italiani;
  • una pace punitiva proposta dai francesi, che avrebbe dovuto prevedere l’annientamento politico ed economico della Germania.

A prevalere fu la linea più moderata che portò a prevedere:
Misure contro la Germania:

  • restituzione di Alsazia e Lorena alla Francia;
  • Slesia, Pomerania e Posnania a formare il “corridoio polacco”.
  • Danzica città libera.
  • Divisione tra Prussia occidentale ed orientale.
  • Spartizione delle colonie tedesche tra Francia, Gran Bretagna e Giappone;
  • Ingenti riparazioni di guerra;
  • Abolizione della leva obbligatoria;
  • Smantellamento della marina da guerra.
  • un limite non superiore alle 100.000 unità per l’esercito con dotazioni delle sole armi leggere;
  • smilitarizzazione della valle del Reno.

Misure di smembramento dell’impero austro-ungarico:

  • Austria, rimase più o meno delle dimensioni attuali. Fu sottoposta alla tutela della Società delle Nazioni;
  • Ungheria, privata della regioni slave e delle terre magiare;
  • Cecoslovacchia, ricostituita e comprendente la zona dei Sudeti composta da una minoranza di lingua tedesca;
  • Jugoslavia, come confederazione delle repubbliche balcaniche slave;
  • Romania, Bulgaria, Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania formarono il “cordone sanitario” ad arginare il vento rivoluzionario dell’URSS.

Europa:

  • L’impero Ottomano scompariva definitivamente dall’Europa, diventando Stato Nazionale Turco conservando la sola Anatolia;
  •  nel ’21 nasce l’Irlanda, separata dall’Ulster protestante.

Una volta definita la cartina politica europea, occorreva mantenere la pace, per questo fu creata la Società delle Nazioni, organismo sovranazionale i cui membri dichiararono di rifiutare la guerra come risoluzione delle controversie, per affidarsi all’arbitrato e alle sanzioni.
Ma il progetto nacque minato in partenza: non aderirono i paesi sconfitti, ma nemmeno la stessa Russia e gli USA, che pur avendola proposta ricevettero il parere negativo del Senato nel Marzo ’20 (che porterà alla vittoria dei repubblicani e ad una politica isolazionista).
La Società Delle Nazioni finì per essere egemonizzata da Francia e Inghilterra e non fu capace di contrastare nessuna crisi che segnò gli anni fra le due guerre.

 

97 LE CONSEGUENZE SOCIALI ED ECONOMICHE DELLA GUERRA.

La guerra fu la prima esperienza di massa di una nuova società in cui gli uomini erano inseriti in comunità fortemente strutturate. Durante le operazioni belliche le donne sostituirono agli uomini nel lavoro in fabbrica. L’industria di guerra provocò un esodo che concentrò nelle città la maggioranza delle persone, spopolando le campagne.
In questa situazione entrarono in crisi le tradizionali concezioni familiari, le donne non dipendevano più dagli uomini e la struttura gerarchica della famiglia era messa in dubbio. Nuove abitudini, nuovi costumi e abbigliamento molto più libero e sportivo.
Le sofferenze del conflitto indussero nella popolazione attese per una ricompensa in risarcimento delle sofferenze patite. Per questo, il reinserimento dei reduci fu particolarmente spinoso.
Era nata una nuova classe sociale: si svilupparono associazioni di ex-combattenti, che nutriva un senso di forte cameratismo corporativo e diffidenza verso i politici. Le molte promesse fatte dai governi, quasi sempre disilluse, provocò , risentimenti che si tramutarono in disordini.
Ma questo fu solo uno degli esempi di un fenomeno più vasto, che metteva in luce la nuova importanza della MOBILITAZIONE DELLE MASSE per la tutela dei diritti.  Quest’aspetto porterà alla massificazione della politica veicolata da un forte nazionalismo patriottico. Acquistavano così sempre maggiore importanza le grandi manifestazioni pubbliche che erano l’aspetto più evidente della partecipazione diretta dei cittadini alla vita politica.
La situazione di crisi e di scontento aveva portato ovunque esasperazione che porterà alla ricerca di un ordine nuovo. Varie erano le soluzioni ma si cerarono due principali orientamenti:

  • rivoluzionari, che vedevano nella Madre Russia la guida per sottrarsi alla società capitalistica che aveva portato il mondo ad un conflitto globale;
  • democratici che guardavano agli Stati uniti e alla dottrina Wilson come l’elemento di pacificazione mondiale.

Si delineava quindi, quella contrapposizione ideologica che segnerà la storia del pianeta per tutto  per tutto il XX° secolo.

La guerra portò ovunque gravi ripercussioni economiche, con l’unica eccezione degli Stati Uniti. Per fronteggiare le spese di ricostruzione i governi si orientarono dapprima all’aumento delle imposte, poi allargando il debito pubblico, infine sottoscrivendo debiti con gli USA.
Quasi ovunque si verificò un forte aumento inflazionistico che provocò un forte aumento dei prezzi, così da scaricare il maggiore carico sulle classi più povere, acuendo ulteriormente le tensioni sociali.
Per arginare la crisi economica ci fu un nuovo ritorno al protezionismo e una richiesta generalizzata d’intervento statale nella gestione economica. La burocrazia acquisto sempre maggiori dimensioni e importanza.
La politica protezionista e statalista permise di realizzare una forte espansione economica, ma i deboli presupposti programmatici che la sottesero non riuscirono a evitare una caduta che portò ad una nuova crisi agli inizi degli anni ’20, che portò tutta l’Europa verso un forte aumento della disoccupazione.

 

 

98 CONSEGUENZE POLITICHE DELLA GUERRA: BIENNIO ROSSO E RIVOLUZIONI IN EUROPA

L’insoddisfazione soprattutto tra le classi meno agiate provocò nuove ondate rivoluzionarie tra la fine del ’18 e l’estate del ’20, che accompagnarono l’impetuosa avanzata del movimento operaio europeo, che ottenne grandi vantaggi  dai numerosi successi elettorali dei partiti socialisti:

  • aumenti retributivi;
  •  riduzione della giornata lavorativa a otto ore (uno degli obiettivi principale del movimento operaio).

Ma gli esponenti più radicali dei socialismi non si accontentarono di questi importanti risultati e arrivarono a mettere in discussione il potere nelle fabbrica e nello Stato, secondo il dogma di: “Fare come in Russia”. Ovunque si formarono consigli operai con l’intento della rappresentanza diretta.

  • Francia e GB, per  la loro cultura sociale, riuscirono a catalizzare e contenere l’ondata rivoluzionaria;
  • Germania, Austria, Ungheria e Italia, per il loro conservatorismo storico, stroncarono duramente le insurrezioni.

L’esperienza sovietica difficilmente avrebbe potuto trovare una sua continuità in un’Europa in cui la realtà socio-culturale era cresciuta su un capitalismo forte e i su partiti operai moderati inseriti nelle istituzioni. Cosicché il tentativo d’esportare il comunismo sovietico in Europa aveva radicalizzato lo scontro tra i rivoluzionari e (social)democratici e fra gli stessi partiti socialisti tra:

  • moderati che si proponevano come interlocutori con lo stato borghese e il sistema economico capitalistico;
  • radicali che volevano seguire la strada intrapresa dalla Madre Russia.

Lo interno nel movimento operaio preparò l’avanzata dei conservatori.

In una Germania economicamente stremata regnava l’anarchia. Il governo esercitato da un Consiglio dei commissari del popolo era presieduto da Ebert e composto esclusivamente da socialdemocratici.  Ma nelle città i veri padroni erano i consigli degli operai e dei soldati, che occupavano aziende e giornali, in una situazione paragonabile a quella russa, ma con gli eserciti alleati, posizionati sul Reno pronti a intervenire in caso di rivoluzione.
La situazione riuscì a rimanere in parziale equilibrio perché:

  • le classe rurali rimasero sostanzialmente ostili agli agitatori;
  • la classe dirigente e l’intellighenzia tedesca era fortemente stratificata nelle diverse classi sociali. Gli stessi socialdemocratici avevano alle spalle una lunga storia di lotte legali ed erano sostanzialmente refrattari ad una rivoluzione cruenta, mentre nutrivano grandi speranze in un processo di democratizzazione.

Per questo si creò una convergenza tra la SPD e gli esponenti della vecchia classe dirigente. Gli stessi esponenti socialdemocratici individuarono nell’esercito l’unico strumento efficace per contrastare e impedire la rivoluzione, e per riportare la tranquillità nel paese. Questa linea moderata portò inevitabilmente allo scontro interno al SPD. Significativa fu la defezione della Lega di Spartaco, che guidarono masse operaie a scontri armati. Il 5-6 Gennaio 1919 i berlinesi scesero in piazza sotto l’incitamento degli spartachisti cercarono di rovesciare il governo, che reagì con molta durezza con squadre volontarie formate da ex-soldati smobilizzati e ufficiali d’orientamento nazionalista e conservatore.  Nel giro di pochi giorni la rivolta fu soffocata e alle elezioni del 19 Gennaio ’19 i socialdemocratici si riaffermarono come primo partito, ma non riuscendo ad ottenere la maggioranza assoluta dovettero cercare l’appoggio dei democratico-cattolici. Ebert fu confermato alla presidenza della nuova Repubblica di Weimar.
La nuova coalizione non riuscì a riportare la calma nel paese, nuovi moti a Berlino prima e in Baviera poi furono repressi nel sangue. Ne uscì rafforzata l’estrema destra formata da militari smobilizzati, reinquadrati nei corpi franchi di polizia, squadre che agivano sempre più fuori dal controllo dell’esecutivo come difensori della tranquillità e garanti della democrazia.
Forti di questo nuovo consenso i vertici della destra ebbero gioco facile nell’accusare i socialdemocratici, della Pugnalata Alla Schiena, cioè della loro responsabilità nella sconfitta militare in Guerra. Così alle elezioni del ’20 la SPD fu seccamente sconfitta dai cattolici-democratici.

  • Austria si visse una situazione simile a quella tedesca. Furono i socialdemocratici a guidare il paese dopo la pace di Versailles, mentre i comunisti tentarono senza successo la via della rivoluzione. Anche qui le elezioni del ’20 videro la vittoria delle componenti cattoliche che erano ancora molto influenti nelle campagne.
  • Ungheria, breve e drammatica fu la vita della nuova Repubblica. I socialisti di Bela Khun si coalizzarono coi comunisti per organizzare nel ’19 un’esperienza di repubblica sovietica. Attuarono una dura repressione nei confronti della borghesia e dell’aristocrazia agraria provocando la dura reazione delle forze conservatrici, guidate dall’ammiraglio Horty (appoggiate dagli anglo-francesi). Horty s’insediò al potere scatenando un’ondata di “terrore bianco”, dando vita a un nuovo regime autoritario e poliziesco, guidato dai cattolici e aristocratici.

99 RIVOLUZIONE E MODERNIZZAZIONE IN TURCHIA

La Turchia fu il paese sconfitto a cui fu riservata la sorte peggiore. Ridimensionato territorialmente anche del proprio nucleo storico con l’occupazione greca di Smirne era vittima di un tentativo di spartizione tra Francia e Gran Bretagna.
La reazione a questo “svilimento” arrivò dalle forze armate. Mentre le potenze vincitrici trattavano con il governo fantoccio del sultanato, un’Assemblea nazionale ad Ankara nella primavera del ’20 dava mandato al generale Mustafa Kemal per compiere la guerra di liberazione. Questa sarebbe durata due anni e avrebbe visto la partecipazione degli intellettuali e di buona parte della borghesia. Inglesi e francesi preferirono rinunciare alle loro mire e lasciarono la Grecia da solo a vedersela con i turchi. Tra il ‘21 e il ‘22 l’esercito di Kemal batté ripetutamente l’esercito greco e li costrinse ad evacuare Smirne.
La Turchia, ottenne la sovranità su tutta l’Anatolia e divenne uno stato nazionale, repubblicano, laico. Nel novembre ’22 fu abolito il sultanato e nel ’23 proclamata la repubblica con Kemal. Con l’appellativo di Ataturk=padre dei turchi, divenne presidente e investito di poteri semidittatoriali. La sua opera s’indirizzò verso un indirizzo di laicizzazione e l’occidentalizzazione del paese. Le cose procedettero con difficoltà, ma la situazione peggiorò notevolmente dopo la morte di Kemal nel 1938.

 

 

100 LA FRANCIA E LA GRAN BRETAGNA TRA LE DUE GUERRE

La fine del pericolo rivoluzionario del biennio rosso coincise con la ripresa dell’offensiva conservatrice in tutta Europa. I nuovi esecutivi per rallentare la corsa dell’inflazione operarono tagli sulla spesa pubblica.
In Francia la destra al governo dal’19 con una politica molto conservatrice, fece cadere sulle classi popolari il peso della ricostruzione. Solo nel ’24 il cartello delle sinistre (radicali e socialisti) vinse le elezioni e portò al governo il proprio leader Herriot. L’esperimento ebbe una breve durata, perché il governo non seppe affrontare la crisi economica, accentuata da grosse fughe di capitali verso l’estero. Nel ‘26 la guida del governa fu presa dal leader dei moderati Poincaré (ex presidente della Repubblica) che cercò d’attuare un risanamento dei conti aumentando ulteriormente le pressioni fiscali. Nonostante i costi fossero riversati sulle classi più povere, in questo periodo la Francia vide un boom che sviluppò settori chiave: chimico e meccanico.
Più lenta ed incerta fu la stabilizzazione in Gran Bretagna. L’apparato produttivo si mostrava invecchiato e incapace  di reggere la concorrenza con i paesi di più recente industrializzazione. Il ristagno economico che ne seguì per tutti i ’20 portò a scontenti. Dal ’18 al ’29 al governo s’insediarono i conservatori, coalizzati prima con i liberali, poi soli. Lo schieramento bipartitico inglese era ormai diviso tra conservatori e laburisti.
I governi conservatori arrivarono allo scontro con il sindacato. Nel maggio’26 ci fu uno sciopero dei minatori, che chiedevano aumento dei salari e nazionalizzazione del settore. Ma governo e padronato non cedettero.La fine naturale dello scioperò rappresentò una vittoria per il governo, che ne approfittò per proibire gli scioperi di solidarietà e per abrogare la legge che proponeva l’iscrizione al Labour di tutti i tesserati alle Trade Unions. Ma la reazione democratica popolare portò i laburisti alla loro vittoria alle elezioni del ’29. Si formò un nuovo esecutivo Labour con McDonald, destinato ad una vita brevissima perché travolto dalla nuova crisi economica che colpì dapprima gli USA e poi tutta l’Europa.

 

 

101 LA REPUBBLICA DI WEIMAR.

La Repubblica di Weimar rappresentò un modello evoluto di democrazia parlamentare. In contrapposizione al clima oscurantista che si respirava nella Germania guglielmina, la grande libertà che si respirava aveva consentito un rinnovato fermento intellettuale. Molti erano, comunque, i fattori che contribuivano a indebolire la democrazia e il sistema repubblicano:

  • Una notevole frammentazione politica non permetteva la creazione di coalizioni di governo stabili;
  • Mancanza di un grande partito, o gruppo, capace di egemonizzare il sistema e di dominare i rinnovati fermenti di mobilitazione sociale.

L’unica forza in grado d’aspirare a questo era la Spd, riunificato in un partito unico dopo la confluenza dell’Uspd nell’estate ’22. Forte del sostegno della maggioranza operaia, nonostante la concorrenza di un forte partito comunista, riuscì a rimanere per un intero decennio il partito predominante. Il suo limite maggiore, però, fu di non riuscire mai ad allargare la sua base al di là della classe operaia. Non seppe mai attrarre le classi borghesi.
Le classi medie, che ormai occupavano uno spazio consistente della società tedesca, si riconoscevano nel Centro cattolico (forte dell’elevato numero dei contadini del Sud) oppure nei partiti della destra conservatrice moderata, come il Partito tedesco-nazionale o il Partito tedesco-popolare. Un’altra realtà politica, il Partito Democratico Tedesco, composto prevalentemente da intellettuali, per il suo intento di conciliazione con le istituzioni repubblicane fu presto emarginato.


In realtà, per i ceti medi, l’età imperiale coincideva con il periodo della tranquillità e di relativa prosperità, mentre l’età della Repubblica coincideva con la realtà dell’umiliazione di Versailles.

I trattati di Versailles del ’19 segnarono uno dei periodi più infausti. Le riparazioni richieste avrebbero privato la nazione di un enorme potenziale. L’annuncio dell’entità delle riparazioni provocò numerose proteste. Il piccolo neonato partito nazista si scagliò contro la Repubblica. Ne nacque un’autentica ondata terrorista che culminò con l’uccisione del ministro delle finanze Erzberger nel ’21, colpevole di avere firmato l’armistizio, e del ministro degli esteri Rathenau nel ’22. Nel Novembre ’23 un gruppo di nazionalsocialisti, capeggiati da Hitler e Ludendorff, cercò d’organizzarsi contro il governo centrale, ma non ottenendo l’appoggio dei militari fu repressa. Hitler fu arrestato e condannato al carcere, con la pena scontata solo in parte.
Nonostante questo clima pesante, il governo repubblicano s’impegnò al pagamento delle riparazioni, nel ‘22-’23; a causa della scelta di non aumentare eccessivamente la pressione fiscale, né agire eccessivamente sulla spesa pubblica, il governo decise per la stampa di molta carta moneta. La manovra portò all’inevitabile svalutazione del marco e la messa in moto di un processo inflazionistico, il primo dopo un lungo periodo di prezzi sostanzialmente stabili.
Nel ’23 Francia e Belgio traendo spunto dalla mancata corresponsione d’alcune riparazioni, inviarono le proprie truppe nei bacini della Ruhr. Impossibilitato alla reazione militare il governo tedesco sollecitò le popolazioni alla resistenza passiva, imprenditori e operai abbandonarono l’attività rifiutando ogni collaborazione mentre gruppi clandestini organizzarono attentati.
L’occupazione della Ruhr rappresentò il colpo di grazia per l’economia.
Il marco s’inflazionò ulteriormente provocando una situazione sconvolgente. I possessori di beni reali (terreni, botteghe commerciali e industri) furono gli unici avvantaggiati dalla situazione che mise in ginocchio le classi inferiori.
In questo momento drammatico la classe dirigente trovò la forza di reagire, nell’agosto del ’23 il governo fu allargato ad un’ampissima coalizione comprendente tutti i gruppi costituzionali, presieduto da Gustav Stresemann, leader del Partito Popolare, dal passato di nazionalista intransigente. Convinto che per superare la crisi servisse un accordo con le potenze vincitrici, sordo alle proteste della destra, nel Settembre ’23 ordinò la fine della resistenza passiva e riallacciò i rapporti con la Francia. Subito dopo proclamò lo stato d’emergenza per fronteggiare meglio la situazione.
Il governo cercò di porre rimedio alla crisi introducendo il RENTENMARK (il marco di rendita) il cui valore era garantito dai valori reali della Germania, si comportava come un privato che impegna gli averi per ottenere un credito. Contemporaneamente fu impostata una politica d’estremo rigore che portò all’aumento della pressione fiscale e alla limitazione della spesa pubblica.
Ma un autentico risanamento sarebbe stato impossibile solo con un accordo con i vincitori. L’accordo fu trovato nel ’24 sulla base di un piano del finanziere americano Charles Dawes. Il pagamento avrebbe dovuto offrire una possibilità alla macchina tedesca di riprendere a funzionare. Grazie alle sovvenzioni statunitensi l’industria tedesca sarebbe presto ripartita.

 

 

102 GLI STATI UNITI NEGLI ANNI 20 E LA CRISI DEL 1929

Dopo e durante la Grande Guerra, gli USA avevano consolidato l’egemonia mondiale attraverso la concessione di numerosi prestiti ai paesi europei, erano diventati la prima potenza finanziaria del pianeta. Il superamento della depressione fisiologica post-bellica tra il 1920-‘21 segnò l’inizio di un periodo di gran prosperità. La diffusione delle teorie tayleristiche della produzione in serie e razionalizzazione del lavoro in fabbrica ci fu un notevole aumento della produttività, seguita da un aumento della disoccupazione dovuta allo sviluppo tecnologico. Macchine sempre più efficienti rubavano il posto al personale.
Diversa sorte ebbe il settore dei servizi che subì un’autentica esplosione.
I mutamenti furono così ampi da stravolgere l’organizzazione della vita quotidiana. Divennero d’uso comune gli elettrodomestici, plasmando la nuova economia standardizzata (vendita di prodotti omologati su larga scala).
Dal punto di vista politico gli anni 20 segnarono l’incontrastata egemonia del partito repubblicano, il quale attuò una politica molto conservatrice:

  • ridussero le imposte dirette aumentando le indirette;
  • mantennero la spesa pubblica a livelli molto bassi sfavorendo così le classi più povere;
  • lasciarono decadere le leggi antimonopolistiche favorendo lo sviluppo delle grandi Corporations;

I presidenti repubblicani costruirono il loro successo sposando la causa dell’affarismo, a spese del riformismo sociale dei democratici. In questo modo si causò l’emarginazione d’ampie fasce della popolazione. Si accompagnò a questo un’ondata di xenofobia che investì le minoranze straniere. Furono varate numerose leggi che limitavano l’immigrazione e la “contaminazione razziale”. Caso emblematico di quest’ondata xenofoba fu la pena di morte a due anarchici italiani, Sacco e Vanzetti, accusati d’omicidio e giustiziati nonostante le prove d’innocenza. Inoltre si rafforzò l’ondata di discriminazione razziale per quelli di colore. Il Ku Klux Klan, diventa un’organizzazione strutturata la discriminazione.  
Anche cattolici ed ebrei erano guardati con diffidenza.
La situazione economica di forte espansione portò ad una grande euforia speculativa. Entusiasmante fu lo sviluppo della borsa di Wall Street metà privilegiata dei facili guadagni. Ma la realtà si sarebbe dimostrata ben diversa. La nuova capacità produttiva si dimostrò presto sovradimensionata al mercato, causando in poco tempo la saturazione dello stesso.
Molti risparmiatori nel 1928 preferirono dirottare i capitali dalla produzione alla speculazione, fra le concause della grande crisi. Nel 1929 i titoli raggiunsero i livelli più elevati verso il mese di settembre, dopo di che il mercato saturo e privo di liquidità crollò. La Grande Crisi colpì indistintamente i possessori d’attività finanziarie, e fece sentire i suoi effetti anche sull’economia europea che si basava sugli investimenti americani. La situazione mondiale peggiorò perché gli USA, anziché assumersi le proprie responsabilità di potenza egemone, cercarono di difendere gli interessi nazionali introducendo elevate tariffe e sospendendo l’erogazione dei prestiti.
Dal ’29 al ’32 la grande depressione fece sentire i propri effetti in tutto il mondo, con l’unica eccezione dell’URSS, provocando un effetto ping-pong tra calo produttivo e calo dei consumi. In generale vi fu uno spaventoso aumento della disoccupazione che provocò una grande incertezza soprattutto nelle classi meno abbienti, che saranno la causa principale dell’avvicinarsi di grandi mutamenti politici.

 

103 LE CONSEGUENZE MONDIALI ED EUROPEE DELLA CRISI DEL 1929

In Europa al declino delle attività produttive, si sovrappose una grossa crisi finanziaria che si manifestò dapprima in Austria e Germania che portò al collasso del sistema bancario.
La crisi investì anche le banche inglesi che furono vittime di fughe d’ingenti capitali stranieri. Per fare fronte a queste richieste, sommate ad altre di conversione delle sterlina in oro, tanto che nel settembre del 1931, all’esaurirsi delle riserve auree della banca d’Inghilterra, si sospese la convertibilità della sterlina in oro.
Ad incrementare gli effetti della crisi influì negativamente anche l’impreparazione della classe dirigente ad un avvenimento di così vaste proporzioni. Quando esplose la crisi, tutti i governi ritennero di potersi affidare ai principi dell’economia liberale, principalmente il pareggio di bilancio. Per questo la spesa pubblica fu drasticamente tagliata, accompagnando la manovra ad un aumento delle imposte dirette. I provvedimenti ebbero com’effetto l’aumento della disoccupazione e un’ulteriore contrazione della spesa. La crisi durò per quasi tutto il decennio e si appianò solo grazie alla politica di riarmo che avrebbe portato alla seconda guerra.
In Germania le conseguenze della crisi si fecero sentire più che in ogni altra nazione, anche a causa della situazione particolare in cui versava la Repubblica di Weimar dopo la fine della Guerra. Il taglio dei crediti da parte degli USA mise in crisi il governo di coalizione socialdemocratico, provocando un dissenso insanabile fra SPD e i partiti di centro-destra. Cosicché nel 1930 la guida del governo passò al leader centro-cattolico Heinrich Bruning, che attuò una politica estremamente rigorosa cercando, di conclamare al mondo la situazione insopportabile in cui versava il paese. Mentre nel ’32 una conferenza internazionale ridusse l’entità delle riparazioni e ne sospese il pagamento, la politica del nuovo cancelliere non riuscì ad allontanare lo spettro della crisi che provocò un aumento smisurato della disoccupazione.
In Francia la crisi si fece sentire aggravata dall’orgoglio nazionale che aveva ritardato sino al ’37 a svalutare il franco, provocando una caduta verticale della moneta. I governi di questo periodo furono estremamente indeboliti dalla situazione economica che lasciava poche possibilità di movimento. Per questo si successero coalizioni di destra e sinistra a frequenze elevate.
In Inghilterra il governo laburista di Mac Donald tentò di contrastare la crisi con una politica di rigore, anche con rilevanti tagli ai sussidi. Contrastato duramente dai rappresentanti delle Trade Unions nell’agosto del ’31 ruppe con il suo partito, per costituire un Governo Nazionale assieme ai conservatori e ai liberali. Sotto questo governo la Gran Bretagna svalutò la sterlina e abbandonò la tradizione liberoscambista, alzando barriere doganali privilegiando gli scambi nell’ambito del Commonwealth.


Così, già nel ’34 l’Inghilterra incominciava ad uscire dalla crisi.

 

 

104 ROOSEVELT ED IL NEW DEAL

Quando nel 1932, dopo tre anni di crisi, ci furono le elezioni presidenziali al governo salì il democratico Franklin Delano Roosevelt. Durante la campagna elettorale, una delle sue armi vincenti, fu la convinzione della necessità d’instaurare un buon rapporto con le masse e di giocarsi tutto sulla comunicatività, infondendo nelle masse stesse coraggio e speranza.
Nel discorso inaugurale alla Casa Bianca, Roosevelt annunciò di voler iniziare un New Deal (nuovo corso) nella politica economica e sociale. Questo si sarebbe caratterizzato soprattutto in un più energico intervento dello Stato nei processi economici.
Il New Deal iniziò dai primi mesi d’insediamento con una serie di provvedimenti che avrebbero dovuto contrastare la crisi:

  • Fu ristrutturato il sistema creditizio;
  • fu svalutato il dollaro per rendere più competitive le esportazioni;
  • aumentati i sussidi di disoccupazione;
  • furono favorite le concessioni dei prestiti per consentire ai cittadini di estinguere le ipoteche sulle case.

A questi provvedimenti d’emergenza se n’affiancarono anche di più organici e qualificanti:

  • Agricultural Adjustment Act tentò di limitare la sovrapproduzione agricola;
  • National Industri Recover Act per impedire gli accanimenti concorrenziali;
  • Tennessee Valley Autority, un ente con lo scopo di sfruttare le risorse idriche per la produzione d’energia elettrica da vendere a buon mercato.

Le scelte di Roosvelt ebbero degli effetti contradditori, per porvi il rimedio il governo potenziò ulteriormente l’intervento statale, varando vasti programmi di lavori pubblici, nella speranza di rilanciare la produzione. Parallelamente rafforzò l’impegno nelle riforme sociali, arrivando a varare una legge che garantiva le pensioni d’anzianità nel ’35 e una nuova disciplina che inaugurava la contrattazione collettiva.
Con questa politica Roosvelt si guadagnò l’appoggio dei sindacati, che nel periodo si erano particolarmente rafforzate. D’altra parte il New Deal diedero spazio ad un’ampia coalizione antiroosveltiana (persino la Corte suprema cercò di bloccare alcune delle Leggi proposte dal Presidente). Forte della nuova vittoria alle elezioni del ’36 ripresentò le leggi che furono ratificate.
In generale la politica roosveltiana da un lato smentì i dogmi liberisti dimostrando la necessità dell’intervento statale nell’economia politica, dall’altro non riuscì a conseguire pienamente i risultati che s’era prefissata. Per superare pienamente la crisi, anche gli Stati Uniti si dovettero imbarcare nella politica del riarmo, solo abbracciandola sarebbe riuscita a superarla.

 

 

105 CULTURA DELLA CRISI ED ECLISSI DELLA DEMOCRAZIA TRA LE DUE GUERRE MONDIALI

Arti e scienze.

Gli anni della crisi portarono mutamenti profondi per la cultura europea. S’accentuarono fenomeni di disgregazione e di perdita dell’unità. Le maggiori scuole di pensiero avevano pochi tratti comuni. Stesso discorso vale per la letteratura e per la musica. Le nuove forme artistiche cercavano sempre di più la rottura con le forme canoniche, orientandosi verso grandi avanguardie (astrattismo, cubismo, futurismo e surrealismo). In tutte l’espressioni artistiche compariva una forte critica al convenzionalismo borghese
Il panorama letterario fu abbastanza eterogeneo. “La ricerca del tempo perduto” di Proust, “L’Ulisse” di Joyce, “La montagna incantata” di Mann; grandi capolavori, avevano come unico denominatore comune un insanabile angoscia.
Tutto lo sgomento e l’angoscia dell’uomo del XX secolo si evidenziano nelle divisioni politiche e ideologiche che segnano il periodo. La principale contrapposizione ideologica si giocò tra borghesi e proletari, fra fascismo e democrazia.
Gli intellettuali, che non erano certo nuovi all’impegno politico incominciarono a partecipare in modo sempre più attivo al dialogo ideologico:

  • i liberali avevano i punti di riferimento maggiori in Croce e Mann;
  • i socialisti-marxisti gente del calibro di Picasso, Gorkij;
  • Gli estremisti di destra in Gentile, Ezra Pounde, Hiddeger.

Parve a molti critici che gli intellettuali si allontanassero dal ruolo di guida delle coscienze per finire con l’esprimersi come abili propagandisti.
In generale la cultura europea subì un forte colpo dopo l’avvento dei regimi totalitari nel Vecchio Continente. Se il regime bolscevico eliminò fisicamente molti intellettuali dissidenti, quello nazista li costrinse all’esilio volontario. Molti di questi, soprattutto ebrei, preferirono emigrare in paesi più democratici, la metà privilegiata era gli Stati Uniti. Verso la metà degli anni ’30 vi emigrò: Mann, Brecht, lo psicanalista Adler, il politologo Neumann.
Parallelamente alla realtà artistica, anche nel campo scientifico la situazione di grande frattura aveva costretto numerose Menti ad emigrare negli States, casi emblematici furono, Fermi ed Einstein.

Politica

Dopo la vittoria dell’Intesa sembrava aver trionfato in tutta Europa la democrazia liberale, con Repubbliche fondate su istituzioni rappresentative. Ma la crisi economica che imperversò ovunque, portò nel giro di poco tempo, all’instaurazione di regimi auto-totalitari che misero in crisi quest’indirizzo. Questo fenomeno fu imputato all’immaturità delle classi dirigenti a sostenere il dopoguerra. E il fenomeno, dapprima sottovalutato, mostrò tutto il suo potenziale con l’ascesa fulminea del nazismo, ancor più che del fascismo.
La crisi economica convinse l’opinione pubblica dell’inadeguatezza del sistema liberale-democratico. L’unica alternativa alla “debolezza” liberale era individuata nella scelta autoritaria, sia fascista, che comunista.
Il principio di fondo era che la democrazia consentiva la partecipazione popolare alla vita pubblica ma non riusciva a garantire la stabilità economica e la tranquillità. In un Europa segnata dalla guerra e dalla crisi, mal si sposavano i nuovi desideri di rivalsa dei popoli che si vedevano fortemente limitati dall’arrendevolezza democratica. Non era di certo finito il periodo dell’orgoglio nazionale e delle storture del pangermanesimo o del pansalavismo.
I neonazionalisti facevano leva sul sentimento di rivalsa delle popolazioni mirando a sobillarle ed esaltarle contemporaneamente.
In Europa il fenomeno si tramutò in un susseguirsi di successi dei regimi autoritari in Spagna, Italia e Germania.
Il Fascismo (così sintetizzato come movimento ideologico comune a tutti i regimi europei) non si presentava come un movimento antirivoluzionario, in contrapposizione al comunismo sovietico, ma come un movimento rivoluzionario a se stante. Rivoluzionari erano i sistemi con cui aveva raggiunto il potere, ma soprattutto il desiderio di sovvertire l’ordine politico per erigerne uno completamente nuovo.
Anche in economia il fascismo si proponeva d’utilizzare un sistema completamente nuovo capace di superare l’anarchia del sistema capitalistico. Nella realtà l’innovazione che riuscì a portare fu solo nella riscrittura dell’organizzazione del potere, in modo fortemente gerarchicizzato e centralizzato. Un inquadramento forzato della popolazione e un rigido controllo sulla cultura e informazione.
Le prerogative primitive del nazismo e del fascismo furono di man in mano lasciate cadere, rimase solo la soppressione della dialettica, delle libertà sindacali e il rafforzamento dell’intervento statale nell’economia.
Nonostante tutti questi lati negativi, la terza via fascista, esercitò una notevole attrazione sulle popolazioni mondiali. Particolarmente affascinati furono gli strati intermedi che da sempre aspiravano al salto di qualità che vedevano auspicarsi abbracciando la causa, mentre sostanzialmente scarso fu il successo nelle classi operaie. La grande borghesia, invece, abbracciò il fascismo più per calcolo utilitaristico che per convinzione ideologica, mirava ad utilizzarlo non cessando mai di temerlo.
La sensazione di appartenere ad un gruppo, di riconoscersi in un capo e la convinzione di essere inseriti attivamente in una struttura in base ad un merito furono elementi eccezionalmente attraenti, che formavano una sorte di protezione all’anonimato provocato dal processo di massificazione.
Il fascismo ebbe il grande merito di capire e aggirare le richieste delle masse popolari, riuscendo a sfruttare a proprio favore quelle componenti violente ed aggressive che ne caratterizzavano le frustrazioni.
Quest’ultima caratteristica rappresentava un aspetto comune sia al fascismo che al comunismo. Questo desiderio comune di dominare totalmente le masse fu identificato con il termine totalitarismo.

 

106 LA CRISI DELLA REPUBBLICA DI WEIMAR E L’AVVENTO DEL NAZISMO

La grave crisi economica aveva lasciato un solco profondo nella società tedesca e indebolito la Repubblica di Weimar, cosicché alle elezioni del ’25 la coalizione di centro perse voti in favore delle ali estreme.
Salì alla cancelleria il generale Hindemburg ex-capo dell’esercito imperiale.
Ma fino ad allora l’ideologia aggressiva e ultranazionalista di Hitler trovò poco spazio, ma le cose mutarono all’arrivo della grande depressione.
Il popolo tedesco stremato e ridotto alla fame incominciò ad incoraggiare le forze estremiste e nazionaliste:
La Destra (esercito, industriali e alta borghesia) si sentì sciolta dai vincoli di lealtà verso le istituzioni rappresentative.
A Sinistra settori consistenti si staccarono dalla socialdemocrazia per convergere nelle frange comuniste, pronte ad una rivoluzione bolscevica.
In questa bagarre il nazismo riuscì ad uscire dall’isolamento facendo leva sulle:

  • frustrazione della borghesia e dei ceti medi;
  • paura della disoccupazione per le classi inferiori.

L’agonia della repubblica di Weimar cominciò nel settembre 1930, quando alle elezioni i nazisti e i comunisti conobbero un consistente incremento di voti, decretando il rafforzamento dei partiti antisistema.
Il governo democratico proseguì stentatamente per altri due anni, ma quando nel ‘32 la crisi economica raggiunse l’apice (forte caldo di produttività, forte incremento della disoccupazione) le fila naziste fecero fare proseliti e le città divennero teatro di scontri violenti tra nazisti e comunisti.
Nel ’23 quando aveva tentato un colpo di Stato in Baviera, Hitler, era  lo sconosciuto capo del minuscolo Parito Nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi. Il documento programmatico del partito era piuttosto confuso e per molti è singolare come in poco tempo riuscì a diventare uno degli uomini più potenti e temuti dell’Europa d’inizio millennio.
Fino al ’29 il partito, ribattezzato, nazista rimase una formazione minoritaria e marginale: si autocollocava al di fuori della legalità e utilizzava metodi violenti contro gli avversari politici, basando la sua forza su un’organizzazione armata paramilitare le SA (Sturm-Abteilungen - Reparti o squadre d’assalto) comandate dal capitano Röhm formate da ex-combattenti della Grande Guerra.
Dopo il tentativo di Monaco, Hitler cercò di dare un volto più rispettabile al partito, riuscendo ad assicurarsi il sostegno finanziario d’alcuni industriali.
Nel 1932 furono indette nuove elezioni. Per sbarre la strada a Hitler, i partiti democratici appoggiarono il candidato Hindenburg, l’unico capace di catalizzare i voti di parte della destra.
La vittoria di Hindemburg vide anche l’affermazione del partito nazista che  ricevette il 37% dei voti. Cosicché per potere governare, il vecchi generale non seppe fare di meglio che spostare il timone verso destra.  E alle elezioni successive, nel novembre ’32, i nazisti diventarono il primo partito.
I conservatori credevano d’avere ingabbiato Hitler, quando il 30 gennaio 1933, lo nominarono capo di un governo in cui i nazisti avevano solo tre degli undici ministeri.
L’occasione per consolidare il regime fu poco dopo l’insediamento.Per un oscuro incendio al Parlamento (Reichstag), fu arrestato uno squilibrato olandese reo d’essere comunista. L’episodio fornì la scusa per una violenta ondata repressiva anticomunista.  Furono adottate delle misure speciali di limitazione delle libertà di stampa e di riunione.
Nelle elezioni successive, del Marzo’33, i nazisti mancarono la maggioranza assoluta ma si consolidarono ulteriormente. Il Parlamento votò allora una legge suicida che permetteva a Hitler di legiferare e di modificare la costituzione. I socialdemocratici, intimoriti dall’arresto in massa dei comunisti, preferirono usare prudenza così da formare una seppur debole opposizione. Ma la mossa si rivelò infruttuosa perché la SPD fu sciolta in quanto giudicata rea di “alto tradimento”. Una sorte non molto migliore toccò a quei partiti che avevano assecondato il nazismo. Il partito tedesco-nazionale si sciolse su pressione di Hitler. Nel Luglio ’33 fu varata la legge con cui si decretava che il Partito Nazista era l’unico legale consegnando la Germania al Partito Nazista. A questo punto rimanevano due ostacoli all’unificazione del potere per Hitler:

  • l’ala estremista del partito, del capitano Röhm, poco disposta a sottomettersi ai poteri legali;
  • La vecchia destra di Hindenburg e dei capi dell’esercito che chiedeva il rispetto della gerarchia delle forze armate.

Hitler già da qualche tempo aveva incominciato a temere le SA per la loro autonomia, aveva creato la sua milizia personale, le Schuts-Staffeln, le SS. Si servì di questa per muoversi nel modo a lui congeniale facendo inorridire il mondoNella notte del 30 Giugno 1934, passata alla storia come “la notte dei lunghi coltelli” le SS assassinarono il capitano Röhm e lo stato maggiore delle SA, nonché altri personaggi che gli erano scomodi. La contropartita chiesta ed ottenuta dalle forze armate per la testa di Rohm, fu la candidatura alla successione di Hindenburg, cosicché gli ufficiali delle forze armate avrebbero dovuto giurare fedeltà a Hitler e quindi al nazismo
Si trovò insignito delle cariche di Cancelliere e Capo dello Stato, e nel Febbraio ’38 Hitler assunse anche la carica di comandante supremo delle forze armate, cumulò tutti i poteri dello stato.
Nel 1938 nasceva il Terzo Reich o terzo impero.

 

 

107 I CARATTERI DEL TERZO REICH: IDEOLOGIA, REPRESSIONE, CONSENSO

Ideologia

L’ideologia nazista fu esposta nel libro Mein Kampf (La mia battaglia), scritto negli anni della galera, destinato a diventare una sorta di bibbia dei nazisti, era composita ma chiara e verteva principalmente su:

  • fervente nazionalismo;
  • concezione razzista. Darwinianista convinto, millantava l’esistenza di una razza ariana superiore che avrebbe dominato le altre;
  • persecuzione antisemita, necessaria per realizzare il sogno del dominio     ariano sul mondo. Era necessario schiacciare i propri nemici, primi fra tutti gli ebrei, ritenuti responsabili della dissoluzione morale, delle speculazioni finanziarie e della nascita del bolscevismo.

Il programma del partito si sarebbe concentrato su:

  • la denuncia del trattato di Versailles;
  • la riunificazione in una Grande Germania delle popolazioni tedesche;
  • la fine del parlamentarismo corrotto;
  • la lotta al bolscevismo;
  • lo stermino degli ebrei.

Il piano nazista prevedeva di respingere le imposizioni di Versailles. Riunificate le popolazioni tedesche sotto un’unica nazione  prima di cercare lo “SPAZIO VITALE” necessario recuperando i territori persi nella guerra prima di espandersi verso Est. Il desiderio espansionistico verso Est proponeva il nazismo hitleriano come naturale avversario del comunismo bolscevico.
Offrendo la prospettiva di una grande nazione, Hitler, riuscì  a rassicurare il popolo tedesco, assicurando l’ordine pubblico, e ad esaltare gli animi. L’adesione al nazismo offriva la possibilità di fare parte di un gruppo d’eletti.
Nel regime si realizzava il FUHRERPRINZIP (Principio della guida)per cui:

  • un solo capo, fornito di quel potere che Max Weber definì carismatico, fonte suprema del diritto ed espressione dell’aspirazioni del popolo;
  • al capo spettavano le decisioni i meriti e le responsabilità;
  • il rapporto tra Fuhrer e popolo doveva essere diretto, col solo tramite del partito.

Furono istituiti organismi secondari col compito simbolico d’associazioni sindacali (Fronte del lavoro) ed educative per i giovani Hitlerjunged (gioventù hitleriana).

  • Il loro compito era di inquadrare totalmente la popolazione nella “Comunità di popolo”, dalla quale erano esclusi:
  • i non ariani stranieri;
  • gli antinazisti e antinazionalisti;
  • e soprattutto gli ebrei.

Persecuzione degli ebrei

Gli ebrei tedeschi erano una minoranza concentrata nelle grandi città, occupavano le classi medio-alte della scala sociale, detenendo posizioni di prestigio nella finanza e negli affari. La propaganda antisemita gli scaricò addosso le colpe della crisi.
Numerose forme di costrizione si verificarono già all’inizio degli anni ’30, ma la discriminazione vera e propria fu sancita dalle Leggi di Norimberga del Settembre ’35, che tolsero agli ebrei la parità dei diritti ed impedirono i matrimoni con gli ariani. Molti ebrei decisero d’abbandonare la Germania, prima che la politica si tramutò in autentica persecuzione nel 1938, quando i nazisti organizzarono un gigantesco pogrom - “La notte dei cristalli”- (per le numerose vetrine di negozi infrante durante). La spirale di violenza continuò ad acuirsi fino a raggiungere negli anni della guerra all’estremo della “soluzione finale”.

Opposizione al Regime

Fino alla sconfitta in guerra il regime nazista poté operare quasi senza opposizione. I nemici politici erano destinati a fini violente:

  • i comunisti sterminati;
  • i socialdemocratici ghettizzati.

I cattolici preferirono adattarsi al regime, appoggiati anche dalla Chiesa di Roma che nel ’33 stipulò un concordato con il Fuhrer. Nel ’39, però, il pontefice Pio XI condannò le violenze antisemite con un’enciclica in lingua tedesca, ma non fu seguita da alcuna scomunica.
Paradossalmente i pericoli maggiori per il nazismo vennero da quei gruppi conservatori con cui i nazisti s’erano coalizzati nel ’29, che lavorando dall’interno, avrebbero sabotato il regime sino ad attentare alla vita del Fuhrer.
La debolezza dell’opposizione al nazismo è dall’efficienza dell’apparato repressivo. Le molte polizie politiche (SS e Gestapo) controllavano capillarmente il territorio. I campi di concentramento – lager - che furono allestiti dai primi degli anni ’30 erano un ottimo deterrente per gli oppositori.

Forme di consenso al regime

Il consenso che ottenne il nazismo era  in gran parte dovuto ai successi hitleriani in politica estera. Smontando la costruzione di Versailles e riportando la Germania al rango di grande potenza europea Hitler stimolò l’orgoglio nazionale e fece provare il gusto della rivincita.
Un altro motivo di consenso fu la ripresa economica, basata principalmente sul riarmo, sulla costruzione di infrastrutture e sui lavori pubblici, che dal ’33 ridiede ossigeno al sistema. La disoccupazione calò rapidamente sino ad annullarsi alla vigilia della guerra. Per favorire lo sviluppo industriale il fuhrerprinzip fu adottato nelle imprese, dove il proprietario era l’unico titolare delle scelte (anche se agli operai furono riconosciute delle tutele.
Il mito della razza occupò un posto centrale nella ricerca del consenso, riuscendo a toccare le corde più profonde dell’animo popolare. L’utopia reazionaria ruralista che proponeva il nazismo fatta di un popolo d’uomini sani e belli, legati alla loro terra e organizzati in una struttura patriarcale di contadini-guerrieri liberi dagli orrori della civiltà capitalistica (che strideva non poco con l’industrializzazione per il riarmo); s’innestava abilmente in una cultura ancora legata al romanticismo ottocentesco, per cui fu fondamentale la propaganda.
La Germania fu il primo paese in cui fu istituito un Ministero della Propaganda, affidato all’abile Joseph Goebbels che divenne uno dei principali centri di potere del regime. Stampa, intellettuali e sistemi di comunicazione e d’istruzione furono strettamente controllati. Grande spazio fu affidato ai nuovi media :televisione ei cinematografi. La propaganda era organizzata in cerimonie spettacolo, sfilate militari, grandi esibizioni sportive, adunate di massa che terminavano spesso con discorsi d’alti dirigenti politici o dal Fuhrer stesso. La preparazione era maniacale perché lo spettacolo doveva colpire l’immaginazione e portare in sé un che di rituale ed esoterico da fare sembrare il nazismo una religione laica.

 

108 LO SVILUPPO DELL’UNIONE SOVIETICA TRA LE DUE GUERRE MONDIALI

 

Negli anni dell’avanzata del fascismo e del nazismo molti intellettuali guardarono con interesse e speranza all’Unione Sovietica. Il paese dell’est cercava di proporre una nuova società basata sui valori del socialismo, e si presentava come l’estrema riserva al pericolo nazi-fascista.
Mentre in tutta Europa la grande crisi aveva messo in ginocchio le economie dei paesi capitalistici, l’Urss si rendeva protagonista di un gigantesco sforzo d’industrializzazione, anche in virtù anche del proprio isolamento economico. La decisione di bruciare i tempi fu presa da Stalin nel ’28, ponendo fine all’esperienza della NEP (nuova politica economica). Stalin aveva capito che solo attraverso lo sviluppo dell’industria pesante, il paese avrebbe potuto superare la crisi e sarebbe diventata una potenza mondiale. Per operare con la massima efficacia era necessario il totale controllo statale dell’apparato produttivo.
Il primo ostacolo all’economia industrializzata completamente collettivizzata ed si trovò nei kulaki (i facoltosi proprietari terrieri), che scontenti per l’interesse dedicato all’industria osteggiarono il governo. Per questo furono soggetti a misure restrittive e continui controlli. Dopo avere capito l’inefficacia delle misure, nel ’29 Stalin proclamò la totale collettivizzazione della terra, cercando d’eliminare i kulaki. L’operazione provocò una forte discussione nel partito; contro Stalin si schierò Bucharin forte del convincimento che fosse controproducente spezzare l’alleanza tra operai e contadini. Il risultato fu un’ennesima ondata repressiva che riuscì ad eliminare gli oppositori.
Così fu realizzata la collettivizzazione, chi rifiutò le requisizioni fu considerato “nemico del popolo”. Milioni di contadini e d’oppositori politici furono deportati in Siberia. Quella in URSS tra il ’29 e il ’33 fu una rivoluzione dall’alto. I costi economici dell’operazione furono altissimi e risultati disastrosi a causa dell’impreparazione di cui era ancora vittima la classe dirigente; ma nella seconda metà degli anni ’30 la situazione andò a regolarizzarsi.
Ma il vero sforzo politico economico si concentrò sull’industria.

  • Il primo piano quinquennale, varato nel ’28, fissava obiettivi tecnicamente impossibili, ma la crescita del settore si sviluppò ad un ritmo che nessun paese capitalistico aveva conosciuto fin allora.
  • Il secondo piano quinquennale, nel ’33, confermò i precedenti progressi.

L’eco dei successi si diffuse presto al di là dei dell’URSS, galvanizzando i comunisti di tutto il mondo. Anche socialdemocratici e laburisti espressero apprezzamenti alla politica sovietica. Il tentativo dell’URSS aveva qualcosa d’eroico, non era mai successo che un paese riuscisse a triplicare la produzione nel giro di un decennio mentre la crisi attanagliava tutto il mondo.
Meno noti furono i costi umani con cui l’operazione fu finanziata.

 

109 STALIN E LO STALINISMO

 

Sorretto da un imponente apparato burocratico, ma anche dal consenso degli operai, Stalin finì con l’assumere il ruolo del capo carismatico dell’URSS. Il suo sistema di governo non era molto diverso dagli altri dittatori d’ideologia opposta. Era il padre e la guida di tutti i sovietici e l’unico depositario della dottrina marxista.
Per questo, ogni critica assumeva i caratteri del tradimento e le stesse attività culturali dovevano ispirarsi alle sue direttive. Fu introdotta una rigida censura in tutte le attività di comunicazione e di pedagogia, riportate entro i canoni del cosiddetto realismo socialista. La storia fu riscritta per mettere in luce Stalin e sminuire Trotzkij e gli altri oppositori.
Parte del successo è da attribuire ai suoi risultati economici. Questo fu consentito dal clima d’entusiasmo ideologico che era riuscito ad inculcare nelle popolazioni, così da fargli sopportare sacrifici pesantissimi. Gli operai furono sottoposti ad una disciplina semimilitare, ma anche stimolati da incentivi sulla produttività (in contraddizione con i principi socialisti). Gli operai che si distinguevano ottenevano promozioni e potevano aspirare ad essere insigniti del titolo di “eroi del lavoro”. Si sviluppò uno spirito competitivo che vide il caso singolare di un minatore del Don, Aleksej Stachanov, diventato famoso per avere estratto in una notte un quantitativo di minerali esageratamente superiore al normale.
Il successo dell’ideologia stalinista è contraddittorio. Molti l’imputarono alla tradizione centrali sta e autoritaria del regime zarista, altri la hanno ridefinita come una forma di dispotismo industriale; altri ancora lo bollarono come una deviazione di destra della rivoluzione. Ma lo stalinismo è un fenomeno profondamente inserito nella storia della Russia, ma inseparabile dall’esperienza traumatica che fu l’industrializzazione forzata.
Stalin portò agli eccessi alcune premesse autoritarie che già esistevano in Lenin, ma con una spietatezza ancora sconosciuta. Prima emarginò, poi sterminò gli oppositori politici, alternando deportazioni e “grandi purghe”.
Ancor peggiore fu la sorte di coloro che furono sottoposti a pubblici processi, in cui gli imputati erano condannati con prove inventate e giudizi sommari. In questo modo furono eliminati tutti gli oppositori storici: da Zinov’ev a Kamenev, ma anche stretti collaboratori di Stalin inghiottiti dalla macchina del terrore ormai fuori controllo. Lo stesso Trotzkij che dall’estero aveva continuato la sua crociata antistaliniana fu ucciso da un sicario del dittatore in Messico nel ’40. Le grandi purghe e i processi provocarono un’ondata d’impressione in Occidente, ma nel complesso gli europei rimasero sempre più attenti e preoccupati del fenomeno nazifascita. Quest’ultimo motivo potrebbe anche spiegare le motivazioni per cui in Occidente si prestò meno attenzione all’URRS, perché gli si attribuiva il compito d’unica potenza capace di opporsi al nazismo.

 

 


110 I FRONTI POPOLARI

L’avvento al potere di Hitler diede un duro colpo all’equilibrio internazionale
Ma intanto il fronte antinazista trovò un nuovo ed insperato sostegno nell’Unione Sovietica che fino ad allora era rimasta isolata dalla politica internazionale. La paura di Hitler aveva indotto Stalin a modificare la propria politica estera consigliandolo d’entrare a fare parte della Società delle Nazioni nel 1934 e a stipulare un accordo militare con la Francia nel ’35. La scelta sovietica provocò un forte contraccolpo in tutti i partiti comunisti europei, che decisero di abbandonare la contrapposizione frontale con i partiti borghesi e ancor più con le socialdemocrazie moderate. La nuova parola d’ordine era diventata ormai la lotta dichiarata al nazifascismo. Per facilitare quest’operazione fu auspicata la nascita DEI FRONTI POPOLARI per appoggiare i governi democratici decisi a combattere gli estremismi di destra.
La politica dei fronti popolari fu il risultato di una pressione unitaria della base operaia europea spaventata dalla minaccia incombente.
Il fenomeno fu particolarmente sentito in Francia, dove la corruzione istituzionale aveva incrinato la fiducia popolare favorendo lo sviluppo dei movimenti filofascisti. La reazione fu di una ricompattazione socialista-comunista che diventerà anche sopranazionale. Il solo risultato che riuscì comunque ad ottenere fu di permettere alle sinistre di tornare al governo nelle nazioni europee rimaste democratiche.
Nel ’36 una coalizione di Fronte Popolare vinse le elezioni in Spagna, lo stesso successe poco dopo anche in Francia dove al governo fu insediato il socialista Blum, che trovò scarsissimo successo.

 

111 LA GUERRA DI SPAGNA

Tra il 1936 ed il 1939 la Spagna fu sconvolta da una drammatica e guerra civile, uno scontro tra democratici e fascisti, rivoluzionari e conservatori. In un momento di forti tensioni, la guerra civile contribuì ad acuirle.
La Spagna degli anni ‘30 era un paese segnato da una grande crisi economica, arretrato e prevalentemente agricolo, dove qualsiasi tentativo riformatore si scontrava con l’ottusità di un ceto dominante conservatore. Per contro le tendenze del proletariato, fortemente influenzate da un potente sindacato, non poterono che manifestarsi in un indirizzo sovversivo e antistatale. L’aristocrazia terriera faceva sentire il suo peso possedendo il 40% delle terre e un forte legame con la chiesa.
La Spagna era quindi dei i paesi in cui la frattura fra conservatori e riformatori era più evidente.
Quando nel ‘36 una coalizione di Fronte popolare con la presenza di socialisti e comunisti, si affermò alle elezioni, la tensione esplose in tutto il paese. Le masse popolari vissero l’episodio come l’inizio di una rivoluzione sociale e rivolsero tutta la loro collera contro i grandi proprietari terrieri, i nobili e il clero. La reazione conservatrice si tradusse nella violenza squadrista della Falange fascista, che portò in breve tempo ad un colpo di stato dei militari. Alcuni reparti, guidati dal generale Francisco Franco, occuparono alcuni territori della Spagna Occidentale, ma le sorti del conflitto parvero arridere ai repubblicani che riuscirono a tenere la Capitale e la parte più industrializzata del paese. Ciò che fece determinò il cambiamento di rotta fu il comportamento delle altre potenze europee. Mentre le nazioni fasciste, Germania e Italia aiutarono massicciamente i franchismi (Mussolini inviò un contingente di volontari e materiale bellico, mentre Hitler sperimentò le sue nuove armi), Nessun aiuto arrivò invece dalle potenze democratiche. L’unica eccezione fu URSS che favorì le Brigate Internazionali, reparti volontari di antifascisti. Ma l’appoggio ai franchisti fu enormemente superiore a quello dei repubblicani.
Lo scontro fu anche l’occasione per molti di dare sfogo alle proprie pregiudiziali ideologiche: comunisti contro fascisti.
A sferrare un colpo mortale ai repubblicani furono le divisioni interne. Mentre i conservatori affidando a Franco il titolo di Caudillo, l’equivalente di Duce e Führer, riuscirono a compattarsi in un’unica entità: la Falange Nazionalista, il Fronte popolare vedeva l’abbandono della ricca borghesia spaventata dagli eccessi degli anarchici.
All’interno dei repubblicani c’era una doppia divisione:

  • Ideologica, che opponeva i moderati ai rivoluzionari;
  • Militare, che vedeva l’insofferenza degli anarchici alla disciplina. La tensione sarà particolarmente acuta nel ’37 quando a Barcellona gli anarchici si scontrarono, armi in pugno contro i repubblicani.

Da un punto di vista strettamente militare quest’ultima divisione fu quella che fece pendere l’ago della bilancia in favore dei franchisti, che nel ’38 riuscirono a spezzare l’esercito repubblicano e conquistare Madrid nel 1939.
Tre anni di guerra civile lasciarono il paese in una situazione  drammatica.

 

112 LA CRISI INTERNAZIONALE DEGLI ANNI TRENTA

Nel ’33 il governo nazista decise di ritirare la propria delegazione dalla Conferenza Internazionale di Ginevra, dove si cercava un accordo sulla limitazione degli armamenti, seguita a breve dal ritiro dalla Società delle Nazioni, così da destare preoccupazioni in tutta Europa. Quando nel ’34 i gruppi nazisti cercarono di prendere il potere con la forza in Austria, lo stesso Mussolini schierò l’esercito sul confine. Hitler non ancora pronto per una guerra fece marcia indietro. Nel ’35 quando i nazisti reintrodussero la coscrizione obbligatoria, in barba al trattato di Versailles, Italia, Francia e Inghilterra condannarono il riarmo alla conferenza di Stresa. Fu questo l’ultimo episodio d’intesa fra le tre nazioni europee, pochi mesi più tardi l’Italia aggredendo l’Etiopia rompeva il fronte con l’Intesa avvicinandosi alla Germania.
Alla crisi politica seguì una crisi economica generale.

  • In Inghilterra fu favorito anche dai conservatori che, dal ’37 sotto la guida Chamberlain, applicarono la politica dell’appeasement. Il presupposto di “ammansire” Hitler, accontentandolo nelle sue richieste più “ragionevoli”. Riconoscendo alla Germania alcune rivendicazioni sul trattamento subito a Versailles. L’indirizzo politico fu abbracciato dall’opinione pubblica inglese ancora scossa e segnata dagli effetti della prima guerra mondiale e poco convinta dell’equità del trattato di pace. Ma non mancarono esigue minoranze di conservatori contrari, capeggiati da Wiston Churchill, che sostenevano la necessità d’opporsi con forza al gerarca nazista, anche al costo d’affrontare subito una guerra.
  • In Francia era vittima di una situazione interna molto critica che minò ogni capacità di reazione. L’insediamento del primo governo socialista di Fronte Popolare fu accompagnato da grande entusiasmo e  riformismo. Nel 1936 furono firmati gli Accordi di palazzo Martignon che prevedevano:
  • Aumenti salariali;
  • Riduzione della settimana lavorativa a quaranta ore;
  • Concessione di quindici giorni di ferie pagate.

Tale politica portò elevati contraccolpi all’economia francese. L’improvvisa crescita del costo del lavoro diminuì la competitività dei prodotti innescando un processo inflazionistico che vanificò in gran parte gli aumenti salariali. Osteggiato apertamente dai borghesi e industriali il governo Blum si trovò isolato e costretto a dimettersi nel ’37 senza essere riuscito a realizzare un progetto organico.
In questo panorama, la paura di una nuova guerra era più temuta di quella di un nuovo rafforzamento tedesco, anche perché si sentivano protetti da una struttura militare invalicabile, La Linea Maginot.

 

113 L’IMPERO BRITANNICO TRA LE DUE GUERRE MONDIALI

Fra le due guerre mondiali, la crisi dell’egemonia europea sugli altri continenti subì una brusca accelerazione, le due maggiori potenze coloniali, Gran Bretagna e Francia, s’illusero di potere continuare a svolgerla.
Le potenze europee, esaurite militarmente e in profonda crisi economica non avevano più le risorse necessarie a mantenere il controllo sugli sterminati possedimenti. Per tutto il corso della Grande Guerra avevano dovuto utilizzare i propri territori coloniali per ricavare materie prime e ottenere uomini da mandare al fronte. Il contatto con nuovi uomini e nuovi ideali democratici, nonché le rivendicazioni di credito dei soldati contribuirono notevolmente allo sviluppo dei movimenti indipendentisti in Asia e Africa. Non secondario fu il contributo della Rivoluzione russa su molte popolazioni. Pur nelle sue storture, quella sovietica era una rivoluzione che aveva lasciato larghe autonomie amministrative ai territori non russi innalzando la bandiera antimperialista e sostenendo apertamente i movimenti anticoloniali.
Per converso, un’ulteriore spinta alle nuove idee venne anche dalla Dottrina Wilson che incoraggiava ai popoli il diritto d’autodeterminazione
Per questo, fra le potenze coloniali, la Gran Bretagna comprese per prima la necessità di ridimensionare i propri domini territoriali; infatti, già dagli anni 20 allentò i vincoli dei paesi d’oltremare con la madre patria. Questo si manifestò apertamente nell’abbandono politico dei territori dell’Iraq e della Giordania, e alla rinuncia del protettorato sull’Egitto che nel ‘36 ottenne la totale indipendenza (nel ’22 era diventato Regno autonomo protetto), alla Gran Bretagna rimase comunque il controllo del canale di Suez.
Un altro esempio della smobilitazione dell’Impero Britannico fu rappresentata dalla Conferenza Imperiale di Londra nel ’26 durante la quale i dominions bianchi (Canada, Sud Africa, Australia) che già godevano di una condizione di semi indipendenza furono riconosciute come comunità autonome unite solo dal vincolo di fedeltà alla corona d’Inghilterra, e liberamente associate al Commonwelth (federazione fra stati che sarebbe servita per assicurare una serie di legami economici e istituzionali).
Il paese in cui il processo d’emancipazione fu più contrastato e drammatico fu l’India. Questo perché era il paese più importante sul piano economico e strategico. Da una parte consistente della leadership inglese il controllo era ancora considerato essenziale. Durante la Guerra Mondiale, l’India si era mostrata molto leale alla corona e aveva mandato risorse umane a combattere in continente forte delle promesse inglesi di un graduale processo d’autogoverno. Quando queste promesse furono molto rallentate i movimenti nazionalisti fecero sentire la loro voce. Quando nel ’19, ad Amristar, le truppe inglesi repressero sanguinosamente un’insurrezione popolare, l’abisso fra colonizzatori e colonizzati ritorno grande. Dal ’20 in seno al Congresso Nazionale Indiano riscosse sempre maggiore successo Mhoandas Ghandi, leader di un forte movimento indipendentisti contrario alla violenza. Al suo credo non-violento Ghandi accompagnava un rifiuto totale al collaborazionismo con i colonizzatoriGhandi acquistò in breve tempo una grande popolarità e fece del nazionalismo indiano un autentico movimento di massa. Allo sviluppo del movimento gli inglesi risposero alternando repressione a concessioni. Le mire indipendentiste indiane furono a poco a poco accontentate grazie ad una lotta onerosa dello stesso Ghandi che porteranno all’indipendenza nel 1947.

 

114 NAZIONALISMO E COMUNISMO IN CINA TRA LE DUE GUERRE MONDIALI

 

Gli effetti della Prima Guerra si fecero sentire anche in Cina e Giappone.
Mentre il Giappone si era consolidata come potenza imperialista, economicamente forte e militarmente aggressiva, la Cina fu lacerata da una lunga e sanguinosa guerra civile. Dopo la proclamazione della repubblica, il Generale Yuan Shi-kai istituì un regime autoritario nel 1913, ma non riuscì a riportare la tranquillità nel paese. Venuto meno il controllo imperiale, la Cina era in uno stato di semianarchia. Il governo non aveva forza sufficiente per imporsi nelle province, né per opporsi al Giappone che mirava a sostituirsi alle potenze europee nel controllo delle zone più ricche del paese.
La decisione d’intervenire nel conflitto mondiale con l’Intesa, nel ’17, non servì a mutare la situazione ma la peggiorò. A Versailles fu riconosciuto al Giappone il diritto a subentrare alla Germania nel protettorato delle zone più ricche del paese. Quest’ennesima umiliazione ebbe l’effetto di risvegliare l’orgoglio nazionalista che si raccolse attorno al leader che l’aveva condotta alla rivoluzione: Sun Yat-sen.
Nel ‘19 scoppiarono tumulti prima nelle università e poi nelle città, provocate da giovani intellettuali e borghesia industriale, insofferenti all’invadenza straniera.
La rivolta di Sun Yat-sen, vide la proclamazione di un Governo a Canton nel 21, che trovò l’appoggio del neonato partito comunista (fondato nel 21 da un gruppo d’intellettuali guidati da Mao Tse-tung). La stessa Russia, in alla nuova formazione d’orientamento comunista inviò aiuti militari ed conomici a Canton.
Ma l’alleanza tra nazionalisti e comunisti non sopravvisse alla morte di Yat-sen, il successore Chang Kai-shek, meno aperto alle riforme e più diffidente verso i comunisti, nel ’26 marciò alla testa del proprio esercito con l’intento di riunificare il scacciando il governo di Pechino. Prima di riuscire nel suo intento, quando nel ’27 a Shangai la milizie operaie indipendenti liberarono da sole la città, Kai-shek le affrontò e sconfisse. La guerra interna tra gli indipendentisti vide una sterzata repressiva in favore dei nazionalsisti e la messa fuorilegge del partito comunista.
Il nuovo governo nazionalista cercò d’organizzare l’economia su modelli occidentali, ma il progetto si sarebbe dimostrato inadatto ad una realtà ancora impreparata, in un territorio immenso e estremamente frammentato. E mentre si consumava la parabola del governo nazionalista il partito comunista si stava riorganizzando.
Nel ’31 fruttando un incidente di frontiera i Giapponesi invasero la Manciuria.  L’inerzia di Chang kai-shek e il disinteresse della Società delle Nazioni diedero nuova linfa ai comunisti che divennero gli unici difensori degli interessi nazionali. Decisiva per il partito si rivelò la strategia contadina di Mao tze-tung, che indicava nelle masse rurali il protagonista del processo rivoluzionario.
I comunisti raccolsero consensi dai contadini e formarono una Repubblica Sovietica Cinese in una zona del paese. La reazione del governo di Chang kai-shek fu di preferire di concentrare i propri sforzi militari per la repressione dei comunisti, anziché organizzare una resistenza anti giapponese. Tra il ’31 e il ’34 investiti da una violenta offensiva dei regolari, i comunisti dovettero abbandonare le posizioni e dopo una LUNGA MARCIA riuscirono a riorganizzarsi in una regione settentrionale. Mao Tse-tung era riuscito a salvare il nucleo dirigenziale comunista e a mantenere viva la Repubblica Sovietica nelle zone in cui era più sentita la minaccia giapponese. Quando nel ’36 Chang kai-shek decise di attaccare nuovamente dovette scontrarsi con una parte dell’esercito che chiedeva la riunificazione in funzione anti giapponese. Si giunse così ad un accordo nel ’37 fra nazionalisti e comunisti per un Fronte Unito.
Ma quando i giapponesi sferrarono un nuovo violento attacco a tutto il territorio, la resistenza accanita non fu sufficiente ad impedire la sconfitta.
Nel ’39 il Giappone occupava una grossa fetta del territorio cinese.
Da questo momento le vicende cino-giapponesi s’intrecciarono con la seconda guerra.

 

 

115 IL GIAPPONE TRA LE DUE GUERRE MONDIALI

Con la partecipazione alla Grande Guerra, il Giappone aveva consolidato in sede internazionale la sua posizione di principale potenza asiatica.
La rigida gerarchia della classe dirigente, che aveva visto la coalizione di tutte le classi sociali altolocate (industriali, borghesi e ricchi contadini), il dinamismo economico, la crescita demografica esaltò il nazionalismo, spingendo il governo ad una politica imperialista con campo d’azione il Pacifico e l’Asia Orientale.
Anche nel paese del Sol Levante il percorso istituzionale seguì quello degli altri stati occidentali, da un sistema rappresentativo liberale, la deriva politica portò ad un’estremizzazione nazionalista sullo stampo dei sistemi di governo autoritario. Alla fine degli anni ’20 il processo fu favorito dalla crisi economica, che investì il mondo e dai successi dei partiti comunisti e socialisti. Cominciò così una stagione che avrebbe portato ad un crescente autoritarismo, che in un primo momento non sfociò in un fascismo esplicito, anche se un tentativo di colpo di stato fu duramente represso nel ’36, ma si risolse in una chiusura ad ogni forma d’opposizione democratica legale.
Il processo fu consentito dall’ascesa al trono imperiale di Hiroito nel ’26, che si dimostrò particolarmente favorevole alla politica imperialista che avrebbe portato alla guerra contro la Cina e all’avvicinamento alle potenze occidentali nazifasciste.

 

116 LA PERSECUZIONE DEGLI EBREI

La persecuzione degli ebrei ha radici storiche radicate. Richiamandosi alle teorie del francese De Gobineau esposte nel “Saggio sull’ineguaglianze delle razze umane” si mostrò nella forma più brutale, quando Hitler assunse il potere nei primi degli anni ‘30.
Il Fuhrer usò gli ebrei come capro espiatorio per le responsabilità sulla crisi economica. Benché un sentimento antisemita fosse generalizzato, per Hitler gli ebrei erano considerati nemici interni. Un po’ ovunque erano già perseguitati a causa della dello status di popolo senza patria. Oltre ad essere una comunità molto unità, dotata di una solida identità, storia cultura erano considerati particolarmente scomodi a qualsiasi sistema autoritario. Sparsi per tutta l’Europa, gli ebrei avevano sempre avuto notevole difficoltà d’integrazione con le popolazioni locali e per loro natura e cultura, riuscivano sempre a collocarsi nelle posizioni più rilevanti. In Germania gli ebrei non erano molto numerosi e vivevano per lo più nelle grosse città e occupavano posizioni strategiche nella società. L’estrema parsimonia delle popolazioni ebree fu considerata un po’ in tutto il mondo come avarizia e virulenza.
La propaganda antisemita dei nazisti riuscì a risvegliare nella gente un sentimento d’ostilità dovuto alla diversità etnica e religiosa. La discriminazione incominciò con alcune limitazioni alla frequenza scolastica e a certe professioni; fu ufficializzata quindi nel 1935 con le leggi di Norimberga che tolsero agli ebrei i diritti civili e di cittadinanza, impedivano inoltre la celebrazione di nozze tra ariani ed ebrei. La scintilla che fece esplodere la già debole tregua fra ebrei e nazisti scoccò nel ’38, con l’uccisione di un diplomatico tedesco per mano di un ebreo a Parigi. L’episodio diede un’accelerazione alla repressione che già tempo il popolo tedesco esercitava. Nella notte tra il 9 e il 10 Novembre ‘38 fu organizzato un gigantesco pogrom in tutta la Germania - “la notte dei Cristalli”- con una sistematica distruzione di negozi, sinagoghe e abitazioni d’ebrei. Durante l’escalation hitleriana gli israeliti furono dapprima emarginati, poi discriminati, quindi privati dei beni, deportati, sfruttati e sottoposti alla “soluzione finale”, cioè l’eliminazione fisica.

 

117L’ITALIA IN GUERRA: VICENDE MILITARI, «FRONTE INTERNO»1915-1917

All’entrata in guerra, nel Maggio ‘15, l’idea è che sarebbe stata breve e indolore, ma la realtà disilluse le attese. Sul confine orientale le truppe austriache si attestarono sull’Isonzo e sul Carso. Contro di loro le truppe italiane, comandate dal generale Cadorna, sferrarono quattro offensive militari senza riuscire a cogliere alcun successo. Dopo avere perso numerosi militari l’esercito italiano si trovava nelle stesse posizioni da cui avevano preso il via le operazioni militari. Una situazione analoga si era creata sul fronte francese per tutto il 1915. La guerra aveva lo stesso carattere che aveva assunto sugli altri fronti: la guerra di trincea.
Nel Giugno 1816 l’esercito austriaco passò all’attacco penetrando dal Trentino (Starfexpedition - spedizione punitivaper il tradimento dell’ex-alleato), gli italiani, benché colti di sorpresa, riuscirono ad arrestare il nemico sugli altipiani d’Asiago e poi a contrattaccare.
Il contraccolpo della nuova sconfitta militare fu durissimo. Il capo del governo Salandra, fu costretto alle dimissioni, sostituito da Paolo Boselli.
Nonostante il cambiamento al vertice della politica le vicende militari non migliorarono, nel ‘16 furono combattute altre cinque battaglie sull’Isonzo senza modificare il corso del conflitto.
Anche le popolazioni civili furono investite dal cieco cambiamento della guerra. In economia il settore maggiormente interessato fu quello dell’industria pesante che doveva rifornire gli eserciti, evidenziando una forte connivenza tra grandi industrie e lo Stato che era il più grosso cliente. Molte industrie furono sottoposte al controllo diretto dello Stato. La manodopera fu ovunque sottoposta a disciplina creando una specie di militarizzazione della società”. L’intera società fu affiancata all’esercito nello sforzo bellico nell’intento di creare un “fronte interno” per appoggiare l’Italia.

 

118 IL 1917 – 1918: DA CAPORETTO A VITTORIO VENETO

Il 1917 per l’Italia fu l’anno più difficile. Fra Maggio e Settembre, Cadorna ordinò una serie d’offensive sull’Isonzo, che procurò molti morti e pochi risultati. Il malumore serpeggiò tra i soldati e si fecero più frequenti gli episodi d’insubordinazione mentre nella popolazione civile scoppiavano moti insurrezionali per le condizioni economiche.
Nell’Ottobre del ’17, approfittando della convulsa situazione interna le truppe nemiche sferrarono un nuovo attacco sull’alto Isonzo riuscendo a sfondare nei pressi di Caporetto. Gli austriaci penetrarono in profondità nel territorio italiano. L’esercito italiano, non senza gravi perdite, riuscì a riposizionarsi sulla linea del Piave. L’episodio portò alla sostituzione di Cadorna col generale Diaz, che si dimostrò più comprensivo con i soldati e in grado di ricompattare le fila dell’esercito, tanto da permettere di rifarsi, combattendo coraggiosamente sul Piave e sul Monte Grappa impedendo all’esercito austriaco di arrivare in Pianura Padana.
La disfatta di Caporetto finì per avere delle ripercussioni positive sull’esercito, trovarsi sulla difensiva nel proprio territorio, finì col rianimare il patriottismo.
Attorno ad un nuovo governo di coalizione di V. Emanuele Orlando, anche lo schieramento politico si ricompattò, trovando la solidarietà dei socialisti di Turati.
Intanto, mentre per la Germania le sorti del conflitto sembravano volgere alla sconfitta, e cominciavano ad esserci delle spaccature politiche all’interno del paese, finivano col ripercuotersi parimenti sull’Austria. L’esercito Italiano approfittò della situazione per lanciare un’offensiva sul Piave il 24 Ottobre 1918, che vide la vittoria italiana nella battaglia di Vittorio Veneto. Agli austriaci non rimase che firmare l’armistizio a Villa Giusti, presso Padova il 4 Novembre 1918.

 

119 L’ITALIA NEL 1919: TENSIONI SOCIALI, NUOVI PARTITI, ELEZIONI POLITICHE

 

Con la vittoria della Guerra, l’Italia aveva superato la sua prova più impegnativa della sua storia unitaria, ma restava alle prese con mille problemi.
L’economia era a pezzi, e aveva i tratti tipici della crisi post-bellica, con uno sviluppo abnorme d’alcuni settori e un deficit gravissimo. La classe operaia, tornata ai propri lavori ed infiammata dalla rivoluzione russa, chiedeva a gran voce miglioramenti economici e maggiori tutele giuridiche sui posti di lavoro. I contadini tornavano dal fronte al centro sud con una maggiore consapevolezza dei propri diritti decisi ad ottenere dei vantaggi dalla gloriosa prestazione bellica.
Questi problemi erano comuni in tutto il vecchio continente, ma in realtà come quella inglese e francese, dove le istituzioni economiche e politiche erano più moderne e strutturate gli influssi negativi si fecero sentire in modo attenuato.
In Italia, lo stesso modo con cui si era arrivati alla guerra aveva provocato una grossa frattura in seno alla classe liberale, che si trovò ormai sempre più contestata ed isolata e non riuscì a dominare i fenomeni di mobilitazione di massa nati dal conflitto. Risultarono quindi favorite le forze socialiste e cattoliche che erano rimaste estranee al declino liberale.
I cattolici portarono il primo e più importante fattore di novità costituendo il Partito Popolare Italiano PPI nel 1919. Ebbe il suo padre riconosciuto in Don Sturzo e si presentava con un programma democratico moderato. La sua nascita era stata favorita dal nuovo atteggiamento della Chiesa che cercava in questo modo d’arginare il rafforzamento socialista-comunista. La nascita del partito rappresentò una svolta positiva per la democrazia italiana.
Dall’altra parte della barricata si registrò una crescita impetuosa del partito socialista, con una prevalenza ormai schiacciante della corrente di sinistra detta Massimalista. Il suo leader era Gacinto Menotti e professava il credo comune alla causa comunista sovietica. Nella realtà l’estremismo di sinistra italiano era molto più moderato di quello bolscevico, ma non mancarono correnti che s’ispiravano alla Madre Russia. Fra questi citiamo la rivista “Ordine Nuovo” guidata da Antonio Gramsci che agiva a diretto contatto con i gruppi operai. Ma la radicalizzazione di queste idee finì con isolare i rivoluzionari e ridurne i margini d’azione politica, e precludendo al presto del partito socialista ogni possibile collaborazione con le altre forze moderate.
Un errore molto grave fu effettuato attraverso la condanna indiscriminata con tutto ciò che aveva avuto a che fare con la guerra e col patriottismo nazionalismo che aveva portato a scatenarla. Questo fornì lo spunto ai gruppi oltranzisti nazionalisti per difendere i valori della vittoria. Fra questi ultimi movimenti faceva spicco quello fondato nel ’19 da Benito Mussolini, col nome di Fasci di Combattimento. Politicamente si dichiarava di sinistra e proponeva audaci riforme sociali, ma nel contempo ostentava una feroce avversione per i socialisti. All’esordio il primo embrione del fascismo raccolse scarse ed eterogenee adesioni, ma si fece notare da subito per il suo stile violento, insofferente ai vincoli ideologici e proteso all’azione diretta.
I fascisti furono protagonisti del primo episodio politico di violenza. Nell’Aprile del ‘19 si scontrarono con un corteo socialista e appiccarono il fuoco alla sede dell’Avanti.
Fra il ’19 e il ’20 in coincidenza con l’impresa di Fiume, l’Italia attraversò una fase di convulse agitazioni e di profondi mutamenti negli equilibri politici e sociali. In questo periodo ci furono numerosi tumulti dovuti al caro-vita tipico dell’economia post-bellica. La situazione vide l’aumento generalizzato degli scioperi, che interessarono, per la prima volta, settori che erano rimasti immuni, come quello dei servizi pubblici.  Se a queste sommiamo un’elevata quantità d’agitazioni anche dei lavoratori agricoli, la situazione che se n’ottenne fu d’estremo disordine. Il panorama delle agitazioni post-belliche era perciò estremamente privo di collegamento reciproco. In seno all’opinione pubblica cominciò a serpeggiare il malcontento.
Le prime elezioni del dopoguerra, nel Novembre ’19, col metodo proporzionale, videro la vittoria dei socialisti un margine esiguo sul Partito Popolare Italiano. Con questo modo era sanzionata la fine del vecchio sistema di governo, ma si apriva un nuovo problema di governabilità, perché con il sistema proporzionale diventava impossibile avere una maggioranza capace di governare con efficacia.

 

120 IL RITORNO DI GIOLITTI, LA QUESTIONE DI FIUME E L’OCCUPAZIONE DELLE FABBRICHE.

 

Dal conflitto mondiale l’Italia era uscita rafforzata, ma la dissoluzione dell’impero asburgico provocò una serie di problemi che non erano stati previsti al momento della stipulazione del Patto di Londra. In questo trattato era stato posto in essere che la Dalmazia, abitata prevalentemente da popolazioni slave, sarebbe passata all’Italia, mentre la città di Fiume, abitata prevalentemente da italiani, sarebbe rimasta all’impero. All’Italia si poneva il quesito di vedere se rimanere ancorati ai vecchi patti internazionali, o abbracciare i nuovi principi di “politica delle nazionalità”. Nella sostanza: sfruttare l’amicizia con la Jugoslavia per rinunciare alla Dalmazia e richiedere Fiume?
La delegazione italiana a Versailles capeggiata da Sonnino e Orlando preferirono optare per la scelta meno adatta: richiesero Fiume senza volere cedere la Dalmazia. Trovarono subito molti oppositori, tra i quali il presidente americano Wilson. Non vedendosi accontentare i due diplomatici italiani abbandonarono il congresso. L’insuccesso provocò la fine del governo Orlando, al quale successe Francesco Saverio Nitti. Questi si trovò a dovere affrontare una situazione alquanto difficile, soprattutto perché l’opinione pubblica era amareggiata perché aveva visto nella questione di Fiume un tentativo degli alleati di volere defraudare l’Italia della vittoria.  La classe dirigente fu giudicata molto duramente, per una scelta che di per sé era sbagliata come principio, e fu accusata d’essere incapace di tutelare gli interessi del paese. Si parlò allora di “vittoria mutilata”, espressione coniata da Gabriele D’annunzio, che scatenò violente proteste. L’episodio più clamoroso si verificò nel Settembre ’19, quando alcuni reparti militari ribelli, assieme a gruppi volontari al comando di Gabriele D’Annunzio occuparono la città di Fiume, posta momentaneamente sotto il controllo internazionale, e ne dichiararono l’annessione all’Italia. L’esperienza di Fiume durò quindici mesi e si tramutò in un’inedita esperienza politica. D’Annunzio assunse la reggenza della città e organizzò numerosi convegni cui parteciparono personaggi più disparati: alti ufficiali, politici in cerca di fortuna, razionalisti e sovversivi. A Fiume maturò un piano, mai attuato, che avrebbe voluto organizzare una marcia su Roma.
Vista la crisi istituzionale in atto nel paese, nel 1920 fu richiamato a capo del governo Giovanni Giolitti. Rimasto ai margini della politica negli anni della Guerra era tornato con un programma molto avanzato in cui proponeva tra le altre cose:

  • la nominatività dei titoli azionari;
  • un’imposta straordinaria sui sovrapprofitti realizzati dall’industria bellica.

Le preoccupazioni nei settori conservatori per quest’indirizzo passarono in secondo piano per la speranza che lo statista riuscisse a domare i socialisti. I risultati più importanti li ottenne comunque in politica estera, imboccando l’unica strada possibile, quella del negoziato con la Jugoslavia, per risolvere la questione adriatica. Nel novembre 1920 con la firma del trattato di Rapallo durante la quale si stabilì che:

  • l’Italia avrebbe conservato Trieste e Gorizia e tutta l’Istria;
  • la Jugoslavia avrebbe avuto la Dalmazia,
  • Fiume sarebbe stata dichiara città libera.

L’opinione pubblica fu generalmente favorevole all’accordo, ma Gabriele D’annunzio non ritirò l’occupazione. Nel dicembre ’20 dovette desistere ed abbandonare la città a causa di un attacco da terra e dal mare delle truppe regolari.
Molto più complicate furono le problematiche della politica interna. Il governo impose la liberalizzazione del prezzo del pane nonostante le proteste dei socialisti, avviando così il risanamento del bilancio. Ma non riuscì a rendere operativi i progetti sulla tassazione dei titoli azionari e sui profitti delle industrie di guerra. Ma a fallire fu il disegno politico complessivo dello statista che consisteva nel contrastare le spinte rivoluzionarie dei socialisti accontentandoli marginalmente. L’esperienza che aveva vissuto alla fine del secolo precedente non era più ripetibile perché la spaccatura istituzionale aveva creato dei governi estremamente difficili da governare. La situazione era ormai difficilissima e le condizioni economiche al limite dell’accettabile. Così nell’estate del ’20 una nuova agitazione dei metalmeccanici porterà all’occupazione delle fabbriche. La nuova vertenza vedeva fronteggiarsi le realtà sociali di punta della realtà: i grandi imprenditori ingranditi dall’affare guerra e il movimento operaio rafforzato dai risultati elettorali.

121 LA NASCITA DEL PCI: RADICI SOCIALI E POLITICHE E INFLUENZE INTERNAZIONALI

Con l’occupazione delle fabbriche, lo scontro sociale si era radicalizzato e non lasciava presagire nulla di buono. Il sindacato dei metalmeccanici, la FIOM (Federazione Italiana Operai Metallurgici), fuori dai canali sindacali ufficiali, aveva organizzato dei consigli di fabbrica che avrebbero dovuto agire come equivalenti dei soviet russi. Fu il sindacato a dare inizio alla vertenza presentando una serie di richieste economiche e normative, cui gli industriali posero un netto rifiuto. Alla fine d’Agosto del ’20 gli aderenti FIOM occuparono le fabbriche, e cercarono, ove possibile, di proseguire il lavoro da soli. L’idea di collegarsi all’esterno per ingenerare un movimento rivoluzionario allargato non riuscì. Prevalse quindi la linea prettamente sindacale di portare avanti le richieste economiche e che proponevano il controllo sindacale sulle aziende. Il Governo Giolitti era restato alla porta e non aveva acconsentito alle richieste del padronato d’intervenire con la forza per liberare le fabbriche. Il 19 Settembre il Giolitti riuscì a fare accettare ai riluttanti industriali un accordo che accoglieva parte delle richieste economiche e affidava ad una commissione paritetica il compito d’elaborare un progetto di controllo sindacale.
Se dal punto economico-sindacale fu una vittoria degli operai, da un altro l’eroicità degli operai fu annacquata di molto. La situazione vedeva un malcontento generalizzato:

  • I socialisti intransigenti vedevano fugati i loro sogni rivoluzionari;
  • Gli industriali non nascosero la loro irritazione per le concessioni;
  • La borghesia si trovava spiazzata sulla direzione da scegliere per le mosse future.

L’esito dell’occupazione delle fabbriche lasciò nelle fila del movimento operaio uno strascico di polemiche e recriminazioni. I dirigenti riformisti della CGL erano accusati di aver svenduto la rivoluzione in cambio di un accordo sindacale; la direzione massimalista del PSI era sotto accusa da parte dei gruppi di estrema sinistra, per il comportamento incerto che aveva tenuto nella vicenda. Tali polemiche finirono con l’intrecciarsi con le fratture provocate dal II Congresso dei Comitern. Le condizioni per l’ammissione dei partiti operai all’internazionale comunista suscitarono molte polemiche. I punti controversi furono due:

  • i partiti aderenti dovevano assumere la denominazione di Partito comunista;
  •  dovevano essere espulsi tutti gli elementi riformisti e centristi del partito.

I massimalisti rifiutarono queste condizioni perché ritenute lesive dell’autonomia del Partito (e anche perché consci che espellendo i riformisti e i moderati avrebbero perso numerosi consensi, nonché molti quadri). Così al congresso di partito a Livorno, nel 1921, non solo i riformisti non furono espulsi, ma fu invece la minoranza di sinistra a dovere abbandonare il PSI. Così da questa costola del partito socialista fu fondato il Partito Comunista D’Italia. La nuova formazione politica, nasceva con un programma fortemente leninista, proprio nel momento in cui la prospettiva rivoluzionaria andava dileguandosi in Italia e in Europa.
D’altro canto il partito Socialista non trovò alcun beneficio dallo scisma, perché la minoranza riformista rimase sempre succuba dei massimalisti che rifiutavano qualsiasi collaborazione con le forze borghesi, acuendo i sentimenti contrari di quelle fazioni anticomuniste e antisocialiste che facevano la loro apparizione sul panorama internazionale.

 

122 IL FASCISMO DA MOVIMENTO A PARTITO: LA REAZIONE AGRARIA

L’occupazione delle fabbriche e lo scisma di Livorno, da cui nacque il partito Comunista, segnarono la fine del Biennio Rosso. Provata da due anni di lotte, la classe operaia cominciò ad accusare i colpi della crisi che stava investendo l’economia, che si tradusse in un aumento della disoccupazione e una conseguente perdita di potere contrattuale per i lavoratori. In questo quadro s’inserì un fenomeno che non aveva riscontro in nessun altro paese, ebbe origine nelle campagne e prese il nome di Fascismo Agrario. Sino al ‘20 il fascismo aveva ottenuto poco successo nella vita politica italiana, ma agli inizi del ‘21 il partito subì un processo di mutazione, che lo portò ad accantonare il vecchio programma radical–democratico e fondarsi su strutture paramilitari – le squadre d’azione - per puntare alla lotta contro il movimento socialista ed in particolare sulle organizzazioni contadine padane.
Lo sviluppo del fascismo agrario si sviluppò soprattutto nella Pianura Padana. In questo territorio le leghe socialiste avevano vinto aspre battaglie e ottenuto notevoli miglioramenti salariali, riuscendo a strutturare un “sistema” apparentemente inattaccabile. Attraverso i loro uffici di collocamento contrattavano direttamente con i proprietari. I socialisti disponevano anche di una fitta rete di cooperative e avevano in mano le amministrazioni comunali. Questo sistema non era privo d’aspetti autoritari legati all’appartenenza ideologica, pertanto i non iscritti al partito erano discriminati. La politica di queste nuove strutture mirava a tutelare prevalentemente i contadini, emarginando le classi intermedie, come mezzadri, fittavoli, ecc, che volevano migliorare. Queste discrepanze aprirono le strade alla nascita del fascismo agrario.
L’atto di nascita del Fascismo Agrario si fa risalire ai Fatti di Palazzo d’Accursio, a Bologna, il 21 Novembre ’20. I fascisti si mobilitarono nell’occasione per impedire l’insediamento della nuova amministrazione comunale socialista. Vi furono dei violenti scontri e per un tragico errore i socialisti spararono sulla folla, composta da parecchi sostenitori, causando alcuni morti. Dal fatto i fascisti trassero l’occasione per scatenare una serie di ritorsioni antisocialiste. I socialisti furono presi di sorpresa perché impreparati alla violenza d’azione dei fascisti; la loro vulnerabilità aumentò l’audacia degli squadristi. I proprietari terrieri e le classi mediane videro nella nuova formazione lo strumento per combattere i socialisti e le leghe ed incominciò a sovvenzionarli lautamente. Il fascismo vide rapidamente aumentare le proprie file: ufficiali smobilitati che faticavano a reinserirsi nel mondo civile, figli della piccola borghesia alla ricerca del successo, giovani nazionalisti infervorati dalla vittoria bellica pronti a combattere una nuova guerra per la patria in funzione antisocialista. Nel giro di pochi giorni LO SQUADRISMO dilagò in tutte le province padane, pressoché immune da contagio fascista rimase il Mezzogiorno. L’offensive squadriste avevano le stesse caratteristiche:

  • partivano sui camion dalle città alla volta delle campagne;
  • miravano, municipi, case del lavoro, sedi delle leghe rosse e case del popolo;
  • provvedevano ad incendiarle prima di tornare alla base.

Parte delle amministrazioni padane furono costrette a dimettersi, molte leghe furono sciolte e i loro aderenti furono costretti a passare nelle file fasciste.
Il successo fascista non è spiegabile solo con fattori d’ordine militare, il fatto è che i socialisti si trovarono a combattere una battaglia impari contro un nemico che godeva di mezzi e strategie favorevoli e godeva di un notevole margine d’impunità istituzionale. La classe dirigente aveva più volte mostrato simpatia per i fascisti perciò quasi mai la forza pubblica si oppose alle “operazioni squadriste”. La stessa magistratura usò criteri molto diversi da quelli usati con gli estremisti di sinistra.
Lo stesso capo del Governo, Giovanni Giolitti, cercò di servirsi del fascismo per tamponare il rafforzamento socialista, convinto di poterlo successivamente istituzionalizzare riportandolo sui binari della legalità e all’interno di una realtà liberale. In questa strategia s’inquadrò la decisione di convocare nuove elezioni per il ’21, favorendo l’inserimento dei fascisti nei cosiddetti “blocchi nazionali cioè nelle liste di coalizione liberale. In questo modo i fascisti ottennero la legittimazione della classe dirigente che ancora gli mancava. La campagna elettorale finì con dare loro lo spunto per intensificare la campagna intimidatoria contro gli avversari. Ciononostante le urne delusero chi aveva proposto le elezioni:

  • i socialisti subirono solo una lieve flessione;
  • la coalizione liberal-democratica guadagnò non a sufficienza per governare
  • i fascisti fecero la loro prima apparizione in Parlamento capeggiati da Benito Mussolini.

La situazione mise fine al governo Giolitti che si dimise ad inizio luglio, al suo posto s’insediò Ivanoe Bonomi, il quale, per porre fine alla guerra civile tra fascisti e socialisti, fece firmare un patto di pacificazione tra le due parti nell’Agosto del ‘21. I fascisti accettarono di sciogliere le loro “squadre d’azione”, così come i socialisti s’impegnarono a fare lo stesso con gli arditi del popolo” (gruppi militanti nati per contrapporsi efficacemente alle controparti). Quest’accordo finì per favorire la strategia politica di Mussolini che mirava ad inserirsi nel tessuto politico italiano e temeva il diffondersi di una reazione polare contro lo squadrismo. Questo nuovo indirizzo non era però gradite dai fascisti intransigenti che si riconoscevano nello squadrismo agrario e nei suoi capi locali, i cosiddetti RAS. Gli strappi tra i RAS e Mussolini si ricucirono nel CONGRESSO DEI FASCI tenutosi a Roma, in cui Mussolini si rese conto di non potere prescindere dall’urto squadrista e i RAS riconobbero la leadership del futuro Duce accettando la trasformazione del movimento in un vero e proprio partito: nasce il Partito nazionale fascista PNF.

 

123 DAL GOVERNO BONOMI AI GOVERNI FACTA ED ALLA MARCIA SU ROMA

Mentre il partito fascista acquistava forza e compattezza, si consumava la parabola del governo Bonomi per far posto nel febbraio 1922 a Luigi Facta giolittiano dalla personalità sbiadita. Il ministero Facta segnò la fine del governo liberale finendo col dare ulteriore spazio alla dilagante violenza squadrista, che si fece promotrice di operazioni sempre più ampie e clamorose come l’occupazione armata di grandi città come Ferrara, Bologna, Cremona.
I socialisti davanti all’offensiva dei fascisti non seppero opporre risposte efficaci, né sul piano della tattica parlamentare, né su quello della mobilitazione di massa. Disastrosa fu la scelta dei sindacati d’indire uno sciopero generale legalitario per la giornata del 1Agosto ’22. I fascisti poterono cogliere l’occasione per atteggiarsi a custodi dell’ordine e per lanciare una nuova e violenta offensiva contro il movimento operaio. Furono attaccate le roccaforti proletarie di Milano, Genova e Livorno. Parma fu l’unica città in cui la popolazione resistette validamente all’attacco squadrista. Il movimento operaio usciva da questa prova materialmente e moralmente distrutto, e all’interno del partito socialista stesso ci fu un’ennesima scissione: nell’Ottobre ’22 i socialisti di Turati abbandonavano il PSI per dare vita al Partito Socialista Unitario PSU.
Assicuratosi il controllo della piazza e sbaragliato il movimento operaio, il fascismo si poneva il problema della conquista dello stato. Solo assumendo il potere il partito avrebbe potuto accontentare le masse d’aderenti che erano diventate ormai ingenti ed evitare un probabile rigetto da parte delle forze moderate, che incominciavano a vedere di malocchio lo squadrismo che, ora che il movimento operaio era stato ridimensionato, era considerato anacronistico.
Come sempre Mussolini incentrò la sua politica per arrivare al potere su due fronti: da una parte intrecciò trattative con tutti i più autorevoli esponenti liberali e rassicurando la monarchia sconfessando le passate simpatie repubblicane si guadagnò l’appoggio degli industriali annunciando di volere restituire spazio all’iniziativa privata. preparando un colpo di stato; dall’altra lasciò che l’apparato militare del partito si rinforzasse al fine di preparare un vero e proprio colpo di stato. Cominciò a prendere corpo l’idea della marcia su Roma.
La mobilitazione delle milizie fasciste per marciare sulla capitale fu fissata per il 28 Ottobre ’22, ma lo stesso Mussolini credeva poco in un autentico successo militare (le squadre fasciste difficilmente avrebbero potuto avere la meglio sull’esercito regolare), pensava di servirsi dell’iniziativa per far pressione politica su un governo già debole. In effetti, le dimissioni del ministro Facta proprio il 27 ottobre, dimostrò lo sfaldamento istituzionale che furoreggiava nel Paese. Il re, Vittorio Emanuele III, per evitare un’ipotetica guerra civile, il 28 Ottobre si rifiutò di firmare il decreto per la proclamazione dello stato d’assedio. Il rifiuto del sovrano aprì la strada per Roma alle camicie nere. Forte del risultato ottenuto, Mussolini non s’accontentò e il 30 ottobre pretese la convocazione del Re per assumere la carica di Capo del Governo.  Al nuovo gabinetto  parteciparono anche liberali, democratici e popolari.
I fascisti esultarono convinti di avere realizzato una rivoluzione che nella realtà era stata solo simulata, i moderati si rallegrarono per la ritrovata, secondo loro, tranquillità, e i rivoluzionari s’illusero che nulla fosse cambiato e che al governo si fosse ristabilita una leadership conservatrice come quella della destra storica. Pochi si accorsero dell’enorme cambiamento che avrebbe sconvolto il paese.

 

124. LA POLITICA ITALIANA DAL ’22 AL ‘25

Assunto il governo Mussolini continuò ad alternare linea dura a morbida. Ciò gli fu consentito anche e soprattutto per la miopia delle altre forze politiche, ed in particolare degli alleati liberali e cattolici, i cosiddetti fiancheggiatori. A dissolvere i dubbi non servì né il tono ricattatorio durante il dibattito sulla fiducia in Parlamento da parte di Mussolini, né i due provvedimenti che il partito fascista assumeva volontariamente contro ogni principio liberale. Nel Dicembre ’22 fu istituito il Gran Consiglio Del Fascismo con il compito d’indicare attraverso il Partito le linee generali dello Stato. Il governo attuò:

  • una politica di grande compressione salariale, mirando a restituire un ampio campo d’azione all’iniziativa privata imprenditoriale,
  • alleggerì le tasse alle imprese;
  • abolì il monopolio statale dell’assicurazioni sulla vita;
  • privatizzò il servizio telefonico.
  • ciontenne la spesa pubblica con uno sfoltimento del pubblico impiego.

Sul piano prettamente economico, la politica del Ministro dell’economia De Stefani, sembrò sortire alcuni risultati. Tra il ’22 e il ’25:

  • la produzione aumentò;
  • l’agricoltura migliorò il suo stato generale;
  • il bilancio dello Stato tornò in pareggio.

Nonostante questi risultati fossero da addebitare in parte agli ultimi ministeri liberali il fascismo ne uscì fortemente rafforzato.
Un sostegno importante nella gestione della politica interna, Mussolini lo ebbe dalla Chiesa Cattolica. Il nuovo Papa, PIO XI riprese una politica fortemente conservatrice, sostenendo apertamente il fascismo come l’unico partito meritevole dell’allontanamento del pericolo socialista. Mussolini, abbandonati i toni anticlericali degli esordi, fu prodigo di riconoscimenti per la Chiesa e si dimostrò disposto ad importanti concessioni. Così la Riforma della scuola, varata nel ’23 dal Ministro Giovanni Gentile andava molto incontro al mondo cattolico, perdendo parte di quell’indipendenza laica rivendicata nel 1870.
L’alleanza con la Chiesa, permise ai fascisti di liberarsi degli esponenti del Partito Popolare di Don Sturzo. Senza il più forte e scomodo alleato politico Mussolini ebbe allora la necessità di rafforzare la presenza in Parlamento. A tal fine questo varò, nel Luglio ’23, la nuove Legge Elettorale Maggioritaria. La legge avrebbe avvantaggiato vistosamente la lista che avesse ottenuto una maggioranza relativa di almeno il 25% dei voti. Quando nel ’24 le Camere furono sciolte numerosi esponenti liberali decisero di candidarsi nelle file del partito fascista.
Le forze antifasciste erano invece molto divise al loro interno, guidati da Giovanni Amendola si presentarono alle elezioni con liste separate.
Cosicché la vittoria fascista assunse proporzioni clamorose e la maggioranza fu schiacciante soprattutto al Sud e nelle isole, in quelle zone dove aveva radici minori, ma aveva attecchito con forza dopo l’entrata al governo. Il successo rafforzò ancora la figura di Mussolini e le speranze dei fiancheggiatori che speravano ancora in un’evoluzione liberale del fascismo. Quando le opposizioni sembravano inermi, due mesi dopo le elezioni, un evento tragico intervenne a mutare bruscamente lo scenario politico. Il 10 Giugno 1924 il deputato socialista Giacomo Matteoti fu rapito e ucciso da un gruppo di squadristi.Una decina di giorni prima dell’episodio, il deputato socialista aveva denunciato in Parlamento presunti brogli elettorali. Solo allora apparve chiaro al paese la sistematicità dei metodi fascisti. L’indignazione nell’opinione pubblica fu tale da consentire l’individuazione dei colpevoli, ma non i nomi dei mandanti dell’efferato delitto. Il fascismo si trovò improvvisamente isolato e tutto l’edificio della propaganda e del partito parve vacillare. Ma l’opposizione, troppo debole e minoritaria, non aveva alcuna possibilità di mettere in minoranza il governo, né sufficiente impatto per riportare la gente nelle piazze. L’unica iniziativa presa dall’opposizione fu di astenersi dai lavori parlamentari per riunirsi separatamente sino a quando non fosse ripristinata la legalità. La secessione dell’Aventino pur avendo un significato ideale non solo, non aveva alcun’influenza pratica, ma finiva con l’avvantaggiare ulteriormente la politica di Mussolini. Gli aventiniani sperarono in un intervento del Re, che non avvenne.
Per risolvere la questione di Matteotti, Mussolini sacrificò alcuni elementi del partito e accettò di dimettersi dal Ministero degli Interni. Dopo un paio di mesi di stasi, Mussolini decise di contrattaccare nuovamente e il 3 Gennaio ’25 ruppe ogni cautela legalitaria in Parlamento minacciando apertamente di usare la violenza contro le opposizioni.  Pochi giorni dopo una nuova ondata d’arresti e perquisizioni si abbatté sull’opposizione e sugli organi di stampa indipendenti, cosicché il delitto Matteotti anziché segnare la fine del regime, accelerò il processo di trasformazione del sistema da autoritario a dittatoriale.
La stampa e gli organi di comunicazione furono “fascisticizzati”. Nell’Ottobre ’25, il sindacalismo ottenne un colpo mortale con gli Accordi di Palazzo Vidoni con cui Confidustria riconosceva sola la rappresentanza dei sindacati fascisti.
Ma Mussolini non si accontentò e procedette alla promulgazione di nuove leggi destinate a stravolgere i connotati dello Stato liberale. Una serie di dubbi attentati al capo del governo permise il clima adatto per redigere un pacchetto di nuove leggi costituzionali, promosse da Alfredo Rocco:

  • nel Dicembre ’25 una legge costituzionale aumentò i poteri del capo del governo sugli altri ministri e sulle altre forme istituzionali in genere;
  • Aprile ’26 una legge sindacale proibì gli scioperi e stabilì che i contratti potevano essere sottoscritti solo dai sindacati legali (solo quelli fascisti);
  • Novembre ’26, una vera e propria raffica di provvedimenti – detti “Leggi fascistissime” – cancellò ogni minima traccia di vita democratica:
    • furono sciolti tutti i partiti;
    • soppresse tutte le pubblicazioni contrarie al regime;
    • dichiarati decaduti i deputati avventiniani;
    • reintrodotta la pena di morte per i reati contro la sicurezza dello Stato (reati politici). Per giudicare questi reati fu appositamente istituito un Tribunale speciale per la difesa dello Stato, composto ufficiali delle forze armate.

La dittatura del regime sarebbe stata completata dalla nuova legge elettorale del ’28 che introduceva il sistema della lista unica, che lasciava agli elettori la sola possibilità di approvarla o respingerla in blocco. La differenza tra il fascismo e gli altri regimi autoritari passati era che questo non s’accontentava di reprimere gli oppositori e controllare le masse, ma pretendeva d’inquadrarle in proprie organizzazioni.

 

125 IL FASCISMO: FORME E STRUMENTI DELLA REPRESSIONE DEL DISSENSO

 

La sistematica violenza, fu un elemento basilare che consentì a Mussolini di fare “evolvere” il suo pensiero, da movimento in partito sino a governo autoritario. Le squadre fasciste erano gruppuscoli formati da ex-ufficiali e reduci di guerra insoddisfatti del trattamento ricevuto per i servizi alla patria, figli di borghesi in cerca di fortuna e ultranazionalisti. Sobillati da Mussolini, individuarono nei socialisti e comunisti i nemici pubblici. Organizzarono quindi le loro scorribande in modo mirato. Soltanto dopo la prima fase, quella di trasformazione da movimento in partito, Gennaio ’23 le camice nere furono inquadrate nella Milizia Volontaria Per la sicurezza Nazionale. Una formazione armata con lo scopo di proteggere “gli sviluppi della rivoluzione”, ma anche a disciplinare e limitare il potere sempre crescente dei RAS. Per sedare il dissenso e mantenere l’ordine pubblico si utilizzò la polizia di stato, mentre la Milizia rimase relegata a corpo decorativo-ausiliario. Furono perpetrati sequestri di giornali, scioglimenti d’amministrazioni locali, arresti preventivi. Le prime vittime delle repressioni furono i comunisti, poi i sindacalisti, causando il quasi azzeramento dei quadri dirigenti della struttura nata attorno al movimento operaio.
Le opposizioni sembravano inermi e non seppero fare altro che reagire attraverso scioperi, che scatenarono ulteriori accanimenti squadristi, o abbandonando i lavori istituzionali come nel caso della secessione avventiniana. Neppure l’assassinio di Matteotti nel Giugno ’24 seppe  coagulare la reazione socialista.
Dopo qualche mese dall’assassinio di Matteotti, Mussolini decise di portare una nuova giro di vite e il 3 Gennaio ’25 ruppe ogni cautela legalitaria in Parlamento minacciando apertamente di usare la violenza contro le opposizioni.  Pochi giorni dopo incominciò nuova ondata d’arresti e perquisizioni si abbatté sull’opposizione e sugli organi di stampa indipendenti.
Per rendere ancora più efficaci le costrizioni, fino ad allora collocate fuori dalla legalità, furono votate leggi capaci d’istituzionalizzare le repressioni dei dissensi :

  • l’ aumentò dei poteri del capo del governo;
  • la nuova legge sindacale proibì gli scioperi;
  • “Leggi fascistissime”, che privavano di ogni libertà e diritto civile e politico i contrari al regime.

 

 

126. IL FASCISMO: IL TOTALITARISMO IMPERFETTO

Il fascismo fu classificato come totalitarismo imperfetto, per le limitazioni di potere di due importanti istituzioni - La Chiesa e la Monarchia - che ne influenzarono il corso.
Nella seconda metà degli anni ’20, quando il nazismo era pressoché sconosciuto, in Italia in fascismo aveva già assunto il potere evidenziando distintamente il proprio totalitarismo. Le sue manifestazioni erano ben riconoscibili:

  • le adunate in uniforme;
  • la martellante propaganda;
  • l’amplificazione dell’immagine e della parola, il Capo oggetto di culto.

Caratteristica peculiare del regime era la sovrapposizione di due strutture gerarchiche parallele: quella dello Stato e quella del Partito che aveva trovato ramificazioni un po’ ovunque. Il punto di raccordo tra le due era il Gran Consiglio del Fascismo.
Al vertice del potere c’era Mussolini che riuniva in sé la qualifica di Capo del Governo e di Duce (guida) del fascismo. Contrariamente a quello che avvenne in altri regimi dittatoriali l’apparato statale mantenne, per volontà dello stesso Duce, una preponderanza sulla macchina del Partito. Per trasmettere la propria volontà dal centro alla periferia, il fascismo si servì dei prefetti, e a sedare il dissenso e mantenere l’ordine pubblico avrebbe pensato la polizia di stato, mentre la Milizia era relegata a corpo decorativo-ausiliario (niente a che vedere con le SA e/o SS naziste). Il Partito però vedeva dilatarsi sempre di più la propria presenza nella vita quotidiana. L’iscrizione al partito divenne comune, e nel pubblico impiego fu quasi un obbligo. Una funzione importante nell’opera di fascistizzazione del paese l’ebbero le organizzazioni collaterali al Partito, come l’Opera Nazionale Dopolavoro. Questa si occupava d’inquadrare il tempo libero dei cittadini, organizzando attività, gare, gite domenicali, in modo da tenere sott’occhio costantemente la gente. Più importante di tutte erano le organizzazioni giovanili che miravano a creare una nuova stirpe italica:

  • I figli della Lupa;
  • L’opera nazionale dei Balilla;
  • I fasci giovanili;
  • I Gruppi universitari Fascisti.

Con queste organizzazioni, il fascismo voleva riplasmare la società, facendo leva soprattutto sui giovani e su un nuovo indottrinamento ideologicizzato. Nell’operazione il Partito fallì clamorosamente, soprattutto a causa di uno dei principali gruppi fiancheggiatori, vale a dire la Chiesa, che non vedeva certo di buon occhio la sottrazione dell’indirizzo pedagogico
Non fu solo la Chiesa a rappresentare motivo d’ostacolo al fascismo, anche la Monarchia si mise più volte di traverso, e per quanto fosse esautorato da ogni potere reale, il Re rimaneva sempre la maggior carica dello stato. A lui spettava il comando dell’esercito, la scelta dei senatori e il diritto di revoca del governo. Il Re aveva ceduto a Mussolini ogni autorità, ma in caso di grave crisi, non avrebbe tardato a riprendere in mano le redini del potere, sfiduciando il nuovo capo del Governo.

 

127 IL REGIME FASCISTA: COMUNICAZIONI DI MASSA, SCUOLA, CULTURA

Consapevole dell’importanza di un’adeguata motivazione ideologica, per creare e consolidare il consenso, i vertici del fascismo dedicarono particolare cura al mondo della cultura e della scuola.
La scuola era stata profondamente cambiata già nel ‘23 dalla riforma Gentile, ispirata alla pedagogia idealistica volta ad incentrare gli studi sulle materie umanistiche (principale strumento d’educazione di quella che sarebbe dovuta diventare l’élite dirigente) rispetto a quelle tecniche, relegate ad una funzione subalterna. Consolidato il sistema, il partito cercò di fascistizzare l’istruzione attraverso una stretta sorveglianza degli insegnanti e dei libri di testo. Il nuovo codice, prevedeva tra l’altro l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole elementari e l’esame di Stato al termine d’ogni ciclo di studi, così da parificare gli istituti laici a quelli cattolici.
Nel complesso il corpo docente si adattò senza resistenze, anche se la fascistizzazione fu superficiale, perché i docenti, cresciuti con l’istruzione liberale, continuarono a svolgere il loro lavoro come avevano sempre fatto.
L’Università ebbe una maggiore libertà rispetto alle scuole medie e Superiori, ma non si schierò apertamente contro il fascismo. Quando nel ’31 i docenti universitari furono costretti a giurare fedeltà al regime solo pochissimi si rifiutarono. Molti docenti non fascisti si piegarono all’imposizione solo per continuare la loro attività.
Nel complesso gli ambienti della cultura non si opposero frontalmente al regime. Alcuni fra i nomi più noti, come Marconi e Pirandello si dichiararono fascisti.
Ben più capillare fu invece il controllo sui mezzi di comunicazione. La stampa politica, già fascistizzata tra il ’22 e il ’26, fu completamente controllata dalle direttive centrali, che non si limitavano alla censura, ma interveniva con precise direttive nel merito degli articoli (Direttive per la stampa) che provenivano da un ufficio dipendente dalla Presidenza del Consiglio, ed infine incluso nel Minculpop (Ministero per la cultura popolare) nato nel ‘37 su modello nazista. Il controllo sulla stampa era esercitato direttamente da Mussolini, non dimentico del passato, che interveniva nei giornali anche per questioni di scarsa importanza.
Non minore fu il controllo sulla radio, che si andava affermando sempre più come mezzo di comunicazione di massa, anche se la sua diffusione era ancora limitata. Nel ’27 fu creato l’Eiar (un ente di stato genitore della Rai) e dopo il ’35 s’installarono radio negli uffici pubblici, scuole.
Anche il cinema incontrò l’interesse del regime, ricevette sovvenzioni anche per arginare l’importazione di film americani. Badava ad escludere qualsiasi argomento politicamente e socialmente scabroso, più che a proporre una propaganda, perché a questo era preposto l’Istituto Luce, che proiettava i cinegiornali all’inizio degli spettacoli. Questi furono molto importanti, perché permisero di raggiungere e attirare l’attenzione di un numero elevato di persone.

128 LA POLITICA ECONOMICA E SOCIALE DEL FASCISMO PRIMA E DOPO LA GRANDE CRISI.

Il fascismo si proponeva come depositario di soluzioni nuove ed originali ai problemi dell’economia e del lavoro. Da contrapporre al capitalismo e al socialismo, credette di trovare la “terza via” nel corporativismo. L’idea affondava le sue radici nell’esperienza della arti e dei mestieri del Medioevo. Questo avrebbe dovuto significare la gestione diretta dell’economia da parte delle categorie produttive, organizzate appunto in corporazioni distinte per settori d’attività.  Negli anni 1922-‘25 attuò una politica spiccatamente liberista e "prodottivi sta", volta cioè a rilanciare la produzione, incoraggiando l’iniziativa privata (anche per ripagare le promesse elettorali). Attuata agli ordini del Ministro delle Finanze De Stefani, questa fase riuscì a ridare ossigeno all’industria italiana. Ma la crescita della produzione, coincise con un aumento dell’inflazione, provocato dalla diminuzione delle esportazioni. Cosicché nell’estate del ’25 la politica economica subì una brusca svolta. Al Ministero delle Finanze fu collocato Giuseppe Volpi, industriale e finanziere, che istituì:

  • Innalzamento dei dazi doganali;
  • Lotta all’inflazione (stabilizzazione monetaria);
  • Nuovo incremento statale nell’economia.

Primo provvedimento in questo senso fu l’inasprimento del Dazio sui cereali, che fu accompagnata da una rumorosa “battaglia del grano”. Scopo della “trovata economico-propagandistica” era di portare l’Italia all’autosufficienza agricola. Il lato positivo della misura si trovò nell’impegno attivo con cui si cercò d’arrivare al risultato, con conseguente miglioramento delle tecniche agricole. Nonostante lo scopo fu parzialmente raggiunto, il prezzo pagato fu altissimo e tutto a carico degli altri settori, soprattutto dell’attività dedite all’esportazione.
La seconda battaglia intrapresa da Volpi fu sulla “rivalutazione della lira”, nel ’26 Mussolini dichiarò di volere riportare alto il valore della lira, imponendo la famosa “quota novanta” (cioè il valore di scambio di 90 lire per ogni sterlina). L’obiettivo, da molti ritenuto irraggiungibile, fu arrivato nel giro di un anno, non senza qualcuna spregiudicata manovra finanziarie (e credito statunitense). Il risultato finale, però, fu che a giovarsi della situazione furono gli industriali e i ricchi borghesi, mentre i contadini e i proletari, si videro nuovamente decurtati gli stipendi.
in agricoltura le piccole e medie aziende furono sfiancate dalla restrizione del reddito e dal calo generale dei prezzi agricoli.
L’economia italiana non si era ancora ripresa dalla grande cura deflazionistica, quando si fecero sentire in Italia i primi effetti della grande Crisi internazionale. Le conseguenze furono in parte attenuate dalle misure economiche adottate in precedenza che miravano a privilegiare il mercato interno. Il commercio con l’estero si ridusse drasticamente. L’agricoltura subì un nuovo duro colpo e le imprese si trovarono ancora una volta in recessione. Per questo le pressioni sul governo costrinsero ad un ulteriore abbassamento dei salari, misura favorita in parte dalla diminuzione dell’offerta di lavoro per l’aumento della disoccupazione.
La risposta del regime si orientò in due diverse soluzioni:

  • Nuovo impulso ai lavori pubblici. Questa ebbe il suo massimo sviluppo fra il ’33 e il ’34 con la realizzazione di nuove strade e tronconi ferroviari. Furono eretti anche monumentali edifici, ma fu soprattutto varato un gigantesco programma di bonifica integrale che avrebbe dovuto recuperare le terre incolte e/o mal coltivate. Il progetto fu realizzato solo parzialmente, la sua parte più impegnativa fu la Bonifica Dell’Agro Pontino (un vasto territorio paludoso a sud della Capitale) che vide la creazione di circa 3.000 nuovi poderi, dove furono insediati i contadini del centro-sud meno abbienti. Furono inoltre costruite intere città ex-novo, come Sabaudia e Latina. La bonifica delle Paludi Pontine segnò per il fascismo un’altra grande vittoria propagandistica.
  • Intervento diretto dello Stato a sostegno dell’economia. Fu nel settore dell’industria e del Credito che l’intervento dello stato assunse le sue forme più originali e incisive. Le grandi Banche miste (Banca Commerciale e Credito Italiano) erano state particolarmente colpite dalla crisi. Numerose attività finanziate dalle stesse erano fallite e si erano rese insolventi. La crisi della borsa con la conseguente caduta dei titoli mise in ginocchio il sistema creditizio. Il governo varò alcune misure per contrastare il problema:
    • Nel ’31 nacque l’IMI, l’Istituto Mobiliare Italiano, con il compito di sostituire le Banche nel sostegno alle imprese in difficoltà;
    • Nel ’33 costituì l’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, con competenze eccezionalmente ampie. L’IRI divenne azionista di maggioranza delle banche in crisi ed acquistò il controllo di alcune dei maggiori gruppi industriali italiani. L’IRI avrebbe dovuto essere un istituto transitorio, nella realtà dei fatti dal ’37 rimase un ente permanente.

In questo modo lo Stato si trovò a controllare una grossa fetta dell’apparato industriale e bancario italiano, superiore a quello di qualsiasi altro stato europeo. Ma non si poté parlare di una fascistizzazione dell’industria e dell’economia, perché il fascismo si guardava bene dal togliere dagli industriali e dai banchieri le redini delle operazioni. Con il suo operato si legava a doppio filo con entrambi i settori controllandoli in modo molto efficacie.
Attorno alla metà degli anni ’30 l’Italia era uscita dalla fase acuta della crisi economica, le cui spese maggiori erano state pagate dalle classi più povere. A questo punto mancò al regime la volontà e la capacità, di mettere in moto quel processo di sviluppo che avrebbe avuto un ritorno anche per le classi più deboli. A partire dal ’35 Mussolini si lanciò in una politica di dispendiose imprese militari che sottrasse risorse agli investimenti e accentuò l’isolamento economico del paese. Dalla scelta non riuscì ad ottenere nemmeno quei successi che aveva mietuto la Germania nazista. Cominciava così una lunga stagione d’economia di guerra destinata a prolungarsi sino al conflitto.

 

129 I RAPPORTI DEL FASCISMO CON LA CHIESA CATTOLICA

L’operazione di fascistizzazione del paese e dell’inquadramento delle persone nel Partito fallì clamorosamente, soprattutto a causa di uno dei principali gruppi fiancheggiatori, vale a dire la Chiesa, che non vedeva certo di buon occhio la sottrazione dell’indirizzo pedagogico.  Consapevole del problema, il Duce aveva cercato un accordo con il Papa PIO XI, cercando anche di ottenere un successo d’immagine da un’autentica riappacificazione con il Vaticano. Le trattative tra governo e Santa Sede incominciarono nel ’26 e si conclusero nel ’29 con la sottoscrizione dei Patti Lateranensi, tra Mussolini e il Segretario di Stato Vaticano, Cardinal Gasparri.Questi s’articolavano in tre punti distinti:

  • Un trattato internazionale con cui la Santa Sede s’impegnava a porre fine alla questione Romana riconoscendo lo Stato Italiano, vedendosi riconosciuta la sovranità sul Vaticano;
  • Una convenzione finanziaria, con cui lo Stato italiano s’impegnava a corrispondere al Papa una forte indennità a titolo di risarcimento per la perdita dei territori nel 1870;
  • Un concordato che regolava i rapporti fra Stato e Chiesa, intaccando sensibilmente il carattere laico dello Stato. Stabiliva che:
    • I sacerdoti fossero esonerati dal servizio militare;
    • Che il matrimonio religioso avesse effetti civili;
    • Che l’insegnamento cattolico fosse considerato come fondamento e coronamento dell’istruzione;
    • Che le organizzazione dell’Azione Cattolica potessero continuare a svolgere le proprie attività, purché al di fuori di qualsiasi partito politico.

I Patti lateranensi furono per Mussolini un grande successo d’immagine, cosicché alle elezioni plebiscitarie del ’29 ottenne il 98% delle preferenze. In realtà fu il Vaticano a cogliere i maggiori vantaggi dall’accordo. La chiesa assunse un ruolo importantissimo nei rapporti con lo Stato, soprattutto nell’istruzione, e rafforzò notevolmente la sua presenza nel tessuto sociale. Mantenendo intatta la sua organizzazione d’Azione Cattolica si assicurava un ampio margine di autonomia proprio nel settore che stava più a cuore ai fascisti: nelle organizzazioni giovanili. Pur non schierandosi mai apertamente contro il Regime, la Chiesa utilizzò queste organizzazioni per istruire e formare gli elementi moderati e liberali che avrebbero formato la nuova classe dirigente, una volta caduto il fascismo.

 

130 L’IMPERIALISMO FASCISTA E LA GUERRA D’ETIOPIA

Nel movimento fascista fu sempre presente una forte componente nazionalista. Il regime amava presentarsi come paladino degli interessi nazionali. Una volta salito al potere, Mussolini, si propose come il restauratore dell’antica potenza di Roma. Diversamente dalla Germania, l’Italia non aveva da avanzare rivendicazioni territoriali plausibili. Nonostante le delusioni subite a Versailles era pur sempre una potenza vincitrice. Fino agli anni ’30 le inclinazioni imperialiste del regime rimasero vaghe e si tradussero nel concreto, poco meno di una velata critica all’assetto disegnato dal trattato di pace di Versailles. Ma proprio questi primi sentimenti imperialisti che cominciavano ad affiorare, contribuirono a rendere più tesi i rapporti con la Francia, ma non con la Gran Bretagna. Dopo l’Accordo di Stresa del ’35, però si chiuse la stagione d’alleanze con le potenze dell’Intesa. Mentre si accordava con le potenze vincitrici del primo conflitto per contrastare il riarmo tedesco, Mussolini stava già preparando l’attacco all’Impero Etiopico, l’unico stato africano ad essere rimasto indipendente. A spingere Mussolini nell’impresa furono soprattutto le vocazioni imperialiste dell’ideologia e per dimostrare, dopo la sconfitta di Adua, che il suo regime poteva riuscire laddove i liberali avevano fallito; ma cercava anche di mobilitare l’opinione pubblica per fare passare in secondo piano i nodi economici che incominciavano a venire al pettine. Francia e Inghilterra erano disposte ad assecondare le mire italiane, ma non potevano permettere che uno stato indipendente, associato alla Società delle Nazioni, potesse essere cancellato dalla carta geografica da un’aggressione.
I primi d’Ottobre del ’35 l’Italia incominciò la Campagna d’Etiopia, per tutta risposta Francia e Gran Bretagna proposero, al consiglio della Società delle Nazioni, delle pesanti sanzioni che decretavano nella sostanza l’embargo delle materie prime che sarebbero state utili per scopi bellici. Il provvedimento consentì a Mussolini di montare a hoc una campagna contro le democrazie europee colpevoli di una congiura ante italiana. Le folle si mobilitarono per ottenere il proprio “posto al sole” nel panorama coloniale delle grandi potenze e riempirono le piazze gridando slogan anti inglesi. Il paese s’inebriò di un’imperialismo popolaresco ben più consistente della Campagna di Libia.
Le operazioni belliche videro una resistenza eroica degli etiopici, guidati da Hailè Sellaissiè, ma non poterono che soccombere ad un esercito meglio equipaggiato (aerei e mezzi corazzati) e preparato. Il 5 maggio ’36 le truppe comandate da Badoglio entrarono ad Addis Abeba. Mussolini poté così annunciare il ritorno dell’“Impero sui colli fatali di Roma”, e offrire a Vittorio Emanuele III il titolo d’Imperatore d’Etiopia.
Dal punto di vista economico il risultato fu tragico.  Paese povero, privo di materie prime, era anche poco adatto all’agricoltura a causa dell’estrema siccità. Il ritorno d’immagine politica, compensò i mancati guadagni. Mussolini portò a termine vittoriosamente la campagna militare e riuscì ad imporre l’accettazione del fatto compiuto alla Società delle nazioni, che nell’estate del ’36 ritirò le sanzioni contro l’Italia. Gli italiani credettero d’essere entrati nel novero delle grandi potenze, nella realtà la situazione internazionale, molto delicata soprattutto a causa di Hitler, aveva consigliato a Francia e Inghilterra un atteggiamento guardingo.
Mussolini, non riuscendo a frenarsi, credette di potere condurre una politica da grande potenza internazionale, in questo gioco non poteva che avvicinarsi (per ideologia e per necessità, visto che i rapporti con Francia e Inghilterra si erano incrinati) con la Germania di Hitler. L’indirizzo prese forma nell’Ottobre del ’36 con la firma di un patto d’amicizia - ASSE ROMA-BERLINO - e rafforzata dall’intesa nella Guerra in Spagna e alla firma del Patto anticommintern, nel ’37 (con Germania e Giappone, impegnava i firmatari a combattere il comunismo). L’ASSE non assunse i connotati della vera alleanza militare, soprattutto perché Mussolini vedeva l’avvicinamento alla Germania come mezzo di pressione sulle potenze occidentali, in previsione di una nuova espansione coloniale. Ben presto il Duce rimarrà schiacciato dalla sua macchina e dal dinamismo aggressivo della macchina militare di Hitler. Credendo di potere abilmente sfruttare l’amicizia con i nazisti Mussolini finirà col dovere accettare passivamente tutte le iniziative di Hitler, finché nel Maggio ’39 fu quasi obbligato alla sottoscrizione del PATTO D’ACCIAIO. Un’autentica alleanza militare che lo legava indissolubilmente alla Germania nazista.

 

131 GLI ANTIFASCISTI ALL’INTERNO E ALL’ESTERNO

A partire dagli anni ’25-’26 il dissenso politico al fascismo fu proibito, prima, di fatto, quindi giurisdizionalmente. Molti intellettuali che sentirono la necessità di prendere posizione, decisero di contrapporre ad un “manifesto degli intellettuali fascisti”, diffuso nell’Aprile ’25 per volontà di Gentile, un contromanifesto  di Croce.
La repressione si fece ancora più dura e molti antifascisti furono costretti all’esilio, altri vittime di omicidi premeditati (come Pietro Gobetti che con la sua “la rivoluzione liberale” era stato l’animatore del dibattito politico in Italia). Le fughe all’estero non sempre misero al sicuro dal regime.
Gli intellettuali che si opposero al regime dovettero affrontare la dura repressione, fatta di violenze, carcere, confino politico, esilio o clandestinità. Alcuni degli oppositori, preferì prendere la strada del volontario silenzio cercando di sfruttare i ridotti spazi d’autonomia che sfuggivano al controllo dell’autorità. Fu questa la strada di molti liberali, cattolici e socialisti. I liberali trovarono un importante punto di riferimento in Benedetto Croce, protetto dalla sua notorietà internazionale e da una precisa scelta del governo. Grazie ai suoi liberi e alla sua rivista “La Critica” molti intellettuali ebbero la possibilità di conoscere e mantenere la tradizione liberale.
Per coloro che scelsero di scontrarsi frontalmente con il regime non rimasero che:

  • L’esilio all’estero;
  • La lotta clandestina.

A praticare quest’ultima furono soprattutto i comunisti, gli unici preparati all’attività cospiratoria.  Il PCI durante il ventennio fu in grado di mantenere attiva una rete clandestina per la diffusione di opuscoli, giornali e volantini propagandistici antifascisti, nonché ad infiltrare i propri uomini nelle organizzazioni fasciste. Non mancarono, inoltre, attività antifasciste avviate all’estero da parte degli esiliati, soprattutto in Francia, già sede di una numerosa comunità antifascista (Turati, Treves e Saragat). Nel ’27 questi gruppi si federarono nella CONCENTRAZIONE ANTIFASCISTA, che si ricollegava all’esperienza avventiniana. Nonostante gli scarsi risultati pratici quest’organizzazione mantenne i contatti con l’opinione pubblica italiana e realizzarono articoli per sensibilizzare l’opinione pubblica europea sulla situazione italiana. Particolarmente importante fu il dibattito politico che portò ad una notevole autocritica da parte dei leader socialisti che consentirà di ricompattare le fila del Partito Socialista nel 1930.
Un nuovo impulso antifascista venne dal movimento “Giustizia e Libertà” fondato da due antifascisti di nuova generazione. Emilio Lussu e Carlo Rosselli, che si proponeva come un movimento d’azione per sabotare il regime. Questo movimento si contrapponeva ai comunisti, che avevano instaurato un centro operativo a Parigi. Palmiro Togliatti, che aveva il posto di leader lasciato vacante da Antonio Gramsci, imprigionato dai fascisti, condusse le redini del partito con estrema efficacia. Dalla metà degli anni ’30 anche il partito Comunista si convinse a riannodare i rapporti con le altre realtà antifasciste. Era la stagione dei Fronti Popolari, che ebbe in Spagna il suo fenomeno più significativo, ma dopo il suo fallimento (accanto anche al fallimento francese) portò una nuova ondata di divisione all’interno dei movimenti di sinistra italiani.
Il generale si può dire che i movimenti antifascisti non ebbero una grande rilevanza pratica nella lotta al regime, quando poi scoppiò la guerra mondiale si trovarono nella difficile posizione di chi dovrebbe sperare nella sconfitta del proprio paese. Solo nell’ultima fase del conflitto divennero fondamentali sia dal punto di vista militare che politico.

 

 

132 L’ITALIA E IL FASCISMO NELLA SECONDA METÀ DEGLI ANNI ‘30

La vittoria d’Etiopia segnò per il regime l’apogeo della popolarità. Ma da allora il fronte dei consensi conobbe significative incrinature ed incominciò a segnare il distacco definitivo tra il paese e il regime. A suscitare disagio era la politica economica, sempre più condizionata dalle spese militari per rinforzare la presenza in Etiopia (senza alcun tornaconto economico) e finanziare i franchisti in Spagna. Alla fine del ’35, prendendo spunto dall’innalzamento delle sanzioni della Società delle Nazioni, Mussolini rilanciò l’idea dell’autarchia (cioè dell’economia autosufficiente) che si tradusse in:

  • ulteriore inasprimento delle barriere protezionistiche;
  • nuovo sfruttamento del sottosuolo;
  • favorire la ricerca.

I risultati finali di questo nuovo impulso economico non furono brillanti, anche a causa dell’inasprimento dell’intervento statale in tutti i settori produttivi. Ad un lieve aumento della produzione, seguì un aumento dei prezzi, che si tradusse in un nuovo onere per le classi inferiori.
A questi nuovi disagi economici s’accompagnarono le incertezze per la nuova politica estera attuata da Galeazzo Ciano. L’aspetto che più inquietava l’opinione pubblica era proprio la nuova amicizia con la Germania nazista, che incominciava a destare i primi sospetti anche nella nostra opinione pubblica.
Nonostante la situazione fosse poco favorevole, Mussolini mirava fortemente ad una politica espansionistica militare, per questo pensava che l’Italia avrebbe dovuto mutare profondamente trasformandosi in un popolo d’attitudini e tradizioni guerriere. Questo implicava da parte del Duce un atteggiamento duro nei confronti della popolazione che, secondo lui, negli ultimi secoli era decaduta e si era imborghesita.
Per ricostruire una classe guerriera e orgogliosa, il regime avrebbe dovuto essere ancora più totalitario, da qui scaturirono alcuni provvedimenti:

  • fu creato il Ministero per la Cultura popolare;
  • le organizzazioni giovanili furono accorpate nella Gioventù italiana del Littorio;
  • sostituzione della Camera dei deputati con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, dove abolita ogni finzione elettorale si entrava solo in virtù delle cariche ricoperte all’interno del PNF.

Furono inoltre introdotte alcune misure, in parte folcloristiche, che miravano a conferire un aspetto più marziale alla vita quotidiana (uno del “voi” al posto del “lei”; divise per gli impiegati pubblici, l’adozione del “passo romano” nelle sfilate militari).
Ma la scelta più forte ed aberrante della stretta totalitaria di Mussolini fu l’introduzione delle “leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei” introdotte nel ’38.  Preannunciate da un manifesto di sedicenti scienziati, che propagandavano la purezza di una “pura razza italiana” di origine ariana, furono ricalcate da quelle naziste del ’35 con il quale si escludevano gli israeliti dagli uffici pubblici, ne limitavano l’attività ed impedivano la celebrazione dei matrimoni misti. La decisione giunse del tutto inattesa nel paese, che non aveva mai conosciuto forme d’antisemitismo diffuso e che era abituata a convivere con un’esigua minoranza ebraica. Con la misura Mussolini si proponeva d’inoculare nella popolazione l’orgoglio razziale così da offrirgli un nuovo motivo d’aggressività e compattezza.
Anziché orgoglio e consenso, le leggi razziali suscitarono sdegno e sconcerto e aprirono un motivo di serio contrasto con la Chiesa.  Lo sforzo fatto da Mussolini per trasformare il regime in perfettamente totalitario si rivelò vano per la situazione culturale nazionale. Solo i giovani che furono cresciuti a pane e propaganda riportarono parzialmente il successo d’inquadramento sperato, ma anche il sostegno che arrivò da loro incominciò a mancare una volta entrati in guerra e provate le prime sconfitte militari.

 

133 LE ORIGINI DELLA II GUERRA MONDIALE

Con un percorso analogo a quello del primo conflitto, la seconda guerra Mondiale avrebbe visto il teatro delle operazioni allargarsi in modo ancora più vasto e mutato ancora di più gli equilibri internazionali. A sovrapporsi al conflitto di popoli, in questo caso, fu anche una profonda contrapposizione ideologica che vedeva i grandi paesi democratico-liberali scontrarsi con i regimi fascisti.
Il periodo che va dalla Conferenza di Monaco (Settembre ’38) allo scoppio della guerra, mostrò come la pace firmata da Hitler con le nazioni democratiche, non fosse altro che un rinvio. Per questo tutte le responsabilità dello scoppio del conflitto sono da attribuire alla politica aggressiva e sconsiderata del gerarca nazista, desideroso di riaffermare l’egemonia tedesca.
Il primo successo di Hitler fu nel ’38 con l’Anschluss, cioè l’annessione, dell’Austria al Reich, eseguita senza violenza. Hitler aveva mobilitato i nazisti austriaci che dopo aver costretto il cancelliere alle dimissioni chiamarono l’esercito tedesco sul territorio per ristabilire l’ordine pubblico. Un mese dopo un plebiscito avrebbe sanzionato l’annessione alla Germania. Hitler mise subito sul tappeto una nuova rivendicazione: i Sudeti, territorio cecoslovacco in cui viveva una maggioranza di popolazione di lingua tedesca. Ancora una volta furono mobilitati i nazisti locali e anche i Sudeti furono inglobati nel Reich. Le potenze democratiche convocarono la Conferenza di Monaco di Baviera il 29-30 Settembre ’38: Hitler barattò la pace col riconoscimento dei territori annessi, mentre Chamberlain, Dedalier (primo ministro francese) e Mussolini al rientro in patria furono accolti con gli onori riservati ai salvatori della pace, l’URSS, non convocato, prese nuovamente le distanze dalle potenze occidentali pensando ad un compromesso con i nazisti.
Le democrazie europee si erano illuse di avere accontentato i tedeschi con la cessione del territorio dei Sudeti al Reich, in realtà già dall’ottobre’38 Hitler aveva i piani per l’occupazione militare della Cecoslovacchia.
L’operazione vera e propria scattò nel Marzo ’39; mentre la Slovacchia si proclamava indipendente i territori di Boemia e Moravia furono annessi alla Germania quasi senza resistenza.
La distruzione dello stato cecoslovacco provocò una svolta nell’atteggiamento delle potenze occidentali. Francia e Gran Bretagna diedero vita ad un’offensiva diplomatica atta a stabilire una rete, la più ampia possibile, d’alleanze militari atte a contrastare l’ASSE. Patti d’assistenza furono stipulati con:

  • Belgio, Olanda, Grecia, Romania, Turchia e Polonia.

Quest’ultimo fu il più importante, perché proprio la Polonia costituiva il primo obiettivo militare vero e proprio. Già a Marzo Hitler aveva rivendicato il possesso di Danzica, e il diritto di passaggio attraverso il corridoio che univa la città al territorio polacco. L’alleanza della Polonia con Inghilterra e Francia significava che le potenze europee erano ormai disposte ad entrare in guerra, per impedire che questa subisse la stessa sorte della Cecoslovacchia.
La radicalizzazione dello scontro fra tedeschi e anglo-francesi non diede alcuno spazio d’azione a Mussolini che cercò dapprima di contrapporre alle azioni di Hitler una propria iniziativa unilaterale. Nell’aprile ’39 occupò il piccolo regno d’Albania considerandolo come una base per la penetrazione nella penisola Balcanica. L’operazione ebbe come unico risultato di incrementare le tensioni italiane con gli anglo-francesi. La situazione stava ormai irrimediabilmente degenerando, così Mussolini ormai certo dello scoppio del conflitto e della superiorità militare tedesca, decise di sottoscrivere con la Germania il PATTO D’ACCIAIO nel Maggio ’39. Il patto stabiliva che se una delle due parti si fosse trovata impegnata in un conflitto, anche in veste d’aggressore, anche l’altra sarebbe stata chiamata come parte in causa. Mussolini accettarono i vincoli non considerandoli troppo rischiosi, pur sapendo che l’Italia non era militarmente ed economicamente preparata per una guerra, ma confidando soprattutto sulla poderosa macchina bellica tedesca. Hitler inoltre aveva rassicurato Mussolini sul suo desiderio di non fare scoppiare la guerra, anche se al momento della stipula erano già pronti i piani per l’invasione militare della Polonia.
A livello internazionale, la principale incognita era costituita dall’atteggiamento dell’Unione Sovietica, perché la sua adesione alla coalizione antitedesca avrebbe probabilmente impedito lo scoppio del conflitto. Ma le trattative tra gli Alleati e l’URSS furono segnate da una serie di reciproche diffidenze:

  • I sovietici erano convinti che gli occidentali volessero scaricare su di loro l’aggressività dei nazisti;
  • Gli occidentali attribuivano ai russi una forma di complicità con i tedeschi per ambire ad una futura espansione nei territori dell’Europa dell’Est;
  • I polacchi temevano la presenza militare sovietica sul loro territorio.

I sovietici si convinsero che non avrebbero avuto niente da guadagnare dall’accordo, e incominciarono a prestare maggiore attenzione alle offerte d’intesa che incominciavano ad arrivare dalla Germania. Così nell’Agosto ’39 i ministri degli Esteri delle due nazioni – Von Ribbentrop e Molotov, firmarono a Mosca il Patto di non aggressione fra le due nazioni. L’annuncio della sua sottoscrizione generò un misto di stupore e indignazione (accordo fra le due maggiori contrapposizioni ideologiche della storia), ma diplomaticamente assicurò ad entrambe le parti dei notevoli vantaggi immediati:

  • L’URSS allontanava la minaccia nazista, guadagnando tempo per la sua preparazione militare e, attraverso la sottoscrizione di un protocollo segreto, otteneva anche un riconoscimento delle sue aspirazioni su alcuni territori Baltici che avrebbe spartito con i tedeschi a guerra avvenuta;
  • I tedeschi potevano cautelarsi contro l’eventualità di una guerra su due fronti lasciando scoperto quello orientale.

Dopo avere sistemato l’ultimo tassello, il 1 settembre 1939 le truppe tedesche attaccavano la Polonia, il 3 Settembre, Francia e Inghilterra inviavano la dichiarazione di guerra alla Germania.

 

134 LA GUERRA IN EUROPA 1939-1941

Le prime settimane di Guerra furono sufficienti alla Germania per sbarazzarsi della resistenza polacca, e per offrire al mondo l’impressionante dimostrazione della propria potenza militare. L’offensiva di terra, anticipata da micidiali bombardamenti aerei e d’artiglieria mostrarono al mondo il desiderio tattico teutonico di organizzare le operazioni con una “GUERRA LAMPO”. Il nuovo stile di guerra si basava sull’utilizzo congiunto dell’aviazione e delle forze corazzate per aprire la strada alle divisioni di fanteria. L’utilizzo su larga scala dei carri armati e degli autoblindo, raggruppati in speciali reparti meccanizzati, rendevano ancora più efficace la guerra di movimento e consentivano d’impadronirsi in tempi molto brevi di vasti territori nemici.
Già a metà settembre ’39 le truppe tedesche avevano preso Varsavia e all’inizio d’Ottobre cessava ogni resistenza da parte dell’esercito polacco. I tedeschi imposero un durissimo Regime d’Occupazione, mentre i sovietici, sfruttando gli accordi, occupavano le regioni orientali del paese.
Per i successivi sette mesi la guerra rimase congelata, consentendo ai tedeschi di riorganizzarsi, mentre nelle file alleate serpeggiava il nervosismo.
Inaspettatamente fu l’URSS a fare la mossa seguente attaccando la Finlandia il 30 Novembre ’39. La campagna fu più difficile del previsto, ma nel Marzo del ’40 la Finlandia dovette cedere ai sovietici concedendo parecchi territori, ma mantenendo la propria indipendenza.
A questo punto ripresero a muoversi i tedeschi, nell’Aprile del ’40, attaccarono la Danimarca e la Norvegia e nonostante qualche timida resistenza l’operazione fu portata a buon fine con stesso successo e velocità d’esecuzione.
Ormai i tempi erano propensi per scatenare l’attacco sul fronte Occidentale. L’offensiva contro la Francia incominciò il 10 Maggio ’40. Il successo con cui l’esercito nazista iniziò l’offensiva, contro il più numeroso e potente esercito occidentale, fece pensare ad un’ennesima campagna lampo con relativa vittoria dei tedeschi. A provocare la sconfitta dei francesi furono le tattiche scelte dai generali transalpini, ancora legati alle concezioni statiche della guerra e troppo fiduciosi della resistenza della famosa Linea Maginot (fortificazione che copriva solo il confine con la Germania, lasciando scoperto quello con il Belgio da dove sarebbe venuta la minaccia). I tedeschi iniziarono l’attacco alla Francia violando la neutralità di Lussemburgo, Olanda e Belgio. Nel maggio ’40 i tedeschi passarono la foresta delle Ardenne, con le divisioni corazzate (nonostante i francesi lo ritenessero impossibile), e sfondarono le linee nemiche a Sedan. Solo un momentaneo rallentamento dei reparti teutonici, consentì alle forze alleate (ai francesi si era appena unito un contingente inglese) di reimbarcare i rinforzi nel porto di Dankerque. La sosta tedesca era dovuta, in parte, ad un’esigenza riorganizzativa dell’esercito ed, in parte, ad un tentativo diplomatico di Hitler di accordarsi con l’Inghilterra affinché quest’ultima decidesse di non intervenire.
Per la Francia la sconfitta era ormai inevitabile, il 14 Giugno ’40 i tedeschi occuparono Parigi.
Divenuto presidente del consiglio il Maresciallo Petain, dichiaratamente schierato su posizioni d’estrema destra, aprì immediatamente le trattative per la firma dell’armistizio, mentre da Londra il Generale De Gaulle incitava i francesi alla resistenza.
L’armistizio fu firmato a Rethondes il 22 Giugno ’40, nello stesso vagone in cui nel ’18 i tedeschi erano gli sconfitti, e prevedeva che:

    • il nuovo governo francese s’insediasse nella cittadina di Vichy;
    • conservasse la sovranità su un territorio corrispondente alla parte centro-meridionale del paese;
    • mantenesse il controllo sulle colonie.

Il governo di Vichy segnò la fine della Terza repubblica, che era nata circa settant’anni prima, da un’altra clamorosa sconfitta, quella di Napoleone III sempre a Sedan. La nuova assemblea costituente si spogliò d’ogni potere affidando al Capo del nuovo Governo il compito di stilare una nuova Costituzione. Come tutti gli esponenti della destra, il maresciallo Petain attribuiva le cause della sconfitta alla classe dirigente liberal-democratica che aveva guidato gli ultimi agonizzati anni della terza Repubblica. Pertanto propose una rivoluzione nazionale con un ritorno al culto dell’autorità e della disciplina; strenua difesa della religione e della famiglia. Nel concreto il Governo di Vichy si tramutò in uno stato satellite della Germania.
Ogni rapporto diplomatico con l’Inghilterra si deteriorò, sino ad interrompersi allorquando gli inglesi attaccarono e affondarono la flotta francese per impedire che potesse andare in mano ai nazisti.
Quindi dal Giugno ’40 era rimasta solo la Gran Bretagna a combattere contro la Germania. Hitler sarebbe stato disposto a trattare purché gli fossero state riconosciute le conquiste.  Ma la classe politica inglese rifiutò ogni ipotesi di tregua. La Gran Bretagna poteva contare su:

  • L’integrità della miglior flotta militare;
  • Una ritrovata tranquillità economica;
  • Il sostegno politico-militare degli stati del Commonwealth.

Il più accanito sostenitore della guerra contro il nazismo si rivelò il primo ministro, il conservatore Wiston Churchill, chiamato nel Maggio ’40 a guidare in nuovo Governo d’unità nazionale.
Churchill aveva previsto la necessità di una grande sofferenza per sconfiggere il nemico e così fu. I primi di Luglio del ’40 Hitler lancia la campagna d’Inghilterra, chiamandola “Operazione Leone Marino”. Premessa indispensabile per la riuscita del piano era il predominio dei cieli che avrebbe dovuto equilibrare la supremazia degli inglesi nei mari. Quella contro l’Inghilterra fu la prima grande battaglia aerea della storia. Per tre mesi la Luftwaffe (l’aviazione militare tedesca) effettuò continue incursioni bombardando, dapprima obiettivi militari, poi insediamenti industriali, finendo con il non risparmiare nemmeno gli insediamenti civili. Gli attacchi furono comunque efficacemente contrastati dalla contraerea e dalla Royal Air Force, l’aviazione di Sua Maestà la Regina, che seppe tenere testa ai più numerosi velivoli nemici. Ad aiutare la risposta inglese si ricorda l’utilizzo sistematico dei RADAR per l’individuazione preventiva dei velivoli nemici. All’inizio dell’autunno, quando le condizioni climatiche incominciavano a volgere al brutto, la resistenza inglese non era stata piegata e l’Operazione Leone Marino fu interrotta e rimandata a data da destinarsi. La tenacia inglese aveva permesso un successo soprattutto dal punto di vista del morale, ed aveva segnato.
All’inizio dell’estate 1941 Hitler aveva ristabilito il suo predominio in Europa (rimaneva aperta solo la campagna del Nord Africa) e poteva pianificare il suo obiettivo più ambito: la conquista dello “SPAZIO VITALE” verso l’URSS.

 

135 L’ATTACCO ALL’UNIONE SOVIETICA

Con l’attacco al URSS dell’estate ’41 la guerra entrò in una nuova fase, e proprio dalla campagna di Russia nascerà la svolta del conflitto.
Così la Gran Bretagna non fu più sola a combattere. Il Commintern accettò di allearsi con le democrazie occidentali per sconfiggere il cancro nazista.
Che l’URSS costituisse il principale obiettivo di Hitler non era un mistero nemmeno per i russi, ma Stalin s’era illuso che non avrebbe mai attaccato prima d’essersi sbarazzato dell’Inghilterra. La tattica attendista avrebbe consentito all’URSS di sbarazzarsi di un nemico ingombrante (per il predominio dei mari), e di riorganizzare la propria macchina militare.
Il 22 Giugno ’41 i tedeschi attaccarono l’URSS che impreparata facilitò il successo ai tedeschi. L’OPERAZIONE BARBAROSSA scattò con un fronte dal Mar Baltico al mar Nero (impegnò un contingente italiano inviato da Mussolini, smanioso di partecipare alla crociata antibolscevica).
I successi tedeschi s'indirizzarono lungo due direttrici: le regioni Baltiche e l’Ucraina. I russi indietreggiarono, provvedendo a bruciare tutto il possibile, per impedire gli approvvigionamenti all’esercito nemico. Quello che avrebbe dovuto essere l’attacco decisivo, su Mosca, fu sferrato tardi. Gl’inizi d’Ottobre, con l’arrivo del grande freddo, fermarono l’esercito tedesco alle porte della capitale sovietica. Nel Dicembre ’41 i russi lanciavano la prima controffensiva.
Hitler così aveva mancato il suo obiettivo principale e si trovava con il grosso dell’esercito impantanato nel Grande Inverno Russo, la guerra lampo si trasformò in guerra d’usura. Il cambiamento di tipologia avrebbe segnato l’inizio della fine della superiorità tedesca.  Guidata da Stalin, la resistenza si dimostrò accanita: attingendo risorse umane da un serbatoio infinito riuscì a riorganizzarsi dalle spaventose perdite e a riavviare la produzione bellica.
A mettere in crisi la macchina militare teutonica contribuì inoltre la decisione fatale dell’entrata in guerra di un’altra delle grandi potenze mondiali, che fino ad allora s’era schierata per il non intervento: gli Stati Uniti.

136 L’AGGRESSIONE GIAPPONESE E IL COINVOLGIMENTO DEGLI STATI UNITI

Allo scoppio del conflitto gli Stati Uniti avevano riproposto una politica di non intervento mantenuta per gli anni fra le due guerre. Rieletto nel novembre ‘40, per il terzo mandato, F.D.Roosevelt s’impegnò nel sostegno economico alla Gran Bretagna, per favorire la lotta ai nazifascisti. Nel Marzo ’41 una legge detta degli “affitti e prestiti”, consentiva la fornitura a prezzi molto favorevoli di materiale bellico, ai paesi la cui difesa fosse considerata vitale per gli interessi americani. Questa politica che tendeva a fare degli USA l’arsenale delle potenze democratiche, poneva il paese in rotta di collisione con le nazioni del Patto d’Acciaio. L’indirizzo americano si concretò appieno con la stipula della Carta Atlantica (14 agosto ‘41), tra Roosevelt e Churchill. Un documento in otto punti (un aggiornamento ai quattordici punti della dottrina Wilson) in cui i due stati ribadivano la condanna ai regimi fascisti e fissavano i punti nodali per l’erezione di un nuovo ordine a conflitto finito.

  • Principio di sovranità popolare;
  • Autodeterminazione dei popoli;
  • Liberismo commerciale;
  • Libertà nei mari;
  • Cooperazione internazionale;
  • Rinuncia alla forza nella soluzione delle controversie fra gli stati.

Il coinvolgimento americano nella guerra appariva cosa fatta, a decretarlo fu l’inaspettato attacco del Giappone nel Pacifico. Il paese del Sol Levante si era legato al Patto d’Acciaio già dal ’40, realizzando il nuovo Patto Tripartitico. Impegnato dal ‘37 nella guerra di conquista della Cina, vide nel conflitto mondiale la concreta possibilità d’allargare la propria influenza nel sud-est asiatico. Quando nel Luglio ’41 il Giappone invase l’Indocina francese, Gran Bretagna e USA reagirono bloccando le esportazioni. Cosicché, povero di materie prime, l’impero giapponese si trovò obbligato a scegliere se sottomettersi all’egemonia anglo-americana, o procurarsi diversamente gli elementi indispensabili a mantenere il proprio stato nel novero delle potenze mondiali. L’orgoglio nipponico fece propendere la scelta verso la seconda possibilità. L’impero giapponese si lanciò quindi alla conquista di nuove terre.
Senza previa dichiarazione di Guerra, il 7 dicembre ‘41 l’aviazione giapponese attaccò la flotta USA ancorata a Pearl Harbor. Nell’operazione distrusse parte della flotta americana e nei mesi successivi conquistò altri obiettivi come le Filippine, Malesia, Indonesia e minacciando Australia e India.
Pochi giorni dopo anche Italia e Germania dichiaravano guerra agli USA.

 

137 RESISTENZA E COLLABORAZIONISMO

Nell’estate ’42 le potenze dell’alleanza tripartito raggiunsero la loro massima espansione territoriale. Attorno al tripartito ruotavano gli alleati minori:

  • Ungheria, Romania, Bulgaria, Serbia;
  • E da non dimenticare la Francia della Repubblica di Vichy.

Inoltre all’estremo occidentale dell’Europa c’era la Spagna di Francisco Franco che pur non essendosi schierata da nessuna delle due parti avverse, simpatizzava per l’ideologia nazista.
Dei tre alleati principali, l’Italia era quella che godeva del ruolo marginale. Il vero fulcro dell’alleanza era la Germania nazista, la cui macchina bellica lavorava a pieno ritmo (grazie anche allo sfruttamento sistematico dei prigionieri nei lager).
Germania e Giappone cercarono di costituire nei territori occupati un: “NUOVO ORDINE”, basato sulla supremazia della nazione eletta e sulla rigida subordinazione degli altri popoli. Ma mentre il Giappone si appoggiava ai movimenti indipendentisti locali (quelli che avevano da anni incominciato la loro crociata contro gli occidentali), i nazisti non concedettero nulla ai popoli a loro assoggettati. Un trattamento particolarmente duro fu riservato ai popoli slavi. Tutta l’Europa dell’Est sarebbe dovuta diventare la colonia agricola del Reich. Per fare ciò si doveva sterminare le elite locali e gli intellettuali. Cosicché anche gli slavi andarono ad ingrossare le file dei bersagli da spedire nei lager. Ma la sorte peggiore toccò agli ebrei. In ogni paese conquistato la minoranza ebraica fu dapprima emarginata, quindi ghettizzata prima di essere imprigionata e spedita nei lager. In questi campi di prigionia erano sfruttati come manodopera a costo zero, prima di essere eliminati nelle camere a gas una volta stremati dalle fatiche. Il culmine della persecuzione si manifestò col progetto del Fuhrer detto: “SOLUZIONE FINALE” che prevedeva la sistematica eliminazione degli ebrei.
Il progetto di sistematico sfruttamento delle popolazioni portò alla Germania nazista un vantaggio nell’immediato, soprattutto dal punto di vista della produttività; ma un forte sentimento di rivalsa e d’odio verso i conquistatori da parte dei conquistati. La situazione imponeva all’esercito nazista il mantenimento d’elevati contingenti militari nei paesi di occupazione sottraendoli alle dislocazioni strategiche sui fronti. Nonostante la massiccia presenza non mancò lo sviluppo di forti movimenti di resistenza al regime. Episodi di resistenza antinazista si manifestarono già nella prima parte della Guerra. Protagonisti erano gruppi antifascisti armati dagli alleati.
Nella primavera del ’41 la resistenza assunse dimensioni rilevanti, favorita dall’attacco tedesco all’URSS, che coagulò i diversi movimenti comunisti europei. Autentici movimenti popolari si svilupparono in Grecia e Jugoslavia, ma spesso questi gruppi finivano con l’operare in modo scollato gli uni dagli altri. Accordi unitari furono raggiunti in Francia e Italia, i paesi maggiormente colpiti dalle violenze.
Ma la resistenza rappresentò solo una faccia della realtà. In tutti i paesi invasi vi fu una fetta, più o meno vasta, di popolazione che accettò di collaborare con gli invasori: I COLLABORAZIONISTI. I nazisti, trovarono ovunque volontari per combattere la resistenza, a volta disposti anche ad arruolarsi nelle loro file. In alcuni paesi si servirono degli esponenti dei fascismi locali, in altri trovarono il sostegno dei movimenti separatisti (particolarmente crudo fu l’episodio degli USTASCIA CROATI, da sempre in lotta per separarsi dalle altre nazioni slave e che avevano dimostrato particolare violenza operativa). In alcuni casi, poi, furono autentiche frazioni della classe dirigente al potere prima della guerra, a sostenere direttamente il regime nazista. Il caso strategicamente più importante fu quello della Repubblica Francese di Vichy. Il nuovo governo fu da sempre in piena e totale collaborazione con i nazisti, e rimase fedele al proprio indirizzo anche dopo lo sbarco in Normandia.

 

138 LA SVOLTA DELLA GUERRA E LE VICENDE MILITARI 1943-1945

Nei mesi tra il 1942 e il ‘43 l’andamento della guerra subì una svolta decisiva.  I primi segni dell’inversione di tendenza si ebbero nel Pacifico, dove i giapponesi subirono le prime battute d’arresto. La flotta giapponese fu bloccata dagli USA nel;

  • Mar dei Coralli e alle isole Midway.

Furono queste le prime battaglie in cui le flotte s’affrontarono senza vedersi. Il loro svolgimento era svolto principalmente dagli aerei “caccia e bombardieri” che decollando dalle portaerei eseguivano le loro missioni a distanza dalle navi. Quando nel ’43 le truppe da sbarco americane, i marines, riuscirono ad occupare l’isola di Guadalcanal, ai giapponesi non rimase che mettersi sulla difensiva, ma era questo il primo segnale di un riequilibrio della situazione.  
Tra il ’42 e il ’43 gli equilibri di guerra si rovesciarono anche nell’Atlantico, dove i tedeschi avevano condotto delle operazioni molto efficaci, soprattutto grazie all’uso dei micidiali sottomarini, gli U-BOT, con i quali avevano tagliato i rifornimenti dall’america all’Europa. Gli alleati riuscirono a ridimensionare le perdite grazie ad una serie d’innovazioni tecniche:

  • Radar e sonar, bombe di profondità, razzi antisommergibile e sistemi di decrittaggio dei codici cifrati.

Ma l’episodio che si sarebbe rivelato decisivo per le sorti del conflitto si giocò in Russia. Nell’Agosto ’42 i tedeschi iniziarono l’assedio di Stalingrado, città strategica del Sud Est del paese. Nel novembre ’42, dopo aspri combattimenti, i sovietici contrattaccarono efficacemente. Anziché battere in ritirata, Hitler ordinò la resistenza a oltranza, sacrificando un’intera armata. Fu la prima significativa sconfitta tedesca, subita poi nel territorio degli “odiati comunisti”.
Anche sul fronte nordafricano gli alleati riuscirono a rovesciare la situazione. L’esercito britannico del generale Montgomery riuscì ad organizzare un’efficace controffensiva contro l’esercito italo-tedesco che, alla guida del generale Rommel, era giunto sino a El Alamein. Gli eserciti italo-tedesco furono costretti alla ritirata sino a ricollocarsi in Tunisia. Intanto, nel Novembre ’42, truppe alleate sbarcarono in Algeria e Marocco, così da stringere tra due fuochi le forze dell’Asse, che furono costrette alla resa nel Maggio ‘43. Una volta sistemato lo scacchiere africano gli alleati poterono concentrare i loro sforzi nell’attacco all’Europa.
Le tre grandi alleate: Urss, Gran Bretagna e USA insieme, più per necessità che per libera scelta, si posero il problema di elaborare una strategia per battere le potenze fasciste. Nella Conferenza di Washington, tra il Dicembre ’42 e il Gennaio ’43, gli alleati, insieme a molte altre nazioni in guerra (molti paesi del Commonwealth e rappresentanti dei paesi occupati dai tedeschi), sottoscrissero il patto delle Nazioni Unite. I contraenti s’impegnavano a:

  • Tener fede ai principi della Carta Atlantica;
  • Combattere le nazioni fasciste;
  • Non sottoscrivere trattati di pace o armistizi separati.

Ma l’impegno comune non bastò a cancellare le divergenze politiche-ideologiche degli alleati, che non mancarono di manifestare indirizzi strategici diversi. Il contrasto più grave riguardava i tempi e i modi d’apertura di un fronte in Europa:

  • Stalin lo avrebbe voluto subito e nell’Europa del Nord, per alleggerire il proprio fronte;
  • Churchill avrebbe voluto chiudere definitivamente la partita in Africa prima di incominciare un’azione nell’Europa Meridionale.

Prevalse alla fine il punto di vista inglese. Alla conferenza di Casablanca del gennaio ‘43 si decise che: una volta finita la Campagna d’Africa, le truppe alleate sarebbero sbarcate in Italia Meridionale per una resa nazi-fascista incondizionata.
Il 12 Giugno ‘43 le forze anglo-americane conquistarono Pantelleria e ai primi di Luglio le truppe americane occuparono la Sicilia senza resistenza delle popolazioni locali.
Così, a partire dall’autunno ’43, l’Italia si trovava divisa in due parti:

  • Le regioni centro-settentrionali con una situazione d’occupazione militare tedesca;
  • Le regioni meridionali saldamente in mano agli eserciti alleati.

Al Nord, intanto, il fascismo risorgeva dalle sue ceneri, forte dell’appoggio nazista. Il 12 settembre ’43 paracadutisti tedeschi liberarono Mussolini dalla sua prigionia sul Gran Sasso; pochi giorni dopo il Duce dichiarava la sua intenzione di dare vita a:

  • La nuova Repubblica Sociale Italiana (RSI);
  • Il nuovo Partito fascista Repubblicano.
  • Un nuovo esercito desideroso di combattere al fianco degli “antichi alleati”.

Nell’Autunno ’44 però l’avanzata alleata in Italia si bloccò di colpo sulla linea Gotica (tra Rimini e La Spezia). Il proclama del Generale Alexander che, nel Novembre ’44, invitava i partigiani a sospendere le azioni militari provocò forti malumori e fraintesi. Nonostante il mancato appoggio militare degli alleati, le formazioni partigiane riuscirono a resistere alle rappresaglie e ai rastrellamenti dei tedeschi e repubblichini sino al ’45, quando rinforzati nuovamente dagli eserciti alleati riusciranno a liberare tutto il paese.
In Unione Sovietica, intanto, tra il ’43 e il ’44, l’Armata Rossa iniziò una lenta ma costante avanzata che si sarebbe conclusa nel Maggio ’45 con la presa di Berlino. Le vittorie sovietiche ottenute con un elevatissimo costo militare consentirono all’URSS di accrescere notevolmente il suo peso contrattuale, il che si palesò alla Conferenza interalleata di Teheran, del Novembre ’43. Per la prima volta Roosvelt, Churchill e Stalin s’incontrarono personalmente. Stalin riuscì ad ottenere dagli anglo-americani l’impegno per uno sbarco sulle coste francesi, nella primavera del ’44, nonostante fosse chiara la pericolosità dell’operazione (i tedeschi avevano costruito nella zona un’imponente fortificazione difensiva: il Vallo Atlantico). Per la realizzazione del piano fu necessario uno sforzo enorme, così da permettere uno spiegamento di mezzi e uomini tale da assicurare agli americani, guidati dal Generale Eisenhower, una schiacciante superiorità.
L’OPERAZIONE OVERLOAD, scattò il 6 Giugno ’44. Le truppe alleate, precedute da un fittissimo bombardamento, riuscirono a sbarcare sulle coste della Normandia. Dopo giorni di cruenti combattimenti, gli alleati riuscirono a penetrare nell’entroterra sfondando le difese tedesche. Il 25 agosto ’44 le truppe alleate e l’esercito francese di De Gaulle entrarono in una Parigi già liberata dai partigiani francesi. Nonostante la tattica suicida ordinata da Hitler che pretendeva la resistenza ad oltranza, l’avanzata alleata si bloccò e l’esercito nazista ebbe il tempo di rioganizzarsi.
Ma la Germania poteva già considerarsi virtualmente sconfitta, il fronte degli alleati si stava sbriciolando. Bulgaria, Romania, Ungheria e Finlandia avevano firmato armistizi. Il territorio del Reich non era ancora stato toccato dagli alleati, ma era sottoposto a continue incursioni aeree. L’offensiva aerea alleata aveva l’obiettivo di:

  • Colpire la produzione industriale nazista;
  • Demoralizzare la popolazione.

Oltre agli obiettivi militari ed industriali furono colpite anche le città, molte delle quali furono ridotte in macerie. Ma nemmeno i bombardamenti piegarono la spregiudicata determinazione di Hitler di volere resistere ad oltranza. Il Fuhrer credeva ancora nella possibilità di un nuovo rovesciamento delle sorti; aveva avviato un programma di studio su nuove armi particolarmente potenti, come i missili V1 e V2, nonché un imponente studio sulla realizzazione della Bomba atomica. Ma aveva continuato, anche, a sperare in una rottura tra l’URSS e le altre potenze alleate, prospettiva del tutto infondata. Nella Conferenza di Mosca dell’Ottobre ’44, Churchill e Stalin abbozzarono una divisione di zone d’influenza nei Balcani, che comunque contrastava con le direttive della Carta Atlantica. A cementare ulteriormente l’alleanza, Churchill, Stalin e Roosvelt tornarono a riunirsi nella Conferenza di Yalta, in Crimea, nel Febbraio ’45. Nell’occasione fu deciso che la Germania sarebbe stata divisa in quattro zone d’occupazione e sottoposta a radicali misure di denazistificazione; in Polonia, il nuovo governo sarebbe dovuto nascere da una componente comunista e una filoccidentale. In cambio delle rassicurazioni ottenute nella conferenza, l’URSS dichiarò guerra al Giappone.
A metà Gennaio ’45 i tedeschi tentarono un’ultima disperata controffensiva nelle Ardenne, ma gli alleati riuscirono a bloccarli e a riprendere l’iniziativa. I sovietici conquistarono la Polonia ed entrarono in territorio tedesco. A Febbraio erano a pochi chilometri da Berlino (un obiettivo che Stalin mirava a raggiungere prima degli alleati).
Più a Sud l’Armata Rossa liberava l’Ungheria, la Cecoslovacchia e l’Austria.
Gli anglo-americani, che avevano sfondato in Normandia, attaccarono la Germania dal Reno. Riuscirono ad entrare in territorio tedesco trovando, per la prima volta, una scarsa resistenza. Il 25 aprile ’45 anche le avanguardie alleate si posizionavano attorno a Berlino. Il 30 aprile ’45, mentre l’Armata Rossa stava per entrare a Berlino, Hitler si ucciseidò nel suo Bunker, lasciando la presidenza del Reich all’Ammiraglio Donitz. L’ammiraglio chiese subito agli alleati di firmare l’armistizio, che sarà firmato il 7 Maggio ’45 a Reims.


LE OSTILITÀ CESSARONO LA NOTTE TRA L’8 E IL 9 MAGGIO 1945.

In aprile, crollava anche il Fronte Italiano. Il 25 aprile, il CLN lanciava l’ordine dell’Insurrezione generale. Mussolini, che tentava di riparare in Svizzera, travestito da soldato tedesco, fu catturato e fucilato il 28 aprile ’45 e il suo cadavere fu esposto a Milano in Piazzale Loreto.
Dopo il 9 Maggio ’45 la Guerra Mondiale, in Europa, era conclusa, ma restava aperta ancora in Estremo Oriente, dove il Giappone, ormai solo, continuava ostinatamente a combattere.

 

139 LA GUERRA NEL PACIFICO E IN ASIA E LA SCONFITTA DEL GIAPPONE

Nonostante l’impegno sul fronte europeo, l’esercito americano, a partire dal ’43, incominciò una lenta ma costante riconquista delle posizioni nel Pacifico.  Nell’estate del ‘45 liberi rivolsero tutto il loro potenziale alla guerra al Giappone. Decisivo fu l’apporto delle grandi portaerei, navi gigantesche, con enormi ponti da cui potevano decollare aerei (caccia e bombardieri strategici, enormi velivoli che potevano volare altissimi, fuori dallo spazio aereo nipponico, così da potere liberamente e ripetutamente bombardare il territorio). Il nemico orientale, malgrado la fine dell’ASSE, continuava a combattere con accanimento, rifiutando la resa. Per bilanciare lo strapotere americano, l’esercito del Sol Levante utilizzò una nuova arma: i Kamikaze. Aviatori suicidi, che usavano i propri velivoli come proiettili per affondare le navi nemiche. Questo sistema non convenzionale sconvolse gli statunitensi, che per un attimo si trovarono spiazzati. Il timore di un peggioramento, costrinse il nuovo presidente, Truman, succeduto a Roosevelt nell’aprile ’45, d’impiegare contro il Giappone una nuova arma, da tempo in studio negli States.

La prima Arma Totale della storia: la Bomba Atomica

Realizzata da un pool internazionale di scienziati, aveva un duplice scopo:

  • Abbreviare il corso del conflitto nel Pacifico, piegando definitivamente la resistenza nipponica;
  • Dimostrare a mondo e soprattutto all’alleato sovietico”, la potenza USA.

Il 6 Agosto ’45 a Hiroshima, il 9 a Nagasaki furono sganciate le atomiche.

  • migliaia di morti;
  • la completa distruzione delle città;
  • effetti delle radiazioni nel lungo periodo.

Il 12 settembre ’45 l’imperatore Hirohito firmò l’armistizio che segnava la conclusione del secondo conflitto mondiale.

Il risultato finale fu di oltre 50 milioni di morti, ma le ricadute economiche furono tremende, soprattutto nei paesi che la vissero in prima persona.

 

140 I PROBLEMI DEL DOPOGUERRA E LE NAZIONI UNITE.

La guerra è lo spartiacque fra due periodi storici, dove si concretò il culmine della crisi internazionale iniziata con la prima guerra mondiale.
L’incapacità di proporsi come potenza mondiale, in un panorama sempre più ampio, aveva impedito agli stati europei di rimanere la guida mondiale, aprendo la strada agli USA e all’URSS.
L’organizzazione delle due superpotenze non era quella dei vecchi Stato-nazione:

  • realtà multietniche;
  • grande industriallizzazione;
  • dispensatrici di messaggi per assicurare il benessere dei popoli;
    • Messaggio americano: espansione della democrazia occidentale, pluralismo politico, libertà individuale e di concorrenza, basata sull’etica del successo, con un impronta edonistica e utilitaristica;
    • Messaggio sovietico: trasformazione dei vecchi assetti politico-sociali sulla base del modello collettivistico, a partito unico e a pianificazione centralizzata, basato su un’etica anti-individualista, con disciplina e sacrificio, dedicata all’ideale costruzione di una nuova società.

L’intero pianeta si trovò perciò diviso in un sistema bipolare.
La scoperta delle reali proporzioni dell’olocausto, le nuove armi di distruzione di massa, la conoscenza degli effetti dell’atomica (metteva in discussione la sopravvivenza stessa dell’umanità), la guerra, avevano prodotto una nuova coscienza collettiva consapevole della pericolosità di un futuro conflitto.
Il clima d’incertezza in cui si viveva il dopoguerra evidenziava la necessità di strutturare un sistema di relazioni internazionali stabile e funzionale.
Si aggiornò il diritto internazionale, con l’istituzione di un’apposita sezione penale, utilizzata nei processi di Norimberga(‘45-’46 contro i capi nazisti) e di Tokyo (‘46-’48 contro i dirigenti giapponesi).
Grazie al loro primato economico, promotori e garanti del nuovo sistema mondiale si proposero gli USA, diventando per il mondo occidentale un riferimento per la ricostruzione materiale ma anche istituzionale, culturale ecc. Gli USA sembravano l’unico paese in grado di realizzare i sogni cui gli europei volevano tornare a credere.
Gli Usa ispirarono la nascita dell’ONU - Organizzazione delle Nazioni Unite -, che si basava su due principi ispiratori differenti:

  • L’utopia democratica di Wilson;
  • Istituzione di un direttorio di potenze per governare gli affari mondiali

L’ONU attualmente si compone di:

  • ASSEMBLEA GENERALE, che rispecchia i principi d’universalità dell’organizzazione e d’uguaglianza delle nazioni. Si riunisce una volta l’anno e adotta a maggioranza semplice decisioni non vincolanti per gli stati membri;
  • CONSIGLIO DI SICUREZZA, di cui fanno parte 15 nazioni: 5 fisse (USA, Cina, URSS (Russia dal ‘92) GB e Francia) con diritto di veto e le altre 10 elette a turno tra tutti i membri. In caso di crisi internazionali può prendere decisioni vincolanti fino all’intervento armato. Il diritto di veto fu voluto dall’URSS per scarsa fiducia nell’organismo e fu usato spesso per paralizzare l’assemblea;
  • CONSIGLIO ECONOMICO E SOCIALE, da cui le aziende per la collaborazione (UNESCO, FAO);
  • CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA per risolvere i contrasti tra gli Stati che vi si rimettono volontariamente.

Comunque, l’ONU è spesso risultata troppo divisa per gestire le crisi, cioè assolvere il suo compito. Durante le prime discussioni circa il futuro dell’Europa apparsero chiare due visioni generali della nuova organizzazione mondiale:

    • Usa puntavano sulla ricostruzione di un nuovo ordine, piuttosto che sulla punizione delle nazioni sconfitte;
    • URSS insisteva molto sul prezzo della vittoria (politico, economico e di sicurezza) e sulle riparazioni, dal valore simbolico oltre che pratico.

Roosevelt capì che per scongiurare una nuova guerra occorreva convivere con l’URSS, non s’oppose all’instaurazione nell’est di regimi filo-comunisti.
Nell’aprile ’45 iniziò la presidenza Truman che vide un irrigidimento nei rapporti coi sovietici; cosicché alla conferenza di Postdam- luglio–agosto ’45 - sorsero problemi sul futuro della Germania e dell’Europa dell’est.
L’URSS, per realizzare il proprio impero, impose formalmente di insediare al potere i partiti comunisti locali calpestando più volte le regole democratiche.
Alla conferenza di Parigi - luglio–ottobre ’46 - si risolsero i nodi riguardanti Italia, Bulgaria, Finlandia, Romania, Ungheria: l’URSS inglobava Estonia, Lettonia e Lituania, parte della Polonia dell’est che acquistava terreni ad ovest a spese della Germania, attestandosi sui fiumi Oder e Neisse. Rimase ancora insoluto il problema della ricostruzione istituzionale della Germania.
Un altro dei grandi problemi della guerra fu quello economico, il conflitto lasciò ovunque realtà di popolazioni decimate ed economie stremate. Per risolvere la situazione i governi americani inviarono, già al termine del conflitto, aiuti sotto forma di soldi, viveri e beni di prima necessità. A partire dal ‘47-’48,  con l’European Recovery Program – meglio conosciuto come Il Piano Marshall - fu strutturata una fitta rete d’aiuti che avrebbe accompagnato le nazioni più colpite dal conflitto alla ricostruzione e alla ristrutturazione del sistema economico-finanziario.
Tra il ’48 e il ’52 gli USA riversarono in Europa 13 miliardi di dollari tra prestiti a fondo perduti, macchinari e alimenti.
L’URSS rifiutò gli aiuti, temendo che volessero indebolire l’influenza sovietica in nei suoi stati-satellite in Europa.
Gli aiuti del piano Marshall furono utilizzati in un quadro d’economia liberista, anche se non mancarono interventi diretti sulle strutture istituzionali che nonostante le storture ideologiche produssero:

  • sempre più stretti legami con gli USA;
    • Una pace sociale e la prospettiva di un nuovo benessere.

Il rovescio della medaglia, fu che l’accettazione degli aiuti era assoggettata al rispetto d’alcuni vincoli, cui dovettero sottostare i paesi usufruttuari:

  • Acquisto di quote di forniture industriali made in USA;
  • Accattazione dei controlli di verifica per l’utilizzo degli aiuti;
  • Intese per tutelare l’industria Usa dalla concorrenza europea.

Interesse degli USA, prima potenza economica al mondo, era di creare un’economia libera dai vincoli protezionistici. A tal fine nel luglio 1944 a Bretton Woods fu creato il Fondo Monetario Internazionale. Il suo scopo era di  creare un’adeguata riserva di valuta mondiale e assicurare la stabilità dei cambi, ancorando le monete all’oro e al dollaro (che consolidava così il suo primato).
A questa nuova istituzione fu affiancata la BANCA MONDIALE, che aveva il compito di concedere prestiti a medio e lungo termine per favorire lo sviluppo.
Sul piano commerciale furono stipulate numerose intese, come Gli Accordi generali sulle tariffe e sul commercio (GATT, Ginevra ottobre ‘47) che strutturò un sistema liberoscambista basato sull’abbassamento dei dazi doganali.
Così facendo, gli USA finirono con l’aiutare la ristrutturazione e la rinascita di molte economie, ma assoggettandole alle proprie esigenze, finendo per rappresentare una figura complementare a quella sovietica e nei suoi stati satellite.

 

141 LA GUERRA FREDDA

L’alleanza militare tra potenze profondamente diverse per cultura e istituzioni difficilmente avrebbe potuto sopravvivere alla fine del conflitto.
L’alleanza tra Usa e Urss cominciò ad incrinarsi già prima la fine della guerra in riferimento, soprattutto alle problematiche legate alla divisione della Germania. Le due superpotenze rimanevano divise da culture diverse:

  • gli Stati Uniti proponevano un sistema liberale basato sul  pluripartitismo, in un modello economico liberista e capitalistica;
  • l’URSS proponeva un sistema socialista basato su un partito unico, un modello economico a  pianificazione centralizzata e collettivizzata.

Roosevelt s’era convinto di poter trattare con l'Unione Sovietica, ma già alla conferenza di Potsdam del ’45, il suo successore Truman ebbe modo di trovare motivi di contrasto con Stalin proprio sul futuro della Germania.
Nel ‘46-‘47 i contrasti si acuirono dando inizio alla cosiddetta GUERRA FREDDA, una guerra latente, sempre sul punto di esplodere.
Nella pratica le “azioni belliche” prevedevano appoggi politici e militari a stati insidiati da uno dei contendenti. Primo esempio di questo clima si verificò appena finita la Guerra, quando i sovietici insidiarono Turchia per avere il controllo dello stretto dei Dardanelli; gli americani proposero imediatamente il loro appoggio ai turchi per una politica di contenimento.
In base alla dottrina Truman (comune a quella d’altri presidenti americani), gli USA s'impegnavano ad intervenire, quando necessario, per sostenere i popoli liberi contro le pressioni straniere.
Nel giugno ‘47 gli USA strutturarono un piano d’aiuto economico-finanziario per i paesi devastati dalla guerra che prese il nome di Piano Marshall. Oltre all’intento filantropico, gli americani cercarono di creare una rete di dipendenze la più ampia possibile. Per tutta risposta i sovietici obbligarono i loro stati-satellite a rifiutare gli aiuti. In alcuni paesi – filoamericani – le istituzioni neogovernative estromisero brutalmente i comunisti dalle coalizioni di governo, come in Italia e in Francia.
La questione più importante fu quella della “spartizione della Germania”. Inizialmente fu divisa in quattro zone d’occupazione:

  • americana, inglese, francese e sovietica.

Successivamente, dopo gravi tensioni per il blocco sovietico a Berlino che non permetteva agli americani i rifornimenti alla città, fu divisa in due zone con la proclamazione ufficiale di

  • REPUBBLICA FEDERALE TEDESCA, con capitale Bonn; sotto il controllo anglo-franco-americano;
  • REPUBBLICA DEMOCRATICA TEDESCA, con capitale Pankow (sobborgo di Berlino) sotto il controllo dell’Unione Sovietica.

Così, poco dopo la Guerra, il mondo si trovava diviso in due sfere d’influenza, una americano e l’altra Sovietica. La divisione si concretò ancor più nettamente grazie alla stipula di trattati militari:
Nel 1949 nasce il Patto Atlantico, alleanza difensiva fra i paesi dell'Europa occidentale, gli Stati Uniti e il Canada;
Nel ‘55 la risposta sovietica si concretò nel Patto di Varsavia con cui l'Urss costrinse i paesi satelliti ad un'alleanza militare.
Guerra Fredda voleva dire una corsa sfrenata all’incremento delle capacità belliche delle due superpotenze. Per molti anni, risorse immense furono sprecate per gli armamenti.

 

142 L'URSS E L'EUROPA ORIENTALE DAL 1945 ALLA MORTE DI STALIN

Alla fine della guerra, con l'imminente problema della Guerra Fredda; malgrado le gravissime perdite subite (ricordiamo che ebbe 20 milioni di vittime) l’Unione Sovietica tentò di risollevare la propria economia. La ricostruzione e il risanamento furono abbastanza rapidi, anche grazie alle riparazioni di guerra imposte alla Germania, all'Ungheria, Romania, e Cecoslovacchia. La priorità, tipica del modello sovietico, fu indirizzata allo sviluppo dell'industria pesante a scapito dell'agricoltura. Molte delle spese furono scaricate sul tenore di vita della popolazione, nonostante ciò in breve tempo, l’URSS divenne la maggiore produttrice di materie prime e di energia al mondo e dal ‘49 entrò in possesso anche della bomba atomica.
Sul piano della politica estera, fu un periodo di trasformazione dei territori occupati dall’armata rossa in democrazie popolari, che nella realtà mascherava una vera e propria imposizione del regime comunista.
S’incominciò con Polonia che prima di tutto rappresentava un problema di sicurezza per l’URSS. Dapprima fu istituito un governo fortemente filosovietico, poi s’intervenne con un vero e proprio controllo alle elezioni del ‘47 che portarono alla schiacciante vittoria comunista. Non fu molto diverso per Romania, Bulgaria e Ungheria.
Più drammatica fu la situazione della Cecoslovacchia, dove la linea favorevole all'Urss si scontrò con desiderio di accettare gli aiuti del piano Marshall. La violenta campagna scatenata ad arte contro le forze eversive impose l’uso della forza per la creazione della nuova Repubblica Democratica cecoslovacca.
Senza problemi fu la presa di potere dei comunisti in Albania e Jugoslavia, anche se quest’ultima, nel ‘48 ruppe il fronte con l'unione sovietica, in seguito alle resistenze di Tito. Esclusa dal Comiform, la Jugoslavia, cominciò una linea automa da entrambi i blocchi e una politica interna di comunismo capitalistico.
Per evitare che lo scisma jugoslavo trovasse nuove adesioni, furono attuate purghe nei confronti dei dirigenti comunisti di molti paesi dell’Est.
In tutti i territori filo-sovietici fu imposto:

  • il modello di collettivizzazione dell’agricoltura;
  • la nazionalizzazione delle industrie e del sistema commerciale;
  • priorità assoluta allo sviluppo dell'industria pesante.

Gli scambi, i prezzi e le regole di mercato fra i paesi satellite dell’unione sovietica furono rigidamente regolate attraverso il consiglio di mutua assistenza economica (comecon) istituito nel ‘49.

 

 

143 L'EUROPA OCCIDENTALE NEL DOPOGUERRA: CARATTERI GENERALI

Tutta Europa occidentale, tranne per i casi di Spagna e Portogallo ancora governati da regimi autoritari, fu spinta da un forte senso democratico e riformista.
Il caso più emblematico fu quello dell'Inghilterra dove le elezioni del luglio 45 portarono alla vittoria dei laburisti e alla conseguente sconfitta di Churchill. Il nuovo governo nazionalizzò la banca d'Inghilterra, le industrie e i trasporti, introducendo il cosiddetto Welfare State, riforme sociali come la completa gratuità delle prestazioni mediche e un sistema di sicurezza sociale. Queste riforme portarono a notevoli sacrifici per la popolazione che infatti nelle elezioni del 51 riportarono al potere i conservatori.
La IV Repubblica in Francia vide inizialmente il governo De Gaulle di colazione sull’accordo fra i tre partiti di massa: il partito comunista, la Sfio e il movimento repubblicano popolare. Nel 1946 fu elaborata una nuova costituzione di stampo democratico-parlamentare, ma nello stesso anno l'alleanza dei tre partiti di massa si ruppe soprattutto per i contrasti dovuti alla guerra fredda(estromissione dei comunisti dal governo). Da allora i governi che successero sempre organizzati su alleanze tra i socialisti e il centro furono da caratterizzati sa notevole instabilità che porterà negli anni alla caduta della IV repubblica.
Paradossalmente fu proprio la Germania sconfitta a riprendersi più rapidamente malgrado si trovasse in condizioni disastrose, l'economia in collasso e le città completamente distrutte. La Germania era stata divisa territorialmente nel 1949 in due zone.
Repubblica federale tedesca sotto l'influenza americana, retta da una costituzione democratica­ dove non furono chieste le riparazioni di guerra e si poté beneficiare degli aiuti del piano Marshall. Stimolata dagli investimenti si risollevò rapidamente.
Repubblica democratica tedesca sotto l'influenza sovietica, sul modello delle democrazie popolari; furono chieste le riparazioni di guerra e il sistema produttivo collettivizzato nei beni e risorse secondo il modello sovietico, con priorità all'industria pesante.

 

 

144 ORIGINI E SVILUPPI DELLA COMUNITÀ EUROPEA

Mentre nell’Europa dell’Est la sovranità dei governi rimaneva limitata, i maggiori stati dell’Europa occidentale entravano nell’ottica d’affiliazione agli USA.
Chi soffrì più acutamente questo passaggio fu la Francia. De Gaulle dopo l’elezione alla presidenza della Repubblica nel 1958, varò una nuova costituzione che sancì l’istituzione della V repubblica. Avviò una politica contraria a chi auspicava il mantenimento delle colonie e si prefisse lo scopo di portare la Francia alla guida di una futura Europa unita, distinta dalla NATO e organizzata con una propria forza nucleare, e svincolata dal dollaro.
Al contrario la G.B. accettò il declino dell’impero e instaurò politiche di collaborazione economica con gli ex-possedimenti coloniali.
La ripresa più spettacolare fu quella della Germania federale che applicò un modello economico di stile capitalistico. Alla base della ripresa ci fu la grande disponibilità di manodopera dei profughi dell’ex-reich; alla moderazione dei sindacati e soprattutto alla stabilità politica degli esecutivi, dovuta a meccanismi istituzionali atti a limitare le influenze dei piccoli partiti.
Nazioni ormai rette da regimi parlamentari democratici e accomunate dalla necessità della ricostruzione di un ordine nuovo cercarono di organizzarsi in tal senso.
Nel 1951 nasce la CECA Comunità europea del carbone e dell’acciaio con il compito di coordinare produzione e prezzi dei settori chiave delle risorse e dell’industria.
Nel 1957 si giunse a trattato di Roma con il quale Italia, Germania federale, Belgio, Olanda e Lussemburgo istituivano la CEE(Comunità Economica Europea), con lo scopo di regolamentare il MEC(mercato comune europeo): prevedeva la libera circolazione della forza lavoro e dei capitali. Al progetto non partecipò la Francia di De Gaulle, perché orientata ad una nuova Europa guidata dalla Francia e “staccata” dagli Stati Uniti.
Gli organi principali della CEE sono: la Commissione, il consiglio dei ministri, la corte di giustizia e il parlamento europeo.

 

 

145 LA FRANCIA DOPO IL 1945 : LA IV E V REPUBBLICA

La fine della guerra in Francia coincise con l’ultima fase della IV Repubblica. Governata provvisoriamente fra il ‘44 e ‘ ‘45 e da coalizioni fra i tre partiti di massa: comunista, socialista e repubblicano popolare di ispirazione democratico-cristiana, produsse nel ’46 una nuova costituzione moderata. De Gaulle nel ‘47 preferendo un sistema presidenziale fondò il “Raggruppamento del popolo francese”, mentre l’alleanza fra i partiti di massa si ruppe per le discriminazioni introdotte dalla guerra fredda nei confronti dei comunisti, che furono a sempre esclusi dai nuovi esecutivi.
Nel ’58, al massimo dell’aggravamento della questione algerina, fu richiamato al governo De Gaulle incaricato di redigere una nuova costituzione che fu approvata da un referendum.
Nasce la V Repubblica con elementi di rafforzamento dell’esecutivo:
elezione diretta del Capo dello stato, con l’incarico di nominare il capo del governo e sciogliere le Camere;
Diventato presidente De Gaulle sistemò con energia la questione algerina e propose di portare la Francia fuori dalla sfera di controllo americana e alla guida di una Europa Unita.
Dotò la Francia di una propria forza nucleare, contestò la supremazia del dollaro, si oppose ai progetti d’integrazione politica fra i paesi della CEE, tutte questi aspetti della politica gaullista suscitarono vaste adesioni e contribuì a rendere più solida la V Repubblica.

 

 

146 GERMANIA: SPACCATURA DEL PAESE E SVILUPPI SUCCESSIVI DELLE DUE REPUBBLICHE

 

La Germania fu motivo di scontro tra gli alleati. Alla fine della guerra, la nazione e la stessa Berlino, furono divise in zone di occupazione assegnate alle quattro potenze vincitrici.
In seguito le potenze occidentali unificarono le loro zone di competenza nel ’47 attuando una profonda riforma strutturale con gli aiuti del piano Marshall.
Nel giugno ’48 Stalin reagì con il blocco dei rifornimenti di Berlino. Fu il momento di tensione maggiore del dopoguerra, risolto con un ponte aereo che vanificò l’operazione nel’49.
Stalin rispose con la creazione di una Repubblica democratica tedesca con capitale Pankow, repubblica socialista con regime a partito unico, il Partito socialista unificato tedesco, nato dalla fusione tra socialdemocratici e comunisti (fotocopia di quello sovietico) votato alla collettivizzazione e al pagamento delle riparazioni di guerra.
Nel maggio ’49 furono unificate le zone ovest della Germania e fu proclamata la Repubblica federale tedesca con capitale Bonn,  con un regime democratico-parlamentare. La situazione dell’immediato dopoguerra era tremenda: città distrutte dai bombardamenti, vie di comunicazione interrotte, economia al collasso, dieci milioni di profughi rientrati dall’Est. Sebbene avesse trovato una teorica sovranità nazionale risentiva della frattura interna.
La RFT fu graziata dalle riparazioni, favorita dagli aiuti del piano Marschall,  e controllata politicamente dagli USA che volevano farne non solo un’avanguardia europea, un modello di confronto del benessere occidentale contro quello sovietico. Già nel ’51 l’economia mostrò le sue grandi capacità di recupero che segnò l’inizio della rinascita.
La storia istituzionale del dopoguerra della RFT vide un percorso vario:
dal ’49 al ’66 coalizione a larga maggioranza di cristiano-democratica;
dal ’66 al ’69 coalizione cristiano-democratica e guida SPD di Brandt;
dal ’69 al ‘74 coalizione SPD e liberali in alternativa ai cristiano-democratici.
La nuova coalizione socialdemocratica-liberale governò con grandi progressi sociali, ma si caratterizzò soprattutto per la politica estera. Brandt pose esplicitamente la questione della riunificazione della Germania in un’ottica d’integrazione nel blocco atlantico. l’Ostpolitik  di Brandt consentì di riallacciare i rapporti diplomatici con la Germania Est.

147 GLI STATI UNITI DOPO IL 1945: GLI ANNI 50 E IL MACCARTISMO

 

Diversamente dagli altri paesi gli USA furono i soli a non avere il problema della ricostruzione (non erano stati toccati dalle distruzioni), ma dovevano convertire l'economia.
Sul piano interno il FAIR DEAL DI TRUMAN fu meno riformista del piano Roosvelt, perché la spinta del New Deal era ormai esaurita, e si era ormai in piena crisi con l'URSS.
Fu proprio la paura della perdita di peso politico a produrre una sterzata conservatrice nella nuova politica interna statunitense. Per tutelare le principali attività USA furono varate numerose leggi che limitavano le libertà sindacali e tutelavano gli interessi della produzione interna. Nel 1947 il Piano di aiuti Marshall aveva anche lo scopo di colonizzare economicamente l’occidente, obbligando a importare prodotti Usa.
Nel 1949 con lo scoppio dell’atomica sovietica si scatenò una campagna anticomunista che finì con l’assumere i connotati della caccia alle streghe. Il principale ispiratore fu il senatore repubblicano McCarthy, che caldeggiò l’istituzione di commissioni d’inchiesta e strumenti giuridici ad hoc per emarginare i sospettati di filo-comunismo e di simpatie di sinistra. Nel 1955 il mostro finì col rivoltarsi contro il suo creatore: quando accusò parte dell’esercito di simpatie comuniste fu costretto a dimettersi.

 

 

148 LA RIVOLUZIONE COMUNISTA IN CINA

Nel 1949 l’avvento al potere del Partito Comunista in Cina segnò un punto di svolta nella Guerra Fredda. La rivoluzione cinese che provocò questa nuova evoluzione si collocò anche nel processo di decolonizzazione che procedeva a lunghi passi dopo il conflitto, finendo col rappresentare un esempio per gli altri paesi coloniali in lotta per l’indipendenza.
La precaria pace che i comunisti di Mao Tse-tung e i nazionalisti di Chang Kai-shek strinsero nel 1937 per affrontare il Giappone entrò in crisi già con la Guerra nel Pacifico.
Approfittando dell’impegno nel conflitto mondiale dei giapponesi, Kai-shek si dedicò alla guerra ai comunisti provocando una profonda frattura nella popolazione.
Al contrario i comunisti, nei territori da loro controllati, seppero opporre un’abile guerriglia ai giapponesi e apportare riforme sociali capaci di attirarsi il consenso delle popolazioni rurali (COMUNISMO RURALE).
Terminata la guerra, gli USA tentarono di riavvicinare nazionalisti e comunisti ma Kai-shek  forte dell’appoggio statunitense non volle scendere a compromessi e incominciò una campagna militare anticomunista. Ad una prima fase favorevole ai nazionalisti, 1946-’47, seguì un contrattacco dei comunisti forti del consenso popolare. Nel 1948 le truppe nazionaliste, isolate e demotivate, disertarono consentendo ai comunisti di entrare a Pechino nel febbraio ’49 mentre Kai-shek  riparava a Taiwan (Formosa).
Il 1° ottobre 1949 fu proclamata la Repubblica Popolare Cinese che fu riconosciuta da URSS e GB, ma non dagli USA.
Il nuovo Governo Rivoluzionario attuò misure di socializzazione dell’economia (riorganizzazione delle banche, nazionalizzazione di grandi e medie industrie, socializzazione della terra) con un seppur limitato spazio per l’impresa privata.
Nel febbraio 1950, stipulò un trattato di amicizia e mutua assistenza con l’URSS, contrapponendosi formalmente al blocco filoamericano.

 

149 DISTENSIONE, DESTALINAZIONE, CRISI DEL 1956

 
Con la fine della presidenza Truman nel 52 e la morte di Stalin nel 1953 la guerra fredda perse i suoi maggiori protagonisti con molti punti interrogativi per non facili problemi si andava verso un periodo di maggior dialogo: la distensione.
Era il primo segno di un riconoscimento reciproco tra le due superpotenze. Questo provocò una serie di concessioni tra i due schieramenti.
Alla morte di Stalin, nel 1953,  seguì Nikita Kruscev, che si fece promotore di significative aperture in politica estera, anche se l’atteggiamento generale del paese non mutò. Ma furono eliminate le grandi purghe e in campo economico fu rilanciata l'agricoltura.
Ma l’evento più significativo legato alla dirigenza Kruscev fu nel ‘56 il rapporto con il quale al XX congresso del partito comunista denunciò gli errori di Stalin: dalle torture, agli arresti di massa, ai processi farsa, al culto della personalità; che portò all’avvio di un processo di destalinizzazione con forti ripercussioni nell’Est, in particolare in Polonia e in Ungheria.
Proprio in Polonia, nel ‘56, sulla scia dell’entusiasmo, portò a manifestazioni di protesta (ottobre polacco) che favorirono un ricambio ai vertici del governo, con l’ascesa di Gomulka che promosse una politica di cauta liberalizzazione e rappacificazione con la Chiesa.
Nuove proteste sempre nel ‘56, questa volta in Ungheria, furono invece stroncate nel sangue per l’annuncio dell'uscita dell'Ungheria dal patto di Varsavia.. All’uccisione del capo del governo Nagy seguì il nuovo governo del segretario del partito comunista Radar.
L'intervento sovietico provocò sdegno dimostrando gli evidenti limiti della destalinizzazione.

 

150 L'INDIA: L'INDIPENDENZA E SVLUPPI POLITICI SUCCESSIVI

Il continente asiatico fu il primo a raggiungere importanti livelli d'indipendenza coloniale, precedendo di circa 10 anni quello africano. Questo fu dovuto soprattutto al carattere più avanzato ed autonomo della struttura politica e sociale che aveva preceduto la colonizzazione. Tale caratteristica aveva favorito un’equilibrata contaminazione. L’Asia era stata sede d’antiche e raffinate civiltà così poterono nascere elite locali competenti, formate nelle università occidentali, che presero la guida dell’emancipazione continentale.
Caso eclatante fu rappresentato dall’indipendenza dell’India, del Partito del Congresso; forte della sapiente guida di Gandhi che promosse campagne di disobbedienza civile e boicottaggio alle istituzioni inglesi aveva portato a concessioni importanti, come nel 1935 la costituzione federale.
Durante il secondo conflitto mondiale, il partito del Congresso, guidato da Nehru promosse un movimento pacifista che aveva strappato agli inglesi la promessa di concessione dello status di Dominios, equivalente ad un’indipendenza.
Alla fine della guerra Ghandi si batté per uno stato laico in cui potessero convivere indù e mussulmani. Ma la contrarietà di quest’ultimi si accompagnò a tumulti tali da costringere gli inglesi a concedere la separazione. Nel 1947 videro la luce:
l’Unione Indiana a maggioranza indù;
il Pakistan a maggioranza mussulmano.
Nel 1971 il Pakistan stesso sarebbe stato a sua volta diviso dalla regione Orientale che prese il nome di Bangladesh. Ma nemmeno questa nuova divisione riuscì a portare pace tra le diverse etnie della zona.
Nel ’48 e nel ’65 Pakistan e India combatterono due guerre per il predominio sulla regione del Kashmir (a prevalenza mussulmana ma assegnato all’India).
Lo stesso Ghandi rimase vittima dell’estremismo indù, assassinato nel ’48.
Il suo braccio destro Nheru rimase alla guida dell’Unione Indiana sino al ’64, ma non riuscì a riformare un paese gravato da numerosi problemi economici, anche se da un punto di vista politico il paese riuscì a reggere il cambiamento.
Il Pakistan avrebbe visto più volte susseguirsi regimi autoritari e dittatoriali.

 

151 LA DECOLINIZZAZIONE IN ASIA

Nel Sud-est asiatico, d’emancipazione fu condizionata dal confronto fra le forze nazionaliste e quelle comuniste, raggiungendo soluzioni anche molto diverse le une dalle altre.
L’Indonesia, il movimento nazionalista ottenne l’indipendenza nel 1949, seguendo una politica di non allineamento con le grandi potenze. Nel 1965 il paese vide salire al potere il Generale Suharto, che aveva contrastato efficacemente un precedente tentativo di colpo di stato comunista.
Le Filippine, che diventarono indipendenti nel 1946, rimasero sempre fortemente legate agli Stati Uniti, e videro alternarsi al potere dei regimi autoritari come quelli di Ferdinando Marcos.
Una prevalenza dei comunisti si ebbe nelle ex-colonie francesi dell’Indocina.
In Vietnam i comunisti di Ho Chi-mihn, dopo avere combattuto durante la seconda Guerra Mondiale contro il Giappone e la Francia di Vichy, proclamarono la Repubblica Democratica del Vietnam nel 1945. Ma i francesi non riconobbero il nuovo stato ed occuparono la parte meridionale del paese. Ne nacque una guerriglia che esaurì l’esercito francese costringendolo alla resa. Gli accordi di Ginevra del 1946 sanzionarono l’abbandono dei francesi dalla penisola indocinese, in cambio il Vietnam fu diviso in uno stato comunista al Nord e uno filo-occidentale al Sud.

 

152 IL MEDIO ORIENTE ISRAELE LE GUERRE ARABOISRAELIANE

Già dai primi del ‘900 in Medio Oriente s’era sviluppato un movimento indipendentista alimentato dagli inglesi, durante il primo conflitto mondiale, in funzione antiturca. La GB aveva promesso alle popolazioni arabe la creazione di un Regno Arabo Indipendente al termine del conflitto, ma le intenzioni erano di usarli.
Ancor prima della fine del conflitto nel ’16 i territori erano stati così ripartiti:

  • All’Inghilterra Mesopotamia e Palestina;
  • Alla Francia Siria e Libano.

Un’altra parziale ipoteca sui territori fu posta nel 1917 in Palestina, dove il governo inglese aveva riconosciuto il diritto al movimento sionista di costituire una “sede nazionale”. Concessione che rimase per i più, anche per gli occidentali, politicamente equivoca. La dichiarazione richiamò comunque una forte migrazione sionista che provocò numerosi scontri tra arabi e ebrei già partire dal 1920-’21.
Il movimento arabo si rivoltò contro le potenze europee formando due correnti:
Tradizionalisti, auspicanti l’applicazione del Corano e quindi una islamizzazione della società (integralisti islamici);
Laici e nazionalisti il cui pensiero era rivolto alla modernizzazione economica.
A prevalere furono quest’ultimi, sostenuta dalle grandi borghesie locali.
La guerra mondiale accelerò l’emancipazione anche in medioriente.
1932      Iraq ottiene l’indipendenza dagli inglesi

  • GB riconobbe Giordania, la Francia ritirò le truppe da Siria e Libano.

1946 Iraq, Egitto, Arabia Saudita e Yemen formano la Lega degli Stati arabicon scopi di futura confederazione, ma restava da sciogliere il nodo più intricato: la palestina.
Nel ‘39 la GB si impegna a rendere la Palestina indipendente entro dieci anni.
Ma durante il periodo, che vedeva gli israeliti fortemente perseguitati in tutto il teatro bellico, la situazione portò ad un’accelerazione delle richieste sioniste per la creazione di uno stato d’Israele caldeggiata dagli USA ma che vedeva l’opposizione della GB che non voleva entrare in contrasto con i paesi arabi.
Mentre i dirigenti sionisti chiedevano la libertà d’immigrazione le organizzazioni militati ebraiche passavano alla lotta armata, anche sotto forma di azioni terroristiche, rivolte sia contro gli arabi, che contro gli inglesi. Trovatisi di fronte ad una situazione incontrollabile, gli inglesi abbandonarono la Palestina.
Il 15 maggio 1948, la GB ritira le proprie truppe e rimette all’ONU il compito di decidere sulla situazione. La delibera dell’ONU propone la nascita di uno stato binazionale, ma la Lega araba respinge la proposta.
Appena partiti gli inglesi nel Maggio 1948 gli ebrei proclamano lo Stato di Israele.
Il nuovo Stato d’Israele nasce come democrazia parlamentare sul modello occidentale, dotato di strutture sociali e civili avanzate, in cui il capitalismo industriale possa convivere con la cooperazione delle comunità agricole (kibbutzim) e dimostra uno sviluppo e una forza superiori alla media, derivante dagli aiuti esteri (USA su tutti), dalla preparazione della classe dirigente laburista guidata da Ben Gurion, nonché dal forte patriottismo dei cittadini.La lega araba reagisce subito attaccando militarmente
La Prima guerra araboisraeliana (’48-‘49): si risolse con una secca sconfitta degli arabi, mal coordinati ed equipaggiati. Israele si ingrandì rispetto ai piani dell’ONU e occupò anche Gerusalemme est, mentre la Giordania incamerò i territori che avrebbero dovuto formare lo Stato di Palestina.
Dopo il 1956 il medioriente divenne terreno di scontro tra l’URSS, che appoggiava l’Egitto di Nasser e gli USA che appoggiavano Israele.
Nel 1967 Nasser, forte di un’alleanza militare con la Giordania, chiese il ritiro delle forze cuscinetto dell’ONU al confine con il Sinai, proclamando la chiusura del golfo di Aqaba, vitale per i rifornimenti di Israele. Israele rispose attaccando Egitto, Giordania e Siria il 5 giugno.
La guerra dei 6 giorni si concluse con la disfatta araba e ampie conseguenze:

  • distruzione dell’aviazione egiziana e perdita del Sinai;
  • la Giordania cedette la riva occidentale del Giordano Gerusalemme est (che diventerà capitale dello stato d’Israele;
  • la Siria perde le alture del Golan.
  • il declino di Nasser e della sua politica di oltranzismo panarabo;
  • consigliò un atteggiamento più prudente gli altri stati mediorientali;
  • provocò il distacco dei movimenti palestinesi che costituirono l’OLP - Organizzazione per la Liberazione della Palestina - riunione di movimenti di resistenza palestinesi guidata dal 1969 da Arafat, già leader del suo gruppo principale Al Fatah.

L’OLP pose le sue basi operative in Giordania, creando una specie di Stato nello Stato. Ma il Re Hussein di Giordania, esposto alle rappresaglie israeliane a causa degli attentati terroristici dei feddayn (combattenti) palestinesi reagì con sanguinosa determinazione. Nel settembre 1970 – IL SETTEMBRE NERO – scatenò le truppe regolari  contro combattenti e profughi, che furono costretti a riparare in Libano. Da allora l’OLP avrebbe esteso la propria lotta terroristica sul piano internazionale.
Nel 1970 Nasser morì  e gli successe Sadat che procedette ad una cauta ma decisiva politica antiisraeliana. Deciso a recuperare il Sinai preparò minuziosamente l’intervento militare. Il 6 ottobre ‘73  giorno dello Yom Kippur –ricorrenza religiosa ebraica - l’Egitto attaccò  Israele sul Sinai. Gli israeliani colti di sorpresa, riuscirono a ribaltare le sorti del conflitto solo grazie agli aiuti americani, così anche la guerra del Kippur terminò con la sconfitta egiziana, che però portò a significative conseguenze:

  • fu scosso il mito dell’invincibilità israeliana;
  • gli arabi trovano un fronte comune di lotta attraverso il blocco dello stretto di Suez e l’embargo petrolifero. La grave crisi che ne conseguì in occidente fece sì che gli stati filoamericani si dimostrassero più sensibili al dialogo.

Dopo la Guerra del Kipurr, Sadat cercò di trovare una soluzione politica al conflitto. Nel 1974-’75 espulse i tecnici URSS ed intraprese una politica filo-occidentale.
Nel novembre ’77  compì un clamoroso viaggio a Gerusalemme, dove formulò un’offerta di pace al Parlamento israeliano.


Con la mediazione del presidente Carter si arrivò alla firma degli accordi di Camp David nel’78, tra Sadat e il premier israeliano Begin che prevedevano la restituzione del Sinai in cambio di un trattato di pace con Israele del marzo ’79.

L’accordo sopravvisse anche alla morte del presidente egiziano, dopo un attentato nell’81 ad opera di un integralista islamico. Camp David prevedeva ulteriori negoziati, ma questo non avvenne. L’ostacolo principale fu individuato, in un primo tempo, nei paesi arabi e nell’OLP che denunciarono il “tradimento egiziano”. In un secondo tempo, resisi conto dell’impossibilità di vittoria con la lotta armata, i paesi arabi moderati e lo stesso OLP assunsero una posizione più morbida dimostrandosi disposti a trattare in cambio della restituzione dei “territori occupati” (Cisgiordania e striscia di Gaza). A questo punto fu la dirigenza israeliana a fare marcia indietro, anche perché avevano già iniziato l’opera di colonizzazione dei territori.
La tensione si accrebbe ulteriormente dalla fine del 1987 quando i palestinesi dei territori occupati diedero inizio ad una lunga e sanguinosa rivolta – L’INTIFADA (il risveglio) che vide una durissima repressione israeliana. Il carattere popolare della protesta giovarono all’iniziativa palestinese rendendo più difficile la posizione israeliana. Ma la situazione da allora non riesce a trovare uno sblocco.
I riflessi dell’irrisolto problema palestinese influirono negativamente anche su un paese vicino: il Libano. In questo piccolo stato convivevano molte etnie di diverse confessioni religiose. Il trasferimento coatto del OLP nei territori, dopo il SETTEMBRE NERO (1970),ruppe il precario equilibrio interno.
Dal 1975 il libano entrava in uno stato di cronica guerra civile, in cui diverse fazioni si fronteggiavano con le proprie milizie. La situazione si aggravò ulteriormente nel 1982, quando gli israeliani decisero d’andare a scovare i feddayn direttamente in Libano. Allora l’ONU decise per l’invio di una forza internazionale per ristabilire l’ordine formata da militari: americani, francesi, italiani e inglesi. Il contingente internazionale riuscì a  fare evacuare l’OLP, ma non a riportare la pace nel paese. Dopo una lunga serie d’attentati ai presidi militari francesi e americani, nel 1984  la forza militare venne ritirata, ma la situazione interna rimase ancora precaria.

 

153 L’EGITTO DI NASSER E LA CRISI DEL 1956

L’Egitto era formalmente indipendente dal ‘22, ma una monarchia corrotta e inadeguata aveva lasciato agli inglesi il controllo del Canale di Suez. L’influenza straniera non fu mai metabolizzata dalle popolazioni locali, tanto che giovani ufficiali contestatori  guidati da Gamal Abdel Nasser rovesciarono la monarchia nel 1952. Il governo Nasser avviò una serie di riforme in senso socialista tentando di promuovere un processo d’industrializzazione e in politica estera si propose come guida per la lotta delle popolazioni arabe contro Israele e contro le potenze occidentali. A tal fine ottenne lo sgombero degli inglesi nel Canale di Suez e stipulò accordi diplomatici e militari con l’URSS.
Il nuovo indirizzo filosovietico, e la nazionalizzazione del Canale di Suez spinsero gli occidentali a prendere posizioni intransigenti. Gli Usa bloccarono i finanziamenti per la costruzione della Diga di Assuan. Non contenti, i francesi e inglesi, con grandi interessi sul Canale, appoggiarono Israele in un’azione militare.


Nel 1956 anglo-franco-israeliani occuparono zone dell’Egitto; gli  anglo-ferancesi il canale di Suez, gli israeliani la penisola del Sinai.

Il mancato appoggio degli USA, che condannarono l’operazione, e un ultimatum dell’URSS costrinse le vecchie potenze coloniali a ritirarsi. L’operazione fece acquistare popolarità a Nasser, tanto da spingere la Siria, nel 1958, alla fusione con l’Egitto nella Repubblica araba unita. L’idea nasseriana di un  panarabismo capace di coagulare le nazioni in un’unica grande entità, fu sconfessato da forti contraddizioni nelle singole realtà nazionali, ma suggerì altre rivolte indipendentiste.
Nel ‘64, il colonnello Gheddafi in Libia, deposta la monarchia cercò di realizzare un socialismo islamico con elementi  occidentali e una politica antimperialista.

 

 

154 LA DECOLONIZZAZIONE DEL MAGHREB E DELL’AFRICA NERA

Per Maghreb si intende la zona nordoccidentale dell’Africa, cioè Marocco, Algeria, Tunisia.
Dall’inizio dei ’50 il nazionalismo arabo continuò a scontrarsi con i colonizzatori.
In Marocco la guida del movimento indipendentista fu assunto dal Partito dell’indipendenza (Istiqlal) appoggiato dal sultano Ben Yussef.
In Tunisia, le redini furono prese dal Neo-Destur di Habib Burghiba.
Entrambi i partiti erano su posizioni filo-occidentali.
Dopo avere tentato di mantenerne in possesso alternando repressione a proposte di autogoverno, la Francia concesse piena indipendenza ad entrambe nel 1956.
La situazione risultava più complessa in Algeria, anche e soprattutto a causa della presenza di oltre 1 milione di coloni francesi. Dopo la rivoluzione egiziana la posizione dei partiti indipendentisti si radicalizzò e si affermò il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) guidato da Mohammed Ben Bella. Lo scontro che andava profilandosi avrebbe diviso la stessa opinione pubblica francese. La fase culminante si verificò con la battaglia di Algeri del ’57, dove la città visse nove mesi di guerriglia urbana. La rivolta fu piegata con l’invio di truppe speciali, ma provocò forti dissensi la repressione, con eliminazioni fisiche degli insorti e l’uso sistematico della tortura. Nel maggio ’58, temendo un cedimento da parte del governo centrale, i coloni più radicali si riunirono con l’appoggio di militari in un Comitato di salute pubblica, che sembrava preludere un colpo di stato militare e che diede via libera al ritorno di De Gaulle (fine della IV Repubblica)che capì che l’Algeria era perduta. Dopo avere stabilito i primi contatti con il FLN, stroncò un colpo di stato militare ad Algeri nel ’61 e colpì duramente l’OAS (Organisation Armée Secrète). Nel marzo ’62 si accordò con il governo provvisorio (espressione del FLN) a Evian per un progetto di indipendenza da sottoporre a referendum che fu poi approvato a larga maggioranza. I coloni francesi abbandonarono l’Algeria.
Prima con Ben Bella, poi con Bumedien (‘65-‘79) l’Algeria si diede un ordinamento autoritario e centralizzato, senza però rinunciare ai rapporti con l’occidente.
Nelle ragioni sub-sahariane la decolonizzazione fu più tarda ma più rapida e meno conflittuale, se si eccettuano le zone dove erano presenti forti interessi.
Il primo fu il Ghana (GB) nel 1957 sotto la guida del capo nazionalista Nkrumah.
La prima colonia francese ad emanciparsi fu la Guinea (1958).
Nel 1960 si resero indipendenti 17 colonie, fra cui lo Zaire,Nigeria, Senegal, Somalia.
Generalmente il processo fu pacifico e permise alle colonie di avere buoni rapporti economici e culturali con le ex case madri.
Invece in Kenya (in cui erano presenti forti interessi) ci fu una sanguinosa campagna terroristica da parte della setta dei Mau-Mau e una feroce repressione inglese fino all’indipendenza del ’63.
La Rhodesia del Sud, durante il governo razzista di Smith, nel ’65 ruppe con la GB per difendere i privilegi del 7% bianco del paese. Dopo 15 anni di guerra civile, nel 1980 il paese fu restituito alla maggioranza nera e prese il nome di Zimbabwe.
Una cittadella della discriminazione è l’Unione Sudafricana dove negli anni ’50 e ’60 il regime di apartheid (discriminazione quotidiana in ogni ambito) diventò ancora più severo e inasprì il conflitto tra i 5 milioni di bianchi (anglofoni e boeri) e i 20 di neri.
Durante questi anni si susseguirono rivolte nere (come nel ghetto di Soweto, 1975).
Uno spiraglio si è aperto negli anni ’80 quando il premier de Klerk ha attuato misure per ridurre l’apartheid e avviato trattative con Mandela, leader del movimento nero contro la segregazione, uscito dal carcere nel febbraio ’90.
Vi sono problemi sono ancora irrisolti anche perché il Sudafrica è uno dei maggiori produttori di uranio, diamanti e oro, senza contare le divisioni tra tribù indigene e tra gli stessi bianchi.
Un caso a parte è il Congo, reso indipendente dal Belgio nel ’60 senza nessuna preparazione. Seguì una guerra civile e il tentativo di secessione della ricca provincia del Katanga.
Il leader indipendentista di sinistra Lumumba fu catturato e ucciso dai ribelli, e solo l’intervento delle truppe di pace riunì il paese dove in seguitò si affermò la dittatura del generale Mobutu.
Questo esemplifica i contrasti dell’Africa dopo una decolonizzazione rapida (in Nigeria, la rivolta e la repressione in Biafra nel ‘66-’68; in Eritrea i tentativi di secessione contro l’Etiopia dopo che il negus Selassié fu rovesciato da un golpe militare nel ’74 capeggiati da Menghistu).
Infatti, pur di decolonizzarsi, i capi nazionalisti accettarono le frontiere e gli apparati amministrativi precedenti, anche perché le teorie panafricane o del socialismo africano di Seghor e Nyerere non contenevano indicazioni precise.
In più, l’istituzione statale sembrava come il principio più potente per aggregare le varie tribù, anche se appariva difficile imporre lo stato–nazione a popolazioni di etnia, religione, lingua e tradizioni diverse. Ancora, le istituzioni democratiche sul modello europeo durarono poco lasciando spesso il posto a regimi militari (Amin in Uganda fra il ’71 e il ‘79).
All’instabilità economica si aggiunge la povertà economica, che spesso portava le ex colonie a dipendere dalle ex case madri. Per contrastare un nuovo colonialismo, di tipo economico (neocolonialismo) si cercò una decolonizzazione più radicale, ispirata al socialismo marxista e appoggiata dall’URSS: Tanzania ex Tanganika, Congo Brazzeville ex francese, Benin ex Dahomey (e dopo Etiopia di Menghistu, Angola e Mozambico dopo l’indipendenza dal Portogallo del ‘75) cercarono uno sviluppo sul mercato interno e guidato dallo Stato, ma anche questa via non risolse i problemi presenti anche negli altri stati.

 

155 L'AMERICA LATINA NEGLI ANNI ‘50 E ‘60

Nel dopoguerra i paesi dell’America Latina avevano un’indipendenza già consolidata. I problemi di cui soffrivano erano soprattutto economici dovuti ad uno sviluppo sociale che scontava il peso dell’arretratezza e della sudditanza USA, che si manifestò in modo diverso nei vari stati: in Messico favorì lo sviluppo; gli stati del centro, le cui economie erano basate sulle monocolture di proprietà delle grandi corporations americane, si trovarono schiacciati dalle oligarchie.
Gli USA s’arrogarono la tutela del continente, sotto quest’impulso crearono nel ‘48  “Organizzazione degli Stati americani” per migliorare la cooperazione fra gli stati, ma nella realtà doveva controllare e impedire la diffusione delle idee comuniste.
Gli anni del conflitto mondiale furono di generale espansione economica; profittando soprattutto delle difficoltà della concorrenza.
Il boom rafforzò nuclei di borghesi intraprendenti che costituirono un nuovo e potente ceto medio, che concorsero a realizzare grandi trasformazioni politiche che videro la nascita di realtà liberaliste, populiste e autoritarie.

Argentina

Nel 1946 in salì al potere Juan Domingo Peron, che diede vita ad un’esperienza populista autoritaria. Si fece promotore di un riformismo sostenuto e di forti incentivi alla produzione attraverso un uso spregiudicato della forza e un consenso maturato dal culto della figura del presidente e della moglie Evita. L’economia peronista ebbe fortuna soltanto durante la congiuntura economica favorevole. Dopo gli anni ’50 si assisté ad una nuova crisi, che provocò nel ‘55  il rovesciamento di Peron da parte dei militari. Nei anni successivi i militari lasciarono al governo esecutivi perlopiù a direzione radicale che non riuscirono a risollevare l’economia. Nel ‘66, temendo un ritorno dei peronisti, instaurarono una ferrea dittatura di destra.

Brasile

Negli anni ’30 s’era sviluppato un esperimento populista guidato da Getulio Vargas(GETULISMO), il quale tornò al potere nel 1950, dopo una parentesi di dittatura militare. Non riuscendo a sistemare l’economia, fu esautorato nuovamente dai militari nel 1954 e si suicidò. I successori, di orientamento liberale-conservatore, tentarono diverse strade per risanare l’economia, senza alcun risultato.
Nel ‘64 un colpo di stato, appoggiato dagli USA, portò ad un regime militare che a fronte di un lieve miglioramento economico ne scaricò gli oneri sulle classi povere.

Paraguay 1954 inizia la lunga dittatura del generale Strossner.

I soli paesi in cui le istituzioni tennero furono l’Uruguay, il Cile e il Messico.

 
Cuba

In un quadro di estrema debolezza delle forze di sinistra nel continente, assunse un’enorme importanza l’esperienza di Fidel Castro a Cuba.
Nel 1959 il regime dittatoriale di Fulgencio Batista fu rovesciato da una rivolta armata cominciata tre anni prima, senza che gli USA si opponessero.
Castro avviò una riforma dell’agricoltura che colpiva direttamente il monopolio delle multinazionali americane sulle coltivazioni della canna da zucchero. Da allora il governo USA, di J.F.Kennedy, decise di non acquistare i prodotti cubani. Castro si rivolse all’URSS, che non solo accettarono di comperare i loro prodotti, ma anche di pagarli ad un prezzo più elevato. I cubani ruppero le relazioni diplomatiche con l’USA, orientandosi sempre più verso un’ideologia socialista: l’economia statizzata e fu istituito un regime a partito unico. Per la prima volta in uno stato americano si affermava un regime sovietico che mirava a farsi esportatore della rivoluzione e portavoce di un processo di emancipazione antimperialista e antiamericana.
Uno dei più stretti collaboratori di Castro, l’argentino ERNERSTO - CHE - GUEVARA s’impegnò di persona nel tentativo di sollevare le popolazioni latino americane, ma fu catturato ed ucciso dai militari boliviani nel 1967

 

156 IL TERZO MONDO, IL NON ALLINEAMENTO E IL SOTTOSVILUPPO

 

Un'eredità comune per i paesi africani di nuova indipendenza fu quella della emancipazione dal colonialismo economico. In un momento in cui il mondo era diviso nella contrapposizione tra Est e Ovest si videro costretti ad una posizione terza, cioè di non allineamento. Veniva così emergendo un Terzo mondo, distinto sia dall'occidente capitalistico che dall'Est comunista.
Nel 1955 alla conferenza afroasiatica di Bandung, cui parteciparono vari stati, si proclamò l'uguaglianza tra le nazioni, e i sostegno alla lotta al colonialismo. Nacque allora il cosiddetto terzomondismo, che si identificava come fattore di mutamento e di rinnovamento a livello mondiale.
Il movimento dei non allineati nel 1973 alla conferenza di Algeri comprendeva già 75 stati. Alcuni degli stati che si affiliarono, come Cuba e il Vietnam del Nord, tentarono di spostare l'asse del non allineamento verso l'Unione sovietica, paese che si dichiarava antiimperialista.
Caratteristiche dei paesi non allineati erano: recente indipendenza, sottosviluppo economico,  arretratezza strutturale e agricola, alla carenza di strutture industriali, mancanza di scambi internazionali, numerosissima popolazione, analfabetismo e il bassissimo reddito pro-capite; che stigmatizzarono le polemiche sugli effetti del processo di sfruttamento coloniale.

 

 

157 KENNEDY, KUSCEV E LA DISTENSIONE

La figura di J.F.Kennedy ebbe un ruolo fondamentale nella “distensione” tra Usa e Urss. La situazione tra le due potenze alla fine degli anni ‘50 era un equilibrio del terrore, una coesistenza pacifica per la sola consapevolezza di non potere prevalere sull'avversario se non mettendo a repentaglio la sopravvivenza dell'intera umanità.
Kennedy, salì alla potere nel 1960, e fu il presidente più giovane degli USA.
Suscitò immediatamente ampi consensi riallacciandosi alla tradizione progressista di Wilson e F.D.Roosvelt; aggiornandola col concetto di “nuova frontiera”: non più materiale, ma spirituale, culturale e scientifica.
In politica interna provvide ad incrementare la spesa pubblica attraverso un equilibrato programma basato sul Welfare state e sulle esplorazioni spaziali. Legò il suo nome anche ad una convinta battaglia per l’integrazione razziale.
In politica estera alternò una propensione al dialogo a una intransigenza sulle questioni nazionali essenziali.
Fu uno dei principali fautori dell’apertura all’Est, che produsse un grande fermento diplomatico. Il primo incontro tra Kennedy e Kruscev fu nel 1961, relativamente alla questione di Berlino. Ma il risultato fu contrario alle aspettative, vide un’ulteriore irrigidimento che portò all’erezione del “MURO DI BERLINO” simbolo della divisione tra i due schieramenti mondiali.
Ma il conflitto più drammatico tra le due potenze si giocò nell’Atlantico.
Kennedy tentò di soffocare il neonato regime socialista di Castro nella prospiciente Cuba. Nel ‘61 incominciò l’embargo commerciale, ma cercò anche di appoggiare gli esuli anticastristi per un intervento controrivoluzionario. Ma lo sbarco nella “BAIA DEI PORCI” vide l’improvviso voltafaccia americano, che non inviò gli aiuti militari previsti e gli esuli anticastristi furono decimati.
L’esperienza provocò un colpo all’immagine a JFK, che però trovò il modo di rifarsi.
Nella tensione che s’era creata con Cuba s’inserì l’URSS, che prontamente si propose d’aiutare il regime di Castro.
Nel ’61 oltre agli aiuti economici iniziò l’installazione di missili balistici. Quando nell’Ottobre 1962 aerei spia statunitensi individuarono le basi, incominciò un breve periodo di estrema tensione. Per scongiurare un nuovo conflitto Kennedy, sordo alle richieste d’intervento militare degli stati maggiori dell’esercito, propose e attuò il blocco navale dell’isola: ogni nave sovietica sarebbe stata bloccata al largo.
Mai come allora si fu vicini ad una catastrofe nucleare. Kruscev decise di bloccare il progetto missilistico a Cuba in cambio dell’impegno americano di non attaccare l’isola (e di smantellare, qualche mese dopo, alcuni missili americani in Turchia). Il risultato rafforzò nuovamente il Presidente che rilanciò gli accordi con Kruscev, che per non farsi soffiare la scena accentuò il tono pacifista degli interventi, cercando di spostare la contesa dal piano militare a quello economico: avverrebbe prevalso fra le potenze, quella che sarebbe stata in grado di sviluppare un tenore di vita migliore per le proprie popolazioni. L’eccesso di ottimismo di Kruscev fu tale che, già nel ‘64, quando si evidenziarono i problemi economici dell’URSS, fu estromesso da tutte le cariche e sostituito da Breznev.
Nel 1963 Usa e URSS stipularono:

  • patti per la messa al bando degli esperimenti nucleari;
  • una linea diretta per telescriventi - LA LINEA ROSSA – per scongiurare errori di trasmissione di messaggi, che avrebbe potuto provocare una guerra non desiderata (dall’idea nascerà internet), tra le due superpotenze,.

Il 22 Novembre 1963, a Dallas Texas, JFK fu ucciso in un attentato di cui ignoti rimangono i mandanti, il primo di una lunga serie di omicidi politici, che videro cadere il fratello Bob e Martin Luther King, che destabilizzarono il paese.
Al suo posto di JFK andò il suo vice, Lindon Johnson, che finì col rimanere invischiato nel caso della guerra del Vietnam.

 

158 LA CINA DI MAO

Tra la fine dei ’50 e l’inizio dei ’60 si delineò il contrasto tra Cina e URSS.
L’URSS si proponeva come garante dell’ordine mondiale bipolare e come unico pilastro e punto di riferimento per il comunismo mondiale, la Cina contestava la visione del mondo dei due blocchi e appoggiava ogni movimento rivoluzionario nel mondo per porsi come guida dei popoli in lotta contro l’imperialismo, voleva più spazio nelle decisioni di interesse comune e aveva più rispetto delle condizioni rurali, dove lavoravano i ¾ della popolazione.
In più, mentre la destalinizzazione portò in URSS una timida apertura al liberalismo, negli stessi anni la Cina subì una radicalizzazione del collettivismo.
Il compito dei rivoluzionari cinesi era simile a quello dei bolscevichi, anche se rispetto a loro partivano da una base di consenso più ampia.
Negli anni ’50 furono nazionalizzati l’industria e il commercio, si creò un’industria pesante con l’apporto di tecnici russi, fu collettivizzata l’agricoltura prima con la riforma agraria del 1950 che distribuiva la terra ai contadini (formando una miriade di piccole aziende agricole) poi favorì, infine obbligò, le famiglie a riunirsi in cooperative (controllate dallo Stato).
Nell’industria partì da zero ed ottenne una crescita molto alta; nell’agricoltura fu varato nel maggio ’58 il “grande balzo in avanti”, una strategia che tendeva a riunire le cooperative in comuni agricole le quali a loro volta dovevano tendere all’autosufficienza e produrre da sé quello di cui necessitavano (le macchine e anche l’acciaio). Il controllo anche della vita privata fu sempre più soffocante, simile a quello dei piani quinquennali, ma l’iniziativa fallì e la Cina dovette importare una enorme quantità di cereali. Di conseguenza i rapporti con l’URSS, che criticò il grande balzo, precipitarono: l’URSS richiamò i tecnici, non diede nessuna informazione per la costruzione dell’atomica (che comunque la Cina fece esplodere nel 1964) e cercò, senza riuscirvi, di far condannare il maoismo dal comunismo internazionale. La Cina arrivò a definire imperialisti (per Mao imperialismo è una tigre di carta)e zaristi i russi e la tensione aumentò fino allo scontro armato al confine tra Siberia e Manciuria, lungo il fiume Ussuri nel 1969. Il fallimento del grande balzo in avanti diede spazio all’ala moderata del partito (guidata dal Presidente delle Repubblica Liu Shao-chi).
Non controllando l’apparato in modo tale da poter eliminare l’opposizione, Mao vi scagliò contro i giovani, con il sostegno dell’esercito.
Tra il ’66 e il ’68 si sviluppò LA RIVOLUZIONE CULTURALE. Una forma di lotta inedita, dove il regime comunista si serviva dell’esercito. Mobilitò i giovani studenti esortandoli a ribellarsi ai dirigenti sospettati di convertirsi alla “via capitalistica”La rivolta giovanile, apparentemente spontanea, richiamandosi al “pensiero autentico di Mao” contestava ogni potere burocratico ed autorità. Furono messi sott’accusa insegnanti e i dirigenti di partito indesiderati, artisti e intellettuali  L’intento era quello di provocare, in virtù dell’iniziativa di massa, un radicale mutamento della cultura collettiva. Nella realtà la rivoluzione culturale durò il tempo per eliminare gli avversari, prima di porre un freno all’entusiasmo che aveva permesso l’operazione nel 1968.
Il fenomeno ebbe grande successo anche all’estero, dove alcuni gruppi di giovani cercarono di scimmiottare le rivendicazioni cinesi, ed in parte influenzò anche la mobilitazione studentesca in Occidente.
Un ruolo importante fu svolto da Chou En-lai, premier ininterrottamente dal ’49 che nel ’70 avvio la normalizzazione diplomatica, che finì col tradursi in un’apertura agli Stati Uniti.
La nuova intesa Cino-americana fu sancita dal viaggio nell’estate ’72 di Nixon a Pechino e dall’ammissione della Cina all’ONU al posto di Taiwan.
Con la morte di Mao e Chou En-lai nel 1976 finì la rivoluzione maoista e incominciò la transizione che muterà nuovamente gli equilibri interni cinesi agli inizi degli anni ‘80.

 

 

159 LA GUERRA DEL VIETNAM

 

In base agli accordi di Ginevra del 1954 il Vietnam era stato diviso in 2 stati:
Vietnam del Nord, comunista capeggiato da Ho Chiminh
Vietnam del Sud appoggiato dagli usa decisi a sostituirsi all’influenza francese
Già da prima del ’64 contro il paese del Sud s’innescò un movimento di guerriglia comunista e gli usa impauriti dalla possibilità di una riunificazione indocinese sotto un regime comunista inviarono sul posto consiglieri militari e materiale di conforto. Visti gli effetti della escalationJohnson decise per un intervento diretto, inviando truppe di fanteria, ma non bastarono a contrastare la lotta dei Vietcong che godevano di vasto appoggio fra le masse contadine. Questo portò ad un progressivo rafforzamento della presenza militare, con risultati militari non favorevoli.
In patria, intanto, l’opinione pubblica si mobilitò contro una guerra giudicata ingiusta e contraria ai principi democratici. Le imponenti manifestazioni influenzarono l’opinione pubblica straniera creando un fronte compatto contrario al proseguimento dell’intervento.
Con un passivo di molte vittime tra i militari, dopo i bombardamenti nordvietnamiti del 68 sulle città del sud (offensiva del Tet) Johnson  decise di diminuire progressivamente i contingenti. Il successore, Richard Nixon, cercò di rianimare il conflitto appoggiando con mezzi l’esercito sudvietnamita che allargò le operazioni anche in Laos e in Cambogia. Ma anche in questo caso il risultato rimase sfavorevole agli Usa, tanto da convincerli all’armistizio di Parigi del‘73 con cui gli statunitensi abbandonarono il paese, con la prima sconfitta militare della storia(e una situazione che vedeva l’Indocina totalmente governata da regimi comunisti).
La guerra finì nel ‘75 con la caduta del Laos e della Cambogia nelle mani comuniste.

 

160 L’URSS E L’EUROPA ORIENTALE DA KRUSCEV A BREZNEV

 

Dall’ottobre ’64 la direzione del PCUS fu affidata ad un collegio di ex collaboratori, in questo caso: Breznev (segretario del PCUS, rimasto al potere fino alla sua morte nell’82), Kossighin (capo del governo), Suslov, massima autorità ideologica.
Fu Breznev ad emergere sugli altri, producendo una politica sovietica moderata. Nel ’75 partecipò alla conferenza di Helsinki sulla sicurezza e cooperazione in Europa, i cui accordi finali prevedevano il rispetto dei diritti umani e delle libertà politiche fondamentali, ma con tratti decisamente autoritari si dedicò alla repressione del dissenso degli intellettuali (Solzenitsyn fuggì in occidente alimentò un’agguerrita polemica antiURSS).
In economia diede maggiore autonomia alle imprese, ma accentuò il controllo centrale sui con risultati scarsi.
In politica estera continuò il dialogo con l’occidente, ma il alimentò un nuovo riarmo che assorbì quote maggiori del bilancio a scapito delle condizioni del tenore di vita, e approfittò di un periodo di debolezza alla guida degli USA per allargare la zona di influenza (America latina, Africa, Medio oriente, guerra ‘79-’89 in Afghanistan), mentre i rapporti con la Cina e l’Europa dell’Esto non migliorarono.
La repressione più eclatante si ebbe nei confronti della Cecoslovacchia. Nel gennaio ’68 venne rimosso Novotny (proveniente dall’era staliniana) e il suo posto fu affidato a Dubcek, dell’ala innovatrice, che propose (tra la primavera e l’estate del ’68 - primavera di Praga -) una liberalizzazione che mirava al socialismo dal volto umano, coniugando il credo socialista con l’economia di mercato, la pluralità dei partiti e libertà di stampa; ma a differenza dell’Ungheria nel ’56, non venne messa in dubbio l’appartenenza del paese al blocco sovietico. Preoccupata del contagio libertario l’URSS  intervenne ugualmente: il 21 agosto 1968 truppe dell’URSS, Polonia, Germania est Ungheria e Bulgaria occuparono Praga e tutto il paese, Dubcek fu arrestato e imposto un governo filo sovietico. I comunisti cechi in clandestinità rinnovarono la fiducia a Dubcek e rinunciando alla resistenza armata, opposero una resistenza passiva che isolò gli occupanti, che furono costretti a rimettere al loro posto i dirigenti della “primavera” ma sotto stretto controllo. A partire dalla primavera del ’69 furono emarginati e quindi allontanati dal governo sostituendo Dubcek con Husak.
L’intervento in Cecoslovacchia contribuì ad aumentare il dissenso nei paesi del patto di Varsavia, in particolare negli altri partiti comunisti: Italia, Jugoslavia, Romania eCina.
In Polonia, gli operai di Danzica e Stettino nel’70 si ribellarono alla politica d’austerità, che provocò aumenti salariali e l’avvicendamento di Gomulka con Gierek.

 

161 TRASFORMAZIONE ECONOMICHE, SOCIALI E DI COSTUME TRA GLI ANNI 50-60

Gli anni ’50 e 60 sono anni di sviluppo senza precedenti. Il boom cominciò dopo la guerra con gli USA a fare da traino alla ripresa economica in Europa e in Giappone. Lo sviluppo riguardò l’industria (tecnologie e i beni durevoli), il terziario, molto menol’agricoltura.
Il boom fu conseguenza di una serie di fattori: incremento demografica, allargamento della domanda di consumo, strutture sociali; immissione di nuova forza lavoro; costo relativamente basso del petrolio che aveva sostituito il carbone; scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche; multinazionali; liberalizzazione degli scambi internazionali.
Molte delle quote del reddito nazionale che prima erano investite nell’industria bellica ora sono investite nella ricerca, questo porta ad es: scoperta di nylon, materie plastiche, antibiotici, penicillina, isolamento di molte vitamine, psicofarmaci e anticoncezionali, boom della motorizzazione privata, sviluppo dell’aviazione civile con la propulsione a reazione, conquista dello spazio, sviluppi della missilistica.
E’ interessante ricordare lo Sputnik, il primo satellite artificiale di Sovietico venne lanciato 4/10/1957, mentre gli USA lanciarono l’Explorer solo nel 1/1958.
Il giorno12/4/1961 i russi furono sempre i primi ad inviare il 1° astronauta Yuri Gagarin nello spazio e gli americani arrivarono secondi ma con la navicella Apollo II il 21/7/1969  sbarcano sulla Luna  Armstrong e Aldrin.
Si ha un’esplosione demografica che è il frutto dei progressi della medicina e chirurgia, (es. vaccinazioni di massa, principi igienici), e di  una maggior qualità del cibo disponibile. Il boom fu  soprattutto nel Terzo Mondo, nei paesi industrializzati si ebbe il cosiddetto baby boom solo nel decennio successivo alla guerra dopo  la metà degli anni ’50 riprese il calo delle nascite che ebbe come causa la minor durata dei matrimoni e per il controllo delle nascite.
Trionfo dei mass media, la  radio conobbe un boom alla fine degli anni ‘50 con gli apparecchi a transistor, e il  boom della musica leggera.
Ma la vera protagonista fu la televisione che creò la nuova cultura di massa dell’immagine. Col suo avvento si coniano due definizioni “Società del benessere” o “Civiltà dei consumi. Dai messaggi  pubblicitari si arriva alla standardizzazione dei modelli di consumo. In questo periodo vi è anche affermazione delle scienze umane: sociologia, politica, psicologia, economia. È da ricordare  Marcuse, epigone della scuola di Francoforte (1923 per un’analisi critica della società di massa) che  scrive diversi libri sulla società dei consumi.

 

 

162 I MOVIMENTI DI CONTESTAZIONE NEGLI ANNI ‘60

La contestazione nei confronti della società consumistica e del benessere trovò terreno fertile fra coloro che di quella società potevano considerarsi figli, i giovani nati nel primo dopoguerra. Questa si manifestò con un rifiuto delle convenzioni e una fuga dalla società industrializzata. Caso siginficativo furono le comunità HIPPIES che si svilupparono negli USA alla metà degli anni ’60 che proponevano una cultura alternativa in cui confluissero:
non-violenza e religiosità orientaleggianti;
consumo di droghe leggere e musica completamente nuova.
Solo quando trovò un profondo radicamento nelle Università, la rivolta trovò una propria dimensione politicizzata. Il fenomeno prese il via sempre negli Stati Uniti, con l’occupazione dell’Università di Barkley nel ’64. Principi cardine della protesta studentesca erano:
critica alla guerra nel Vietnam;
lotta contro la segregazione razziale.
Mentre la lotta studentesca ebbe caratteri pacifici, la lotta antirazziale, dopo una prima fase guidata dal leader non violento Martin Luther King, esplose in forme violente come rivolte nei ghetti metropolitani, ispirate a ideologie separatiste del Black Power (Potere Nero).
Dagli USA la rivolta studentesca s’espanse in tutto il mondo sino a raggiungere il suo apice nel ’68. Durante la sua migrazione, il messaggio subì radicali trasformazioni subendo le contaminazioni delle idee marxiste e/o terzomondiste, molto discusse soprattutto in Europa.
Principali elementi unificatori della protesta erano:
lotta all’autoritarismo delle istituzioni;
condanna dell’imperialismo americano.
L’opposizione all’uso autoritario della forza portò a violenti scontri con le forze dell’ordine in molti paesi. In Francia nel Maggio ’68 gli studenti organizzarono una violenta guerriglia nel Quartiere Latino di Parigi. Gli studenti riuscirono a coagulare attorno a loro i sindacati e i movimenti di sinistra, uniti nell’opposizione al governo De Gaulle, che sembrò vacillare all’urto, ma con un’abile manovra politica seppe uscirne indebolendo l’avversario.
Al di là d’inconsistenti successi politici, i movimenti studenteschi lasciarono segni profondi nelle società occidentali così da rinfrescare quei tratti rivoluzionari, indispensabili all’ammodernamento di una società, che si stavano perdendo nel benessere.

 

163 CONCILIO ECUMENICO

 

La società capitalistica del dopoguerra trovò un avversario tenace nella Chiesa di Roma. I cattolici erano preoccupati soprattutto della perdita di valori etici, a scapito d’interessi materiali, legati al consumismo. Dal punto di vista pratico la Chiesa osteggiava soprattutto i nuovi costumi sessuali e le pratiche di contraccezione.
La reazione fu quella di cercare un rinnovamento dall’interno. Il nuovo corso trovò l’abbrivo dal pontificato di Papa Giovanni XXIII (’58). Sebbene non fosse un innovatore in materia dottrinale cercò di rilanciare il ruolo ecumenico della Chiesa e d’instaurare un dialogo con le realtà, anche quelle tradizionalmente ostili. L’opera fu facilitata sia dal carisma del Papa, che dalla distensione tra Kenndy e Kruscev.
La svolta voluta dal Papa si manifestò in due encicliche:

  • MATER E MAGISTRA DEL ’61(con riferimenti alla Rerum Novarum):
    • rilanciare il filone sociale del pensiero cattolico;
    •   condannare l’egoismo dei paesi ricchi;
    • incoraggiare il riformismo.
  • PACEM IN TERRIS DEL ’63: dedicata ai rapporti internazionali, conteneva un appello alla collaborazione tra i popoli, offrendo una significativa apertura ai paesi di nuova indipendenza, nonché una concreta proposta di dialogo con le altre religioni e con i non credenti.

Ma l’atto più importante del pontificato di Giovanni XXIII fu la convocazione del Concilio Vaticano II apertosi nel ’62, pochi mesi prima della sua morte A quasi un secolo di distanza dal suo predecessore (1870) che aveva segnato il momento di maggiore chiusura della storia della Chiesa, si prolungò per oltre tre anni sotto la guida del nuovo papa – PAOLO VI. La Chiesa ne uscì fortemente riformata (l’aspetto pratico più significativo in campo liturgico fu l’introduzione della messa in volgare), anche se non radicalmente trasformata. Fu portata avanti la cultura del dialogo, con un’apertura significativa a tutte le religioni ed in particolari con le altre chiese cristiane (in vista di una possibile riunificazione della cristianità).
La battaglia per il rinnovamento di Giovanni XXIII suscitò molti fermenti e la nascita di movimenti filocattolici che cercavano di coniugare il messaggio religioso con l’impegno sociale. Gruppi di CATTOLICI DEL DISSENSO che s’affermarono, negli anni ’60, in Italia e Francia spesso andarono a confluire nei movimenti studenteschi.
In America Latina la partecipazione dei sacerdoti alle lotte contro le dittature fu all’origine di una nuova teologia: LA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE, che coniugava il messaggio cristiano con una concezione marxista della storia. Questa, benché condannata ufficialmente dalla Chiesa di Roma, giocò una parte importante nelle lotte contro i regimi autoritari.

 

164 EUROPA OCCIDENTALE TRA ANNI SETTANTA E OTTANTA

La realtà europea non è omogenea né per cultura né per economia. La dipendenza dagli Usa è cresciuta man mano che si protraeva la guerra fredda (fino alla decisione di permettere alla Nato di installare in Europa missili in risposta ad un’installazione analoga russa). Economicamente, la sfida con Usa e Giappone è stata persa. La crisi del petrolio (l’unica nazione in Europa a essere meno colpita fu GB in quanto iniziò a sfruttare giacimenti appena scoperti nel mare del Nord) e di quei settori (siderurgico e minerario) che a suo tempo erano i trascinatori del mercato europeo hanno portato a tendenze protezionistiche e spinte centrifughe.
Per quel che riguarda le politiche interne, la crisi della metà dei ’70 ha messo in difficoltà le socialdemocrazie nell’Europa settentrionale:
GB: dopo aver ripreso il potere nel ’74, i laburisti vennero sconfitti nel ’79 dai conservatori guidati da Margareth Thatcher (la lady di ferro).
Ispirata ad un rigido liberismo, il premier ha sferrato un duro attacco alle Trade Unions, messo in discussione le basi del Welfare State (senza toccare le prestazioni obbligatorie) e privatizzato settori dell’industria pubblica.
I conservatori ha tenuto la maggioranza sia nelle elezioni dell’83 (sull’onda emotiva delle Falkland) che nell’87. Nel ’90 la Thatcher si dimise per contrasti interni al suo partito che non approvava le misure impopolari proposte e il suo eccessivo antieuropeismo.
Le socialdemocrazie di Svezia, Danimarca e Norvegia hanno visto interrotti o minacciati i rispettivi governi al potere ormai da oltre 30 anni.
In Germania federale, nel 1983 hanno avuto fine i governi socialdemocratici di Brandt prima e Schmidt poi a causa della rottura tra questi ultimi con i liberali, che ha aperto la strada al cristiano-democratico Kohl. La rottura fu determinata non da attori economici ma da divergenze in politica estera, in particolare la diffidenza dell’Spd all’installazione degli euromissili.
Contemporaneamente, i socialismi si affermarono nell’Europa mediterranea:
In Francia l’Unione delle sinistre conquista nell’81 (presidenza di Mitterrand)il successo elettorale sfiorato nel ’74: partito con grandi progetti di nazionalizzazione, si è dovuto scontrare con il cattivo andamento dell’economia ed è stata costretta a invocare misure restrittive, rompendo con un’intransigente Pcf. Nell’86 il centro-destra ha riconquistato la maggioranza che però è ritornata in mano ai socialisti nell’88.
In Portogallo la dittatura sopravvisse per poco a Salazar. Il processo democratico (accelerato dall’insofferenza dell’opinione pubblica verso la repressione portoghese in Angola e Mozambico)ebbe il primo impulso dai militari che diedero vita nel ’74 ad un incruento colpo di stato: il potere fu assunto prima dall’ala moderata, quindi da quella socialista dell’esercito. Dall’autunno ’75 i militari più radicali sono stati emarginati e il paese è ritornato ad un regime pluripartitico dove i socialisti di Soares si sono alternati con i gruppi di centro-destra.
In Grecia, invece, furono i militari a rovesciare il regime liberale nel ’67 e furono costretti ad abbandonare il potere dopo il fallimento dell’annessione di Cipro ai danni della Turchia. Il gioco passò ai partiti democratici (Nuova democrazia di Karamanlis, moderato e i socialisti di Papandreu): dal ’74 all’81 e dall’89 in poi governarono i moderati, con i socialisti al governo dall’81 all’89. Nel ’74 un referendum sancì la fine della monarchia (che di fatto era già decaduta).
In Spagna (che fin dagli anni ’60 era in pieno sviluppo industriale) il re Juan Carlos alla morte di Franco, nel ’75 chiamò Suarez al governo (franchista convinto della necessità di rinnovamento): questi legalizzò tutti i partiti e fece approvare per referendum nel ’78 una costituzione democratica. Nonostante i continui attentati dell’ETA, la democrazia si è rapidamente consolidata e la vittoria nell’82 dei socialisti di Gonzalez non ha provocato scosse.
Spagna, Portogallo (‘86) e Grecia (‘81) hanno aderito alla CEE facendo sorgere nell’immediato nuovi problemi nella gestione dei diversi interessi in gioco.

165 DITTATURE E DEMOCRAZIE IN AMERICA LATINA

 

Gli anni compresi tra la Crisi Petrolifera del 1973 e la caduta del muro di Berlino, nel 1989 furono anni di profonde trasformazioni in america Latina.
Le grandi dittature locali raggiunsero il loro acme prima di cadere luna dopo l’altra.Nella prima metà degli anni ’70 i militari presero il potere anche dove la tradizione democratica era maggiormente radicata(Uruguay).

Cile

Nel 1970 andò al potere il socialista Salvador Allende, capo di un governo d’Unita Popolare. Tentò di realizzare un ampio programma riformista, ma quando cercò di nazionalizzare le grandi miniere di rame si scontrò con la ricca borghesia e con gli interessi delle Corporations americane. l’ 11 di Settembre 1973 un golpe militare dell’esercito rovesciò il presidente, che vide la morte in combattimento durante il bombardamento della Moneda (il palazzo presidenziale cileno). Dopo un breve transitorio, che vide la lotta per il potere nel triunvirato (Leigh, Carvajal, Pinochet) che aveva organizzato il colpo di stato; salì al potere il generale Augusto Pinochet che diede vita ad un regime fortemente autoritario. Riuscì a risanare in parte l’economia anche se con metodi alquanto impopolari e autoritari. La dittatura pinochetista durò sino al 1989, quando dopo un lungo periodo contrassegnato da forte mobilitazione dell’opinione pubblica interna, prima, e straniera poi, Pinochet dovette indire nuove elezioni. La vittoria nel 1989 fu del democratico Patricio Alwin.

Argentina

Nel 1972 il regime militare salito al potere nel ‘66, non riuscendo a risolvere la crisi finanziari si accorda con l’ex-dittatore Peron per un nuovo mandato che ha inizio nel 1973. Ma il nuovo corso peronista si dimostrò disastroso, acuendo la crisi che si era trovato a dovere gestire. Ai tumulti popolari seguì l’organizzazione di movimenti di estrema sinistra che impensierirono a tal punto i militari, i quali organizzarono un nuovo colpo di stato nel 1976. Il nuovo capo del Governo il generale Videlas diede vita ad un regime estremamente brutale e repressivo (DESAPARECIDOS). Ma nemmeno l’ennesima dittatura riuscì a sanare l’economia argentina. Al nuovo insuccesso economico si aggiunse una sconfitta militare. Nel 1982 gli argentini invasero le isole Malvine (Falkland) da secoli sotto il dominio britannico. Gli inglesi del governo Tatcher, reagirono con estrema determinazione inviando un contingente militare che si sbarazzò in breve tempo degli argentini, cacciandoli dall’arcipelago. La serie d’insuccessi costrinse il governo ad indire nuove elezioni nel 1983 che videro la vittoria del radicale Alfonsin. La gravissima situazione interna non consentì nemmeno a questi di risolvere granché, così alle nuove elezioni del 1989 vinse nuovamente un candidato peronista: Carlos Memen, che porterà definitivamente allo sfascio l’economia argentina con un rischiosissimo corso speculativo.
In molti altri stati dell’America Latina, in questo periodo, si assisté alla caduta dei militari (come la dittatura di Strossner in Paraguay), tanto che alla fine degli anni ’80 tutto il continente era tornato saldamente in mano ad istituzioni democratiche.
Ma il consolidamento della democrazia trovava numerosi ostacoli, soprattutto di natura strutturale e sociale. Troppo grandi erano le sperequazioni tra classi e la situazione economica intollerabile. In quasi tutti i paesi dell’America latina la situazione economica è disastrosa e i vari governi sono legati a filo doppio alle grandi economie mondiali, soprattutto a quella americana. Molte delle piccole realtà delle zone centrali, appena emancipatesi dalle dittature (Nicaragua da Somosa, Haiti da Duvalier) rischiavano di ricadere nelle maglie dei militari.

Colombia

La minaccia più grave per le istituzioni democratiche è rappresentata dall’estremo potere dei narcotrafficanti. Un’organizzazione criminale potentissima capace d’influenzare economicamente e con un clima di terrore qualsiasi realtà democratico-legalitaria.

Nicaragua

Nel 1979 un movimento rivoluzionario di sinistra – i sandinisti – prese il potere rovesciando la dittatura filo-americana di Somoza. Gli Usa non intervennero a difendere il loro “delfino” sino a quando il nuovo esecutivo non accentuò i suoi caratteri socialisti. Sotto la presidenza Reagan gli americani si fecero promotori di una violenta campagna d’aiuto economico - bellico e tattico contro i sandinisti. L’appoggio ai “contras” (controsandinisti) andò da semplice invio di materiale, a istruzioni militari, e ad interventi diretti degli elicotteri. Nel 1989 dopo sanguinosi combattimenti si arrivò ad una tregua e a nuove elezioni che videro affermarsi gli antisandinisti.

 

166 GLI USA DA NIXON A REAGAN E BUSH

La crisi del dollaro (‘71), la sconfitta in Vietnam, lo scandalo del Watergate (spionaggio dei repubblicani ai danni dei democratici nel ‘74) costrinsero Nixon alle dimissioni.
Dopo due anni del vicepresidente Ford, nel ’76 vinse le elezioni il democratico Carter, che sostituì alla Realpolitik di Nixon e Kissinger (allora segretario di stato) un’idea wilsoniana del ruolo degli USA nel mondo, che propugnava l’autodeterminazione e la difesa dei diritti umani nel mondo.
La politica incerta favorì la formazione di regimi ostili (Nicaragua, Medio oriente) e si diffuse un senso di frustrazione, culminata con l’episodio della rivoluzione iraniana.
Tutto questo contribuì nel ’80 alla vittoria di Reagan. Ex attore, esponente di destra dei repubblicani promise di adottare una linea più dura contro i nemici dell’America, risvegliando lo spirito dei pionieri e l’orgoglio nazionalistico.
Fra ’83 e’86 l’industria riprese a pieno ritmo (nel frattempo Reagan fu confermato alla presidenza) e anche la crisi della Borsa dell’ottobre ’87 fu superata senza grossi problemi. L’inflazione tornò sotto controllo, la disoccupazione in parte riassorbita, il dollaro si confermò la moneta forte, ma a causa di una spesa per gli armamenti, il deficit statale era alto. La politica liberista spregiudicata del Presidente portò con sé interi settori industriali e piccole aziende in crisi per la mancanza dei sussidi; in più le disuguaglianze sociali e razziali si ampliarono per il taglio alla sanità pubblica.
La spesa per le armi era fondamentale del programma reaganiano, voleva mostrare il peso militare degli USA sia all’URSS, sia ai regimi integralisti del Medio oriente (in Libia Tripoli fu bombardata nel marzo ’86 in risposta ad attentati contro cittadini americani in Europa e Iran;  nell’estate’87 furono mandate navi nel Golfo persico per proteggere le vie del petrolio dalla guerra contro l’Iraq) e in generale in ogni parte del mondo.
In questa direzione andò l’iniziativa sulla difesa strategica (Sdi), uno scudo spaziale che in grado di neutralizzare la minaccia missilistica, che però rischiava di mettere in moto una spirale di nuove spese in armi da parte dei due blocchi.
La popolarità del presidente rimase intatta per due mandati e permise a Bush, già vicepresidente, di sfruttare l’onda e di vincere le elezioni dell’88.
Proveniente dall’ala moderata del partito repubblicano, Bush, mantenne in sostanza la linea del suo predecessore(fu lui ad autorizzare più grandi operazioni militari dal Vietnam: l’arresto a Panama del dittatore locale Noriega accusato narcotraffico (dicembre ‘89) e la guerra del Golfo (‘90-‘91)), ma in modo più equilibrato (accantonò l’idea Sdi).
Con l’URSS confermò un alternarsi di aperture e momenti di fermezza che permise, in seguito, di sfruttare il vuoto politico lasciato dal crollo del comunismo.
Nonostante i successi internazionali, la congiuntura economica sfavorevole a partire dal ’91 mise in evidenza le contraddizioni dell’espansione degli anni ’80 fece calare vistosamente la popolarità di Bush e pose interrogativi sulla sorte degli USA, unica superpotenza mondiale rimasta ma minacciata in alcuni settori economici vitali dalla concorrenza giapponese e cinese.

 

167DOPO BREZNEV: LA CRISI E LA DISSOLUZIONE DELL'URSS

Negli ultimi anni di presidenza Breznev gli Urss tentarono di espandere la loro influenza in tutti i continenti:dall’America Latina (Nicaragua), al Medio Oriente, all’Africa (Etiopia, Angola, Mozambico). Caratteristica fu la sconfitta in Afghanistan dove l'Urss tentò nel 79 d’imporre un governo filo-sovietico, ma incontrò l’accanita resistenza dei gruppo guerriglieri islamici (appoggiati da Iran, Pakistan e Stati Uniti) che le fecero perdere vite umane e immagine.
Una svolta radicale per l’URSS si ebbe con l'elezione di Michail Gorbacev che introdusse radicali novità sia nella politica interna che in quella internazionale.
A nome di Gorbacev è legata la perestrojka (riforma) che volgeva ad introdurre nel sistema socialista alcuni elementi di economia di mercato.
Istituzionalmente si fece promotore, nell'88, di una nuova costituzione che lasciava spazio ad un limitato pluripartitismo.
Ancora più importante delle riforme (che spesso dimostrarono contraddizioni e difficoltà all'interno del sistema sovietico) fu l'avvio di un processo di liberalizzazione all'insegna della glasnost (libertà di espressione) che sviluppò un dibattito politico-culturale che aiutò anche nei rapporti internazionali.
Infatti la maggiore disponibilità di Gorbacev rilanciò il dialogo con l'Occidente e in particolare con gli Usa di Reagan e Bush con il quale dopo numerosi incontri e trattative vennero firmati trattati di non aggressione e di riduzione degli armamenti convenzionali
Particolarmente allarmante furono i movimenti indipendentisti fra le popolazioni facenti parte dell'impero; le prime a muoversi furono le Repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia, Lituania), analogamente anche le repubbliche caucasiche (Armenia, Georgia, Azerbaigian) e le regioni musulmane dell’sia centrale. La stessa Russia rivendicò la propria indipendenza nel 1990 ed elesse alla propria presidenza il riformista radicale Boris Eltsin.

 

168 IL 1989 E LA CRISI DEL COMUNISMO IN EUROPA ORIENTALE

 

La crisi del comunismo prima di crollare in Urss si fece sentire in tutti i paesi satellite. Prima la Polonia, già refrattaria all'imposizione del modello comunista, dove nell’80-81 si affermò rapidamente un sindacato indipendente chiamato Solidarnosc, prima tollerato dall’autorità, poi represso, ma che con un periodo di "allentamento" dopo le elezioni dell'89, possibili grazie agli accordi di Danzica, andò al potere.
A seguito dell’esperienza polacca, l'Ungheria che dopo un processo riformatore decise di abolire i controlli polizieschi e di rimuover la cosiddetta cortina di ferro (una barriera di filo spinato al confine con l'Austria) che innescò una serie di reazioni in tutto in mondo comunista.
La più importante in Germana est dove migliaia di cittadini fecero una fuga di massa verso la Germania federale, accompagnati da grandi manifestazioni di protesta che misero in crisi il regime. I nuovi dirigenti avviarono riforme e liberalizzazioni fino a che nel novembre 89 vennero aperti varchi nel muro di Berlino, emblema della guerra fredda; gesto epocale che rappresentò la fine delle divisioni che avevano spaccato l'Europa e il mondo dopo la II guerra mondiale.
Gli avvenimenti tedeschi accelerarono trasformazione in tutta l'Europa dell'Est.
In Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria e Albania vennero aperti processi di democratizzazione e alle elezioni vinsero in buona parte partiti di centro e centro­-destra; forte fu la vittoria dei cristiano-democratici nella Germania Est allineandosi alla Germania federale spingendo verso la riunificazione del 1990.

 

169 LA GUERRA NEL GOLFO

Nell’agosto 90 il dittatore iracheno Saddam Hussein invase il confinante Emirato del Kuwait, tradizionalmente filo-occidentale, mirando al controllo del paese, uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio.
Condannata dalle Nazioni Unite e dalla comunità internazionale, l'invasione irachena portò ad una spedizione prima americana, poi appoggiata da altri paesi europei e dall'Unione sovietica. Violenti attacchi aerei e offensive di terra, approvate a grande maggioranza da consiglio di sicurezza dell'ONU, costrinsero l'esercito iracheno al precipitoso abbandono del Kuwait, non prima però di averne incendiato gli impianti petroliferi.
Quando si parla di guerra nel Golfo si parla anche del successivo e conseguente rilancio del processo di pace in Medio Oriente. Spinta per la pace fu l'elezione nel 1992 di Rabin in Israele, che con il ministro degli esteri Shimon Peres, cominci un processo di negoziati con Arafat, leader palestinese, arrivando ad un accordo segreto fondato sul reciproco riconoscimento. Un accordo di difficile attuazione a causa di molte questione aperte: dalla città di Gerusalemme proclamata capitale eterna di Israele, all'atteggiamento ostile di alcuni paesi che si sentivano esclusi dall'accordo, come la Siria. Inoltre l'opposizione dei gruppo intransigenti dell'Olp e della destra nazionalista israeliana e soprattutto la minaccia dei movimenti integralisti islamici che portarono avanti una spirale di violenza e di fanatismo culminato nell’uccisione del premier Rabin nel 1995.
Nelle elezioni del 96 vinse la coalizione di destra guidata da Benjamin Netanyahu che arrestò il processo di pace fino al 98 in cui sotto la pressione del presidente del i USA Bill Clinton Netanyahu e Arafat fecero un accordo che prevedeva il ritiro israeliano da una porzione di territori occupati in cambio dell'impegno palestinese nella repressione del terrorismo.

 

170 L'INTERVENTO ITALIANO NELLA II GUERRA MONDIALE E LE VIVENDE MILITARI

L’Italia, colta di sorpresa dallo scoppio del conflitto, aveva deciso di dichiararsi non belligerante, giustificando la sua scelta all’alleato germanico per l’impreparazione ad una guerra di lunga durata. Il repentino crollo della Francia fece cambiare idea a Mussolini che vide nella schiacciante superiorità tedesca motivo di sicurezza. Re, gerarchi, e industriali spingevano per l’entrata in guerra, giudicando la scelta politica come una grande opportunità politico-commerciale. Anche l’opinione pubblica finì con l’abbracciare la causa di una guerra che avrebbe dovuto essere rapida ed indolore.
Il 10 Giugno del ’40 Mussolini annunciava l’entrata in guerra dell’Italia al fianco dell’alleato germanico.
Le operazioni militari fasciste non tardarono a dimostrare inadeguatezza:

  • L’offensiva militare organizzata sulle Alpi, contro un avversario praticamente già sconfitto, si risolse in una grossa prova d’inefficienza e l’armistizio firmato subito dopo con i francesi non portò alcun significativo vantaggio all’Italia.
  • Gli scontri navali nel mediterraneo con la flotta Britannica nel Luglio ’40 videro due consecutive sconfitte.
  • La campagna in africa settentrionale lanciata dalla Libia contro l’Egitto dovette fermarsi per la mancanza di mezzi corazzati. (In questo caso Mussolini rifiutò l’aiuto militare di Hitler, perché voleva dimostrare di potere combattere una lotta parallela a quella dell’alleato).

Il 28 Ottobre ’40 l’esercito italiano attaccava la Grecia muovendo dall’Albania. La Grecia era un paese governato da un regime semifascista che aveva avuto buoni rapporti con l’Italia, fino ad allora. L’offensiva si scontrò con una resistenza più dura del previsto. Dopo un inizio favorevole, alla fine di Novembre, l’esercito fascista subì il contrattacco greco e fu costretto a ripiegare sulla difensiva in Albania. Il fallimento della campagna di Grecia, e le notizie di nuove sconfitte in Africa settentrionale, fecero scoppiare un terremoto negli stati maggiori dell’esercito (Badoglio dovette rassegnare le dimissioni) e creò sconforto nell’opinione pubblica italiana, che incominciava a rendersi conto della situazione d’inadeguatezza dell’esercito. La situazione assestò un duro colpo alla popolarità di Mussolini e all’immagine guerriera.
In Africa gli inglesi erano passati al contrattacco e avevano conquistato parecchi territori in Libia. Per impedire di Mussolini fu costretto ad accettare l’aiuto tedesco. Nel Marzo ’41 i reparti corazzati, guidati dal brillante stratega, il Generale Erwin Rommel - “La volpe del Deserto” – incominciarono una offensiva contro gli inglesi che permise agli italo-tedeschi di riconquistare i territori libici. Gli inglesi intanto avevano sottratto all’Impero: Etiopia, Somalia ed Eritrea, sferrando l’ennesimo colpo al regime.
l’Italia, ormai palesemente alleato subalterno alla Germania, aprì la strada all’intervento nazista nei Balcani che provocò nell’Aprile 41 il cedimento di schianto di Jugoslavia e Grecia (mentre gli inglesi si ritirarono via mare).

 

171 LE VICENDE DEL 1943, IL CROLLO DEL FASCISMO, I 45 GIORNI

Con i 45 giorni s’individua il periodo che sottese la deposizione di Mussolini (caduta del fascismo)dall'annuncio dell'armistizio l’8 settembre del ’43.
Alla conferenza di Casablanca del gennaio ‘43 gli alleati decisero lo sbarco in Italia Meridionale per una resa fascista senza patteggiamenti di sorta. Il 12 Giugno ‘43 conquistarono Pantelleria, e i primi di Luglio la Sicilia senza trovare resistenza dalle popolazioni locali.
Lo sbarco rappresentò il colpo di grazia per il regime. Un sintomo evidente dell’ indebolimento s’era verificato nel Marzo ’43 a Torino dove furono organizzati numerosi scioperi(la prima protesta di massa durante il regime) che evidenziò il disagio popolare e il declino dell’ideologia di destra. A provocare la caduta definitiva di Mussolini, non furono però le decisioni politiche, ma una congiura che faceva capo alla Corona. Le componenti moderate del regime, gli industriali e alcuni politici, cercarono di trovare una soluzione per tirare fuori il paese da un conflitto il cui esito ormai chiaro. Il pretesto fu offerto al Re da una riunione del gran Consiglio del Fascismo tenutasi nella notte tra il 24 e il 25 Luglio ’43, conclusasi con un ordine del giorno, presentato da Dino Grandi, che invitava il Sovrano a riassumere le funzioni di comandante supremo dell’esercito. Nel pomeriggio del 25 Luglio ’43 Vittorio Emanuele III convocava Mussolini invitandolo a rassegnare le dimissioni. Così Mussolini fu arrestato dai Carabinieri. A capo del Governo fu nominato il Maresciallo Pietro Badoglio, ex-comandante delle forze armate. L’annuncio fu accolto dal paese con entusiasmo, ma senza spargimenti di sangue perché il Partito Fascista sparì praticamente nel nulla. Gli italiani pensarono che l’episodio avesse posto la parola fine anche al conflitto, nella realtà la guerra sarebbe continuata e avrebbe avuto nuove e drammatiche evoluzioni.
I tedeschi si affrettarono a rafforzare la loro presenza militare in Italia per prevenire e punire l’ormai inevitabile defezione. Badoglio dichiarò che nulla sarebbe cambiato nella guerra agli alleati, mentre di nascosto intrecciava trattative per raggiungere la pace. Ma coi negoziatori alleati c’era poco da trattare, anche per tener fede alle clausole della Conferenza di Casablanca che prevedeva la resa incondizionata. La firma dell’armistizio, benché sottoscritta il 3, fu ufficializzata l’8 settembre ’43 giorno in cui le truppe alleate sbarcarono a Salerno. L‘annuncio dell’armistizio fece piombare il paese nel caos. Mentre il Re e il governo abbandonarono la capitale per riparare a Brindisi, i tedeschi occupavano la parte centro settentrionale della penisola, mentre le truppe erano abbandonate a se stesse. Moltissimi militari italiani furono fatti prigionieri e deportati nei campi di concentramento. Le conseguenze dell’8 settembre si ripercossero anche sulle sorti del conflitto. I tedeschi riposizionati sulla Linea Gustav, che univa Gaeta a Pescara, col punto nodale a Cassino, riuscirono a bloccare gli alleati fino alla primavera del ’44.

 

172 LA SPACCATURA DELL'ITALIA: REGNO DEL SUD REPUBBLICA SOCIALE E RESISTENZA

Così, a partire dall’8 Settembre ’43, l’Italia si trovava divisa in due parti:

  • Le regioni centro-settentrionali occupata dai tedeschi;
  • Le regioni meridionali saldamente in mano agli eserciti alleati.

Al Nord, intanto, il fascismo risorgeva dalle sue ceneri, forte dell’appoggio nazista. Il 12 settembre ’43 paracadutisti tedeschi liberarono Mussolini, pochi giorni dopo dichiarava la sua intenzione di dare vita a:

  • La nuova Repubblica Sociale Italiana (RSI);
  • Il nuovo Partito fascista Repubblicano.
  • Un nuovo esercito desideroso di combattere al fianco dei tedeschi.

La nuova Repubblica stabilì la sede a Salò. Il regime repubblichino cercò di guadagnare consensi con un programma di socializzazione delle imprese che non riuscì mai a decollare. Nella realtà la RSI non acquisì mai una credibilità per la chiara subordinazione ai nazisti.
L’unica sua funzione fu d’impegnarsi nella repressione del movimento partigiano. Le prime formazioni partigiane si riunirono sulle montagne del Nord; agivano lontano dai centri abitati con attacchi di guerriglia, sabotaggio e disturbo, e nelle città coi GAP (Gruppi di Azione Patriottica).
Ad ogni sabotaggio e/o attentato, i tedeschi reagivano con pesanti rappresaglie. Particolarmente feroce fu quella del Marzo ’44 alle Fosse Ardeatine.
Dopo le fasi iniziali piuttosto anarchiche, i gruppi partigiani s’organizzarono principalmente su base ideologica:

  • Le Brigate Garibaldi, le più numerose e attive formate da comunisti;
  • Giustizia e Libertà ricollegato all’omonimo partito d’azione degl’anni ’30;
  • Le Brigate Matteotti erano legate ai socialisti.

Per un maggiore coordinamento della lotta, già prima della caduta del fascismo era nato il PDA, Partito d’Azione dalla confluenza delle diversi formazioni.
La lotta partigiana italiana fu rilevante per la liberazione dell’Aprile del ’45. Così come già in Francia, i combattenti avevano contribuito significativamente all’evolversi del conflitto. Il loro contributo fu supportato dagli alleati con armi.

173 L'OCCUPAZIONE DELL'ITALIA E LE VICENDE POLITICHE E MILITARI 1943-1945

 

Gia prima della fine del regime i vecchi partiti, che erano stati dichiarati fuorilegge, avevano ripreso vigore finendo per ristrutturare i loro organici.
I cattolici si erano mobilitati per costituire ex-novo il successore del PPI: la Democrazia Cristiana.Quindi si ricostituirono il Partito Liberale,  Repubblicano e Socialista. Il Partito Comunista da sempre attivo in clandestinità, riuscì a ricostituire al completo la propria classe dirigente.
All’indomani dell’8 settembre ’43 i partiti antifascisti diedero vita al Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). Il CLN cercò d’opporsi anche a Badoglio, ma non avendo alcun riconoscimento e presentandosi diviso all’interno, tra un’ala di sinistra e una di centro-destra non trovarono forza per imporsi. Badoglio che godeva dell’appoggio degli alleati, nell’ottobre’43  dichiarò Guerra alla Germania, facendo acquisire all’Italia il nuovo ruolo di cobelligerante.
Il contrasto fra Governo e il CLN fu ricomposto nel Marzo ’44 da una spregiudicata iniziativa del leader comunista Palmiro Togliatti. Giunto a Napoli dal lungo esilio in URSS,  scavalcando ogni posizione ufficiale del CLN, propose di accantonare ogni pregiudiziale su Governo e Corona per costituire un Governo d’Unità Nazionale, con la priorità di sconfiggere il fascismo. La svolta di Salerno di Togliatti, oltre a ricompattare le forze politiche, aveva il merito di legittimare il PCI di fronte ai comandi alleati. Il 24 Aprile ’44 nasce il primo Governo d’Unità Nazionale presieduto da Badoglio. Il Re s’impegnò con gli alleati e il nuovo governo a trasmettere i propri poteri al figlio Umberto, in attesa che la popolazione, a guerra finita, decidesse la sorte della monarchia.
Quando nel Giugno ’44 gli alleati occupano Roma, Umberto I assume la luogotenenza del regno, mentre Badoglio rassegna le proprie dimissioni lasciando il posto ad Ivanoe Bonomi (indicato dal CLN).
Con la scelta di Bonomi si rafforzava il legame diretto del governo con la resistenza. Le bande partigiane si diedero un comando unificato ed allargarono la base di reclutamento, incrementando le azioni di sabotaggio (nonostante le feroci rappresaglie). Molte città, fra cui Firenze, furono liberate prima dell’arrivo delle forze alleate.
Nell’Autunno ’44 però l’avanzata alleata in Italia si bloccò di colpo sulla linea Gotica (tra Rimini e La Spezia). Il proclama del Generale Alexander che, nel Novembre ’44, invitava i partigiani a sospendere le azioni militari provocò forti malumori. Nonostante il mancato appoggio alleato, i partigiani resistettero  a tedeschi e repubblichini sino al ’45. Al definitivo cedimento tedesco, nella primavera del ‘45 seguì l’insurrezione generale che il 25 aprile provocò la liberazione e la fine delle ostilità. Il 28 Aprile Mussolini fu catturato e fucilato dai partigiani.

 

174 L'ITALIA DOPO IL 1945: SCELTA ISTITUZIONALE E COSTITUENTE

Già nel 1945 ci fu la prima occasione di confronto fra partiti scesi in campo per governare l'Italia, al momento della scelta del successore di Bonomi.
Dopo lunghi contrasti tra i partiti, soprattutto tra socialisti e democratici, si trovò un accordo su Ferruccio Parri, leader del Partito d'Azione. Ma il nuovo governo non durò a lungo
L’annunciò di una dura epurazione dei collaborazionisti e una manovra che prevedeva forte tasse sulle grandi imprese, suscitò l'opposizione dei moderati.
Ritirata la fiducia a Parri, il governo d’ampia coalizione vide l'avvento di Alcide De Gasperi ad inaugurare LA SVOLTA MODERATA. S’attenuò l'epurazione, deludendo così soprattutto la sinistra della lotta partigiana; e le manovre fiscali furono “normalizzate”.
Per il 2 giugno 1946 sera fissata la data per una doppia consultazione elettorale:

  • incaricare un’assemblea Costituente di redigere Una nuova Costituzione;
  • una scelta referendaria relativa ad un sistema monarchico o repubblicano.

Le prime elezioni libere dopo la dittatura videro una partecipazione elevatissima e per la prima volta la presenza delle donne. Sia la partecipazione che le scelte non furono omogenee in tutto il paese, con numerose difformità tra il Nord e il Sud (al Sud la monarchia avrebbe prevalso).
Il risultato della tornata elettorale fu favorevole ad una nuova forma istituzionale repubblicana, guidata da un’ampia coalizione a prevalenza democratico-cristiana. L'Italia dimostrava così di volere voltare pagina escludendo la monarchica.
I lavori della Costituente cominciarono poco dopo le elezioni e terminarono il 22 dicembre 47. La nuova Costituzione della Repubblica Italiana del 1948, si ispirava a principi democratici:

  • divisione tra i tre poteri principali: esecutivo, legislativo e giudiziario;
  • sistema bicamerale a suffragio universale, incaricate di votare congiuntamente il Capo dello Stato;
  • istituiva il Consiglio superiore della magistratura, la Corte costituzionale;
  • legislazioni speciali per l’autonomie delle Regioni(inattuale per anni).

Il risultato complessivo dell’operato dell’Assemblea costituente fu di redigere un documento nel quale risultasse un compromesso tra diverse forze politiche  e ideologiche che avevano contribuito a la Repubblica. Ne furono esempio leggi a contenuto sociale (come il diritto al lavoro) influenzato dalle forze di sinistra, altre di carattere filo-cattolico per accontentare i cattolici; ed altre liberali.

 

175 L'ITALIA DOPO IL 1945 : VICENDE POLITICHE, RICOSTRUZIONE, POLITICA ESTERA

Le condizioni economiche dell'Italia alla fine della guerra erano disastrose.

  • Le industri erano riuscite a salvare il salvabile ma la produzione era scesa;
  • l'agricoltura aveva subito danni incalcolabili;
  • l'inflazione e la disoccupazione era salita a livelli altissimi;
  • le vie di comunicazione erano in buona parte inutilizzabili,
  • l'ordine pubblico era precario, soprattutto al Nord: causa degli ex partigiani riluttanti a deporre le armi, e al Sud: per la malavita che si era organizzata.

Il nuovo governo repubblicano, d’indirizzo DC, cercò di:

  • riorganizzare l'economia secondo modelli capitalistici;
  • attuare una politica estera di collaborazione stretta con gli USA americana.

La politica economica cercò di rendersi il più flessibile possibile per evitare di penalizzare eccessivamente la classi meno abbienti ed in generale favorire certi settori piuttosto di altri .
Al ministero dell’Economia venne messo Einaudi che si impegnava in un leggero inasprimento delle imposte e un innalzamento delle tariffe. Svalutò  la lira per richiamare i capitali dall’estero.
La manovra di Einaudi portò qualche frutto anche se fu fortemente limitata dall’essigenza di dovere sottostare ai compromessi con gli alleati. L'Italia era a tutti gli effetti un paese sconfitto, doveva attenersi all'influenza anglo-americana che imponeva l'accettazione degli aiuti del piano Marshall, più adatti a  sollecitare l’importazioni di derrate alimentari e materie prime, che per sviluppare la domanda interna.
Nel febbraio 1947 a Parigi fu firmato il trattato di pace tra Italia e alleati. Le imposizioni:

  • pagare le riparazioni agli stati attaccati (Russia, Grecia, Jugoslavia, Albania, Etiopia);
  • ridurre la consistenza delle forze armate;
  • La questione di Trieste. Nel 1954 la città fu divisa tra alleati e jugoslavi; poco dopo l’Italia subentrò agli anglo-americani. Ma il contrasto con gli slavi, esasperato dal fascismo, riesplose con una serie di vendette contro gli italiani culminata nella strage delle foibe.

L'estromissione forzata delle sinistre dal governo per ricevere gli aiuti del Piano Marshall, favorì il percorso che nel 1949, con la dura opposizione di socialisti e comunisti, portò l'Italia ad aderire al Patto Atlantico.

 

176 I PARTITI NELL'ITALIA DEL DOPOGUERRA

La convinzione nei politici del dopoguerra era quella di mettere in primo piano i partiti di massa soprattutto quelli della sinistra operaia.
Destinato a governare sembrava il partito socialista (PSIUP) che aveva a capo il leader Pietro Nenni. Lo stato di divisione, sempre presente nei partiti di sinistra, tra riformisti e rivoluzionari, indebolì la formazione.
Molta credibilità era attribuita al PCI, soprattutto grazie alla svolta di Salerno di Togliatti e alla susseguente lotta contro il fascismo. Era emerso un nuovo orientamento secondo cui alla guida del governo sarebbe dovuto andare un nuovo partito nazionale organizzato dallo stesso Togliatti molto diverso da quello filo-leninista del passato, radicato tra gli operai e intellettuali.
La forza capace di contrastare le sinistre fu la DC di Alcide De Gasperi:

  • legata all’eredità del PPI di Don Sturzo;
  • ispirato alle dottrine cattoliche contro la lotta di classe;
  • aperta ad un moderato riformismo;
  • favorevole ad un’apertura e a un legame con gli USA.

Altri partiti minori presenti nel panorama nazionale erano:

  • Partito liberale  PLI sostenuto da industriali e dai proprietari terrieri;
  • Repubblicano PRI che si distingueva per l'intransigenza sulla questione istituzionale;
  • Partito d'azione PDA che si presentava come forza nuova e moderna e che ebbe tra le sue file Ferruccio Parri, prima breve esperienza di governo dopo Bonomi,
  • Una non meglio identificata Destra che tendeva a rafforzarsi soprattutto nel Mezzogiorno, dove si accentuavano le insofferenze per le epurazioni. Certi dell’impossibilità di catalizzare i consensi, i leader della destra finirono per confluire nelle liste della DC;
  • Partito dell’uomo qualunque - QUALUNQUISTI -  decisamente minoritario; era il primo esempio di partito antisistema. Si proponeva di difendere il cittadino medio dallo strapotere della classe dirigente .

Dal 1946, per parecchi decenni, alla guida della nazione restò la Democrazia Cristiana che attuò una politica interna moderata lungo tutte le sue direttrici (riuscendo a raccogliere alcuni significativi risultati economici e sociali),  e una politica estera spiccatamente filoamericana.

 

177 IL CENTRISMO

Il centrismo, è per definizione, il governo dei partiti moderati, con l’esclusione delle forze politiche della destra e della sinistra.
Espressione di questo moderatismo furono, nel dopoguerra, i governi presieduti da Alcide DeGasperi, che resse il paese per otto successive coalizioni governative(1947-’53). Fu il periodo di massima egemonia della DC.
Il centrismo è caratterizzato da:

  • in politica estera, da scelte atlantiche ed europeiste;
  • politica interna, moderata dose di riformismo capace di soddisfare parzialmente le grandi masse mantenendo alto il consenso al governo;
  • in politica economica, da scelte liberiste che portò ad uno sviluppo della produttività a fronte di una politica di bassi salari.

Furono favorite soprattutto le grandi industrie orientate all’esportazione, mentre sacrificò le imprese a medio-bassa produzione, legate al mercato interno (in particolare le industrie di trasformazione dei prodotti agricoli). Inoltre furono favorite le grandi imprese del Nord, a danno di quelle del Sud.
In quest’ottica quindi, la politica centrista determinò una nuova divisione interna fra zona sviluppata (il Nord) e zona sottosviluppata (il Sud), con una zona centrale a fare da cuscinetto tra le due. Per limitare questa frattura il governo nel 1950 corse ai ripari cercando misure moderate:

  • fu attuata una Riforma Agraria che fissava norme per l’esproprio e il frazionamento di parte delle grandi proprietà terriere. La riforma costituì un duro colpo per i latifondisti, anche se le nuove aziende agricole che videro la luce si dimostrarono poco vitali.
  • Fu istituita la Cassa per il Mezzogiorno un nuovo ente pubblico con lo scopo di veicolare le sovvenzioni economiche e promuovere lo sviluppo delle zone meridionali. Ma i risultati pratici furono poco brillanti a causa della forte dispersione del capitale pubblico.

Ad acuire la frattura contribuì la politica economica internazionale che, legata agli USA dall’accettazione del Piano Marschall, imponeva ai mercati nazionali l’importazione di numerosi prodotti americani economicamente più convenienti di quelli locali (in questo modo si favorivano le industrie esportatrici e si penalizzavano gli importatori e i consumatori). Se da una parte gli aiuti americani servivano a sanare i deficit di bilancio, dall’altro limitavano fortemente le politiche di sviluppo strutturale. Il risultato più immediato e disastroso per le classi inferiori fu di ritrovarsi in un sistema con bassi salari.
Le riforme dei centristi furono duramente avversate dalle destre, ma soprattutto dalle sinistre, che grazie all’opera della CGIL organizzò numerose manifestazioni e scioperi. Il governo, per tutta risposta, potenziò gli organici delle forze dell’ordine (nasce il reparto Celere) e attua una severa politica di repressione del dissenso.
Consci della perdita di consensi e della debolezza strutturale il governo di centro, per mantenere il potere, giocò l’ultima carta possibile, quella della riforma elettorale. Nel ’53 ratificò la nuova legge con il sistema maggioritario, per cui chi avesse ottenuto il 50% + 1 dei voti avrebbe ottenuto il 65% dei seggi.
Ma non bastò, quello che le sinistre ribattezzarono come “Legge Truffa” a DeGasperi per mantenere il timone della politica. Alle elezioni del 1953 la coalizione centrista non riuscì ad ottenere la maggioranza e vide rafforzarsi sia la destra che la sinistra. Il segnale della fine del centrismo.

 

178 Miracolo economico e trasformazioni sociali

 

Il processo di crescita economica iniziato in Italia, dopo il 1950 trovò il suo culmine tra il ’58 e il ’63, furono questi gli anni del MIRACOLO ECONOMICO. L’Italia accorciò il divario con gl’altri paesi industrializzati. Nel giro di un decennio produzione e reddito quasi raddoppiarono. Lo sviluppo interessò soprattutto l’industria manifatturiera, e nei settori:

  • Siderurgico, Meccanico e Chimico.

dove maggiori furono le innovazioni sui sistemi di produzione e sugli impianti. L’aspetto più evidente del boom s’evidenziò nell’aumento delle esportazioni industriali. La diffusione del Made in Italy e la solidità della lira rinfrescavano l’immagine economica nazionale dandole un aspetto migliore.
Molti erano i fattori macroeconomici alla base di questo sviluppo:

  • Favorevole congiuntura internazionale post-bellica(ricostruzione);
  • Politica liberoscambista, sancita dall’adesione alla CEE;
  • L’aumento di produttività a fronte di un contenimento dei salari.

La politica di compressione dei salari che era stata avviata all’inizio degli anni ’50 aveva consentito l’inserimento di manodopera a basso costo, prelevata da una diffusa disoccupazione. La produttività era stata prodotta da questo sforzo, permettendo all’Italia di divenire, solo in questi anni, un paese industriale.
Molto limitata fu invece la modernizzazione delle attività agricole, così da non riuscire a rispondere all’accresciuta e diversa domanda della popolazione urbana.
L’aumento dei consumi fu possibile soprattutto dall’aumento generalizzato dei salari che si verificò alla fine del processo d’industrializzazione, cioè a fine anni ’50. L’aumento di produttività coincideva con una diminuizione della disoccupazione così da creare un rafforzamento del potere contrattuale dei dipendenti. Il costo di quest’adeguamento salariale si ripercosse sulla produzione, diminuendo i margini di profitto e innescando un nuovo processo inflazionistico, cosicché nel ’64 il miracolo ebbe la prima battuta d’arresto. La congiuntura negativa fu superata nel ’66 quando l’economia riprese a marciare, anche se a ritmi più lenti. Solo allora vennero a galla i problemi sociali collegati alle distorsioni del nostro modello di sviluppo.
In coincidenza con il boom economico, la società italiana subì una complessa serie di trasformazioni, che cambiarono il volto del paese e le abitudini dei cittadini. Solo allora l’Italia si lasciò alle spalle la cultura contadina e si trovò nella società dei consumi. Il suo ingresso in questo nuovo modello avvenne disordinatamente e senza avere superato gli squilibri storici di cui era vittima. Furono di grandi emigrazioni segnarono il paese:

  • Dal Sud al Nord e dalle campagne alle città.

Le grandi migrazioni furono segnate da profondi costi umani e sociali. Le città si espansero caoticamente e spesso senza opportuni piani regolatori. L’inserimento dei nuovi emigranti nelle grandi città del Nord, fu tutt’altro che indolore, ciononostante le differenze fra le culture del Nord e del Sud incominciarono ad attenuarsi permettendo un lento processo d’integrazione sociale.
La televisione e l’automobile furono i simboli più evidenti del cambiamento.
La televisione non era allora solo un passatempo, ma il primo veicolo comune di acculturamento generalizzato. Dai canali nazionali si diffusero programmi in lingua italiana, per alcuni meridionali ancora pressochè sconosciuta, e venivano proposti a tutti i nuovi modelli culturali di massa.
L’automobile era l’espressione principe della pianificazione economica e il simbolo di una nuova indipendenza e libertà di movimento. Lo sviluppo della motorizzazione privata incominciò alla fine degli anni ’50, e coincise con la produzione delle nuove utilitarie: la 500 e la 600. L’industria automobilistica fu incoraggiata dallo Stato, sia attraverso sovvenzioni alla FIAT che con la costruzione di una rete autostradale.

 

 

179 IL CENTRO-SINISTRA

 

Al miracolo italiano s’accompagnò il rafforzamento sindacale e in conseguente consolidamento del partito socialista.  Agli inizi degli anni ’60 i socialisti fecero il loro ingresso al governo senza alcun trauma, anche per la volontà dei gruppi dirigenti del paese. Nonostante ciò la situazione suscitò da una parte grandi speranze di rinnovamento riformista, dall’altra grandi timori. Il biennio che seguì alle elezioni del ’58 vide frapporsi ostacoli sulla strada dell’apertura a sinistra del governo, fortemente osteggiata da parte della destra economica e dalla democrazia cristiana. Contraccolpi internazionali si verificarono anche da parte del Vaticano e dagli Stati Uniti dell’era precedente a quella di Kennedy.
Ma la svolta positiva si ebbe dopo avvenimenti drammatici:
Nel 1960 il Governo TAMBRONI non riuscendo a trovare l’accordo con i socialdemocratici e i repubblicani, formò un governo con esponenti del Movimento Sociale Italiano suscitando notevoli malcontenti. La tensione esplose quando il governo autorizzò l’MSI a tenere il proprio congresso a Genova nonostante le proteste dei cittadini. Per tre giorni la città fu percorsa da duri scontri tra operai e antifascisti e la polizia. Sulla scia dell’episodio presero vita altre proteste, represse duramente provocando anche una decina di morti. Allora la Democrazia Cristiana tolse la fiducia a Tramboni che fu costretto a dimettersi.
Per superare la crisi fu formato un governo d’emergenza capeggiato da Fanfani appoggiato dai socialisti. Ebbe inizio la stagione del governo di centro-sinistra. L’alleanza fu sancita nel congresso della DC del ’62, guidato dalla regia di Aldo Moro, che riuscì a fare accettare la “svolta” al proprio partito. Il nuovo governo che ne seguì vide la partecipazione del PSI e del PSDI. In questa fase il governo di centro-sinistra ottenne i suoi maggiori risultati proponendo:

    • Scuola media unificata;
    • Attuazione dell’ordinamento regionale previsto dalla Costituzione;
    • Imposizione fiscale dei nominativi sui titoli azionari;
    • Nazionalizzazione dell’industria elettrica (ENEL).

Le misure, miravano ad introdurre quei correttivi al sistema capitalistico che avrebbero permesso l’attuazione di un nuovo e più efficace programma economico, con l’intento d’aumentare l’intervento statale per la riduzione degli squilibri del modello italiano. Nonostante gli intenti, gli obiettivi d furono raggiunti solo in parte, anche a causa della debolezza dei consensi. Per attuare tutto il progetto, la base consensuale avrebbe dovuto essere molto più solida. I contrasti nella sinistra aumentarono dopo le elezioni del ’63, che videro la perdita di consensi per DC e del PSI a danno di Liberali e dei Comunisti.
Lo squilibrio trovò una nuova situazione si stabilità solo con il Governo Moro del ’63, che nacque con delle basi molto più moderate e centriste di quelle del governo Fanfani. Il processo riformatore fu in sostanza bloccato, anche a causa di una nuova crisi economica ciclica che consigliò una politica più cauta.
Il fallimento del governo di centro-sinistra fu da imputare per la maggior all’atteggiamento della DC e del suo agire solidaristico con un rifiuto pregiudiziale di scelte ardite e radicali. Il leader democristiano Aldo Moro fu un esempio significativo di questa politica del compromesso e della mediazione.
Il fallimento della politica di centro-sinistra innescò un’altra crisi all’interno del Parito Socialista nel ’64, favorita anche dalla scomparsa del suo capogruppo Togliatti, l’unico capace di portare la bandiera della via italiana al socialismo riaffermando il principio d’indipendenza da Mosca.
Così agli inizi degli anni ’70 il periodo del Centro-sinistra manifestò tutta la sua debolezza e inadeguatezza per una società diventata orami troppo articolata e complessa. Ad aumentare lo stato di crisi dell’esecutivo s’inseriva anche il problema del terrorismo eversivo che, oltre a mietere morti nel paese, aveva ingenerato nell’opinione pubblica accuse d’incapacità del governo di risolvere adeguatamente il problema della strategia della tensione che veniva imputata all’eversione d’estrema destra. La conferma dei pericoli corsi dalle istituzioni ci fu con la rivolta di Reggio Calabria del ’70, quando un’intera città guidata da esponenti del MSI si rivoltò alle istituzioni. Né elezioni del ’72, che videro il governo Andreotti, né i successivi governi guidati da Mariano Rumor, del ’73-’74, seppero ritrovare le risposte per superare la stagnazione e la nuova crisi economica che si profilava all’orizzonte.
Le conseguenze della Guerra del Kippur (’73) provocarono un innalzamento del prezzo del petrolio mettendo in moto un nuovo processo inflazionistico.
Alla crisi economica s’aggiungeva un forte disagio a causa di numerosi scandali in cui furono coinvolti esponenti della maggioranza. I politici furono messi sotto accusa per avere favorito gruppi d’interesse, cosicché nel ’74 fu varata una legge sul finanziamento pubblico dei partiti, ma la misura non fu sufficiente per sanare la frattura tra la classe dirigente e la popolazione. Grandi mutamenti avvennero sulla scia di questi avvenimenti. La società, delusa dalla politica si dedicò con fermezza alle battaglie per i diritti civili, mostrando sostanziali cambiamenti nella visione etica della vita. Tanto che, quando nel ’74 la legge sul divorzio fu sottoposta a referendum abrogativo, la vittoria del no fu schiacciante. Tra il ’75 e ’78 saranno varate altre leggi in questa direzione:

  • Riforma del diritto di famiglia che stabiliva la parità fra i coniugi;
  • Abbassamento a 18 anni per la maggiore età;
  • Legge sull’interruzione volontaria della gravidanza.

Attorno alla metà degli anni ’70 le forze del cambiamento parvero in ascesa e a cogliere i frutti politici delle sempre nuove domande di rinnovamento fu il Partito Comunista, che dal ’73 maturò un importante cambiamento strategico. Sotto la guida del segretario, ENRICO BERLINGUER, dopo aver saputo condannare l’intervento sovietico in Cecoslovacchia, manifestò l’intento di giungere ad un COMPROMESSO STORICO con tutte le forze politiche. Questo prevedeva un accordo tra i comunisti, i socialisti e i partiti cattolici per evitare il pericolo d’instaurazione di probabili regimi autoritari. In seguito il partito di Berlinguer avviò interessanti contatti con i partiti comunisti francese e spagnolo per avviare una politica comune – EUROCOMUNISMO - dei partiti comunisti europei diversa da quella sovietica. La nuova politica di Berlinguer diventò un punto di riferimento moderato per tutte le forze della sinistra riformista, ma i nuovi successi elettorali del PCI contribuirono ad aumentare il dissenso all’interno della coalizione di centrosinistra, che vide la sua fine definitiva nel ’75, quando il PSI dal governo.
Si arrivò allora alle elezioni del ’76 che videro il rafforzamento della DC e del PCI, mentre il PSI diminuì i propri consensi così da portare alla segreteria del partito l’uomo nuovo, cioè Bettino Craxi.

180 IL '68 E L'AUTUNNO CALDO

 

Nei primi mesi del 68 si manifestò anche in Italia la contestazione giovanile con un’imponente mobilitazione universitaria ricollegata ai “principi di Barkley”:

  • l'antimperialismo e la protesta contro la guerra del Vietnam;
  • l'avversione alla civiltà dei consumi;
  • l’omologazione delle abitudini (rapporti personali, ruolo della famiglia e le relazioni fra i sessi)

La politicizzazione della protesta, assunse in Italia le fattezze dell’ideologia marxista-rivoluzionaria. I contestatori contrapponevano alla prassi politica tradizionale l’egualitarismo sostanziale e la spontaneità.
Fu inizialmente promossa da una minoranza di estrazione borghese, ma finì, nell’autunno del ’68, col coniugarsi  con le lotte operaie.
La riscoperta della centralità operaia nel processo produttivo coincise con una stagione di grandi proteste e lotte dei lavoratori, soprattutto di quelli impiegati nell'industria pesante, culminata con il cosiddetto autunno caldo.
Gli aderenti alle mobilitazioni erano abbastanza tipizzati ed individuabili in:

  • lavoratori scarsamente qualificati (bassa manovalanza);
  • spesso immigrati, sui quali gravavano maggiormente i problemi di inserimento e l'insufficienza dei servizi culturali e sociali.

Per una lotta efficace e determinata, la classe operaia fu supportata anche da gruppi politici extraparlamentari, cioè distaccati dai tradizionali partiti parlamentari(Potere operaio, Lotta continua) che s’occuparono di strutturare organicamente le manifestazioni e pubblicizzandone le rivendicazioni.
La messa in discussione dell’impianto industriale riunì le tre organizzazioni sindacali nazionali: CGIL, CISL, UIL. Congiuntamente, pilotarono le lotte operaie verso la stipula di contratti nazionali che assicuravano ai lavoratori cospicui vantaggi sia dal punto di vista salariale che sociale.
Cominciò una nuova fase: i sindacati assunsero un peso crescente nella vita economica, trattando e spesso influenzando i partiti e l'area di governo.
Parallelamente alle vittorie operaie presero forma alcune importanti riforme:

  • liberalizzazione dell’accesso alle Università;
  • approvazione dello “Statuto dei Lavoratori” che stabiliva formalmente quel pacchetto di diritti-doveri alla base dei rapporto di lavoro;
  • primi provvedimenti per il decentramento dei poteri alle Regioni, come previsto dalla carta costituzionale del 1948;
  • 1970 fu approvata la legge che introduceva il divorzio in Italia.

 

 

181 IL TERRORISMO

Il terrorismo è un fenomeno, vasto e complesso che imperversò in Italia nel periodo seguente alla mobilitazione giovanile e alle lotte operaie e che terminò solo alla fine degli anni ’70. Le organizzazioni, in fase di progressiva strutturazione, operavano attraverso attentati dinamitardi in luoghi pubblici, diffondendo il terrore e cercavano d’incrinare la fiducia dell’opinione pubblica nelle istituzioni
Ai suoi esordi fu sottovalutato come fenomeno episodico ma la realtà fu ben diversa. Riuscì a creare un clima di terrore e d’insicurezza così da minare alla base le istituzioni e influenzare radicalmente la vita politica del paese.
Primo, in ordine di tempo, fu il terrorismo di destra dei casi di:

  • piazza Fontana a Milano;
  • in piazza della Loggia a Brescia;
  • sul treno Italicus;
  • la stazione di Bologna.

Oltre alle numerose vittime, a farne le spese fu il potere politico, e i servizi segreti (spesso accusati di aver sostenuti il terrorismo nero) che non sembrarono in grado d’arginare il fenomeno.
Il terrorismo di destra, l'immagine dello stato debole e corrotto e la psicosi della possibilità di un colpo di stato militare (siamo nel bel mezzo degli anni dei colpi di Stato in America Latina: Cile e Argentina) contribuirono alla nascita del terrorismo di sinistra.
Tutto il potenziale aggressivo che era rimasto sopito nelle contestazioni studentesche del ’68 si trasformarono in un'idea di lotta armata  violenta e determinata. L’estremo ed esemplare atto per mobilitare le masse (soprattutto operaie) contro un riflusso conservatore dello stato capitalista e borghese.
La crisi economica provocata dalla Guerra del Kipurr non favorì certamente la reazione istituzionale.  L’aumento dell’inflazione aveva acuito l’atavico problema sociale italico. L’aumento della  disoccupazione, soprattutto giovanile, provocò un rigurgito sessantottino, che  nel ‘77 si riorganizzò in manifestazioni spontanee inneggianti (più o meno consapevolmente) al terrorismo di sinistra.
Ma una significativa presa di distanza di molti gruppi di sinistra fu evidente nel momento di peggiore crisi. Nel 1978 fu prima rapito e poi assassinato,  il segretario della Democrazia Cristiana Aldo Moro, principale artefice di una politica di solidarietà nazionale.
La decisione del governo di non trattare con i terroristi, mostrò all’opinione pubblica la situazione d’estrema gravità. Lo scossone fu tale da ricompattare sia le frange di destra che di sinistra, che formarono un fronte unico e compatto, capace di permettere, di lì a poco, di sconfiggere il terribile fenomeno.

 

182 CRISI DEL CENTRO SINISTRA, SOLIDARIETÀ NAZIONALE, PENTAPARTITO

Il terrorismo segnò le prime incrinature nei governi di centro-sinistra.
L’impreparazione non consentì ai governi di fornire risposte adeguate né al disordine pubblico, né alla crisi economica che l’Italia  dovette fronteggiare.
Le spaccature all’interno della maggioranza indebolirono l’esecutivo:

  • Dc e PSDI erano favorevoli a spostare l’asse politico verso destra;
  • PSI tentava di spostarlo verso sinistra, mirando a inglobare anche il PCI.

Le debolezza dell’esecutivo videro un susseguirsi di governi incapaci di risolvere i gravi problemi economici (ancor più aggravati dall’aumento del prezzo del petrolio) che portarono ad un innalzamento dell’inflazione ad una contrazione dei consumi.
Inoltre, in questo periodo, furono scoperti numerosi scandali d’esponenti politici accusati per casi di tangenti.
Il disagio e l’avversione verso la classe politica, dell’opinione pubblica provocò un clima di sfiducia e un nuovo orientamento verso problematiche civili:

  • 1974 su introdotto il divorzio;
  • fu ratificata la nuova legge sul diritto di famiglia;
  • fu abbassamento la maggiore età a 18 anni;
  • approvata la legge per  l’interruzione volontaria della gravidanza.

La grave crisi che imperversava nel paese portò ad un governo di solidarietà nazionale (un’ampia maggioranza che comprendesse tutti i partiti) che proponeva un programma fortemente riformatore:

  • una nuova riforma fiscale;
  • l’adozione dell’equo canone;
  • una riforma sanitaria che sanciva la gratuità delle cure per tutti, affidandone la gestione alle Unità sanitarie locali.

Ma il nuovo indirizzo politico non produsse i risultati desiderati, cosicché alle elezioni del 1979 il nuovo governo s’indebolì ulteriormente e alle elezioni del 1983 i vecchi partiti persero molti voti.
La soluzione che si trovò fu di tornare ad una coalizione di centro-sinistra:
un governo pentapartitico con DC, PSI, PRI, PSDI e Partito liberale presieduto dal socialista Craxi.
Il periodo Craxi fu di grande riformismo e produsse un nuovo sviluppo economico, anche se fortemente criticato per i modi autoritari del premier.
Significativo fu il nuovo concordato con la Santa Sede.
Intanto nei partiti storici accadevano significativi cambiamenti:

  • DC: il nuovo segretario De Mita tentò di risollevare il partito dopo gli scandali con scarsi risultati;
  • PCI: all’elezioni dell’85 riuscì a superare il 33% dei voti.

In un momento di rilancio economico, il ruolo dei sindacati cominciò a perdere influenza sulle grandi decisioni del governo.

 

fonte: http://leotardi.no-ip.com/download/ManualeStoriaContemporanea.doc

 

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