Urbanistica

 

 

 

Urbanistica

 

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Corso di:
TECNICA E PIANIFICAZIONE URBANISTICA
DISPENSE DIDATTICHE

 

INTRODUZIONE ALL’URBANISTICA

 

La nascita dell’urbanistica

 

Fin dalla nascita, nel XIX secolo, di ciò che con ragionevole approssimazione chiamiamo l’urbanistica moderna, esiste una straordinaria distanza fra la realtà del contesto e quella cui la nuova disciplina sembra far riferimento. Inoltre esiste anche una notevole differenza, in termini d’ampiezza, fra il campo d’applicazione effettivo e quello presupposto nelle elaborazioni disciplinari.
Possiamo tranquillamente affermare che l’urbanistica non si è mai separata da questi due vizi d’origine; anche oggi è generalmente priva degli strumenti istituzionali che le permetterebbero di far coincidere il campo operativo con quello della ricerca, anche oggi viene regolarmente colta di sorpresa da trasformazioni sociali ed economiche che ne rovesciano i termini generali di riferimento e provocano periodiche crisi d’identità fra i suoi cultori.
E’ un fatto ormai acquisito alla cultura urbanistica il livello metropolitano e regionale come quelli base per ogni tipo d’analisi o d’interventi nella struttura dell’insediamento. Pure, la legislazione urbanistica da una lato e le competenze amministrative dall’altro costituiscono una barriera tale da rendere estremamente difficile un’urbanistica coerente con quei livelli. Se questo è il caso dell’Italia tuttora legata al piano regolatore comunale come unico strumento in qualche modo efficace, è anche quello degli Stati Uniti dove lo scontro fra una pianificazione di settore a scala statale e nazionale (strade e autostrade), e una prassi di controllo dell’uso del suolo legata ad una costellazione di piccolissime comunità autonome, costituisce la negazione di ogni possibilità d’accordo non previcatore. Stando così le cose, non c’è da stupirsi del progressivo distacco tra ricerca scientifica e progettazione degli interventi, né dei tentativi sempre più frequenti di demandare ad organismi ad hoc la gestione dell’intero processo di pianificazione. Uno dei dati più impressionanti che si rivelano indagando la letteratura urbanistica ottocentesca riguarda la presenza di problemi – o, più esattamente d’un modo di impostare certi problemi – che sono tuttora vivi e dibattuti: le case popolari, il verde pubblico, e così via. Dove ciò che stupisce è il permanere di un modo di approccio e di un tipo di linguaggio, malgrado la diversità del momento storico, come se la “durata” dell’urbanistica fosse superiore a quella del contesto.
Fra il 1870 e il 1914 le città d’Europa continentale assumono quel carattere di metropoli che da allora le definisce. Sono quelli gli anni nei quali l’amministrazione della città assume precise caratteristiche politiche ed economiche. Sono anche quelli gli anni in cui si definisce il rapporto tra sfera pubblica e sfera privata nella proprietà e nella conduzione della città. E’ in quegli anni che si forma la struttura urbana nella quale viviamo e che condiziona oggi, quasi fosse una preesistenza storica, ogni progetto di modificazione.
E’ in quegli anni che si impiantano i grandi parchi pubblici, le reti di trasporto urbano e metropolitano, i maggiori impianti tecnici a rete. Le strutture fisiche create in quegli anni sono state fino ad oggi il supporto dell’espansione successiva: i centri urbani coincidono tuttora largamente coi centri ottocenteschi mentre le zone di più recente sviluppo conservano il carattere di periferia. La città moderna è ancora, almeno per ciò che riguarda l’organizzazione spaziale e amministrativa, quella dell’ottocento.
E prima di questa data la città è ancora, nella coscienza comune, città storica.
Qual è stato l’atteggiamento dell’urbanistica ufficiale di fronte al processo di definizione della città messo in opera con la sua riduzione ad area di sfruttamento edilizio?
La risposta che possiamo dare a questa domanda è ben altrimenti precisa di quella che saremo costretti ad offrire a una molto più ambigua, del tipo: ha saputo l’urbanistica far fronte ai problemi di sviluppo della grande città industriale dell’ ‘800?
(Sullo smarrimento della cultura urbanistica dell’ottocento, cfr la versione che ne dà l’Enciclopedia Italiana: “Di fronte a queste nuove condizioni, l’urbanistica dell’ottocento, incerta tra le reminiscenze dell’edilizia prospettica del ‘700 e la vertigine del progresso tecnico, ritarda la sua azione di previsione e di controllo sulle città in movimento. Dall’altro lato la crisi architettonica dell’arte investe in pieno l’urbanistica: il problema si sminuzza nei suoi dettagli tecnici separati l’uni dagli altri: fognature, strade, acquedotti, ferrovie, ecc.”).
Si tratta in sostanza di verificare se l’urbanistica ha saputo raggiungere gli obiettivi per i quali era nata, e che sono riconoscibili nei modi e negli strumenti adottati per costituirsi disciplinarmente, fra tutti, il piano regolatore, nel XIX secolo, lo strumento che più compiutamente riassume l’idea di città su cui si fonda l’urbanistica, è anche uno strumento che si è poi rivelato largamente inadeguato a controllare, a guidare e a gestire quei meccanismi e quelle attività che si ritengono tradizionalmente caratterizzare l’organizzazione urbana.
L’impossibilità di fondo di conciliare un’immagine ideale di città quale obiettivo da raggiungere attraverso una serie di interventi spaziali, con la realtà di uno sviluppo sociale ed economico che tende a rinnovare continuamente i propri bisogni organizzativi specifici, non ha mai permesso di fare del piano lo strumento risolutorio che si pretendeva che fosse.
Tuttavia, fin dall’inizio è nata la polemica non contro il piano ma contro un certo modo “disegnato” di fare il piano.
Effettivamente l’educazione architettonica originale di molti urbanisti sembra sostenere un’attenzione per il disegno che va molto al di là di quanto non si elabori in termini di analisi, programmi e tecnologie graficamente meno appariscenti. La cura minuziosa con cui sono illustrate soluzioni planimetriche destinate a rimanere sulla carta per molti anni sembra essere lì a snellire quell’organicità dell’urbano che pur tutti sostenevano.
Una prevaricazione dell’intuizione formalisteggiante insomma, sull’approccio scientifico globale. E’ l’eredità delle Beaux Arts, è quell’essere, per tanti, l’urbanistica figlia dell’architettura, che spiegherebbe l’enfasi del disegno e il così scarso interesse nelle motivazioni economiche e sociali. Ancora oggi in molta letteratura urbanistica, si notano espressioni di indignazione virtuosa in difesa della scienza contro l’urbanistica “intuitiva”.

 

La rivoluzione industriale

 

La cosiddetta rivoluzione industriale è un processo di trasformazione economica e produttiva che si sviluppa in un periodo lungo e non sempre storicamente omogeneo, prima di arrivare a consolidarsi e a caratterizzare definitivamente la società occidentale.
Se ne riconoscono gli inizi in Inghilterra nella seconda metà del XVIII secolo e se ne può verificare l’affermazione progressiva, ad un ritmo sempre più accelerato, nei paesi europei o di origine europea, in tempi e modi diversi, lungo tutto il XIX secolo.
Comprenderne i meccanismi economici e gli aspetti politici e sociali significa darsi ragione dell’ultima vera “rivoluzione urbana” nella storia della città e non città, fra città e cittadini, fra città e disciplina urbanistica.
Non è possibile definire un rapporto di continuità tra la città nata dalla rivoluzione industriale e la città barocca, più di quanto non lo sia con la città medioevale: il salto è radicale, quantitativo e qualitativo e la persistenza di forme o istituzioni cittadine del passato non basta ad eliminarlo.
Si è anche affermato fra gli studiosi la nozione di città “preindustriale”, quale quella di una categoria atta a definire una varietà di situazioni urbane (in termini di periodo storico, organizzazione sociale e organizzazione spaziale) precedente o comunque estranei alla trasformazione della società in senso industriale, assimilando le strutture della città antica e quella di alcuni grossi centri africani o asiatici contemporanei.
I caratteri delle trasformazioni indotte dallo sviluppo industriale nel XIX secolo sono abbastanza simili nei paesi europei, almeno per quanto riguarda l’origine della città industriale e la formazione del proletariato urbano.
Bisogna tuttavia tener presente, ai nostri scopi, due elementi: lo sviluppo industriale non prende l’avvio contemporaneamente in tutta l’Europa, e, soprattutto, più tardi questo comincia e più rapidi sono sia il processo di trasformazione economica che il processo di urbanizzazione.
Il processo di trasformazione industriale dell’ ‘800 è appoggiato ad un eccezionale aumento di popolazione, in gran parte da attribuire ai paesi europei (i soli peraltro dei quali si abbiano stime statistiche attendibili).
Nel 1750 la popolazione europea è di 140 milioni, nel 1800 di 180, nel 1850 di 270, nel 1900 di 400.
E’ stato osservato che la rivoluzione demografica in alcuni paesi precede di qualche decennio la rivoluzione industriale ed andrebbe piuttosto riferita all’aumento della produttività agricola che si registra verso la fine del XVIII secolo, per continuare poi nei decenni successivi lungo tutta la prima fase industriale.
Nel 1800 soltanto il 2,2% della popolazione d’Europa viveva in città di più di 100.000 abitanti. L’Europa è dunque ancora nel suo insieme una regione non urbanizzata, ma alcuni suoi paesi stanno per divenirlo rapidamente. Cinquant’anni dopo l’Inghilterra, nel 1900, è la Germania che registra una maggioranza urbana, e nel 1930 la Francia.
Aumentano enormemente anche le grandi città, nel 1800 solo una città Londra si avvicina al milione di abitanti, nel 180 Parigi contava una milione e Londra due. Nel 1900 le città “milionarie” erano 11, di cui nove di origine europea: Londra, Parigi, Berlino, Vienna, Mosca, Pietroburgo, New York, Chicago, Philadelphia, Tokio e Calcutta.
I nuovi cittadini sono frutto da una parte del generale aumento della popolazione, che comincia peraltro a verificarsi, come si è visto, già prima dell’avvio della rivoluzione industriale e dall’altro in termini percentualmente più significativi, dell’emigrazione dalla campagna.
Si indicano per l’Inghilterra due fattori predominanti: l’abbandono dei campi da parte delle famiglie dei piccoli coltivatori espropriati nel corso del processo di trasformazione fondiaria e le ricorrenti carestie irlandesi che fanno si che grandi masse contadine emigrano in Inghilterra, e, più tardi, nel nord America.
Lo studio del processo di urbanizzazione in Inghilterra rivela che la popolazione dei centri con meno di 10.000 abitanti tende a diminuire, legata come è allo spopolamento delle campagne, mentre aumenta quella delle altre classi.
Due sono le direttrici fondamentali di spostamento della popolazione i bacini minerari, destinati ad alimentare il fabbisogno sempre crescente di ferro e di carbone, e i grandi centri urbani.
Motivi sia tecnici che economici giustificano la concentrazione dei luoghi di lavoro dell’industria. L’uso del carbon coke nella produzione del ferro porta alla formazione dei grandi centri carbosiderurgici: la scala della produzione necessaria ad assorbire gli alti costi, derivanti dalla complessità dei procedimenti produttivi, aumenta costantemente. Per le industrie meccaniche e chimiche si spiega la concentrazione con la necessità di unificare e generalizzare i controlli sulla qualità della produzione. Per tutte, infine, la ferrovia diviene uno dei motivi fondamentali di attrazione e concentrazione.
L’altro motivo è costituito dalla necessità di avere a disposizione un largo mercato del lavoro ove sia possibile attingere manodopera tanto fissa che stagionale, in modo da assorbire le fluttuazioni di una produzione estremamente sensibile alla richiesta del mercato.
L’età delle industrializzazioni in Europa è anche un’epoca di enormi trasformazioni nella struttura degli insediamenti. Le migrazioni da una regione all’altra, la trasformazione dell’uso di interi territori, le aperture di nuove vie di comunicazione, l’abbandono dei campi e il trasferimento in città di grandi masse di popolazione: in un periodo di tempo relativamente breve, poco più di un secolo o in periodi anche minori all’interno dei singoli paesi, cambiano radicalmente, con le strutture economiche politiche e sociali, le strutture territoriali, la localizzazione dei centri produttivi, il rapporto fra la città e la campagna.
Eppure l’urbanistica e, agli inizi, esclusivamente scienza della città. Le sue origini sono state riconosciute in quella critica dell’urbanesimo che assume spesso toni di violenta denuncia man mano che le condizioni del proletariato urbano vengono scoperte dall’opinione pubblica borghese. Senza mai tentare di indagare le cause, si pensa di poter risolvere la situazione portando dei rimedi per cancellare gli aspetti patologici più clamorosi della fase finale del processo. Non si trova nella letteratura urbanistica dell’ ‘800, nessun accenno alle origini territoriali dei problemi urbani. I mali dell’urbanesimo appartengono alla città e vanno curati nella città o, al più, con una diversa città.
Lo stesso problema edilizio, che nessuna grande città europea sarà in grado di risolvere, viene sempre esaminato dall’interno, come inadeguatezza dell’organizzazione urbana, anziché essere posto in relazione con i grandi movimenti di popolazione e la concentrazione delle fonti di lavoro.
Le grandi trasformazioni fisiche dei territori, lo sviluppo delle reti di trasporto a lunga distanza, le operazione di risanamento idrico, le grandi bonifiche, le costruzioni cioè del paese industriale, sfuggono all’urbanistica ufficiale. Questa è più che mai costruzione della città: ciò che è fuori è soggetto di sviluppi settoriali e mai, neanche nelle elaborazioni teoriche di sviluppo integrato.
Di più, nella letteratura urbanistica, ciò che non è città è campagna idillica, un ambiente che non ha alcun rapporto con la nuova realtà produttiva.
Lo sfasamento tra la realtà del contesto e l’immagine che se ne ricava dalla disciplina non potrebbe essere più netto.

 

Lineamenti generali dell’urbanistica fra l’800 e il ‘900

 

Come la città moderna, l’urbanistica nasce nell’ottocento. Pur se il periodo in cui ci riferiamo comprende sicuramente gli anni che precedono la prima guerra mondiale e, per alcuni paesi, gli ultimi decenni del XVIII secolo, è certo che siamo di fronte ad un vero spartiacque nella storia urbana e territoriale della società occidentale.
Sono anche gli anni in cui si afferma un modo preciso di intendere la città, secondo una serie di schemi funzionali caratterizzati dai propri obiettivi di rendimento e da una propria logica interna. La città risulta dalla sovrapposizione di questi schemi ed è un organismo tanto più soddisfacente quanto più efficienti sono le reazioni che intercorrono fra gli elementi componenti: la rete dei trasporti, la distribuzione delle densità edilizie, il sistema di verde.
Sono anche gli anni in cui l’urbanistica sembra occuparsi prima di tutto dell’aspetto edilizio degli insediamento, stabilendo una tradizione che arriva fino ai nostri giorni e che appare in straordinario contrasto con la realtà dell’intervento pubblico in un numero sempre maggiore di settori della vita sociale.
E’ tuttavia estremamente importante comprendere le ragioni storiche ed economiche che sottendono delle scelte culturali così innovatrici rispetto al passato e nello stesso tempo, apparentemente così distante dalla realtà dell’intervento umano sul territorio.
La definizione di “organismo” applicata alla città, ha un immediato successo.
La possibilità di classificare i fenomeni urbani con i metodi delle scienze naturali (le più obiettive e certe) entusiasma i cultori della nuova disciplina e sembra conferire loro il prestigio dello scienziato.
L’idea d’organismo comporta una correlazione fra i diversi elementi del complesso urbano e, analogamente, fra i diversi tipi d’intervento messi in opera o ipotizzati. Si tratta cioè di ovviare alla politica del caso per caso, dell’intervento ad hoc per risolvere un problema locale senza tener conto dell’insieme, per superare insomma un modo tipico della tecnica urbanistica corrente.
Questo nuovo atteggiamento ha però una conseguenza che, non chiara agli inizi, diverrà in seguito sempre più caratterizzante: la città e, più in generale, gli insediamenti costituiranno d’ora in poi un campo autonomo e definito di eventi, dal quale appare essenziale chiarire le strutture e i collegamento interni e su cui è necessario operare nel modo più “specifico”.
La città viene intesa come una macchina complessa della quale è necessario assicurare il funzionamento. Il funzionamento a sua volta si identifica in pochi meccanismi elementari come la circolazione e l’enfasi su alcuni punti significa naturalmente che queste sono le aree di maggior attrito, dove cioè la macchina stenta di più a funzionare, fino a minacciare di fermarsi. E poiché nella città, come mai prima, si compendia tutta l’energia, e la speranza della società, è compito della società intera garantirne la salvezza.
Il primato della città, nella nuova società industriale è fuori discussione.
L’accentuarsi del potere economico nelle città, già tradizionalmente sedi del potere politico, e soprattutto lo spostamento nelle città delle attività produttive economicamente determinanti con la relativa concentrazione di impianti e di lavoratori, determinano il crollo di ogni rapporto di complementarità con la campagna circostante.
La città è il luogo dove “tutto” ormai avviene, ma anche quello dove sono più evidenti le contraddizioni, le ingiustizie e le sofferenze della nuova forma di sfruttamento.
Una ricostruzione della sostanza teorica della disciplina urbanistica fra l’ottocento e il novecento deve basarsi nella pubblicistica contemporanea come fonte essenziale di documentazione, più puntuale certamente di ogni deduzione che si possa trarre da interventi urbanistici realizzati.
E’ necessario però farne una lettura tra le righe, poiché gli scritti disponibili non sono mai orientati in questo senso, e tendono anzi ad evitare le impostazioni generali per attenersi il più possibile alla casistica concreta.
L’atteggiamento apparentemente pragmatico dell’urbanistica ufficiale è stato per molto tempo confrontato con quello scopertamente ideologico della tradizione utopica, col risultato di creare un’immagine sostanzialmente tecnicistica e non impegnata della cultura dei “funzionari”. Anzi, contro questa pretesa limitatezza si è più spesso levata la critica novecentesca, incapace – proprio perché pienamente partecipe della stessa tradizione culturale – di comprenderne la reale portata ideologica.
Invece, come del resto è ovvio, una base teorica esiste ed è sistematicamente osservata, ed è proprio ciò che rende possibile quella univocità di posizioni disciplinari cui si è già accennato. Solo che, per rendersene conto, è necessario svolgere un’indagine tutta interna alla disciplina, senza alcuna deviazione alla ricerca di conferme esplicite nei trattati o finanche nel contesto reale.
Allora è possibile comprendere le ragioni che giustificano la creazione di quegli strumenti di intervento, la scelta di quel campo di operazioni, l’individuazione di quei problemi da risolvere.
In questo modo la disciplina riacquista la sua dignità di scienza, rivelandosi impegnata nella realizzazione di un progetto sociale storicamente corretto ed attendibile.
Certo, il suo progetto non è quello profondamente riformatore che verrà più tardi sbandierato con sempre maggiore frequenza, ma riconoscerne le reali caratteristiche è pur sempre un atto positivo in vista di una sua rifondazione.
Il tutto è tuttavia, volta per volta, dettato e suggerito dal problema fondamentale della casa sul quale è opportuno soffermarsi.

 

Le tipologie edilizie

 

Uno degli strumenti più dibattuti riguarda la tipologia: edilizia aperta o edilizia chiusa?. Qui la discussione non è risolvibile semplicemente in termini di destinazione d’uso, perché si tratta di una scelta significativa soprattutto, ma non soltanto, all’interno dell’edilizia residenziale: il problema è piuttosto quello di individuare il modulo di accrescimento del tessuto urbano, nel quale si inseriranno ulteriori specificazioni tipologiche e funzionali, accompagnate ad una serie di considerazioni di carattere anche sociale.
Tranne qualche eccezione, da ricercarsi piuttosto fra gli architetti che fra gli urbanisti, le simpatie di questi ultimi vanno regolarmente all’edilizia a bassa densità.
Larghi strati di popolazione a medio e basso reddito non potranno, infatti, evitare gli edifici ad appartamenti, più economici anche per ciò che riguarda la manutenzione. Inoltre tali edifici sono più adatti per le attività industriali e commerciali, più sicuri essendo accessibili solo da un lato e, grazie al maggior profitto realizzabile, preferiti dai prioritari delle aree fabbricabili.
Per edilizia aperta si intende quella costituita da edifici unifamiliari isolati, e, di solito, non superiori a due piano. Ad ogni edificio è attribuito un lotto, di dimensioni variabili, completamente attrezzato a giardino o a spazio di servizio con le eventuali dèpendences.
L’edificio è circondato dal giardino e la sua distanza dai confini del lotto, dal margine stradale e dalle costruzioni adiacenti è generalmente regolata attraverso l’indicazione dei minimi ammissibili.
Questo è il modo base di costruzione dei quartieri signorili. Ed è anche, il modo assunto come ideale per la residenza laddove le condizioni economiche lo permettano.
Queste sono le case fatte per abitarci e non per trarne profitto, queste sono le case che “appartengono” al cittadino e al suo modo di vita e non sono imposte dalle contingenze.
La discussione tipologica si svolge prevalentemente intorno ai temi dell’edilizia residenziale, ma la possibilità d’uso del tipo per destinazioni diverse è generalmente adottato come prova del primato dell’uno sull’altro. Ciò significa che il soggetto è in realtà il modulo di accrescimento urbano, e cioè quale tipo corrisponda meglio all’obiettivo di una crescita ordinata.
Questa, s’è visto, è quella detta equilibrata, nella quale la città, crescendo uniformemente, determina un graduale ed uniforme aumento di valore dei terreni di espansione. Tale valore non può venire realizzato che imputandone l’onere all’edificio che sorge sul terreno, divenendo quindi parte integrante del costo di costruzione: l’unico modo possibile per assorbire l’incidenza dell’area in una proporzione accettabile dal mercato è quello di realizzare un’alta densità edilizia.
Nasce così il problema se sia possibile imporre la costruzione di un’edilizia aperta ai proprietari di aree fabbricabili, visti i vantaggi che verrebbero all’intera città, che sono invece naturalmente favorevoli all’edilizia chiusa: la risposta, dilatoria, rinvia generalmente al piano regolatore come il luogo più appropriato per la verifica dei modi possibili di crescita urbana.
Il dilemma, edilizia aperta o edilizia chiusa, è di quelli che non sono rimasti. Ma non perché la questione sia stata chiarita: piuttosto, perché è stata intorbidita dal prevalere di un altro tipo di considerazioni. Le ricerche tipologiche degli architetti moderni, l’interesse esasperato per una rigida corrispondenza del tipo all’uso, la definizione di standards ottimali rispetto a diversi parametri di utenza (per chi, per quale attività, in che posto, etc.) hanno portato all’individuazione di una serie articolata di tipologie che tendono ad interessare, in primo luogo, la produzione edilizia. Solo che non sono stati gli interessi dell’industria edilizia a determinare il modo di crescita della città, bensì quella della proprietà fondiaria. Questo punto, così chiaro agli urbanisti tedeschi fra l’otto e il novecento, è stato messo da parte dagli architetti del movimento moderno cosicché dal loro sforzo creativo ben poco, e con grandi ritardi, è riuscito a superare le maglie dei regolamenti edilizi e urbanistici.
La questione dell’abitazione è invece fra quelle che, dibattute fin dai primi tempi, non hanno cambiato i propri connotati strutturali.
E’ presto chiaro, infatti, che, nella formazione della grande città, il fabbisogno di alloggi si va vieppiù aggravando malgrado l’intensificarsi della produzione edilizia e delle opere di urbanizzazione. Ma, se è vero che la popolazione urbana aumenta ad un ritmo decisamente superiore alle possibilità dell’industria edilizia, cosicché la scarsità di alloggi è da sempre una caratteristica della città moderna, e altrettanto vero che per una larga fascia di abitanti la scarsità è cronica e va di pari passo con la fatiscenza.
Il modo di produzione della città, condizionato dalla rendita fondiaria e dall’appropriazione privata dell’aumento di valore dei terreni seguito all’espansione urbana, e tale da non permettere la realizzazione di alloggi civili per una vasta fascia di redditi minori.
Il costo del terreno e l’esiguità dei salari fanno si che l’edilizia volta a soddisfare i lavoratori sia, oltre che scarsa, di qualità estremamente scadente, così da dover essere classificata fra i tuguri poco dopo essere costruita.
Ma il più delle volte le classi lavoratrici vanno ad ammassarsi nei vecchi quartieri, dove gli indici di affollamento raggiungono livelli mai prima sperimentati, nonché temuti dagli igienisti e dai tutori dell’ordine della moralità pubblica.
Nasce il quartiere operaio modello.
Generalmente lontano dal centro urbano ma adiacenti alla fabbrica, gli abitanti di nuovi quartieri, dotati dei servizi necessari, tenderanno a sentirsi più partecipi del sistema. Le abitazioni intorno alla fabbrica: ideale sociale che fa degli operai i difensori dell’ordine pubblico e del diritto di proprietà.
Si arriva ad augurarcisi che le tre categorie – operai, impiegati, padroni – vivano assieme attorno alla fabbrica, sottolineando così ancora una volta la necessità – di sfuggire alla potenziale conflittualità sociale della grande concentrazione urbana.
Così, nella tradizione urbanistica, le differenze fra le proposte di palingenesi sociale e urbanistica derivate dagli utopisti e le realizzazione edilizia degli industriali avanzato tendono ad attenuarsi. Le une e le altre propongono modelli di organizzazione spaziale sostanzialmente antiurbani, una struttura dei servizi autosufficiente almeno nei suoi termini essenziali, un’edilizia a bassa densità ricca di giardini pubblici e privati.
L’esigenza dell’esproprio nasce dalla necessità di strappare alla proprietà privata il controllo dei suoli necessari a garantire l’ordinato espandersi della città. Ed essendo, come s’è visto, uno degli obiettivi di un’ordinata espansione un graduale aumento di valore dei suoli, l’esproprio appare in definitiva come uno strumento di sostegno della proprietà privata. Ma, se questa è la philosophy che sta alla base di una questione fra le più dibattute, non c’è dubbio che l’esigenza di un disegno razionale del piano urbanistico porta più di uno studioso ad allargare sempre più i confini delle aree soggette ad esproprio.
Gli urbanisti guardano così con invidia l’esperienza di quei paesi, come la Francia (i decreti haussmanniani del 1852 e del 1858) e l’Italia (legge per Napoli 1885) dove esiste addirittura l’esproprio di zona per le operazioni di risanamento.
Nella letteratura tedesca, l’esproprio di zona è generalmente legato al problema della ricomposizione fondiaria o riparcellazione.
Quando la città, nel suo espandersi, si trova di fronte ad un’antica e irrazionale suddivisione in lotti l’esproprio e la ricomposizione delle parcelle catastali è l’unico mezzo disponibile per evitare da un lato di colpire ingiustamente alcuni proprietari e dall’altro di sottostare al facile ricatto del singolo che pretenda di opporsi alla volontà della comunità.
Il problema spunta fuori di nuovo quando si discute della indennità di esproprio. Nella determinazione del prezzo di esproprio e nella discussione se questo debba essere o meno commisurato al valore agricolo non ci si nasconde l’origine pubblica degli aumenti di valore ma si dà per scontato che l’obiettivo pubblico sia l’arricchimento individuale.
Si arriva anche a proporre per un’indennità di esproprio tutte quelle aree che risultassero inutilizzabili, per i privati, a causa della forma e delle dimensioni, in seguito ad interventi stradali di piano.

 

I centri storici

 

Non c’è dunque da stupirsi se il piano regolatore è prima di tutto un piano di ampliamento, un modo cioè di organizzare lo spazio urbano futuro portando la città dove ora è solo campagna.
Nella città esistente si occupa il piano di trasformazione, col quale il centro storico viene per la prima volta isolato dai programmi generali di crescita della città e si avvia a diventare un terreno per le esercitazioni culturalistiche di architetti e archeologi.
In attesa delle sognate trasformazioni il centro storico decade mentre gli interventi edilizi che vi si operano non fanno che aggravare le già spaventose condizioni di sovraffollamento. Le “caserme di affitto”, teatro di tanta letteratura verista ed espressionista, è bersaglio privilegiato dell’invettiva anti urbana, diventano il simbolo della città industriale e appaiono come l’unico possibile modo di rinnovamento edilizio nei tessuti urbani preesistenti.
Qui opera soprattutto il regolamento edilizio, che offre il quadro normativo necessario per portare gli antichi aggregati ai livelli più elevati di sfruttamento edilizio, attraverso un sistematico innalzamento degli indici di densità.
E’ quando è accaduto in tanti centri storici, dovunque se ne intravedesse la convenienza, ed è la ragione per cui tanto vasta e sistematica è stata, a cavallo del secolo, la distribuzione e la deformazione di tessuti storici rimasti sostanzialmente inalterati nei secoli passati.
Nascerà così anche la questione del centro storico e del relativo “risanamento”, che spesso diventa necessario proprio a causa degli interventi della speculazione più recente. Contratte dentro le maglie di una suddivisione proprietaria estremamente fitta, le nuove costruzioni riescono solo in parte a sfruttare tutto il volume edificabile, che i regolamenti cittadini permetterebbero; vi si aggiunga l’inadeguatezza della rete viaria antica, in un epoca in cui la sezione stradale è l’unico elemento pubblico rimasto a garantire la salubrità di un tessuto urbano, e si vedrà come l’avvio ad un’equivoca politica di risanamenti fosse pressoché inevitabile.
Le grandiose operazioni speculative che hanno caratterizzato la ristrutturazione haussmanniana di Parigi accompagneranno le analoghe imprese che verranno compiute in tante città europee, da Milano a Monaco a Madrid.
Si affermerà tuttavia, soprattutto in Austria e in Germania, un metodo di intervento più rispettoso del tessuto storico della città, centrato sulla trasformazione della cinta muraria in un sistema di circonvallazione sul quale si attesta di preferenza l’edilizia pubblica.
Il modello è, chiaramente, quello dei Ring viennese (realizzato negli anni ’50 contemporaneamente agli sventramenti parigini) ma diventa anche questo ben presto uno schema universalmente e acriticamente applicato, tanto che numerosi sono i piani di ampliamento graficizzati soltanto con un anello di circonvallazione.
I costi di trasformazione della cintura sono inferiori a quelli da affrontare nel centro urbano e, almeno in una prima fase, se molti bastioni sono scomparsi, molti centri sono sopravvissuti.

 


I PIANI TERRITORIALI DI COORDINAMENTO

 

Introduzione

 

Lo sviluppo dell’economia in tutti i suoi aspetti, l’incremento delle comunicazioni e dei traffici e l’intensificarsi degli scambi, l’aumento della popolazione, i trasferimento di forze lavoro da una settore economico all’altro, e particolarmente dall’agricoltura all’industria ed ad altri settori della produzione, ed i problemi connessi a questi e ad altri simili fenomeni, peculiari dell’epoca contemporanea sono tutti fattori che determinano una serie di interrelazioni nei vari campi della vita associata.
E’ naturale che questi rapporti si riflettano sulle esigenze urbanistiche, in quanto ogni forma di attività umana ha il suo punto di partenza in uno o più centri abitati, dai quali si irradiano o in cui convergono quelle forze e quegli stimoli che stanno all’origine della produzione e degli scambi, siano essi di idee o di prodotti di qualsiasi tipo.
Si determinano, in questo processo di continuo movimento, zone focali e zone d’ombra, punti di saturazione e di congestione che tendono all’espansione, e, per converso, punti di carenza e di anemia.
Intorno ai grandi centri urbani, e particolarmente a quelli a più spiccata vocazione industriale, si vanno formando aggregati sempre più densi, mentre le zone produttive tendono a richiudersi e ad involversi, finché non sorgano elementi nuovi che creino nuove fonti di movimento di lavoro.
Queste tendenze naturali dell’evoluzione economica hanno dato luogo, soprattutto in altri paesi, alla formazione di supercittà, e da queste premesse hanno tratto origine le teorie contro l’urbanesimo che si affermarono nei primi decenni di questo secolo.
Ma l’evoluzione del pensiero e le spinte sociali che si sono andate successivamente sempre più affermando hanno mostrato chiaramente che quei fenomeni naturali potevano essere corretti nell’interesse generale attraverso opportuni interventi dei poteri pubblici. Indubbiamente l’urbanistica ha data anche in questo campo un apporto di singolare importanza.
Sono questi, molto sommariamente enunciati, i motivi alla base della tendenza, sempre più chiaramente manifesta, della estensione della disciplina urbanistica oltre l’ambito cittadino fino all’intero territorio nazionale.
I problemi urbanistici sono, infatti, intimamente connessi a quelli del benessere sociale e dell’ordinata evoluzione della civiltà, al punto da immedesimarsi con essa: è logico e coerente sviluppo passare perciò a considerare la necessità della pianificazione da quella urbana a quella dei territori inscindibilmente collegati alla città, non più allo scopo di seguire passivamente lo sviluppo economico sociale di quei territori, ma per predisporlo e favorirlo, indirizzandolo verso i punti più adatti ai singoli aspetti che le manifestazioni di tale sviluppo possono assumere.
Ciò spiega il passaggio dalla pianificazione urbana a quella intercomunale e poi a quella regionale e a quella dell’intero territorio nazionale ed oltre.
Mentre la pianificazione comunale (e intercomunale) è di prevalente interesse dell’autorità locale, la pianificazione territoriale dovrebbe essere considerata un’attribuzione istituzionale dello Stato.
La prima, infatti, ha come scopo fondamentale l’organizzazione della vita cittadina e della sua espansione, la seconda ha carattere più generale e programmatico ed ha lo scopo di programmare e coordinare in primo luogo interventi statali, e comunque di tutelare interessi di stato. Essa dovrebbe perciò restare nei compiti dello Stato, che è il solo ad avere il potere e il dovere di indirizzare lo sviluppo armonico ed equilibrato di tutto il territorio nazionale.
La Corte Costituzionale decidendo su una controversia fra lo Stato e la Regione Sarda ha riconosciuto la costituzionalità della norma che prescrive, per l’approvazione dei piani territoriali di coordinamento, il parere del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, con ciò riconoscendo implicitamente la necessità di affidare allo Stato la funzione del coordinamento, su scala nazionale, delle previsioni urbanistiche.
Tale decisione è stata però disattesa dal D.P.R. n. 8 del 1972 che ha trasferito alle Regioni ordinarie anche i piani territoriali.
Dai P.T.C. non deriva imposizione di vincoli su beni privati tant’è che la legge non ha neppure prescritto l’obbligo della pubblicazione del piano prima dell’approvazione, ma soltanto dopo, allo scopo di dare ordine e disciplina anche all’attività privata.
L’art. 5 della l.u. precisa il contenuto dei P.T.C. come segue: “Nella formazione di detti piani debbono stabilirsi le direttive da seguire nel territorio considerato, in rapporto principalmente:

  1. alle zone da riservare a speciale destinazione ed a quelle soggette a speciali vincoli o limitazioni di legge;
  2. alle località da scegliere come sede di nuovi nuclei edilizi ad impianti di particolare natura ed importanza;
  3. alla rete delle principali linee di comunicazioni stradali, ferroviarie, elettriche, navigabili esistenti ed in programma”.

 

Contenuti

 

La pianificazione urbanistica, con la legge n. 1150 del 1942 cambia aspetto, passa infatti dalla regolamentazione del tessuto urbano esistente, alla predisposizione del futuro assetto che deve avere la città.
Ci sono voluto infatti “oltre cento anni per liberare la concezione dell’urbanistica dalla identificazione dapprima con l’arte urbana e quindi con la normativa edilizia e con l’ingegneria stradale, fino a configurarla come disciplina autonoma, con proprio irriducibile oggetto e specifica metodologia conoscitiva ed operativa”.
E’ infatti solo nel dopoguerra, quando si possono verificare gli effetti della legge urbanistica, che si cominciano a predisporre gli studi per dar vita ai piani territoriali di coordinamento che devono costituire l’ossatura della pianificazione nazionale, essendo ad un tempo esemplificazione delle direttive di sviluppo dell’intero territorio nazionale e piani di direttive per la pianificazione comunale ed intercomunale.
In base a quanto previsto genericamente all’art. 5 della legge urbanistica, i Piani Territoriali di Coordinamento potrebbero essere costituiti dai seguenti elaborati:

  1. Studio sulla situazione regionale;
  2. Tavole di indagine;
  3. Monografie su particolari argomenti;
  4. Tavole di progetto;
  5. Norme di attuazione;
  6. Relazione generale con particolare riferimento allo sviluppo socio-economico del territorio regionale

Vista però la natura del piano stesso, che deve costituire direttiva per la pianificazione comunale, la sua rappresentazione deve essere necessariamente sufficiente a poter fare in modo che i piani regolatori comunali possano facilmente recepire tali direttive.

 


I PIANI REGOLATORI GENERALI

 

Introduzione

 

La legge del 25 giugno 1865 formalmente definita come la legge sulle espropriazioni per causa di pubblica utilità, contiene molto elementi che ne forma un primo esempio di disciplina urbanistica ed introduce per la prima volta il termine Piano Regolatore Generale come Piano Regolatore Edilizio.
Il P.R.E. poteva essere adottato dai comuni con popolazione di almeno 10.000 abitanti e consisteva essenzialmente nell’indicazione degli allineamenti da osservarsi nelle ricostruzioni di quelle parti dell’abitato in cui fosse da rimediare alla viziosa disposizione degli edifici.
Il P.R.E. veniva adottato dal Consiglio Comunale e approvato con decreto reale.
La legge prevedeva in intervento differenziato nelle zone edificate (Piani di risanamento che comprendevano Piani di demolizione, di ricostruzione, di allineamento) e nelle zone di espansione (Piani di ampliamento).
Questi ultimi potevano essere adottati da tutti i Comuni i quali però dovevano giustificare la necessità di estendere l’abitato e avevano come scopo una più comoda e decorosa disposizione dei nuovi edifici.
I piani di risanamento si rendevano necessari in generale per esigenze contingenti, comportavano per lo più interventi di sventramento del nucleo abitato e contemplavano delle disposizioni sulla ricostruzione.
Un altro tipo di piano introdotto dalla stessa legge era il Piano particolareggiato che rappresentava il vero e proprio progetto esecutivo di un’opera pubblica da costruire e costruiva in definitiva l’atto necessario per poter espropriare un terreno e potere costruire l’opera pubblica.
Questi piani introdotti dalla legge del 1865 non rappresentavano dei veri e propri piano urbanistici, nel senso che le varie scelte operate, si giustificavano, in funzione di un disegno globale della città, cioè, in definitiva, di un suo migliore funzionamento, ma erano solo degli atti giuridici che miravano a risolvere i problemi che sorgevano al momento e che legittimavano l’espansione a macchia d’olio delle città e la distruzione di interi quartieri.
Si operava cioè con una mentalità settoriale mirando a risanare delle situazioni esistenti.
I due aspetti presi maggiormente in considerazione erano la circolazione e l’igiene.
I primi Piani Regolatori avevano appunto come scopo quello di provvedere alla salubrità e alle necessarie comunicazioni.
Tali piani essendo giustificati da esigenze specifiche e contingenti avevano bisogno di leggi speciali per la loro approvazione, come la legge 15.1.1885 per il risanamento della città di Napoli che fu determinata dallo scoppio del colera e quindi della necessità di intervenire profondamente nella struttura dell’organismo urbano.
La legge che introduce nuovi criteri per il calcolo dell’indennità di esproprio permise lo sventramento di numerosi quartieri del centro storico.
Tale operazione di sventramento fu vista come il solo rimedio per debellare il colera che si annidava nei quartieri popolari di Napoli. Altri piani di risanamento e conseguenti sventramenti furono giustificati da esigenze particolari, possiamo ricordare lo sventramento di Parigi sotto il prefetto Haussman (1852) effettuato con chiare finalità politiche, l’esaltazione della figura che doveva rappresentare San Pietro a Roma, inoltre, rese necessario lo sventramento della zona attualmente nota come Via della Conciliazione.
Con la legge 1150 del 1942 il Piano Regolatore passa da un intervento esecutivo che mirava essenzialmente a risanare il contingente, a strumento di pianificazione territoriale, cioè un atto programmatorio tendente ad indirizzare e coordinare tutte le attività che si svolgono nel territorio comunale.
Oltretutto la legge del 1942 modifica la configurazione del P.R. che da documento calato dall’alto senza la partecipazione dei cittadini, passa un vero e proprio documento programmatico dibattuto con tutte le forze interessate per una migliore utilizzazione del territorio.
In termini assolutamente generali un P.R.G. dovrebbe rispondere ad obiettivi di salvaguardia delle risorse territoriali e di uso del suolo a fini sociali e dovrebbe anche attenersi a criteri di economicità, cioè di coerenza con le risorse disponibili, di flessibilità, cioè di aderenza a possibili trasformazioni del quadro tecnologico, finanziario, legislativo e di coordinamento con le scelte di pianificazione di livello superiore.
Riguardo quest’ultimo aspetto c’è da dire che i livelli di pianificazione sovracomunale condizionano notevolmente la scelta degli obiettivi del P.R. in quanto tali pianificazioni di livello superiori inquadrano le esigenze e i problemi dei vari comuni entro le scelte di intervento generale.
In assenza di tali pianificazioni il P.R.G. deve riferire le proprie scelte ad una serie di obiettivi generali che si fondano sull’analisi critica dei meccanismi di sviluppo attuali e sugli effetti negativi indotti a livello sociale e territoriale.
In riferimento agli effetti negativi, possiamo ricordare quelli indotti dalla concentrazione urbana, dall’esodo agricolo e dalla distruzione del patrimonio ambientale.
Un primo livello di definizione degli obiettivi deve dunque tendere alla salvaguardia delle risorse fisiche, ambientali e sociali quindi alla conversione di determinati meccanismi che conducono agli effetti negativi sopra citati.
In tal modo si arriva a restringere il campo di definizione degli obiettivi ad alcune scelte prioritarie quali il dimensionamento insediativo, residenziale, produttivo, dei servizi pubblici e del settore viabilità.
Evidentemente sarebbe opportuno indirizzare le scelte verso una programmazione a medio termine, generalmente riferita ad un periodo decennale in modo da garantire una sicura flessibilità e attuabilità delle scelte operate.
Le recenti indicazioni riguardo il dimensionamento insediativo residenziale dei piani comunali, tendono verso criteri di contenimento delle previsioni insediative entro certi limiti dello sviluppo naturale della popolazione.
Tale dimensionamento, in realtà, nei comuni soggetti a emigrazione, non è più un contenimento, quanto un obiettivo di riequilibrio territoriale.
Se nel caso dell’obiettivo di contenimento è possibile imporre il rispetto di un limite, nel secondo caso, è indispensabile motivare l’obiettivo di accrescimento con una concreta prospettiva di incremento dell’occupazione.
Le ipotesi di accrescimento demografico non vanno poi immediatamente tradotte in residenza d’espansione, ma vanno commisurate al patrimonio edilizio esistente che presenta sempre problemi di degrado: una metodologia di calcolo del fabbisogno abitativo impostata sull’analisi puntuale dei caratteri del patrimonio edilizio esistente, consente di razionalizzare l’esistente, ridimensionando notevolmente le aree di espansione con la conseguente riduzione netta degli oneri di nuova urbanizzazione e dello spreco si risorse territoriali.
Gli obiettivi di contenimento delle espansioni residenziali e di recupero dell’edilizia esistente debbono essere perseguiti prioritariamente sia per evitare la logica speculativa di edificazione indiscriminata, sia per il recupero dei centri storici.
Bisogna ricordare che questi obiettivi sono ormai condivisi dalla maggioranza degli amministratori e degli urbanisti, e che si sono moltiplicati gli strumenti finanziari e normativi nazionali e regionali utilizzabili per attuare la politica descritta.
Gli obiettivi di sviluppo delle attività produttive si ricollegano a due criteri di intervento più generali: un primo criterio deriva dall’analisi del contesto comprensoriale e regionale che giustifica e avvalora scelte di concentramento o di decentramento produttivo; un secondo criterio deriva dalla verifica della popolazione insediabile nel comune, del tasso di pendolarità, delle caratteristiche produttive locali, tutti elementi che entrano nel calcolo delle potenziali offerte di lavoro.
In una logica di riequilibrio del territorio di dovrebbe poter trovare uno stretto rapporto tra apparato produttivo e qualità o vocazioni produttive dell’area, senza dimenticare il settore agricolo; si dovrebbe cercare di attenuare il fenomeno del pendolarismo causato da forti concentrazioni produttive.
E’ evidente che siamo di fronte ad obiettivi che travalicano le reali competenze dell’ente locale comunale almeno per quanto riguarda la loro realizzazione, comunque il P.R.G. deve tener presenti questi principi di programmazione del settore produttivo.
Le previsioni relative ai servizi pubblici rappresentano l’elemento qualificante del P.R.G..
I servizi pubblici vanno dimensionati in base allo standard ministeriale del 2.4.1968, ma l’operazione di dimensionamento non deve ridursi a un meccanico riferimento quantitativo di aree, bensì deve integrarsi con una corretta concezione del servizio e della sua funzionalità e con una precisa conoscenza delle situazioni sociali e urbanistiche della zona.
Ogni servizio ha il suo bacino ottimale di utenza che deve essere verificata e deve avere caratteri di integrabilità con altri servizi.
Come appare evidente da quando, quindi, la condizione di rispetto dello standard non è di per sé garanzia di un sistema funzionale dei servizi pubblici.
L’obiettivo, nel dimensionamento dei servizi pubblici, deve essere infatti quello della funzionalità del sistema di attrezzature offerte alla comunità, articolando il riferimento delle aree, la cui estensione globale è data dallo standard, attraverso una verifica puntuale delle situazioni sociali e urbanistiche della zona, dimensionando, quindi, i servizi coerentemente con le reali esigenze della comunità locale.
C’è da tenere presente, inoltre, che le caratteristiche fisiche del quartiere possono indurre ulteriori elementi di qualità nella progettazione urbanistica del servizio.
Ad esempio, la presenza di un tessuto congestionato, con poche aree libere e con eventuali edifici degradati impone criteri di adattamento della tipologia del servizio allo spazio disponibile, mentre un’area di espansione offre maggiori possibilità di corretta localizzazione del servizio.
Anche per quanto riguarda il settore viabilistica si possono individuare alcuni semplici elementi orientativi di pianificazione basati, per esempio, sul recupero di precedenti tracciati stradali per adottarli alle attuali esigenze.
Uno studio condotto sulla realtà del traffico locale può individuare punti di strozzatura e di insufficienza che possono talvolta essere risolti con una ridefinizione funzionale della struttura viaria esistente.
Non bisogna, in ogni caso, sempre giudicare secondaria rispetto alla mobilità motorizzata.
In effetti, e molte esperienze concretamente realizzate lo hanno dimostrato, per alcune parti della struttura urbanizzata, la mobilità pedonale è prioritaria per lo svolgimento di determinate funzioni legate al settore commerciale o di pubblico servizio.
La pedonalizzazione di parti dei centri storici è divenuta un motivo di rivitalizzazione del centro se attuata attraverso una politica globale di trasporti che renda direttamente accessibile il centro al mezzo pubblico e indirettamente, cioè con un sistema di parcheggi, al mezzo di trasporto privato.
Il rapido elenco di quelli che potrebbero essere, nella situazione urbanistica attuale, gli elementi orientativi per la definizione degli obiettivi di un piano urbanistico comunale, non deve essere assunto acriticamente, ma va rapportato alla specificità della realtà locale, anche se rimane valido l’orientamento di fondo che punta al recupero e alla valorizzazione del patrimonio edilizio esistente, al blocco di ogni processo determinato dalla logica speculativa, alla realizzazione di un equilibrato organismo insediativo.

 

Le analisi preliminari

 

La definizione degli obiettivi generali del piano comunale si basa sulla conoscenza dello stato di fatto, delle tendenze di sviluppo in atto, dei fenomeni specifici di ogni singola realtà locale.
Arrivare a una conoscenza puntuale e approfondita dello stato di fatto è estremamente difficile data la complessità dei fenomeni che si vogliono analizzare: i fattori di analisi urbanistica, infatti non possono limitarsi alla definizione dello stato fisico del territorio, all’individuazione e definizione delle attività insediate, alla quantificazione degli abitanti residenti, degli addetti, dei servizi pubblici, ma debbono anche definire la qualità e la dinamica delle componenti socio-urbanistiche del comune.
Generalmente le indagini finalizzate alla redazione del piano regolatore generale si organizzano per settori: analisi dei caratteri geomorfologici del territorio, analisi demografiche, analisi occupazionali, analisi della viabilità e trasporti. Ai fini della corretta conoscenza dello stato di fatto, non è tanto necessario individuare nuovi settore di indagine, quanto organizzare ed approfondire le tradizionali analisi in base ai fenomeni che si intendono porre in evidenza e agli obiettivi che si intendono perseguire.
Le analisi geomorfologiche dovrebbero, in questa logica, essere estese alla individuazione dei caratteri produttivi del suolo, a partire dalla indagine sulle condizioni attuali delle strutture agricole (cascine, aziende, stalle), fino alla definizione delle potenzialità produttive agricole di tutto il territorio non edificato.
Le analisi sulla popolazione, sulle attività produttive, sul patrimonio edilizio esistente hanno, come punto di avvio e di riferimento, il dato dei censimenti ISTAT che fornisce informazioni generali sul comune.
Il problema che si pone è quello di disaggregare il dato secondo unità urbanistiche, cioè per isolati e per unità edilizie, e di mantenerlo aggiornato.
Per esempio l’analisi della situazione attuale relativa all’apparato produttivo che comporta il calcolo del pendolarismo e la verifica delle condizioni di lavoro, non può naturalmente limitarsi ai soli censimenti ISTAT del tutto insufficienti allo scopo, bensì dovrebbe interessare inchieste dirette comunali presso i consigli di fabbrica e la direzione delle aziende.
L’unico dato che risponde alle caratteristiche richieste (disaggregazione e aggiornamento), è il dato anagrafico che, se disponibile su elaboratore elettronico, può essere aggregato per numeri civili e fornire informazioni utilissime sulla popolazione residente per classi d’età, informazioni che sono alla base della programmazione di alcuni settori del piano, ad esempio dei settori relativi ai servizi pubblici.
La definizione qualitativa della popolazione è in parte offerta dai censimenti ISTAT (condizioni professionali) così pure per il patrimonio edilizio (condizioni delle abitazioni), ma in odo aggregato e a scadenze decennali.
Sarebbe opportuno o richiedere apposite indagini molto più particolareggiate per studiare fenomeni di particolare interesse urbanistico, quali, per esempio situazioni di degrado edilizio.
Queste particolari indagini comportano una raccolta di dati molto più specifici di quelli forniti dall’ISTAT perché già indirizzati dalla lettura dei fenomeni che si vogliono analizzare e alla individuazione di interventi operativi.
Sarebbe opportuno, per non dover ripetere le stesse indagini ogni volta che si deve intervenire con qualche formula di pianificazione, che i dati relativi alla realtà urbanistica fossero sempre aggiornati e utilizzabili.
Per la costruzione di questo indispensabile sistema informativo comunale finalizzato alla pianificazione, si potrebbero utilizzare, indirizzandoli opportunamente. I tentativi di riforma che si stanno operando sia nel sistema di rilevazione dell’ISTAT, sia nel sistema dell’anagrafe comunale. Sia nel settore dei catasti urbani ed edilizi.
Riguardo alle analisi preliminari da effettuarsi in riferimento al settore viabilistico c’è da dire che gli elementi da tenere presenti in uno studio di mobilità sono innanzitutto le cause stesse della mobilità (pendolarismo da lavoro e da studio, movimenti occasionali per il lavoro, svago e altro) che rendono necessarie delle indagini particolari che, in parte di integrano con le sopracitate analisi occupazionali e qualitative della popolazione.
Un secondo elemento utile per valutare la consistenza e la direzione degli spostamenti è l’indagine sui mezzi di trasporto attuali e sui loro movimenti, che consente di determinare alcuni importanti fattori di ristrutturazione della rete esistente.
Ad esempio, quantificando il traffico veicolare in un centro urbano e differenziandolo tra traffico di attraversamento e traffico con destinazione sul centro stesso, si può grossolanamente delineare una maglia viaria che risponde alle esigenze di circonvallazione e di penetrazione secondo la reale domanda e non in base ad astratti modelli.
Ancora più importante è l’indagine sui mezzi di trasporto pubblico che, comunque, deve essere concepita in modo da servire tutti, gli insediamenti della parte urbanizzata e delle frazioni sparse e da collegarli con i luoghi di lavoro e con i centri di interesse pubblico.

 

Formazione del P.R.G.

 

Le norme sulla formazione del P.R.G. sono contenute nell’art. 8 della legge 1942. In particolare l’articolo citato prevedeva che il comune che ha facoltà di formare il proprio piano regolatore generale con delibera del consiglio comunale, la formazione inoltre obbligatoria per quei comuni inclusi in appositi elenchi approvati con decreto del Ministero dei LL.PP.
L’articolo prevedeva inoltre:

  1. i tempi e i modi per l’elaborazione del piano;
  2. la presentazione del piano entro due anni dalla data del decreto Ministeriale con cui era stato approvato l’elenco suddetto;
  3. provvedimenti di ufficio da parte del Ministero in caso di inerzia del Comune.

Tali provvedimenti si sono verificati molto raramente, pertanto la legge n. 765 del 1967 ha introdotto l’obbligatorietà dell’intervento dell’amministrazione dello stato in caso d’inerzia dell’amministrazione comunale.
Oggi l’intera materia è demandata alla legislazione regionale che può determinare le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza delle amministrazioni comunali
Il primo passo per la formazione del P.R.G. è la delibera del consiglio comunale in cui si decide di dotarsi di P.R.G., non è necessaria la richiesta di alcuna autorizzazione e procedere alla redazione del P.R.G. in quanto tutti i comuni, per legge nazionale hanno la facoltà di redigerlo.
Successivamente si ha la nomina dei progettisti da parte del comune.
La redazione del P.R.G. da parte dei progettisti deve essere effettuata entro un certo tempo stabilito dalle regioni.

 

Contenuti del P.R.G.

 

Il contenuto del P.R.G. era indicato nell’art. 7 della legge urbanistica.
Tale articolo è stato profondamente modificato ad opera dell’art. 1 della legge 19 novembre 1968 n. 1187. Infatti, in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale del 29 maggio n. 55 che ha ritenuto incostituzionale alcuni articoli della legge urbanistica si è dovuto colmare il vuoto lasciato dalla sentenza stessa.
La sentenza n. 55 del 1968 della Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la legge urbanistica 17 agosto 1942 n. 1150, negli artt. 7 (nn. 2, 3, 4) e 40, i quali non prevedono un indennizzo per l’imposizione di limitazioni operanti immediatamente ed a tempo indeterminato nei confronti dei diritti reali, quando le limitazioni abbiano contenuto espropriativo in contrasto con l’art. 42 della Costituzione che consente l’espropriazione ma fa salvo l’indennizzo.
In base all’emanazione della legge 1187 il P.R.G. deve considerare la totalità del territorio comunale e deve contemplare particolari indicazioni. Le indicazioni del piano sono essenzialmente relative alla individuazione delle localizzazioni (disciplina degli impianti pubblici) e delle zonizzazioni (disciplina degli impianti privati).
L’individuazione delle localizzazioni consiste nell’indicazione:

  1. della rete delle vie principali di comunicazione stradali, ferroviarie e navigabili e dei relativi impianti;
  2. delle aree destinate a formare spazi di uso pubblico o sottoposte a speciali servitù;
  3. delle aree da riservare ad edifici pubblici o di uso pubblico nonché ad opere ed impianti di interesse collettivo e sociale.

La zonizzazione consiste nella divisione del territorio comunale in zone con l’esatta specificazione delle zone destinate all’espansione dell’aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona.
Il piano, inoltre, deve indicare i vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale, paesistico, e recare infine, le norme di attuazione del piano stesso.
Quindi per un più razionale inquadramento dei contenuti del P.R.G. conviene raggruppare le indicazioni in esso contenute in quattro categorie e poi trattarle separatamente:
Le quattro categorie sopracitate sono:

  1. localizzazione;
  2. zonizzazione;
  3. normativa per zone di particolare interesse storico, ambientale e paesistico;
  4. norme per l’attuazione del piano.

La localizzazione, come detto, individua tra l’altro la rete delle vie principali di comunicazione stradali, ferroviarie e navigabili e dei relativi impianti.
L’individuazione della rete di comunicazioni è strettamente interconnessa sia con gli altri aspetti della localizzazione sia con la zonizzazione, anzi si può dire che esso rappresenta il presupposto logico sul quale deve raccordarsi la localizzazione degli impianti e delle opere pubbliche nonché la divisione in zone del territorio.
La localizzazione, individua la rete di comunicazione, indica le aree destinate a formare spazi di suo pubblico o sottoposto a speciali servitù e le aree da riservare ad edifici pubblici o di uso pubblico nonché ad opere ed impianti di interesse collettivo e sociale.
Per quanto riguarda la zonizzazione c’è da dire che esistono due tipi di zonizzazione:

  1. la zonizzazione architettonica;
  2. la zonizzazione funzionale.

La zonizzazione architettonica contempla prescrizioni riguardanti le caratteristiche delle costruzioni nella zona presa in considerazione mentre la zonizzazione funzionale indica la destinazione delle singole parti del territorio (zone).
E’ ovvio che le zone considerate, pur essendo singolarmente a disposizione e vincoli diversi, devono porsi l’una rispetto all’altra in un contesto equilibrato all’interno delle scelte generali di carattere programmatico del piano.
In pratica la zonizzazione dev’essere concepita, tramite un sistema di compensazione di continuità e di complementarità, in funzione di un disegno organicamente unitario, in armonia con le scelte di carattere generale del piano.
Appunto per tale ragione che la zonizzazione non è da intendersi come settorializzazione del territorio stesso.
In pratica, per quanto riguarda la zonizzazione del territorio comunale è da tener presente il decreto ministeriale del 2 aprile 1968 n. 1444.
Con tale decreto viene suddiviso il territorio comunale in “zone omogenee” che possono così sintetizzarsi:

  1. Zona “A” – agglomerati urbani con carattere storico – artistico ed aree circostanti.
  2. Zona “B” – parti edificate o parzialmente edificate diverse dalla zona A.

Sono parzialmente edificate le zone in cui la superficie coperta è non inferiore ad 1/8 della superficie fondiaria e la densità territoriale è superiore ad 1,5 mc/mq.
Zona “C” – parti destinate a nuovi complessi insediativi.
Zona “D” – parti destinate a nuovi insediamenti per impianti industriali.
Zona “E” – parti destinate ad uso agricolo.
Zona “F” – parti per impianti di interesse generale.
L’individuazione nell’ambito del territorio comunale di diverse zone consente, sempre secondo il D.M. 1444/68, l’applicazione di standard urbanistici che devono essere rispettati in merito a:
Art. 3) “Rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”,
Art. 4) “Quantità minime di spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi da osservare in rapporto agli insediamenti residenziali nelle singole zone territoriali omogenee” in misura minima di 18 mq per ogni abitante insediato o da insediare.
Art. 5) “Rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti produttivi e gli spazi pubblici destinati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”.
Art. 7) “Limiti di densità edilizia”.
Art. 8) “Limiti di altezza degli edifici”.
Art. 9) “Limiti di distanza fra i fabbricati”.
Riguardo alla normativa per zone di particolare interesse storico ambientale e paesistico c’è da dire che la normativa in questione è rivolta a tutelare i valori di particolare rilevanza storico e paesistica.
In particolare il P.R.G. si attua:

  1. mediante i piani attuativi che, in quanto tali, attuano le scelte contenute negli strumenti urbanistici generali.
  2. Sulla base di P.P.A. di cui all’art. 13 legge del 1977 nei Comuni obbligati alla loro formazione.

In riferimento ai piani attuativi l’art. 13 legge 1150 del 1942 dice che “il P.R.G. è attuato a mezzo di piani particolareggiati …….” cioè il momento attuativo del piano generale si realizza secondo la legge urbanistica del 1942 attraverso i P.P. applicabili ai P.R.G.
I Piani Particolareggiati specificano le destinazioni di piano eventualmente fino al dettaglio planivolumetrico e debbono essere accompagnati da una relazione finanziaria di spesa, devono cioè garantire la copertura finanziaria delle spese occorrenti per le opere previste.
La legge 167 ha introdotto un secondo tipo di strumento urbanistico attuativo, il cosiddetto piano di zona, che costituisce uno strumento di intervento settoriale nel campo dell’edilizia economica e popolare.
La legge 765 ha dato autonomia al piano di lottizzazione convenzionato, che nato con la legge del 1942 come strumento che si accompagnava al P.P. diventa ora un vero e proprio P.P. di iniziativa privata, cioè un piano attuativo di contenuto analogo al P.P., ma affidato interamente all’iniziativa dei privati sotto il controllo dell’amministrazione comunale.
Con la legge 865 è stato istituito poi un altro tipo di piano esecutivo il piano per gli insediamenti produttivi (industriali, artigianali, commerciali e turistici) che ha appunto come finalità quella di acquisire e destinare aree per gli insediamenti produttivi.

 

Programma Pluriennale di Attuazione – P.P.A.

 

Premessa

L’introduzione, con la legge n.10, c.d. Bucalossi, dei Programmi Pluriennali di Attuazione (P,P,A,). determina una sostanziale innovazione nel campo della pianificazione urbanistica. Per la prima volta, infatti, viene contemplata la ripartizione nel tempo dell’attuazione programmata secondo criteri che mirano alla concreta attuazione delle scelte operate nel P.R.G..
Da tempo infatti si era constatato la debolezza di una pianificazione urbanistica che non prevedesse una regolamentazione dell’attuazione degli strumento urbanistici nel tempo.
Ciò si era evidenziato particolarmente per quei Comuni con notevole sviluppo ed incremento demografico, per i quali occorreva uno strumento che predeterminasse gli interventi di trasformazione, al fine di evitare un’espansione incontrollata od irrazionale degli stessi.
In base alla sua formulazione nell’art. 13 legge n. 10 del 28.1.1977 il P.P.A. è diretto a rideterminare nel tempo gli interventi, allo scopo di raggiungere le finalità che le singole amministrazioni comunali si sono proposte.
L’art. 13 prevede infatti che l’attuazione degli strumenti urbanistici generali avviene sulla base dei P.P.A. i quali “determinano le aree e le zone incluse o meno in P.P. o in piani convenzionati di lottizzazione, nelle quali debbono realizzarsi, anche a mezzo di comparti, le previsioni di detti strumento e le relative urbanizzazioni con riferimento ad un periodo di tempo non inferiore a 3 e non superiore a 5 anni”
La legge prevede tuttavia che non tutti i Comuni sono obbligati a formare il P.P.A.. Le Regioni, infatti, nel disporre il contenuto ed il procedimento di formazione dei P.P.A., possono esonerare taluni Comuni, in base alla loro dimensione, andamento demografico e caratteristiche geografiche, storiche ed ambientali (ad eccezione solo di quei Comuni con rilevante espansione industriale e turistica), dall’obbligo di dotarsi di tali P.P.A..
Il P.P.A. inoltre rappresenta l’elemento di collegamento tra pianificazione urbanistica ed economica, dovendo effettuare un bilancio preventivo di entrate (oneri di urbanizzazione) e di spese per opere di urbanizzazione.
Per la formazione dei programmi pluriennali di attuazione, ai sensi dell’art. 13 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, non è richiesta l’approvazione regionale né alcun parere preventivo di altre amministrazioni statali e subregionali. Detti programmi regionali devono tuttavia essere inviati in copia alle Regioni.
Per le aree non comprese nei programmi pluriennali di attuazione le concessioni e le autorizzazioni a costruire sono rilasciate quando si tratta di interventi:

  1. diretti al recupero del patrimonio edilizio esistente;
  2. da realizzare su aree di completamento che siano dotate di opere di urbanizzazione primaria collegate funzionalmente con quelle comunali;
  3. da realizzare su aree comprese nei piani di zona.

I P.R.G., già in base alla legge 17 agosto 1942 n. 1150, e successivamente modificata, avrebbero dovuto trovare un’attuazione organica per tempi e fasi, mediante i P.P.
Le previsioni dei vari articoli della legge, sono rimaste pressoché lettera morta anche in relazione alla mancata espressa subordinazione dell’edificazione alla approvazione di P.P.
In breve, in parte a causa di una mancata piena acquisizione legislativa del concetto di programmazione, in parte a causa di un costume amministrativo urbanistico molto più arretrato della legge, i comuni per decenni si sono trovati al massimo ad esercitare il ruolo più controllore degli sviluppi spontanei che di reali soggetti attivi dello sviluppo territoriale.
In questi ultimi anni si è però assistito ad un salto qualitativo della gestione urbanistica della funzione di meno controllo di un’attuazione privata delle previsioni urbanistiche alla funzione di proiezioni programmatiche delle stesse.
Il principio della programmazione è stato mutato dalla recente legge statale sulla edificabilità dei suoli (art. 13). Tale articolo non stabilisce però il principio fondamentale della attuazione programmata degli strumenti urbanistici, ma contiene varie previsioni in materia di programmi poliennali.
Le varie previsioni di cui all’art. 13 (10/77) non debbono considerarsi vincolanti per le singole Regioni, ma fornire allo stesso uno schema indicativo della disciplina legislativa da emanare.
Sempre l’art. 13 prevede per i programmi poliennali, con norme una durata da 3 a 5 anni, previsione da verificare in seno alle discipline emanate dalle singole Regioni.

Natura e funzioni

Il P.P.A. ha tre obiettivi:

  1. localizzare, temporizzare e coordinare fra loro gli interventi sul territorio per evitare che essi avvengono in modo episodico, casuale, e disorganico;
  2. raccordare pianificazione del territorio alla programmazione economico-finanziario del Comune;
  3. garantire l’attuazione del programma formulato attraverso la forzosa edificazione delle aree delimitate.

Occorre precisare che il P.P.A. non è un piano urbanistico ossia uno strumento di pianificazione attuativa, del P.R.G. esso è soltanto un programma operativo mediante il quale l’Amministrazione Comunale organizza, coordina, e finanzia gli interventi propri e dei cittadini sul territorio, per un determinato periodo che va da 3 ai 5 anni, è il presupposto politico-amministrativo dei piani attuativi e del rilascio della concessione edilizia cioè di ogni intervento sul territorio.
Serve ad individuare come e dove si produrranno gli interventi sia pubblici che privati sul territorio nell’arco temporale considerato precisando le aree con possibilità di edificare e le opere di urbanizzazione correlativamente attuate.
Il P.P.A. individua a priori le aree di intervento privato ed escludendo di massima ogni rilevante attività edificatoria al di fuori di essa.

Contenuto

Secondo l’art. 13 della legge 10/77 il P.P.A., valutati i fabbisogni edilizi (abitativi e produttivi) per l’arco di tempo considerato, delimita le zone e le aree (incluse o non nei P.P.A.) nelle quali debbono realizzarsi anche a mezzo di comparti, le previsioni dello strumento e le relative opere di urbanizzazione.
La stessa legge delega le singole Regioni a stabilire con proprie leggi il contenuto e il procedimento di formazione del P.P.A..
Circa il contenuto può risultare interessante il riferimento alla legislazione lombarda che stabilisce quanto segue per un P.P.A.:

  1. delimitare le zone (nell’ambito del piano vigente) di ristrutturazione, completamento ed espansione, in cui verranno concessi gli interventi edificatori sia tramite singole concessioni edilizie, sia previo studio e approvazione di P.P.A.
  2. coordinare agli interventi privati quelli di PEEP, nell’ambito di eventuali PZ o su aree appositamente vincolate (L. 10/77);
  3. determinare le opere di urbanizzazione primaria e secondaria occorrenti;
  4. determinare le spese occorrenti per acquisire le aree, per effettuare le sistemazioni e per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria;
  5. formulare un piano di riparto Comune, Enti privati e pubblici.

In base alla disposizione di legge Regionale si possono dare ai P.P.A. contenuti più rilevanti.

Interventi subordinati ai P.P.A.

In base al IV comma dell’art. 13 (L. 10/77) nei Comuni obbligati (tutti salvo quelli esonerati dalle leggi regionali) sono possibili con concessione solo gli interventi interessanti aree incluse nei programmi di attuazione.
Per quelle aree non contemplate nei P.P.A. sono rilasciate le concessioni solo per opere cui all’art. 9, come per es. interventi di restauro, di risanamento conservativo, manutenzioni straordinarie, opere pubbliche, opere di urbanizzazione, ecc..
In base al V comma dello stesso articolo, fino alla approvazione dei P.P.A., potranno essere rilasciate concessioni per gli interventi in aree urbanizzate o che i privati si impegnano ad urbanizzare.

Tecnica redazionale

Lo studio di un P.P.A. prende la mossa da un’accurata ricognizione dello stato di urbanizzazione del territorio, cioè di un rilievo oculato di tutte le opere di urbanizzazione primarie e secondaria esistenti, in caso di attuazione o d’imminente attuazione. Questi elementi sono riportati con netta divisione su una tavola di azzonamento dello strumento urbanistico.
Questa attenta analisi sullo stato urbanistico e sugli eventuali programmi urbanistici porterà alla delimitazione delle aree di intervento, quelle aree dalle quali durante il periodo di validità del P.P.A. saranno predisposti eventuali PA, verranno effettuate le necessarie opere di urbanizzazione e saranno concesse le iniziative edificatorie private.
L’Amministrazione Comunale nella scelta delle aree di intervento dovrà attenersi a criteri di razionalità operativa quali:

  1. scegliere le aree che a parità di estensione o di possibilità edificatoria siano agevolmente e più economicamente urbanizzate;
  2. scegliere le aree che a parità di costi urbanizzativi rendono più organico lo sviluppo dell’abitato.

Pertanto verranno inclusi nel P.P.A. le aree già urbanizzate anche se localizzate fuori dal centro edificato per le quali l’Amministrazione Comunale non deve apportare alcuna ulteriore spesa.
Inoltre dovranno essere incluse tutte le altre aree necessarie al completamento del fabbisogno tri-quinquennale tenendo conto dei PL approvati, in corso di realizzazione ed eventualmente richiesti nonché i possibili PZ vigenti o allo studio.
Il P.P.A. deve anche tenere conto dei fabbisogni arretrati cioè programmando l’attuazione di opere nelle zone già costruite, sia interna o esterna al perimetro del centro edificato.

Procedure

Il P.P.A. è un semplice documento amministrativo di politica urbanistica, esso può essere deliberato dal Consiglio Comunale, tenuto conto della programmazione generale e delle previsioni di bilancio, pubblicato nei termini consueti, quindi inoltrato al CRC per il visto di esecutività, ottenuto il quale il P.P.A. entra in vigore.
La stessa procedura viene attuata per le varianti.

 

Elaborati progettuali del P.R.G.

 

Le forme di rappresentazione del progetto di piano sono precisate dalla circolare ministeriale del 7 luglio 1974.
In particolare gli elaborati di progetto devono essere costituiti dai seguenti elementi:

  1. schema regionale con l’indicazione della posizione e dell’importanza del Comune in rapporto ai centri di più diretto interesse;
  2. planimetria, in scala non inferiore a 1:10.000, di tutto il territorio comunale, con l’indicazione dello stato di fatto esistente, e cioè: altimetria del terreno, edifici esistenti con distinzione di quelli pubblici, manufatti industriali, aree demaniali, immobili soggetti a tutela monumentale o paesistica, zone sottoposte a vincoli, inoltre deve essere indicata la toponomastica;
  3. planimetria in scala non inferiore a 1:10.000, contenente:
  4. la divisione del territorio in zone, in rapporto alle rispettive destinazioni (residenze, industria, agricoltura, sport, assistenza e cura, ecc.);
  5. l’indicazione delle aree destinate a formare spazi d’uso pubblico e sottoposte a speciali servitù;
  6. l’ubicazione delle sedi degli edifici pubblici o d’uso pubblico, nonché delle opere e degli impianti di interesse collettivo;
  7. planimetrie in scala non inferiori a 1:10.000 con l’indicazione della rete stradale principale e delle altre vie di comunicazione (ferrovie, navigabili, ecc.);
  8. planimetrie particolari in scala maggiore di quelle indicate alle precedenti lettere b), c), d), laddove sia opportuno;
  9. norme urbanistiche-edilizie d’attuazione, precisanti i caratteri e le limitazioni di zona, nonché i vincoli attinenti alle particolari servitù e contenenti gli elementi atti ad integrare il regolamento edilizio comunale;
  10. relazione contenente:
  11. illustrazione generale e analitica dello stato di fatto (ambiente fisico, demografia ed economia, attrezzature sociali e tecnologiche, edilizia, traffico e comunicazioni);
  12. indicazione dei principali problemi ed esigenze, consequenziali all’analisi dello stato di fatto, determinazione dei fabbisogni e soluzioni dei problemi riferiti ad un congruo periodo di tempo;
  13. illustrazione generale del progetto e dei criteri adottati per le più importanti sistemazioni;
  14. programma d’attuazione e sua graduazione nel tempo.

 

Pubblicazione del P.R.G.

 

Adottato da parte del consiglio comunale, il progetto del P.R.G., deve essere depositato presso la segreteria comunale per la durata di 30 giorni consecutivi, durante i quali chiunque ha facoltà di prenderne visione. Dell’avvenuto deposito deve essere data notizia mediante un avviso affisso all’albo pretorio, nei luoghi di frequenza pubblica e inserito nel foglio annunzi legali della provincia, per i Comuni più importanti l’avviso deve essere pubblicato sui giornali a larga diffusione.
Nei 30 giorni successivi alla scadenza del periodo di deposito, possono essere presentate osservazioni al piano stesso e alle scelte in esso contenute da parte di associazioni sindacali, enti pubblici e privati, nonché da privati cittadini. A tale proposito, bisogna dire che l’art. 9 della legge 1150 del 1942 che stabiliva i modi di pubblicazione del P.R.G. è stato modificato dalla circolare ministeriale 7 luglio 1954 n. 2495 la quale ha esteso la facoltà di presentare osservazioni a tutti i cittadini del comune, la norma originale, infatti, parlava di tale possibilità, solo limitatamente alle associazioni sindacali e agli enti pubblici ed istituzioni interessate.
Il passo successivo riguarda la formulazione delle controdeduzioni, cioè il consiglio comunale esprime il proprio parere in merito alle osservazioni, con apposita delibera.
In sede di esame delle osservazioni esistono due possibilità: la prima è quella di respingere le osservazioni, nel qual caso vanno indicate, nella stessa delibera, le relative motivazioni di abrogazioni; la seconda possibilità è che alcune o tutte le osservazioni vengano accolte, nel qual caso il consiglio comunale adotta, con apposita delibera, le modifiche al P.R.G. conseguenti l’accoglimento delle osservazioni.
Per rendere più veloce la fase della formulazione delle controdeduzioni e per realizzare una maggiore partecipazione democratica della formazione del P.R.G., potrebbe essere introdotta una fase intermedia tra la nomina dei progettisti e l’adozione del P.R.G. da parte del consiglio comunale, cioè la formulazione e pubblicizzazione del documento programmatico.
Già la prassi più avanzata di alcune amministrazioni e di alcuni urbanisti ha introdotto come fase intermedia la predisposizione di materiale analitico e la determinazione di obiettivi generali da conseguire attraverso la pianificazione comunale e la discussione di questo materiale in assemblee pubbliche fino ad arrivare al consiglio comunale.
Questa fase che viene istituzionalizzata in certe regioni in termini di delibera programmatico, il relativo documento viene inviato alle organizzazioni sociali più rappresentative con la richiesta di osservazioni e proposte entro tempi prestabiliti.
In tale fase i progettisti debbono raccogliere ed elaborare dati e informazioni esaurienti per dare un quadro dello sviluppo comunale e dei suoi problemi e debbono quindi formulare obiettivi e proposte di intervento che vanno esplicitati tecnicamente anche attraverso l’uso di cartografie in cui possono essere riportate non solo proposte univoche, ma anche eventuali alternative da portare al pubblico dibattito.
Sulla base degli elementi raccolti nella pubblicizzazione del documento programmatico e di successivi approfondimenti, si elabora il progetto definitivo di piano nei suoi elementi essenziali (cartografia, relazioni, norme di attuazione) e lo si presenta al dibattito consiliare.
La fase di pubblicizzazione del documento programmatico potrebbe, come detto, contribuire ad abbreviare ed ad alleggerire il momento istituzionale di confronto indicato come formulazione delle controdeduzioni, riducendolo ad un’ultima fase di controllo in cui non verranno più presentate le osservazioni già discusse e accolte, ma solo le osservazioni respinte per fondati motivi e quindi ancora inaccoglibili.
Inoltre le osservazioni, intervenendo in fase di definizione delle scelte possono contribuire ad arricchire la definizione di pubblico interesse che la pianificazione persegue. Se le osservazioni presentate fossero, in ogni caso, molto numerose, è opportuno che l’amministrazione predisponga dei criteri generali di definizione delle controdeduzioni che richiamino gli obiettivi generali del piano e, sulla base di questi, propongono come meritevoli di accoglimento alcune osservazioni e ne escludano altre.
Ad esempio, è evidente che tutte le osservazioni che si configurano come tutela di interessi privati vanno respinte, mentre le osservazioni che aiutano a precisare come si possono raggiungere, anche con la collaborazione dei privati, gli obiettivi di pubblica utilità del piano, vanno raccolte.

 

Approvazione del P.R.G.

 

Il piano completo nei suoi elaborati, con le osservazioni presentate e la relativa delibera di controdeduzioni viene inviato alla regione per l’approvazione entro due anni dal sopracitato decreto ministeriale.
L’istruttoria del piano, ossia la verifica di rispetto a eventuali indirizzi di programmazione sovracomunale, viene effettuata da appositi uffici di servizio urbanistico regionale. Da più regioni viene avanzata la prospettiva di decentrare tali uffici presso gli organismi del comprensorio, che potrebbe effettivamente abbreviare i tempi di controllo se l’ente intermedio funzionasse come punto di incontro tra le esigenze di coordinamento regionale e le più puntuali esigenze delle autonomie locali.
Secondo le specifiche procedure regionali il P.R.G. viene approvato integralmente oppure viene restituito al comune per apportare sostanziali modifiche o integrazioni o rielaborazioni dello stesso piano.
Nel primo caso, il piano può essere pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione e diviene operante, nel secondo caso, il comune deve ripresentare il piano alla Regione nel termine di 180 giorni quindi si ha l’approvazione definitiva e la relativa pubblicazione.
La legge ponte (n.765 del 1067) ha introdotto delle innovazioni per rendere più veloce le procedure di approvazione: in particolare l’art. 3 della sopracitata legge dice che il P.R.G. può essere approvato dalla Regione con modifiche d'ufficio; cioè, con lo stesso decreto di approvazione della Regione, possono essere apportate al piano delle modifiche che vengono preventivamente comunicate al Comune e da questo accolte e deliberato. In tal caso il piano può essere ugualmente pubblicato.
Le modifiche in questione, sono quelle che non comportano sostanzialmente innovazioni, o conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate, nonché quelle modifiche che si rendono necessarie per il rispetto di programmazioni di livello superiore come il P.T.C. se esistente, per la tutela del paesaggio e di complessi storici monumentali ambientali archeologici, per l’osservanza dei limiti di cui al comma sesto dell’art. 41 quinquies legge 1150 e degli standards urbanistici.
Tutte le proposte di modifica, sono comunicate al Comune che deve adottare le proprie controdeduzioni entro 90 giorni con deliberazione non soggetta all’approvazione del Coreco.
La deliberazione, dopo semplice pubblicazione in un giorno festivo, viene trasmessa alla competente autorità regionale nei successivi 15 giorni.
Il decreto del presidente della giunta regionale, la pubblicazione dello stesso sul bollettino ufficiale della Regione ed il deposito del piano presso il Comune, rappresentano l’atto terminale della complessa procedura iniziata, come si è visto, con l’inclusione del Comune stesso nell’elenco di quelli obbligati a darsi un piano regolatore generale.
Al piano approvato, nessuna proposta di variante può aver corso se non sia intervenuta la preventiva autorizzazione da parte della Regione che può concederla solo in vista di sopravvenute ragioni che determinino la totale o parziale inattuabilità del piano medesimo o la convenienza a migliorarlo.
L’eventuale variante al piano segue lo stesso iter di approvazione del piano originario.

 

Misure di salvaguardia

 

Nell’arco di tempo intercorrente tra l’adozione del piano regolatore, da parte del Comune, e l’approvazione dello stesso, da parte della Regione, le scelte di piano non sono operative, in quanto ancora non approvate e trasformate in leggi, e pertanto non possono costituire un vincolo al territorio per quanto ne riguarda l’uso.
In questo periodo quindi esiste il rischio di modifiche della realtà del territorio in discordanza con quanto previsto dal P.R: il che farebbe assumere al piano una volta approvato non più quell’aspetto di atto programmatico ma di un qualcosa di puramente teorico, in quanto verrebbero meno le basi che, individuate dall’indagine preliminare al piano, avevano giustificato lo stesso.
Risulta quindi evidente, da quanto detto, che nel momento in cui il Consiglio comunale adotta il piano si rende necessaria l’applicazione di “misure di salvaguardia” che garantiscano il rispetto delle disposizioni contenute nel P.R..
Tali misure sono previste dalla legge 3 novembre 1952, n. 1902 e sono rese obbligatorie dalla legge ponte (n. 765) per i piani regolatori generali e dalla legge 5 luglio 1966 per i programmi di fabbricazione.
Prima della legge ponte, l’applicabilità delle misure di salvaguardia era lasciata all’ampia discrezionalità dei sindaci i quali, nel periodo intercorrente tra l’adozione e l’approvazione definitiva del P.R., dinanzi alla richiesta di una licenza edilizia in contrasto con le scelte generali operate dal piano, potevano decidere il rilascio della licenza stessa o emettere provvedimento motivato in sospensione.
Con la legge 765, invece, nessun potere discrezionale è più attribuito al Sindaco, il quale ha il dovere di ufficio di sospendere, ai sensi dell’art. 3 della citata disposizione, ogni decisione sul rilascio di licenza non conforme al piano in adozione.


PIANI ESECUTIVI

 

Piano Particolareggiato

 

Generalità

Il piano particolareggiato o P.P. rappresenta nella legge urbanistica n. 1150 (art. 13) del 1942, il principale strumento di attuazione del P.R.G.. In base alla legge n. 865/71 il P.P. è diventato uno strumento attuativo anche del P.d.F., limitatamente alle aree da destinare ad insediamenti produttivi (art. 27).
La compilazione di tale strumento è competenza del Comune, essi hanno la funzione di sviluppare le indicazioni generali contenuti nel P.R.G., senza porsi in contraddizione con queste ultime, specificando i dettagli dell’intervento urbanistico che precede la fase di esecuzione edilizia; di conseguenza devono rispondere ad una serie di caratteristiche progettuali, finanziarie e amministrative che possiamo così sintetizzare:

  1. non essere in contrasto col P.R.G., ma specificarne il contenuto;
  2. interessare le singole parti del territorio in un quadro di attuazione organica del piano;
  3. precisare, eventualmente fino al dettaglio planivolumetrico, di assetto definitivo della zona;
  4. garantire la copertura finanziaria delle spese occorrenti per le opere previste;
  5. seguire un iter di adozione e approvazione analogo a quello dei P.R.G..

Le successive leggi n. 765/68 e la n. 865/71 hanno apportato, come vedremo, delle modifiche che se da un lato non mutano la sostanza del P.P. dall’altro ne rendono più facile l’applicazione.

Documentazione

Il P.R.G. è attuato a mezzo dei P.P. di esecuzione estesi a determinati ambiti del territorio comunale prescelti dal Comune in base al programma e alle priorità stabilite dal P.R.G..
Il P.P. è costituito dai seguenti elaborati.

  1. Stralcio del P.R.G. vigente, con l’individuazione delle zone oggetto del P.P.
  2. Stralcio delle norme attuative del P.R.G. vigente concernenti le zone oggetto del P.P.
  3. Planimetria della consistenza edilizia attuale delle zone.
  4. Planimetria del progetto di P.P. disegnato su mappa catastale.
  5. Planimetria contenente la lottizzazione delle aree edificabili e l’eventuale indicazione dei confinanti di immobili.
  6. Grafici indicanti i profili regolatori altimetrici dell’edilizia lungo le vie o piazze principali.
  7. Elenchi catastali delle proprietà da espropriare o da vincolare.
  8. Relazione di massima delle spese occorrenti per l’acquisizione delle aree e per le sistemazioni generali.
  9. Relazione illustrativa del progetto di P.P.
  10. Copie dei P.P.A. (solo per i Comuni obbligati) da cui risulti che lo studio del P.P. è stato regolarmente approvato.

Su ogni elaborato vanno apposte le firme del Tecnico progettista laureato, del Segretario Comunale e del Sindaco.

Contenuto

Nell’esame dei contenuti specifici del P.P. intendiamo individuare gli elementi positivi, le carenze e i limiti, nonché chiarire le modalità applicative.
L’art. 13 delle L.U. N. (1942) indica solo i contenuti essenziali dei P.P.

  1. Opere di interesse pubblico
  2. rete stradale e principali dati altimetrici di ogni zona.
  3. Spazi riservati ad opere e impianti di interesse pubblico.
  4. Profondità delle zone laterali ed opere pubbliche
  5. Prescrizioni e limiti dell’attività edilizia privata relative:
  6. alle messe e alle altezze delle costruzioni
  7. agli edifici destinati a demolizione e ricostruzione
  8. alla suddivisione degli isolati in lotti fabbricabili secondo la tipologia del piano.

In base alla definizione e ai contenuti progettuali del P.P., l’ambito territoriale di applicazione di questo strumento attuativo risulta essere costituito da qualsiasi area edificata o libera, che presenti esigenze di intervento esecutivo prioritario.
I P.P. possono interessare zone urbane da modificare, da ricostruire, da integrare: ad esempio zone del centro storico o del nucleo dio antico insediamento o zone comunque degradate dal punto di vista insediativo, per cui vanno previsti elementi di riorganizzazione edilizia (demolizione, consolidamento, recupero di standard igienico-sanitari) ed elementi di riorganizzazione urbanistica ugualmente, essi possono interessare zone di nuova espansione, con la precisazione di tutti gli elementi di progetto necessari per la realizzazione di un insediamento definito in tutti i suoi aspetti urbanistici.
A conferma dell’importanza che riveste la realizzazione effettiva delle opere previste dal P.P. e a garanzia della loro attuazione nei termini previsti dal P.P. e a garanzia della loro attuazione nei termini previsti la legge urbanistica prescriveva, anteriormente alla legge n. 765/67 l’obbligo di redazione di un piano finanziario che, in base all’entità delle spese da affrontare per la realizzazione del piano stesso, indicasse le fonti di finanziamento per la copertura delle spese. Questa imposizione, in assenza di una legge specifica di finanziamento e nella situazione di generale dissesto delle finanze commerciali è divenuta uno degli ostacoli principali che hanno impedito la formazione e applicazione dei P.P.
Successivamente la legge urbanistica 765/67 ha apportato alcune modifiche ai criteri di formazione dei P.P. che ne hanno in parte migliorato le possibilità applicative. L’obbligo del piano finanziario per la completa copertura finanziaria di tutti gli interventi previsti di acquisizione, urbanizzazione ed esproprio è stato superato sostituito ad esso come semplice relazione di previsione di massima delle opere da affrontare. In qualsiasi momento ove il Comune può adottare un P.P., specie in situazioni territoriali che si vanno compromettendo, vincolandone le future trasformazioni, qualora il privato non proceda alla realizzazione diretta delle indicazioni del piano.

Formazione

I P.P. sono compilati a cura del Comuni e adottati dal Sindaco con opportuna delibera del Consiglio Comunale. Inizialmente la legge urbanistica nazionale prevedeva per i P.P. le stesse lungaggini burocratiche adottate per l’approvazione dei P.R.G., complicando ulteriormente le modalità di applicazione di questo strumento attuativo delle scelte di sviluppo urbano.
La legge 765/76 ha apportato modifiche anche ai criteri di approvazione dei P.P. superando l’ostacolo delle centralizzazioni dell’esame istruttorio rendendo possibile l’approvazione presso il Provveditorato Regionale e alle Opere Pubbliche.
La legge 865/71 ha trasferito le competenze alle Regioni e queste nel quadro di una politica di decentramento amministrativo allargato alle autonomie locali, delega ai Comuni la facoltà di approvare con semplici delibere comunali quei P.P. che non contrastino con le indicazioni del PR.G.; sarà poi la commissione di controllo a verificare l’assenza di tale contrasto.
I Piani adottati con delibera comunale sono depositati presso le segreterie del Comune per la durata di 30 giorni consecutivi; nei successivi 30 giorni possono essere presentate opposizioni (da parte dei privati) ed osservazioni (da parte di associazioni sindacali). Mentre le prime hanno valore giuridico, le seconde sono considerate semplici obiezioni.
La fase successiva è quella delle controdeduzioni da parte del Comune con eventuale modifica degli elaborati.
Successivamente gli elaborati del P.P. sono inoltrati con richiesta di approvazione alla Regione.
Il P.P. è approvato con D.R. ed entra in vigore nel giorno di pubblicazione del D.R. sulla G.U. (od equivalente pubblicazione regionale).

Misure di salvaguardia

Per 3 anni dalla delibera di adozione del P.P., il Sindaco, su parere conforme dalla CEE deve sospendere ogni determinazione sulle domande di concessione in contrasto con i P.P.
Il suddetto termine è di 5 anni nel caso in cui il P.P. sia presentato alla Regione entro un anno dalla scadenza del termine di pubblicazione.

L’attuazione dei P.P.

Il meccanismo che consente la realizzazione delle previsioni del P.P. sta nella dichiarazione di pubblica utilità delle opere in esso contenute, che consegue l’approvazione del piano stesso.
In seguito alla dichiarazione di pubblica utilità il Comune poteva espropriare aree e immobili in origine attraverso l’applicazione della legge del 1865, e cioè in pratica attraverso i prezzi di mercato, mentre oggi può espropriare applicando la legge n. 865/71 che prevede uno snellimento nelle procedura di esproprio e un nuovo sistema di determinazioni dell’indennità di esproprio.
Quest’ultima viene praticamente vincolata al valore agricolo del terreno, maggiorato con determinati coefficienti (da 2 a 10) solo per le aree comprese nei centri edificati e nei centri storici, i valori così ottenuti sono depurati della rendita fondiaria.
Dall’annuncio dell’avvenuto deposito del P.P. approvato va notificato a ciascun proprietario di immobile vincolato, entro un mese. I beni coinvolti nell’assetto urbanistico del piano sono sottoposti mediante procedimento espropriativo o al trasferimento del diritto di proprietà o alla costituzione di particolari vincoli o servitù.
Accanto a queste possibilità di intervento diretto i P.P. possono essere utilizzati anche per imporre o consentire ai privati la realizzazione dei piani attraverso rettifiche, allineamenti, sistemazioni edilizie, formazione di comparti edificatori. Se il provato proprietario non procede volontariamente alla attuazione delle indicazioni contenute nei P.P., il Comune può procedere alla formazione dei comparti edificatori, al fine dell’edificazione unitaria di un complesso urbanistico appartenenti a diversi proprietari.
I comparti comprendono sia aree inedificate che costruzioni da trasformare secondo le prescrizioni contenute nelle norme tecniche; i privati possono procedere da soli o riuniti in consorzio alla edificazione e alla ristrutturazione degli immobili. Decorso il termine fissato dal Comune per la formazione dei comparti edificatori, il Comune può procedere alla espropriazione, e indire una gara tra gli espropriati per l’assegnazione del comparto, nel caso la gara vada deserta può indire un’asta pubblica, o procedere a trattative private, o iniziare direttamente le opere.

Durata e varianti

La LUN n. 1150 del 1942 fissa in dieci anni il termine massimo di validità del P.P.
Questo termine, è anche quello stabilito per le diverse espropriazioni necessarie per l’attuazione del piano. Entro il termine di validità del P.P., possono essere promosse delle varianti per le quali sono previste le stesse procedure.
Nel caso in cui le previsioni del P.P. trovino un’attuazione molto lenta, prima dello scadere del termine (10 anni o meno) viene predisposto non una variante ma un nuovo P.P. che entri in vigore prima della suddetta
Decorso il termine di validità del P.P. esso diviene inefficace sotto il profilo attuativo per la parte non realizzata, mentre rimane valido a tempo indeterminato l’obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nelle modifiche di quelli esistenti, le prescrizioni urbanistiche stabilite dal piano stesso.
Attraverso il P.P. è quindi possibile procedere all’attuazione del P.R.G. mediante una procedura di intervento diretto da parte del Comune o del proprietario privato, mediante proprietario privato, mediante una procedura coattiva per l’esecuzione delle opere previste, ma in entrambi i casi è sempre il Comune che provvede alla compilazione dei P.P.

I Piani di lottizzazione

 

Generalità

Il termine “lottizzazione” appare nella legge urbanistica del 1942 in modo alquanto marginale; nell’art. 28 si legge: “che fino a quando non sia approvato il P.P. è vietato procedere a lottizzazioni di terreni a scopo edilizio senza preventiva autorizzazione del Comune”.
Sembra evidente che il processo di frazionamento dei terreni in una pluralità di lotti edificabili doveva essere subordinato, in una normale procedura, alla esistenza del P.P., e solo eccezionalmente il Comune poteva concedere la facoltà di lottizzazione; tuttavia la realtà urbanistica dimostra ampiamente che esistono ben più lottizzazioni autorizzate o abusive di quanti non siano i P.P. approvati.
Il PL può essere definito uno strumento di urbanizzazione di zone del territorio destinate dal P.R.G. ad insediamenti residenziali o produttivi.
Mediante tale strumento, l’iniziativa privata integrandosi nel processo della pianificazione urbanistica affronta il problema dello sviluppo edilizio in una zona non urbanizzata o scarsamente urbanizzata.
Il PL ha la funzione precipua di subordinare l’edificazione all’urbanizzazione.
Ciò risulta chiaro dalle modifiche apportate all’art. 28 LUN dalla legge “Ponte” del 6 agosto 1967, n. 765 la quale, è bene precisarlo, non condiziona in assoluto l’autorizzazione di qualsiasi attività edificatoria alla preventiva approvazione di un PL, ma stabilisce che la concessione è comunque ed in ogni caso subordinata alla esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione da parte dei Comuni all’attuazione delle stesse nel successivo triennio o all’impegno dei privati di procedere all’attuazione delle medesime contemporaneamente alle costruzioni oggetto della concessione.

Contenuti

Il PL di iniziativa privata è equiparato dal legislatore ai P.P. di iniziativa pubblica, ossia riconosciuto come strumento attuativo del P.R.G..
Si consideri infatti il divieto di lottizzare per i Comuni non dotati di P.R.G. e di PL, e, d’altra parte la possibilità che una lottizzazione possa essere autorizzata anche in assenza di P.P., la cui preliminare approvazione non è più necessaria. Infatti, il Sindaco può invitare i proprietari delle aree di una data zona a presentare progetto di PL (anche senza P.P.) e nel caso questi non vi aderissero, può farlo compilare d’ufficio.
Le norme oggi in vigore ribadiscono che il P.R.G. può attuarsi a mezzo di piano esecutivo di iniziativa pubblica (P.P.) o di iniziativa privata (PL) e sottolineano l’importanza che le Amministrazioni Comunali promuovono una o più ampia e positiva collaborazione dei privati sia per i centri abitati sia per il regolare sviluppo dell’attività edilizia.
E’ comunque opportuno che i singoli Comuni con particolare riguardo alla condizione ambientale e alle prospettive di sviluppo, determinino i criteri di individuazione delle lottizzazioni, per evitare possibili discriminazioni.
E’ giusto sottolineare che l’istituto principale della lottizzazione è quello di subordinare l’edificazione all’urbanizzazione, e trattandosi di insediamenti di consistenza edilizia elevata non ci si può riferire solo all’urbanizzazione primaria ma anche alle opere di urbanizzazione secondaria.
Dopo l’entrata in vigore della legge 10/1977 in base alla quale gli oneri di urbanizzazione debbono essere pagati anche ai fini del rilascio delle singole concessioni, sono caduti i motivi che richiedevano un’applicazione forzata dell’istituto della lottizzazione anche nel caso in cui l’edificazione non comportava, né l’insediamento di un numero elevato di abitanti, né la soluzioni di particolari problemi di urbanizzazione.
Si sono comunque verificati casi per cui dopo l’entrata in vigore della Legge Ponte molti strumenti urbanistici hanno subordinato l’edificazione all’approvazione del PL anche nel caso di aree limitate o aree ubicate in zone già edificate o completamente urbanizzate.
Con la legge 10 e l’attuale possibilità di fare pagare gli oneri in piena legittimità anche in assenza di convenzioni di lottizzazione, vengono meno possibili rinvii al PL e la richiesta di un preventivo PL.
La legge 765/67 istituisce un nuovo regime lottizzatorio il cui punto innovatore più saliente è che lo jus aedificandi veniva considerato un diritto composito per esercitare il quale non risultava sufficiente il solo diritto di proprietà ma occorreva anche sia la presenza o predisposizione delle opere di urbanizzazione, sia una certa coerenza dell’uso edificatorio del suolo con le discipline urbanistiche e con la politica di espansione dell’abitato.
La legge 10/1977 come è noto ha comportato il passaggio ad un regime di concessione.

Documentazione e procedure di approvazione

La compilazione del PL è competenza del proprietario dell’area. Il Comune può a sua volta imporre un PL obbligatorio ai proprietari di aree in determinate zone dove è necessaria una sistemazione unitaria.
I contenuti tecnici e la documentazione per la redazione di un PL sono analoghi a quelli indicati per i P.P. e cioè:

  1. Stralcio P.R.G. e delle relative norme;
  2. Planimetrie del progetto disegnate su mappe catastali;
  3. Elaborati di progetto redatti in scala adeguata con le norme attuative specifiche;
  4. Relazione illustrativa;
  5. Schema di convenzione.

Per quanto riguarda la procedura di approvazione, il progetto di lottizzazione e la relativa convenzione debbono essere esaminati ed approvati dal Consiglio Comunale, la delibera comunale è soggetta poi all’approvazione del Comitato di Controllo, che esegue un controllo giuridico e in merito all’aspetto patrimoniale e finanziario.
L’autorizzazione al PL è rilasciata dal Comune, previo Nulla-Osta della Regione che segue un controllo tecnico e giuridico, sentito anche il parere della Soprintendenza.
Come si vede l’iter di approvazione a tempi brevi poiché si svolge presso organi decentrati di controllo.
Da notare che il Comune può rilasciare l’autorizzazione anche con il P.R.G. o il PF soltanto adottati purché siano trascorsi 12 mesi dalla data di adozione e l’autorità competente alla autorizzazione si sia riservata una decisione.
La convenzione cui è subordinata l’autorizzazione comunale è un documento essenziale. Con essa ciascun proprietario si assume, con un preciso obbligo contrattuale, gli oneri previsti dalla legge 765/67 e cioè:

  1. cessione gratuita delle aree necessarie per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria relativa alla lottizzazione;
  2. assunzione degli oneri finanziari relativi alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondarie relative alla lottizzazione; la quota parte è determinata in proporzione alla entità e alle caratteristiche degli insediamenti previsti;
  3. termine entro cui devono essere terminate le opere di urbanizzazione non superiore a 10 anni;
  4. congrue garanzie finanziarie per l’adempimento degli obblighi derivanti dalla convenzione.

Poiché non si possono escludere varianti successive al progetto ai fini di eventuali conguagli, è opportuno assumere in convenzione dei prezzi unitari di riferimento sia per il terreno non urbanizzato, sia per le opere di urbanizzazione versando al Comune, direttamente, l’importo corrispondente, opportunamente determinato in convenzione. Tali opere verranno in tal caso effettuate dal Comune.

Rapporto con i PPA

La legge n. 10/77 comprime il ruolo delle PL in quanto muta da alcune esperienze legislative regionali la scelta della programmazione pubblica per lo sviluppo territoriale.
In base alla nuova legge i P.R.G. non costituiscono più lo schema di riferimento di una programmazione sostanzialmente privata dello sviluppo territoriale che aveva nei PL il suo principale strumento, ma diventano il quadro di riferimento di una programmazione pubblica di detto sviluppo.
I PL potranno in prospettiva essere assunti se ed in quanto le zone da essere interessate saranno contemplate nei PPA.
Tali programmi saranno disciplinati da leggi regionali, le quali potranno disattendere le norme statali.
Presumibilmente tali leggi subordineranno ai PPA tutti i PL interessanti aree esterne al perimetro del centro edificato e, in aggiunta, potendo, anche tutti i PL interessanti le aree interne al suddetto perimetro. Fino all’approvazione di dette leggi e dei PPA i comuni potranno assentire a quelle lottizzazioni presentate dai privati che, comunque, risulteranno conformi alle discipline urbanistiche vigenti.
Dopo l’approvazione di PPA potranno essere assentite solo le lottizzazioni previste da tali programmi (art. 13). L’esistenza di un PPA non comporta la possibilità di saltare l’applicazione dell’art. 28 della LUN e successive modifiche, né di superare l’obbligo di un preventivo PL prescritto dal P.R.G..

Attuazione – Durata – Varianti

Per l’attuazione del PL si prevede un termine massimo di 10 anni, termine che deve essere necessariamente corredato all’inclusione delle aree edificate nel PPA.
Il privato che avrà realizzato le opere previste entro il termine stabilito nella convenzione, potrà ottenere a tempo indeterminato le concessioni per i lotti non ancora edificati e facenti parte del PPA, a meno che non intervenga una variante al piano urbanistico di riferimento che muti la destinazione di tali aree.
Nel caso il privato non adempia alla realizzazione delle opere di urbanizzazione nei tempi fissati, il Comune può ordinargli di provvedere e, in più, può preannuciargli la normale azione surregatore d’ufficio, in caso di ulteriore inadempienza. Il rilascio della concessione per i singoli lotti è subordinato alla contemporanea esecuzione delle opere di urbanizzazione relative ai lotti stessi. Se in sede di attuazione del PL si presenti l’eventualità di apportare delle modifiche allo stesso, si darà luogo ad una variante per la quale saranno applicate le stesse procedure previste dall’art. 28 per un normale PL. Per tali varianti le richieste di un nuovo Nulla-Osta alle autorità competenti sono da considerarsi caso per caso.

La lottizzazione pubblica

In assenza di iniziative dei proprietari, o nel caso di un mancato accordo fra i vari proprietari, per un’edificazione unitaria, il Comune potrà avvalersi delle facoltà cui al penultimo comma dell’art. 28 LUN.
La procedura adottata è la seguente:

  1. Il Comune invita i privati compresi nell’ambito territoriale da assoggettare a pianificazione attuativa, a predisporre un PL unitario
  2. Se nel tempo fissato (30 o 60 giorni) i proprietari non hanno raggiunto un accordo, il Comune incarica un tecnico laureato di predisporre un progetto di PLU.
  3. Predisposto il progetto, questo è approvato con delibera comunale unitamente ad uno schema tipo di convenzione, che viene sottoscritto dai proprietari o da quelli ad essi subentrati in seguito possibile esproprio delle aree da parte del Comune.
  4. La delibera di adozione e gli elaborati sono inoltrati al CORECO per il visto di esecutività.
  5. Se entro il termine di 20 giorni fissato, il CORECO dà parere favorevole, il progetto viene inoltrato alla Regione.
  6. Esaurita l’istruttoria presso la Regione, come per il PL, PLU viene emesso e inviato al Comune il preventivo Nulla-Osta alla concessione a lottizzare.
  7. Il Comune notifica ai proprietari che nel termine di 30 giorni dalla notifica devono comunicare una loro decisione.

In mancanza di un’accettazione da parte dei proprietari il Comune può eseguire una variante al PLU secondo precise richieste da parte dei privati o procedere all’esproprio.
L’ente locale ha altresì la possibilità di imporre un PL in tutte quelle situazioni in cui si manifestano gravi speculazioni edilizie e precisamente:

  1. in zone di nuove urbanizzazione con estensione disordinata e caotica e prive di servizi.
  2. In zone su cui insistono stati di urbanizzazione precaria.
  3. In zone di ristrutturazione, dove si possono operare una serie di successive sostituzioni e ricostruzioni di nuovi edifici.

Norme transitorie

La legge Ponte si applica in tutte le lottizzazioni sia richieste che autorizzate, a partire dal 2/12/1976 data questa in cui si era già a conoscenza del progetto di legge.
Quindi anche la lottizzazione già autorizzata, ma non ancora deliberata in Consiglio Comunale prima della suddetta data, debbono essere adeguate alla nuova normativa in materia di oneri di urbanizzazione. Sono fatte salve tutte quelle lottizzazioni regolarmente deliberate prima del 2.12.76 purché abbiano completato regolarmente l’iter formativo e siano conformi al piano urbanistico vigente.

 

I Piani di Zona per l’Edilizia Economica e Popolare – PEEP

 

Generalità

Com’è noto, negli ultimi decenni il vertiginoso espandersi delle città, il formarsi di vere e proprie aree metropolitane indotto da fenomeni di rapido sviluppo economico hanno esasperato il vecchio e assillante problema sociale della casa.
Nonostante i ripetuti interventi statali atti a un sempre più crescente numero di abitazioni economiche e popolari, il problema non ha per lunghi anni trovato soluzioni.
Gli insediamenti promessi dall’ente statale non si sono armonicamente integrati in un ordinato tessuto urbano, sia per la carenza della politica urbanistica generale dei Comuni, sia per l’eccessivo costo delle aree, ciò ha costretto gli operatori nel settore a portare la localizzazione dei loro interventi in fasce di zone estremamente periferiche e nella maggior parte dei casi prive di preventiva urbanizzazione.
I quartieri popolari, così nati hanno subìto rapidi degradamento divenendo, veri e propri ghetti, ma nello stesso tempo permettendo l’insediamento di nuove case residenziali e produttive nelle zone adiacenti, grazie alle opere di urbanizzazione e alla creazione di servizi pubblici.
In tale situazione era da addebitare principalmente al mancato inquadramento urbanistico dei diversi interventi in natura di edilizia economica e popolare.
La legge 18 aprile 1962 n. 167 ha il fine di promuovere la formazione di organici quartieri popolari ed economici in zone residenziali già urbanizzate, su aree cioè sottratte al libero mercato la cui acquisizione non comporti oneri eccessivi.
Funzione principale dei PZ è quella di garantire a tutti gli insediamenti di natura economica e popolare un’organica urbanizzazione delle aree da essi interessate ed evitare così l’uso fra tali piani di aree di minor pregio.
Gli obiettivi della 167 e successive modifiche sono sostanzialmente le seguenti:

  1. reperire nell’ambito dei piani urbanistici aree per l’edilizia economica e popolare, la legge 10/77 ai fini del dimensionamento fissa il limite minimo del 40% e massimo del 70% del fabbisogno decennale dei vani;
  2. acquisire queste aree ad un prezzo equo, non gravato da plus valori urbanizzativi o di destinazione d’uso.

La legge 167 innesca un’ulteriore possibilità di attuazione del P.R.G., attraverso il piano zonale, che è un nuovo tipo di P.P., attraverso anni gli interventi di edilizia economica e popolare, possono essere organicamente strutturati per quartieri o almeno per unità residenziale.

Contenuto

Il piano di zona previsto con la legge 167 è equiparato di fatto ad un P.P., si applica a quella zona destinata a edilizia economica e popolare nonché alle aree relative ai servizi e attrezzature di pubblico interesse. Pertanto, il PZ deve appoggiarsi ad un P.R.G. o ad PF.
Il PZ deve contenere:

  1. la rete viaria principale e di distribuzione;
  2. gli spazi riservati ad opere ed impianti di interesse pubblico. Poiché il PZ è ad ogni effetto P.P., le aree di uso pubblico in esse contenute vanno dimensionate secondo il D.I. 2.4.1968 n. 1444;
  3. la lottizzazione e la tipologia edilizia sono quelle previste dal piano urbanistico; il PZ può però proporre una tipologia ed una lottizzazione differenti.

Inoltre il PZ contiene gli elenchi catastali delle proprietà, dati altimetrici del terreno, la relazione tecnica-finanziaria; da qui si ben vede che sia sotto l’aspetto tecnico che sotto quello contenutistico non esiste differenza con un P.P.
Quando il piano urbanistico non esiste, gli scopi della 167 sarebbero elusi se non si ponesse l’obbligo di inquadrare il PZ in un PF appositamente predisposto con l’integrazione apportata all’art. 3 della legge 167 dalla legge sulla casa il PZ può essere anche riferito ad un progetto di P.R.G. solamente adottato e presentato agli organi competenti per la sua approvazione. Un piano di zona correttamente elaborato deve principalmente tenere conto:

  1. scelte localizzative delle aree;
  2. dimensionamento degli interventi;
  3. analisi dei costi e verifica delle scelte.

Per quanto concerne la scelta delle aree in primo luogo bisogna accertarsi se il piano urbanistico esistente contiene aree idonee ad insediamenti economici e popolari.
Dette aree vanno reperite in zone di espansione; ove ciò non fosse possibile si apporta una variante al piano detta “variante tacita” che discende implicitamente dall’approvazione del PZ.
Gli elementi da considerare nell’effettuare le scelte localizzative sono di varia natura: tecnico-costruttivo, urbanistica, amministrativo, economica-sociale.
Il dimensionamento di un PZ va eseguito in base al fabbisogno presunto di vani nel successivo decennio, tenendo in dovuta considerazione il fabbisogno arretrato e quello insorgente. Conviene “sovradimensionare” il piano nel caso che l’edificazione richieda ampi interventi urbanistici, sarà opportuno “sottodimensionare” nel caso che l’attività edilizia disponga già di aree urbanizzate.
La legge 865/71 (art. 29) fissa un limite minimo e massimo per il fabbisogno abitativo da soddisfare con i PL per l’edilizia economica e popolare, mentre la 167 fissava il limite max.
In base alla nuova disciplina il PZ deve soddisfare non meno del 40% del fabbisogno decennale stimato senza però superare il 70% dello stesso.
Tali limiti devono intendersi relativi a tutti i PL ivi compresi quelli adottati dai Comuni che hanno la facoltà e non l’obbligo di promuoverli.
Sul dimensionamento dell’area influiscono ovviamente la densità edilizia fissata dallo strumento urbanistico, nonché le dotazioni di aree per attrezzature e servizi.
Il problema dei costi è di notevole importanza al fine del dimensionamento degli interventi.
E’ di notevole importanza sviluppare con sufficiente approssimazione il costo globale dell’operazione ma soprattutto il prezzo di cessione del suolo urbano.
Il prezzo di cessione dell’area è formato:

  1. indennità di esproprio del terreno
  2. costo di urbanizzazione Ia e IIa relativo al volume edificabile.

In base alle legge 10/77 l’indennità di esproprio è commisurata:

  1. per le aree esterne ai centri edificati, al valore agricolo medio dei terreni, secondo i tipi di coltura praticati;
  2. per le aree interne ai centri edificati, al valore agricolo medio della coltura più redditizia, che copre almeno il 5% del territorio coltivato moltiplicato per un coefficiente da 4 a 10 per i Comuni con più di 100.000 abitanti e per un coefficiente da 2 a 5 per gli altri Comuni.

Elaborati tecnici

  1. Stralcio del PPA nel caso sia obbligatorio, dal quale risulti che il PZ è stato programmato e che nel periodo di validità del PPA se ne prevede l’attuazione totale o parziale.
  2. Planimetria dello strumento urbanistico vigente o adottato con l’individuazione delle aree destinate a PEEP (1:10.000).
  3. Planimetria contenente gli elementi di progetto.
  4. Elenchi catastali delle proprietà comprese nel progetto.
  5. Norme urbanistiche edilizie per l’esecuzione del piano.
  6. Relazione illustrativa e relazione sulla previsione di spesa.

 

Comuni obbligati

La legge stabilisce quali Comuni debbono obbligatoriamente dotarsi di PEEP.
In parte sono Comuni con più di 50.000 abitanti o capoluoghi di provincia, in parte sono Comuni per cui l’obbligatorietà di PZ ha origine in un decreto regionale motivato:

  1. che siano Comuni limitrofi e Comuni obbligati;
  2. che abbiano una popolazione di 20.000 abitanti;
  3. che siano stazione di cura, soggiorno, turismo;
  4. che abbiano indice di affollamento superiore a 1,5.

Tuttavia, anche non ricadendo in dette condizioni è possibile l’applicazione della 167; sarà però sempre necessario che nella delibera di adozione venga motivata la decisione di dar vita un PZ.

Procedura di approvazione

Il progetto di PZ viene sottoposta ad una preliminare valutazione della Giunta Municipale, poi, passa per la delibera di approvazione al Consiglio Comunale.
Il piano deliberato viene deposto nella Segreteria Comunale per 10 giorni. Ne viene data notizia al pubblico con avviso nell’Albo pretorio nonché con appositi manifesti murali. Entro 20 giorni da tale pubblicazione gli interessati possono presentare opposizione, le Amministrazioni Centrali dello Stato possono invece presentare opposizione entro 30 giorni dalla comunicazione inviata loro dal Sindaco.
Dopo l’esame delle osservazioni e opposizioni da parte del Consiglio Comunale gli atti sono inoltrati alla Regione.
L’approvazione spetta alla Regione previo il parere della sezione urbanistica.
Il PZ entra in vigore con la pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione.

Varianti

Alle varianti di un PZ si applicano le stesse procedure previste per un nuovo PZ.
In base ad un aggiuntivo comma della legge 865/71 è sufficiente ai fini dell’approvazione di una variante una semplice delibera consiliare solo nei casi:

  1. Varianti che non incidono sul dimensionamento globale ai piani e non comportano modifiche al perimetro, agli indici di fabbricabilità o alle dotazioni di spazi pubblici.
  2. Varianti che adeguano i piani alle previsioni della legge 765 e D.I. 2.4.1968 sugli standards.

Attuazione

I PZ hanno una validità di 18 anni (prorogabili di 2). La loro attuazione è articolata in programmi pluriennali (biennali o triennali) che debbono:

  1. individuare la parte dei comprensori dei PZ dei quali è prevista l’attuazione.
  2. Prevederne l’urbanizzazione diretta e indiretta.
  3. Prevedere con quali mezzi finanziari far fronte alle spese necessarie.
  4. Stabilire le quote (non superiore al 40% e inferiore al 20% in termini volumetrici) da cedere in proprietà.

I programmi, essenziali ai fini dell’attuazione del PZ, non si limitano ad indicare in linea di larga massima le urbanizzazioni previste, ma contengono, già la progettazione di max di dette opere oltre alla lottizzazione delle aree eventualmente non effettuate con il PZ.
In base alla legge sulla casa, ai fini dell’attuazione della legge 167, l’esproprio è generalizzato.
Tutte le aree espropriate, tranne quelle che in seguito verranno cedute in proprietà, fanno parte del patrimonio comunale, e la legge non prevede la retrocessione minima nel caso in cui restino inutilizzate anche per lungo tempo.
Eseguito l’esproprio il Comune esegue le opere di carattere generale e le opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
Tali realizzazioni nel caso di concessione di diritto di superficie possono essere realizzate dai concessionari.
La concessione in diritto di superficie va da un max dell’80% della volumetria da realizzare ad un minimo del 60%.
La concessione avviene con delibera consiliare, con la quale si approva anche la convenzione che:

  1. Il corrispettivo della concessione in misura pari al costo delle aree più quelle delle urbanizzazioni realizzate.
  2. Il corrispettivo delle opere di urbanizzazione da realizzare dal Comune e qualora vengono realizzate dal concessionario, le relative garanzie.
  3. Caratteristiche tipologiche e costruttive degli edifici.
  4. Termine di inizio e di ultimazione degli edifici e delle opere da urbanizzare ecc.

Tale diritto di superficie ha una durata compresa tra i 60 e i 99 anni.
Le aree non date in concessione vengono cedute in proprietà entro un limite che va dal 20% al 40% della volumetria.
Tali aree sono preventivamente urbanizzate dal Comune o da Consorzio. Ad evitare che a medio termine si ricreino dei fenomeni di rendita urbana viene prevista la cessione di aree già urbanizzate, così ai singoli lotti ai singoli o a cooperative, per la realizzazione di abitazioni per gli stessi concessionari.

Rapporto con i PR

In molti sostengono la tesi secondo cui con la legge 457/78 si ha l’impossibilità di intervenire con un PZ sulle aree edificate, infatti, non esiste alcuna disposizione che esclude la possibilità di applicare alla 167/62 su aree edificate, inoltre la stessa 457/78 implicitamente afferma la possibilità di finalizzare il PZ al risanamento del patrimonio edilizio esistente (art. 34).
Il PR è uno strumento cui generalmente si deve far ricorso ai fini del recupero del patrimonio esistente, ma qualora oltre a queste esigenze sussistono anche problemi legati a Edilizia Economica e Popolare, da soddisfare parzialmente con vincoli sull’edificato, risulta legittimo il ricorso al PZ.

 

Piani di Insediamenti Produttivi – PIP

 

In questo capitolo si tratterà della pianificazione delle aree destinate ad insediamenti produttivi, per maggiore chiarezza è opportuno premettere il significato di “zona industriale”.
“Zona industriale” secondo l’accezione più diffusa, è un porzione del territorio destinata ad accogliere delle attività produttive, nel rispetto di parametri e criteri insediativi dettati da leggi oppure dalle norme di uno strumento urbanistico.
Questo tipo di zona non comporta necessariamente né una pianificazione attuativa, né infrastrutturazione preliminari né uno sviluppo organizzato.
Il Comune che intende però attuare quanto su citato deve far ricorso ai consueti strumenti attuativi d’iniziativa pubblica (P.P., PIP, PLU) o privata (PL).
Non comporta neppure, necessariamente, alcuna facilitazione d’ordine giuridico e economico, solo eccezionalmente il Comune incentiva l’insediamento di nuove aziende, concedendo loro vantaggi diretti e predisponendo adeguate economie esterne, che se non altro possono influenzare le scelte localizzative.
Soltanto nei Comuni dichiarati depressi (legge 614/66) vengono offerte delle facilitazioni economiche agli operatori. In questi casi si sono verificati sviluppi episodici senza adeguata pianificazione, attuate per singole concessioni, con interventi urbanistici scardinati, incompleti, ecc..

Natura e funzioni

La legge 875/71 ha istituito un nuovo strumento di pianificazione attuativa il piano per gli insediamenti produttivi o PIP.
Le finalità peculiari di tale piano sono essenzialmente quelle di garantire la disponibilità di aree a basso prezzo per gli insediamento produttivi e industriali, promuovere per questi un’organica pianificazione urbanistica esecutiva nonché promuovere un adeguato controllo preventivo delle Regioni in base alle scelte effettuate dal PTR.
I PIP al contrario degli ordinati P.P. possono essere promossi da tutti i Comuni, purché questi siano dotati di uno strumento urbanistico generale in vigore (P.R.G.) e possono essere sia comunali che comprensoriali o per lo meno intercomunali.
Le destinazioni consentite per il PIP sono essenzialmente industriali, artigianali, commerciali e turistiche.
Il PIP non può essere legittimamente utilizzato per un singolo insediamento produttivo. L’art. 27 non ha lo scopo di promuovere espropriazioni di aree per singoli insediamenti, bensì quello di promuovere interventi di pianificazione esecutiva per zone produttive. In ogni caso non possono essere previsti insediamenti produttivi in contrasto con le previsioni dello strumento urbanistico vigente, se non previa variante dello stesso; pertanto, un PIP non può prevedere l’utilizzazione per insediamenti turistici in aree che dal P.R.G. vigente sono destinati ad insediamenti industriali.
L’art. 27 della legge 875/71 subordina l’esercizio della facoltà di promuovere un PIP, attribuita ai Comuni e ai loro consorzi, ad una preventiva autorizzazione regionale al fine di salvaguardare gli obiettivi di una pianificazione territoriale regionale. Tale autorizzazione che ha funzioni analoghe a quella delle varianti di un P.R.G., perché possa essere correttamente data, presuppone l’individuazione dell’ambito speciale oggetto del PIP.

Contenuto giuridico e tecnico

Come già espresso precedentemente la legge 865/71 contiene un’elencazione tassativa degli insediamenti per i quali possono essere utilizzate le aree del PIP; inoltre, precisa che, essendo il PIP uno strumento di attuazione deve essere conforme ai P.R.G..
Poiché per un PIP approvato si applicano le stesse prescrizioni della LUN relative al PP, ne consegue che anche questi devono contenere la rete stradale ed i principali dati altimetrici. Qualora in sede di compilazione si ravvisasse l’opportunità di modificare alcune previsioni del P.R.G., si adotterà una variante; variante che nel caso del P.R.G. dovrà conseguire la preventiva autorizzazione regionale. La compilazione dei PIP e a norma di legge prerogativa del Comune o di un consorzio di Comune (facoltà e non obbligo). Si fissa l’ambito territoriale del PIP tenendo conto anche di eventuali direttive o indicazioni del PTC.
Il PIP precisa nel dettaglio l’assetto definitivo dell’area delimitata, come il P.P. stabilisce i vincoli ed i limiti alla edificazione privata sulle aree da cedere o da concedere, delimitate le aree per le opere pubbliche.
Poiché il PIP ha una durata di 10 anni, bisognerà tener conto delle concrete possibilità finanziarie del Comune (o del consorzio), da illustrare in una relazione sommaria di spesa.
Il PIP deve contenere tutti quegli elementi progettuali di ulteriore specificazione del P.R.G., come ad esempio: le strade di lottizzazione, i parcheggi di isolato, il verde, le aree per le attrezzature ed i servizi di pubblico interesse. Infine il PIP deve precisare le varie destinazioni per edifici che insistono sulle aree come per esempio la demolizione, la bonifica, la ristrutturazione; in questo ambito vanno individuati nel PIP tutti i beni soggetto o da assoggettare a speciali vincoli di legge o a particolari servitù.

Elaborati di progetto e varianti

Gli elaborati di progetto di un PIP sono i seguenti:

  1. Stralcio del P.R.G. vigente con l’individuazione della zona oggetto del PIP.
  2. Stralcio delle norme attuative del P.R.G. vigente concernenti le zone oggetto del PIP.
  3. Stralcio del PPA, nel caso sia d’obbligo.
  4. Planimetria dello stato di fatto della zona.
  5. Piano delle aree fabbricabili con eventuali tipologie edilizie.
  6. Norme attuative del PIP.
  7. Elenco catastale delle proprietà da espropriare.
  8. Relazione sommaria di spesa.
  9. Relazione tecnica illustrativa.
  10. Stralcio del PTC vigente con la previsione della zona produttiva.

Qualora per sopravvenute esigenze fosse necessario apportare al PIP modifiche parziali oppure revisionarlo integralmente, si dovrà seguire lo stesso iter di approvazione come per un nuovo PIP.
Verranno presentati sia il progetto di PIP vigente che gli elaborati del nuovo. Laddove le modifiche concernino l’ambito spaziale del PIP ed il suo dimensionamento è necessario un preventivo nulla-osta della Regione.

Procedure di approvazione

Con una delibera del Consiglio Comunale si delimita la zona; a ciò fa seguito l’autorizzazione della Regione a procedere alla formazione PIP; da questa fase in poi la procedura di approvazione con le osservazioni e le opposizioni seguono lo stesso iter che per i PZ.

Misure di salvaguardia

In base all’art. 27 della legge 865/71, i PIP hanno valore di P.P.; pertanto le misure di salvaguardia devono essere ad essi applicabili proprio per tale considerazione. Infatti la legge di salvaguardia concerne tutti i P.P., non solo quelli previsti dalla legislazione all’atto della sua entrata in vigore, ma anche quelli successivamente previsti da altre leggi, come i PZ ed i PIP.

Durata

In base all’art. 27 della legge 865/71 il PIP ha la durata di 10 anni. Le aree che allo scadere del limite massimo non hanno usufruito dell’attuazione del PIP possono essere oggetto di un nuovo PIP.

Attuazione ed effetti

Poiché i PIP hanno una durata decennale è auspicabile che i Comuni ed i loro consorzi deliberino dei programmi di attuazione con riferimento ai programmi di attuazione dei PZ.
L’approvazione di un PIP equivale ad una dichiarazione di pubblica utilità per tutte le opere da esso previste. L’espropriazione delle aree avviene in base alla legge 865/71. Tale legge prescrive inoltre che tra più domande di concessione per le aree, sia data preferenza a quelle presentate da enti pubblici ed aziende a partecipazione statale.
Le aree espropriate sono cedute per una quota non superiore al 50% in proprietà il resto in diritto di superficie.
La concessione del diritto di superficie è a tempo indeterminato per gli enti pubblici, mentre ha una durata non inferiore ai 60 anni e non superiore ai 99 in tutti gli altri casi.
Per la quota di aree da concedere in proprietà, l’art. 27 non impone il ricorso all’asta pubblica. Per incentivare i PIP i Comuni ed i loro consorzi potrebbero cedere le aree ad un prezzo pari ai costi di acquisizione ed urbanizzazione. Sia la concessione che la cessione delle aree sono subordinate ad una convenzione tra i Comuni e i destinatari.

 

Piano di Recupero – PR

 

Generalità

E’ importante e conveniente prima di approntare l’argomento di tema di questo capitolo, chiarire una terminologia ricorrente e soprattutto specificare il significato attribuito a parole come: conservazione, recupero, riuso, frequentemente usate.
Con il termine di nucleo di antica formazione o nucleo antico, si intende determinare la parte originale ed autentica di un insediamento, mentre centro storico (zona A del D.I. 24.1968) è l’agglomerato urbano di antica formazione che presenta caratteri storici, artistici e particolare pregio ambientale. Il centro storico per definizione è dunque un nucleo di antica formazione che per le sue caratteristiche architettoniche tipologiche e morfologiche costituiva un’unità culturale.
La conservazione è una tecnica intesa a prospettare l’esistenza di un manufatto, sia questo un singolo edificio o un insieme di edifici, per mantenerlo nella sua disposizione originaria. Il recupero è invece un riuso, infatti, tende a restituire all’uso, abitativo o complementare, un edificio degradato o fatiscente. La conservazione ha subìto in questi ultimi decenni una duplice evoluzione; da un lato essa si amplia dal singolo edificio all’insieme di edifici recuperandoli del nucleo antico dall’altra essa si estende dagli edifici intesi come manufatti edilizi al loro insieme costituente il nucleo, cioè all’entità urbanistica che essi formano. L’intervento subisce per quanto su affermato un mutamento scale d’intervento, passa cioè dalla scala edilizia a quella urbanistica e quindi da monumentale ad edilizio diviene anche un fatto urbanistico.
In quest’ottica la conservazione coinvolge gli spazi pubblici interposti fra gli edifici o situati al contorno del nucleo, le attrezzature collettive, i servizi pubblici puntuali e a rete, il paesaggio urbano cioè tutto ciò che contribuisce alla formazione di quell’insieme dei valori ambientali del nucleo antico.
Da quanto fino ad ora affermato la conservazione appare dunque un’operazione particolarmente complessa, liberatasi dell’ambito monumentale in cui è sempre stata segregata, essa diventa uno strumento di capillare importanza nella politica recuperatoria e del riuso del patrimonio edilizio in genere, dove anche l’edilizia minore trova il suo giusto peso nonché nella politica di ristrutturazione urbanistica in cui i vecchi tessuti urbani, danneggiati dal tempo e dall’incuria possono ritrovare nuova vita.

Natura e funzioni

Con la legge 5 agosto 1978 n.457 lo Stato ha colto l’occasione legislativa offertagli dalla necessità di approvare il piano decennale per l’edilizia residenziale, e per legiferare anche in materia di pianificazione urbanistica attuativa, nonché in materia di concessione per gli interventi sugli edifici esistenti. Con tale legge viene introdotto un nuovo Piano Attuativo il PR che appare come una versione riveduta e corretta del vecchio istituto del P.P.
La natura e la funzione del PR rimangono quindi nella sostanza quelle del P.P., e si può far questo, considerarlo come un P.P. speciale.
A tale conclusione si giunge in base a quanto affermato al 1° comma dell’art. 28 della legge nel quale si afferma che il PR come il P.P. può essere finalizzato alla ristrutturazione urbanistica.

Contenuto

Il contenuto tecnico del PR non risulta, dal contesto legislativo chiaramente precisato, esso vi è descritto come un P.P. speciale, come il PIP o il PZ, ed è quindi da considerarsi come un Piano attuativo dotato più che di maggiori poteri di intervento sul territorio, di procedure di approvazioni semplificate e perciò molto celeri.
Il PR in ogni caso presuppone l’esistenza di un’accurata politica comunale di recupero, di un’azione cioè finalizzata e programmata, che prende l’avvio dallo studio del piano urbanistico generale (P.R.G.).
In tali strumenti debbono essere individuati e delimitate le aree urbane degradate e per questo bisognevoli di interventi volti alla conservazione, al risanamento, alla ricostruzione o alla migliore utilizzazione del patrimonio urbanistico o edilizio.
La delimitazione citata, può comprendere isolati, aree, complessi edilizi, singoli immobili ed eventualmente anche edifici da destinare ad attrezzature generali, perciò il PR può essere applicato generalmente ad isolati e aree, ma può interessare anche edifici singoli o aggregati complessi.
Poiché la delimitazione operata dal piano generale ha carattere programmatico e finalità cautelative o di salvaguardia, lo studio del PR deve contenere tutti gli immobili delimitati al fine di individuare sia gli isolati, le aree in complessi edilizi compresi nella zona di recupero, sia i singoli immobili per i quali ogni intervento è subordinato a PR.
Questi ultimi vanno distinti dai primi, per i quali il PR non è richiesto e perciò, permettendolo il piano generale, gli interventi potranno essere diretto cioè a concessione singole.
Il PR, in quanto piano attuativo è perciò assimilabile per aspetti e contenuti con un P.P. e con quest’ultimo è inteso a disciplinare gli interventi di recupero edilizio precisando, forme, tipologie, modalità operative, individuando le unità minime di intervento e specificando gli eventuali interventi di ristrutturazione urbanistica; in quest’ultimo caso esso può anche apportare modifiche per ciò che concerne il disegno dei lotti, degli isolati, della rete stradale. Il PR può avere di queste previsioni purché gli siano state delegate dal piano generale o purché valgono a dettagliare previsioni analoghe del piano generale. Il PR si presenta alla luce di queste delucidazioni come strumento di semplice specificazione degli interventi di recupero e perciò individua gli edifici, o i complessi edilizi da recuperare e per ciascuno deve specificare l’intervento consentito da scegliere in base ad un’apposita tipologia d’interventi (es. demolizioni, manutenzione ordinaria e straordinaria, adeguamento igienico-tecnologico ecc.) oppure come strumento di ristrutturazione urbanistica con ampi poteri per il riassetto dello spazio urbanistico, anche tali interventi di carattere pianificatorio hanno una casistica ben dettagliata (es. interventi di rilottizzazione e di frazionamento, modifica degli isolati, definizione delle aree pubbliche, ecc.).

Elaborati tecnici

La legge n. 457/78 non specifica quali debbono essere gli elaborati tecnici indispensabili del PR, ma considerato che il PR è sostanzialmente un P.P. recepisce di questo anche gli elaborati tecnici, unica eccezione è l’individuazione da parte del PR dell’unità minima d’intervento.

Procedure di approvazione

Tale procedura è del tutto simile a quella del P.P., le uniche innovazioni sono:

  1. non è necessaria l’approvazione da parte della Regione;
  2. l’iter del PR si conclude in sede comunale.

Una volta adottato il PR viene depositato presso la Segreteria Comunale per 30 giorni consecutivi, il termine per presentare le opposizioni e le osservazioni è di 30 giorni dalla data di scadenza del suddetto periodo di deposito.
Innovazioni sono le opposizioni decise dalla stessa Amministrazione Comunale con la deliberazione con cui il PR viene definitivamente approvato.

Misure di salvaguardia

Come più volte ribadito il PR è da considerarsi un P.P. speciale, ne consegue che obbligatoriamente e per 5 anni trovano applicazioni le misure di salvaguardia sui PR in itinere.

Attivazione

Si osserva che secondo l’art. 28 della legge 457/78 i PR sono subordinati ai PPA, a meno che il Comune non sia esonerato dalla legislazione regionale dell’obbligo di dotarsene, si stabilisce anche la diffida necessaria per procedere all’esproprio, nella ipotesi di mancata attuazione da parte dei privati del piano, può essere effettuata solo una volta scaduto il termine di validità del PPA nel quale è incluso il PR.
I proprietari singolarmente o riuniti in consorzio (3-4 del valore degli immobili interessati) attuano il piano, con possibilità di affidamento anche delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, in tale ipotesi si ritiene inevitabile la stipula di una convenzione.
Il Comune espropria le aree destinate ai servizi pubblici ed interviene anche avvalendosi degli IACP per gli interventi di recupero sul patrimonio edilizio degli enti pubblici.
L’attuazione del PR può avvenire sia con un intervento diretto da parte del Comune che mediante il convenzionamento con privati limitatamente agli interventi di rilevante e preminente interesse pubblico.
Il Comune può intervenire, previa diffida con esproprio o occupazione temporanea nel caso di inerzia dei proprietari delle unità minime di intervento.
Negli interventi di recupero disciplinati da convenzione, il concessionario si impegna a praticare prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con il Comune e a concorrere negli oneri di urbanizzazione ai sensi della legge 10/77 in tal caso gli interventi di recupero fruiscono delle agevolazioni creditizie e, dei mutui agevolati.
Esiste anche un tipo di convenzione speciale applicabile solo nei Comuni con una popolazione superiore a 50 mila abitanti. In tali Comuni per interventi non convenzionati ai sensi della legge 10/77 e non convenzionati in base ad altre norme delle legge 457/78, l’Amministrazione Comunale può subordinare il rilascio della concessione alla stipula di una convenzione, nella quale il concessionario si impegna a dare in locazione una quota delle abitazioni recuperate a soggetti appartenenti a categorie indicate dal Comune, concordare il Comune e assicurando la priorità ai precedenti occupanti.
Gli interventi per i quali può essere prevista suddetta subordinazione debbono essere di rilevante entità.

Durata e varianti

La legge 457/78 non prevede nulla circa la durata dei PR, ma poiché sono considerati dei P.P., i PR avranno la validità che l’Amministrazione Comunale determinerà per la loro attuazione oppure la validità che potrà essere stabilita direttamente da eventuali norme regionali. Anche per ciò che riguarda le varianti queste sono consentite e disciplinate dalle stesse norme di legge che concernano le varianti ai normali P.P..


GLI INDICI URBANISTICI

 

Il problema della indicazione operativa delle quantità previsionali è uno dei problemi classici di ogni pianificazione: prima che in urbanistica esso è stato affrontato nella pianificazione produttiva, sia a livello microeconomico sia, nei paesi ad economia pianificata, a livello macroeconomica. Si è cercato di risolverlo mediante l’elaborazione di opportuni indicatori o indici, che fungessero da guida e contemporaneamente da strumento di controllo nella pianificazione del piano.
Dal vocabolario della pianificazione produttiva l’urbanistica ha preso a prestito il termine (indicatori) anche se lo strumento che nel nostro settore viene chiamato con questo nome è, come vedremo, notevolmente diverso dall’omonimo strumento della pianificazione economica. Preliminarmente però alla definizione degli indici urbanistici e al confronto con gli altri indicatori di piano, è opportuno riconsiderare brevemente alcuni aspetti della condizione operativa dell’urbanistica, in particolare nel nostro paese, al fine di chiarire le ragioni specifiche che hanno imposto ed esteso l’uso di questi strumenti per la pianificazione dello spazio.
Il primo aspetto sul quale è utile soffermarsi ancora un momento è proprio la necessità che ha l’urbanistica di controllare le quantità che entrano in gioco nella modificazione dello spazio. Tale necessità non è stata sempre avvertita con la stessa urgenza: il piano ottocentesco, per esempio, ne è consapevole solo in parte, si pone in modo sommario problemi di dimensionamento e praticamente non ha bisogno degli indici. Ciò si accorda perfettamente, del resto, con il carattere dello strumento urbanistico ottocentesco, che è, come abbiamo visto, quello di un trattato tra collettività e proprietà privata in cui sono fissati i confini, fisici, territoriali, delle rispettive sovranità, assai limitata quella pubblica, pressoché assoluta quella privata. In tale quadro non aveva molto senso per il pianificatore prevedere, nonché indicare, le quantità della trasformazione dello spazio.
Questa necessità si fa sentire con forza in tempi più vicini a noi precisamente nel periodo tra le due guerre, quando i fenomeni indotti sul territorio dell’espansione e dell’evoluzione urbana hanno raggiunto tali proporzioni da imporre un salto di qualità nella pianificazione spaziale.
Se lo sviluppo del territorio deve essere razionalizzato, allora il controllo del piano non può limitarsi alle opere pubbliche, ma deve estendersi ad altre cose, tra cui appunto le qualità dello sviluppo.
Per governare le spinte trasformatrici il piano dovrà, ad esempio, prevedere la quantità dell’incremento demografico che in un periodo di tempo prefissato si verificherà nell’ambito territoriale di applicazione; in rapporto a tale quantità dovranno essere previste le quantità delle strutture insediative da realizzare (abitazioni, laboratori, uffici, attrezzature), la quantità di spazio da lasciare disponibile per interventi futuri ecc.
Queste previsioni dovranno, pena la perdita di ogni possibilità di controllo sugli sviluppi territoriali, concentrarsi puntualmente in realizzazioni; in tal modo la corrente della trasformazione troverà degli argini quantitativi capaci di incanalarla verso sistemazioni spaziali ordinate e razionali. Questo livello di controllo ormai superato in sede critica, è tuttavia quello che in pratica si esercita ancora oggi. Esso non si estende fino alle cause delle modificazioni territoriali, né può sostanzialmente influire sui fenomeni stessi di modificazione: ciò che può fare è, appunto, contrapporre alle dimensioni dei fenomeni dimensioni comparabili dei provvedimento. Ma proprio perciò il controllo delle quantità è tuttora, sia pure con questi limiti, assolutamente necessario.
Il secondo aspetto da considerare è quello che costituisce forse il tratto saliente della condizione operativa dell’urbanistica nei paesi ad economia di mercato e in particolare in Italia: cioè il fatto che il soggetto pianificatore (il Comune o altro organo elettivo), non avendo che una parziale possibilità di intervento sul territorio, pianifica sostanzialmente l’attività di altri soggetti, pubblici e soprattutto privati, il cui interesse alla finalizzazione dell’uso del suolo sono divergenti per non dire contrastanti, rispetto a quelli del pianificatore e tra di loro.
Nel caso di un piano comunale l’Amministrazione comunale ha possibilità di intervento diretto solo in un certo numero di settori: strade (ma non tutte), piazze, scuole, parchi, fognature, edilizia economica e popolare, e poco altro; essa però è investita del compito di pianificare globalmente lo sviluppo del territorio, ossia di fornire indirizzi e prescrizioni anche per l’attività di tutti gli altri operatori, la cui attività si esplica in tutti gli altri settori. Dovrà ad esempio pianificare l’attività territoriale o insediativa delle Ferrovie, delle Forze armate, di tutte le amministrazioni statali o comunque sovracomunali che sono presenti nel territorio di sua competenza; dovrà ed è il compito più arduo, pianificare l’attività urbanizzatrice del privato.
Ora è chiaro, che ciascuno di questi soggetti, per il perseguimento dei propri particolari e settoriali obiettivi, si dà più o meno consapevolmente un suo piano di attività, che solo in via eccezionale si inserirà perfettamente in quello generale formulato dalla Amministrazione comunale; bisognerà dunque che i due tipi di piano, quelli settoriali e quello globale, siano confrontabili, cioè che gli uni e l’altro piano siano espressi o possono tradursi in un linguaggio comune.
Questo discorso è particolarmente vero per quel che riguarda le quantità. Ciascuno degli operatori deve sapere quali sono le quantità che gli sono assegnate dal piano generale, per poterle confrontare con le quantità che egli stesso si propone di raggiungere. Indipendentemente dall’esito che si potrà poi avere (adeguamento o non adeguamento dell’operatore ai dettami del piano, oppure mediazione tra le due posizioni), è essenziale che le previsioni quantitative del piano globale siano espresse in forma tale da risultare leggibili per tutti i soggetti coinvolti nella sua attuazione ed applicabili in ogni settore di intervento territoriale.
Esemplificando: un privato possiede un terreno posto in zona destinata a espansione residenziale di iniziativa privata; egli è quindi il soggetto a cui e demandata l’attuazione del piano limitatamente al terreno di sua proprietà: gli devono essere perciò chiare le quantità urbane che gli sono assegnate dal piano, cioè quanto può costruire, quanta superficie deve lasciare scoperta, ecc.; confrontando queste quantità con quelle che a lui conviene realizzare, deciderà se conviene procedere all’edificazione oppure attendere che il piano venga cambiato in senso a lui più favorevole oppure cedere il terreno ad un altro operatore. Ma se il piano, anziché enunciare in modo esplicito le quantità urbane affidate alla realizzazione dei singoli operatori, si limita, ad esempio, a dire che per quella tal zona è previsto un numero tot di abitanti insediati, il meccanismo di attuazione si inceppa subito, a nessuno degli operatori sarà chiaro qual è l’ambito entro cui può agire.
La maniera in cui questa esplicitazione può avvenire è però diversa a seconda della metodologia d’attuazione dei piani urbanistici. E’ questo il terzo aspetto della condizione operativa dell’urbanistica che occorre considerare. Se l’attuazione dei piani avvenisse solo per il tramite di strumenti urbanistici esecutivi di iniziativa pubblica (i piani particolareggiati), la chiarificazione delle quantità urbane assegnate per la realizzazione ad ogni operatore sarebbe immediata. Il piano particolareggiato infatti, così com’è rispecchiato nella legge urbanistica, è poco meno che un progetto in scala urbana, dato che deve prevedere fin “le masse e le altezze delle costruzioni lungo le principali strade e piazze” e “le suddivisioni degli isolati in lotti edificabili secondo la tipologia indicata dal piano”; esso è insomma un piano planovolumetrico, che regola per così dire, fino al dettaglio le quantità e le forme di intervento. Al suo interno il ruolo e i margini di interventi di ogni operatore sono determinati in maniera univoca e si manifestano attraverso le stesse tavole del piano, senza bisogno di nessun speciale indicatore. Ma il piano particolareggiato, come ho già detto, non è entrato che da pochissimo tempo e limitatamente a situazioni particolari, nella metodologia attuativa italiana, la quale ha invece privilegiato altre forme di realizzazioni del piano: la licenza edilizia e, più tardi, gli strumenti urbanistici esecutivi di iniziativa privata (piani di lottizzazione).
In entrambi i casi il piano viene tradotto in realtà o, se si vuole, interpretato, da soggetti diversi dal pianificatore: perciò diventa indispensabile un sistema abbastanza rigido di prescrizioni che spinga tutti gli operatori a muoversi sui binari imposti dal piano. In particolare per quel che riguarda le previsioni quantitative, è necessario che esse si traducano in condizioni operative capaci di indicizzare e al tempo stesso controllare l’intervento di ogni operatore, in modo che la realizzazione anzitutto sia possibile e in secondo luogo corrisponda agli interventi del piano. In altre parole, mentre col tramite del piano particolareggiato il pianificatore ha il modo di controllare le forme e le quantità dell’intervento nel momento stesso che assegna un ruolo a tutti gli operatori coinvolti, senza quel tramite che egli ha bisogno di una serie di strumenti che gli permettano di conservare almeno il controllo sulle qualità e contemporaneamente chiariscano ai vari operatori quale parte è stata loro attribuita.
Questi strumenti sono appunto gli indici.
A questo punto dovrebbe essere chiaro: in primo luogo, che l’urbanistica ha necessità di controllare le quantità delle trasformazioni dello spazio; in secondo luogo che, le previsioni quantitative del piano debbano essere espresse in termini utilizzabili da tutti i soggetti che concorrono all’attuazione del piano stesso infine, che in Italia, a causa della metodologia attuativa dominante, questi termini non possono essere costituiti che da appositi indicatori o indici urbanistici.
Si tratta, perciò, di individuare dei parametri che risultino idonei a fungere da indicatori per la pianificazione dello spazio, tenuto conto delle specifiche condizioni operative di tale pianificazione. Lo sforzo di individuazione si è finora rivolto al settore dei parametri spaziali: ciò non tanto in accordo con il raggiungimento, ineccepibile solo in apparenza, che, trattandosi di pianificazione dello spazio, è giusto che siano di natura spaziale gli indicatori, quanto in conseguenza del fatto che per lunghissimo tempo si è ritenuto che il principale, se non l’unico, fattore di trasformazione del territorio fosse l’attività costruttiva le cui quantità si esprimono appunto in misure spaziali.
Oggi questa convinzione è da tutti superata, ma non si è ancora giunti a proporre dei parametri di diversa natura (demografici, economici) in sostituzione dei vecchi parametri spaziali. Questi hanno senza dubbio il pregio di essere immediatamente recepibili e utilizzabili da parte di tutti gli operatori ma difficilmente riescono a garantire un controllo efficace delle quantità del piano, soprattutto di quelle non spaziali.
In corrispondenza delle tre grandezze diverse spaziali, i parametri assunti al rango di indici urbanistici sono di tre tipi: lineare, superficiale, volumetrico.

L’indice di altezza massima

Ad un parametro di tipo lineare corrisponde l’indice urbanistico denominato altezza massima (simbolo H max). Esso si calcola all’unica dimensione lineare libera da vincoli obiettivi, cioè all’unica a cui è possibile e utile esercitare un controllo; è nel senso dell’altezza infatti che ciascun operatore potrebbe spaziare, mentre lunghezza e larghezza sono dimensioni obbligate, dipendenti dall’estensione di ogni proprietà. Questo indice controlla evidentemente solo una delle quantità urbane, la quantità dello sfruttamento in altezza dello spazio, ma non serve a tradurre in atto le altre quantità previste dal piano. Non è però stato sempre così: fino a non molto tempo addietro quando lo sfruttamento del suolo avveniva nella forma della cosiddetta edificazione chiusa, cioè disponendo le costruzioni lungo i bordi degli isolati, l’indice di altezza massima, che è il più antico di tutti gli indici urbanistici, era sufficiente per controllare sia pure approssimativamente, anche la volumetria che si intendeva realizzare; bastava infatti moltiplicare la lunghezza dei bordi stradali per la profondità media dell’edificio (12-15 ml.) e per l’indice di altezza, e si otteneva la volumetria approssimativa che sarebbe risultata dall’applicazione dell’indice.
L’introduzione dell’edificazione dei corpi aperti disposti liberamente all’interno degli isolati, ha drasticamente ridotto la capacità di controllo dell’indice di altezza massima, che, salvo alcune eccezioni viene adoperato con finalità ambientali, per indirizzare lo sviluppo delle quantità volumetriche previste dal piano in senso prevalentemente verticale (indice elevato) o prevalentemente orizzontale (indice modesto), e deve comunque accompagnarsi ad altri indici.
L’indicazione di altezza massima viene data in forma di misura assoluta (ad es. H max = 6,50 ml.).
Anche di questo si può dire che non è stato sempre così: fino alla seconda guerra mondiale i piani in Italia indicavano l’altezza massima in forma di misura relativa; il termine di riferimento era in genere la strada antistante ogni fabbricato; l’altera era pari a una volta o a una volta e mezzo la larghezza della strada. E’ evidente anche qui la connessione coi tipi dell’edificazione chiusa; ed altresì comprensibile che un tale procedimento sia decaduto all’avvento della edificazione aperta. La misura assoluta con cui oggi viene computata l’altezza massima si computa generalmente dal piano originario di campagna (o, dove esista dal marciapiede) alla linea di gronda del fabbricato. Pertanto, l’operatore che per ipotesi si trovi a dover agire in una zona classificata residenziale e con un indice di H max di 6,50 ml., sa che potrà realizzare fabbricati per abitazione alti fino a 6,50 ml., esclusa la copertura, cioè con due piani abitabili fuori terra (calcolando l’altezza di un piano, solaio compreso, metri 3,20).

Il rapporto di copertura

Corrisponde invece ad un parametro di superficie l’indice denominato rapporto di copertura (simbolo: RC).
Esso stabilisce la quantità di suolo che può essere sfruttato per l’edificazione, per esclusione, la quantità di suolo che deve essere sottratta allo: sfruttamento edificativo in vista di necessità future o semplicemente per assicurare un rapporto equilibrato di spazi coperti e spazi scoperti.
Questo indice è un risultato della ricerca condotta dai razionalisti sull’uso ottimale del terreno e per l’acquisizione del massimo di superficie libera, e possibilmente verde, a corredo dell’edificato. Praticamente superfluo in regime di pianificazione chiusa (per regolare la quantità del suolo inedificato rispetto all’edificato bastava variare le dimensioni dell’isolato).
Normalmente la forma adoperata è quella della percentuale: per es. RC = 20. Questo significa che della superficie di terreno disponibile quale che sia la sua dimensione, ogni operatore può coprire la quantità indicata in percentuale, e deve lasciare sgombro il rimanente. Nel caso dell’esempio fatto, un operatore che disponga di 1.500 mq di terreno fabbricativo potrà coprirne con edifici il 20% cioè 300 mq., e dovrà lasciare scoperto il rimanente 80%, cioè 1.200 mq..
Il rapporto di copertura si applica alla superficie fabbricativa netta cioè alla superficie effettivamente disponibile per l’edificazione, escluse le aree destinate a strade, giardini pubblici, attrezzature in genere.
Questo terreno può apparire banale se riferito a terreni già lottizzati o urbanizzati per i quali la procedura di attuazione è la licenza edilizia: in tal caso sembra ovvio che l’indice sai da rapportare alle superfici del singolo lotto; diventa meno banale se riferito a terreni ancora non urbanizzati, per i quali la procedura di attuazione è costituita dal piano di lottizzazione: in questo caso il caso del calcolo della superficie da coprire non può essere fatto sull’area totale da lottizzare (superficie fabbricativa lorda), ma su quel che rimane da essa detratte la cosiddetta P.A., cioè le aree per Pubbliche Attrezzature (strade, piazze, e tutte le attrezzature previste dagli standards del piano).
Se dunque un operatore dispone di 20.000 mq. di terreno da urbanizzare e vuol sapere quanti mq. può coprire con fabbricati in base al RC = 20%, deve detrarre dalla superficie totale le aree P.A. che in prima approssimazione e salvo successive verifiche occuperanno il 35% del terreno, cioè 7.000 mq., ed otterrà la superficie fabbricativa netta, pari a 13.000 mq.: a questa applicherà il rapporto di copertura e saprà che possono essere occupati da costruzione 2.600 mq. di terreno, mentre ne dovranno rimanere scoperti 10.400 mq..
Il controllo di questi indici non si esercita però soltanto sulle qualità di sfruttamento superficiale del terreno: unito all’indice di altezza massima, il rapporto di copertura è in grado di controllare anche le quantità volumetriche, cioè le quantità dello sfruttamento complessivo dello spazio. E’ chiaro infatti che applicando contemporaneamente i due indici ad un terreno otteniamo la dimensione di un volume, che pertanto è il volume realizzabile su quel terreno. Ad es.: su un terreno di 1.000 mq. sono applicati i seguenti indici: H max = 7 ml; RC = 40%; la superficie utilizzabile è dunque di 400 mq. e l’altezza raggiungibile di 7 ml: se sui 400 metri quadri si elevano 7 metri di costruzione, si ottengono 400 x 7 = 2.800 metri cubi di edificato, che sono il volume ammissibile su quel terreno in base ai due indici.

L’indice di fabbricabilità

E’ questo un terzo indice, che corrisponde ad un parametro spaziale di tipo volumetrico e assume il nome di indice di fabbricabilità (simbolo: IF). Esso stabilisce la quantità di volume fabbricabile in una data zona, ossia nell’ottica del primato dell’attività costruttiva, la quantità complessiva dello sfruttamento dello spazio; è perciò l’indice più importante. E’ anche quello che traduce nella maniera più immediata gli obiettivi del pianificatore, nella misura in cui essi sono traducibili in termini fisici o di quantità spaziali; e altresì di più diretta lettura per tutti gli operatori coinvolti nell’attuazione del piano, in quanto fornisce esplicitamente indicazioni sulla quantità che in genere preme più conoscere: la cubatura.
Anche “l’indice di fabbricabilità”, come il rapporto di copertura, viene espresso in forma di misura relativa, e per le medesime ragioni. Il termine di riferimento è anche qui la superficie di terreno disponibile; ad essa viene rapportata, in forma di quoziente, la cubatura realizzabile. L’espressione dell’indice di fabbricabilità dipende dunque dalla divisione del numero dei metri cubi edificabili per il numero di metri quadrati disponibili, ed è un numero puro che indica quanti metri cubi sono realizzabili per ogni metro quadro di terreno disponibile (per questo di usa accompagnare il numero dell’indice con il simbolo mc/mq).
Assegnare pertanto ad un terreno un IF = 2 mc/mq. significa dire che su un terreno si possono realizzare due metri cubi di costruzione ogni metro quadro di superficie se la superficie è di 2.000 mq., si potranno costruire 4.000 metri cubi. L’operatore dunque, può conoscere la cubatura attribuitagli di cui dispone.
E’ invalso l’uso di sdoppiare l’indice di fabbricabilità in due diversi indicatori. Il primo prende il nome di indice di fabbricabilità territoriale (simbolo: IFT) e si definisce come la cubatura edificabile per ogni metro quadro di superficie fabbricativa lorda: viene adoprato prevalentemente all’interno di strumenti urbanistici generali, in quanto è riferibile a vaste aree di intervento considerata in modo globale.
Il secondo prende il nome di indice di fabbricabilità fondiaria (simbolo: IFF) e si definisce come la cubatura edificabile per ogni metro quadro di superficie fabbricativa netta: viene adoprato prevalentemente all’interno di strumenti urbanistici attuativi. Quando gli aggettivi “territoriale” o “fondiario” non vengono specificati, l’indice si deve intendere come l’indice di fabbricabilità fondiaria e si applica alla superficie fabbricativa netta: nel caso di aree non ancora urbanizzate occorrerà pertanto procedere nel modo già indicato a proposito del rapporto di copertura, cioè scorporando le aree P.A..
L’efficacia dell’indice di fabbricabilità come indicatore delle quantità di sfruttamento dello spazio è comprovata dal fatto che essa viene adoperato non solo nel caso della pianificazione, ma anche in sede di analisi urbana e territoriale. Diventa in questo caso un rilevatore della situazione urbanistica di un certo ambito spaziale, ed assume il nome di densità edilizia, mantenendo lo stesso significato di quantità di volume per unità di superficie. Anche la densità edilizia viene distinta in territoriale e fondiaria a seconda dell’area sulla quale viene computata: è territoriale se il volume complessivo edificato viene rapportato alla intera area presa in esame; è fondiaria se il rapporto si stabilisce tra il volume e l’area che risulta dalla detrazione delle strade, piazze e spazi pubblici in genere. Specialmente questo rilevatore fornisce la misura dell’addensamento delle quantità urbane in una parte di territorio e permette di confrontare aree con addensamenti diversi.

 

Fonte: http://host.uniroma3.it/docenti/carci/2009_2010/Tecnica_Pian_Urb/Disp/TECNICA%20E%20PIANIF_URBANISTICA.doc

autore: prof. Pier Luigi Carci

 

 


 

Urbanistica

 

 

A

  • ACCORDO: di programma; con i privati.  

L'accordo di programma è uno strumento atto a coordinare l'azione di più Enti pubblici per realizzare opere, programmi o interventi pubblici o privati di rilevante interesse e complessità, utilizzando procedure semplificate. Gli enti pubblici locali possono concludere anche accordi con i privati per assumere proposte e progetti di interesse per la comunità. In questo caso, questi costituiscono parte dello strumento di pianificazione e pertanto ne determinano previsioni ed effetti solo all'atto dell'approvazione dello stesso strumento. In teoria l’interesse pubblico dovrebbe essere sempre presente e prevalente.

  • ADOZIONE: Atto (formulato con deliberazione) del Consiglio attraverso la quale un Ente territoriale - Comune, Provincia, Regione - fa proprio ("adotta") uno strumento urbanistico (o una sua Variante) relativo al proprio territorio, che successivamente sarà presentato alle autorità competenti per l'approvazione. L’adozione, anche essendo un atto intermedio dell’iter procedurale di formazione dello strumento, esplicita una precisa volontà dell’amministrazione di governare delle scelte, per cui ha come effetto l’applicazione di misure di salvaguardia.

 

  • AMBITI: parti del territorio comunale, individuati dal PSC, omogenee per politiche di intervento, azioni e obiettivi da perseguire e caratterizzate da multifunzionalità. Ogni ambito è caratterizzato dagli stessi obiettivi sociali, ambientali e dalle stesse caratteristiche urbanistiche (dimensionamento massimo ammissibile derivante dal fabbisogno, assetto spaziale, destinazioni d’uso ammesse, criticità delle risorse naturali e antropiche, condizioni di sostenibilità degli interventi da attuare, dotazioni minime di standard).

L’individuazione spaziale dell’ambito non è legata alla assegnazione di diritti edificatori; infatti, tali diritti nonchè i vincoli e le tutele vengono disciplinati, in conformità alle previsioni del PSC, con l’approvazione di RUE e POC, in quanto solo in quella sede potranno essere regolamentati in maniera definitiva.

  • APPROVAZIONE: Atto con il quale si conclude la complessa procedura di formazione di ciascun strumento urbanistico o delle sue varianti. L’approvazione costituisce la versione definitiva dello strumento urbanistico ed è di competenza dell’organo consigliare. A seconda dello strumento urbanistico, l’approvazione viene effettuata dall’amministrazione proponente (ad esempio una variante non sostanziale al PRG, che viene approvata dal Comune stesso) o da quella sovraordinata (ad esempio una variante sostanziale al PRG, che viene approvata dalla Provincia). L’efficacia dell’atto approvativo è soggetto e segue le regole di esecutività degli atti amministrativi (ad esempio la pubblicazione all’Albo Pretorio) e, qualora fosse “viziato”, cioè non avesse seguito l’iter ad esso preposto per legge, perde di validità.

 

  • ATTUAZIONE: Deriva dal verbo attuare, cioè sostanzialmente ‘mettere in pratica’, realizzare concretamente le cose (case, fabbriche, servizi, infrastrutture, parchi, etc.), che si sono pensate, dette, scritte, qualche volta concordate, altre volte concertate, altre ancora negoziate, in un piano urbanistico. Dare corpo cioè alle scelte di pianificazione dando un significato anche al ‘quando’ (e ‘al chi’), farle, dopo aver deciso ‘quali’ , ‘come’, ‘dove’ e ‘quante’ farne.

C

  • CAPACITA’ INSEDIATIVA: quantità teorica di popolazione insediabile in un territorio, stabilita dagli strumenti urbanistici comunali secondo un indice espresso in metri (cubi o quadrati), pro-capite.
  • CITTA’: Luogo in cui si concentrano le funzioni economiche, politico-amministrative, culturali proprie di ogni organizzazione sociale evoluta. Nella storia la città ha sempre esercitato un ruolo egemone sul territorio circostante, differenziandosi anche fisicamente dalla campagna. Il moderno sviluppo dei traffici e delle attività produttive ha reso necessario un controllo qualitativo e quantitativo della crescita della città che si esercita attraverso gli strumenti della disciplina urbanistica. Le sue caratteristiche generali sono la densità edilizia e demografica rispetto al territorio circostante, l’articolazione e la specializzazione delle funzioni insediate.

 

  • CONCERTAZIONE/CONTRATTAZIONE: processi di interazione e di negoziazione tra soggetti diversi, nella fase di definizione delle scelte che riguardano una città o un territorio.

Riferite al dialogo tra soggetti istituzionali (comuni, province, regioni, comunità montane, comprensori, autorità di bacino, ecc.), agenzie pubbliche (enti di gestione di ferrovie, strade, acquedotti, fonti di energia, mezzi di comunicazione, ecc.) e soggetti privati.
Si distinguono fra loro in quanto la concertazione sostituisce il concetto di gerarchie fra soggetti con un principio di cooperazione istituzionale fra enti che condividono politiche e obiettivi, mentre la contrattazione si riferisce principalmente  alla negoziazione, anche attraverso “rapporti di forza”, di scelte specifiche. Spesso il termine concertazione viene confuso con quello di partecipazione; in realtà i due concetti sono molto diversi, perché la concertazione è mediata da un concetto di "rappresentanza" preesistente al momento in cui il dialogo tra i diversi soggetti prende corpo e si svolge in prevalenze tra soggetti in qualche modo istituzionalizzati, mentre la partecipazione è un processo più allargato che coinvolge gli abitanti e le loro spontanee forme di organizzazione.

  • CONFERENZA: è uno strumento utilizzato dalla Pubblica Amministrazione che ha come obiettivo l’integrazione delle competenze e la condivisione delle scelte da parte di tutti i soggetti partecipanti.

Esistono due tipologie di conferenza:

    • la conferenza di pianificazione: è una fase necessaria per l’elaborazione dei piani (PTCP, PSC), i soggetti partecipanti sono chiamati a dare un contributo conoscitivo e valutativo esprimendo valutazioni preliminari sugli obiettivi generali, le scelte strategiche e le condizioni di sostenibilità del piano. Alla conferenza partecipano i soggetti territorialmente interessati (regione, provincia, comunità montane, comuni contermini, enti parco, ENEL, consorzi di bonifica …) e quelli che per legge devono rilasciare pareri  e atti di assenso (ARPA, USL, Soprintendenza, …). Le conclusioni della conferenza costituiscono parametro per l’elaborazione definitiva delle scelte di pianificazione che si ritrovano nel piano adottato;
    • la conferenza dei servizi: è una procedura attivata, quando l'amministrazione procedente debba acquisire intese, nulla osta o assensi di altre amministrazioni pubbliche, per la realizzazione di opere e interventi. La conferenza dei servizi può essere convocata anche su richiesta di un soggetto privato.
  • CONTRODEDUZIONI: Risposte dell'amministrazione comunale alle osservazioni presentate da cittadini, singoli o associati, ed enti sui contenuti dello strumento urbanistico o sue varianti. Tali risposte devono essere motivate, sia in caso di accoglimento delle osservazioni, sia in caso di diniego.

D

 

  • DENSITA’ : Come spesso accade in ‘urbanistica’è un termine ‘rubato’ da altre discipline. Nel nostro caso essa è data dal rapporto tra una quantità di elementi e lo spazio che li comprende (o li sopporta). Si parla di d.abitativa, d. insediativa, d.demografica . Misura in sostanza quante case, persone, o altri elementi che hanno a che fare col territorio, stanno su determinate superfici di riferimento. Più è alto più può indicare condizioni di ‘fatica insediativa’. Per  quanto riguarda la densità demografica cioè gli abitanti che risiedono in un determinato territorio: Bologna  ha 2.651 abitanti per Kmq, Ravenna 209, Reggio nell'Emilia 623, Firenze 3.446, Roma 1.977 Napoli 8.599  Un esempio terribile: nel ghetto di Varsavia, nel momento di massimo affollamento c’erano 160.000 persone per chilometro quadrato. …..
  • DESTINAZIONE D'USO: è la funzione (residenziale, produttiva, commerciale, terziaria, direzionale, agricola, spazi pubblici, …) di un’area all’interno di uno spazio urbano o l’uso di un immobile (per abitazione, uffici, negozi, industrie, …), esistente, prevista, prescritta o consentita in base alle norme urbanistiche o edilizie di riferimento.

 

  • DIRITTO EDIFICATORIO: misura del ‘quanto’ si può costruire su di un’area edificabile (vedi anche edificabilità). E’ definito dal piano regolatore - o dal POC - a seconda delle caratteristiche e dell’uso che si prospetta per una determinata area (residenziale, produttivo, ecc.).

DOCUMENTO PRELIMINARE: Il Documento Preliminare è un atto di contenuto pianificatorio di competenza della Giunta dell'amministrazione procedente (ad esempio, la giunta comunale) ed è strumentale allo svolgimento della “Conferenza di Pianificazione”. Esso è pertanto previsto per gli strumenti generali di pianificazione territoriale e urbanistica (nel caso del Comune: per il PSC, ma non per il POC) ed ha la funzione di fornire alle amministrazioni partecipanti alla Conferenza una illustrazione dei contenuti fondamentali che l'amministrazione procedente intende dare allo strumento in corso di elaborazione.

Il Documento preliminare relativo al PSC considera la totalità del territorio comunale ed è orientato a definire, in via preliminare:

  • le ipotesi di sviluppo sociale ed economico del Comune e le principali linee di assetto ed utilizzazione del territorio;
  • le politiche di tutela e sviluppo delle parti del territorio comunale omogenee;
  • gli obiettivi di funzionalità, accessibilità e fruibilità del sistema insediativo, nonché di qualità urbana ed ecologico ambientale, che si intendono perseguire attraverso il sistema integrato della mobilità urbana;
  • gli obiettivi quantitativi, qualitativi e di efficienza delle dotazioni territoriali esistenti e di quelle da potenziare;
  • la dotazione e l’articolazione di standard ecologico-ambientali per le diverse parti del territorio urbano e periurbano;
  • le esigenze di sviluppo di attività private che concorrano ad ampliare e articolare l'offerta di servizi ai cittadini o ad elevarne la qualità;
  • i requisiti richiesti alle aree di proprietà privata al fine di ridurre la pressione dell'agglomerato urbano sull'ambiente;
  • la gestione degli ambiti interessati dai rischi naturali;
  • le politiche di tutela e qualificazione del territorio urbano e rurale.
  • DOTAZIONI – ecologiche - territoriali, infrastrutturali: l’insieme delle attrezzature, opere e spazi attrezzati pubblici o di pubblico interesse che rendono ‘urbano’ un sito e che ne determinano la qualità.  Ne fanno parte:

le infrastrutture ‘primarie’ necessarie per urbanizzare un sito, cioè per renderlo utilizzabile per funzioni urbane (strade, fognature, rete di distribuzione dell’acqua ecc);
le attrezzature, opere e spazi attrezzati pubblici necessari per l’erogazione dei servizi;
le dotazioni ecologiche-ambientali, cioè gli spazi, opere e interventi finalizzati a migliorare la qualità ecologica ed ambientale degli ambienti urbani.

E

  • EDIFICABILITA’: il fatto di essere edificabile, cioè di poterci costruire qualcosa sopra. Si riferisce ad un'area (anche il famoso lotto), che il piano regolatore - o il POC - ha dichiarato tale (vedi anche diritto edificatorio). 
  • EDILIZIA: Con questo termine (seguito da aggettivi che ne specificano il tipo come: pubblica, privata, convenzionata, agevolata; scolastica, residenziale, popolare, - a Bologna anni fa c’erano anche le popolarissime-, produttiva, biologica, etc), si intende tutto quello che concorre alla realizzazione di edifici, di contenitori destinati ad ospitare determinate funzioni o destinazioni d’uso. E’ la meta agognata di ogni proprietario di lotti che li vorrebbe vedere sempre e comunque ‘edificabili’, cioè suscettibili di veder realizzata su di essi dell’edilizia.

 

  • ESPANSIONE: Processo di crescita di un sistema urbano, sostanzialmente riferito all’aumento quantitativo delle strutture insediative (residenziali, produttive, di servizio etc), e viarie ed al quale si associa, di conseguenza, una trasformazione demografica e sociale della comunità locale. Tale fenomeno è governato da precise regole urbanistiche contenute (un tempo) nel PRG le quali definiscono i confini, ovvero i margini, entro il quale esso deve avvenire, i relativi usi insediabili, le “quantità” dei nuovi fabbricati realizzabili, nonché le modalità per attuarli (cioè realizzarli concretamente). L’espansione viene distinta (un tempo) dal PRG in “residenziale” e “produttiva”, concentrando in quest’ultima anche gli usi terziario, direzionale e commerciale.
  • ESPROPRIO : procedimento di acquisizione di aree o immobili di proprietà privata da parte di un ente pubblico, di utilità pubblica per fini collettivi. È uno strumento di attuazione della pianificazione urbanistica per acquisire aree necessarie alla realizzazione di opere pubbliche, alloggi di edilizia economica e popolare, zone industriali o comunque produttive. La determinazione dell’indennità di esproprio, cioè di quanti soldi (di tutti), dare ai proprietari , questione sulla quale tuttora il dibattito è aperto, varia a seconda dei terreni: se sono agricoli, oppure aree edificate o edificabili ecc.

F

  • FABBISOGNO: necessità presente e prevedibile di abitazioni, infrastrutture e servizi, che si stima sia necessario realizzare entro un certo periodo, di norma periodo di durata dello strumento urbanistico, in una città, in un comune.

I

  • INVARIANTI: elementi fisici o parti del territorio non modificabili (fra questi ci può essere anche il paesaggio); esprimono un carattere permanente e in quanto tali la loro tutela e salvaguardia risulta indispensabile per il mantenimento dei caratteri fondamentali e delle risorse essenziali del territorio. Sono individuate dagli strumenti urbanistici in quanto definiscono obiettivi prestazionali dichiarati e riconosciuti come decisivi per la tutela e il governo del territorio,.

 

  • ITER  PROCEDURALE:  Parola latina, iter significa viaggio, di fatto l’espressione identifica il cammino che uno strumento urbanistico percorre da quando è adottato a quando viene approvato; questo cammino ha numerose tappe (e a volte intoppi), però può garantire oltrechè la rispondenza a criteri e previsioni come si dice ‘cogenti’ cioè stabiliti da enti di livello  superiore in altri strumenti urbanistici, in alcune fasi anche la partecipazione condivisa e consapevole degli enti interessati e dei soggetti sociali.

 

  • IMPATTO AMBIENTALE: E’ l’insieme di  “beneficio-danno” provocato da un intervento edilizio, ma non solo, sull’ambiente. L’impatto ambientale di un’opera viene definito analizzando il suo inserimento nell’ambiente ed è tanto più “positivo” quanto viene raggiunta la migliore mediazione tra esigenze funzionali di progetto e modifiche irreversibili dell’ambiente. In senso lato, l’impatto ambientale può essere valutato non solo in un’ottica ecologico-ambientale, ma anche di tipo economico-sociale, intendendo con ciò la verifica del grado di ottimizzazione raggiunto nella gestione delle risorse economiche e sociali disponibili.

 L

  • LOTTIZZAZIONE: intervento (urbanistico) mediante il quale, sulla base di un apposito piano, un terreno viene suddiviso in lotti fabbricabili e aree comuni attrezzate con strade, parcheggi, reti fognarie, reti idriche, verde, ecc. Si tratta fondamentalmente di un “ accordo” tra i proprietari dei terreni e il Comune, con cui i proprietari ottengono l'autorizzazione a costruire impegnandosi in cambio a realizzare le opere al servizio delle costruzioni (strade, parcheggi, fogne, illuminazione pubblica, verde, ecc.).

N

 

  • NORME: Le Norme tecniche di attuazione (NTA) sono norme che specificano gli interventi previsti da un piano urbanistico generale o particolareggiato, precisando le indicazioni quantitative e qualitative di zona.

O

  • OSSERVAZIONE: contributo propositivo e motivato (indicazioni, proposte, precisazioni, rettifiche, critiche) che ogni cittadino, Ente, Associazione può fornire alla Pubblica amministrazione competente per la formazione o il perfezionamento di uno strumento urbanistico che ha adottato. In caso di Variante al piano le osservazioni possono essere presentate sono dagli aventi diritto in quanto soggetti direttamente interessati dalle nuove modifiche intervenute.

Le osservazioni sono presentate nella fase di pubblicazione del piano.
Si tratta di una facoltà riconosciuta dalla legge, non solo per garantire il diritto di partecipazione del privato al procedimento di formazione del piano, ma per consentire un’attività amministrativa il più possibile trasparente condivisa e rispondente alle esigenze della collettività.
Nella fase di approvazione definitiva del piano la Pubblica amministrazione deve necessariamente decidere (accogliere o respingere) motivatamente le osservazioni presentate.

  • ONERI: il contributo economico che il proprietario dell’area, o chi vi costruisce, deve corrispondere al comune nel momento in cui si appresta ad edificarla. Tradizionalmente gli ‘oneri di urbanizzazione’ sono commisurati al costo di realizzazione delle infrastrutture primarie dell’area e del sistema dei servizi della città. Il Comune può inoltre prevedere o negoziare la corresponsione di oneri aggiuntivi necessari per una più completa realizzazione delle dotazioni territoriali di un’area e dell’ambiente urbano in cui essa si trova.  

P

  • PARTECIPAZIONE: “atto, effetto del partecipare”. Secondo la World Bank (1996) “la partecipazione è un processo mediante il quale i portatori di interesse (stakeholders) influenzano e contribuiscono al controllo delle iniziative di sviluppo, delle decisioni e delle risorse che li riguardano”. Secondo altri la partecipazione è qualcosa di più: un processo allargato che coinvolge gli abitanti e le loro spontanee forme di organizzazione, li rende parte dei processi di formazione dei progetti (sulla città ma non solo), e di decisione sulle modalità della loro realizzazione e contribuisce ad innalzare il tasso di democrazia e a creare un diverso rapporto tra governanti e governati.

 

  • PEREQUAZIONE URBANISTICA: metodo di pianificazione che consiste nello ‘spalmare’ i diritti edificatori su diversi lotti di un medesimo comparto, indipendentemente dalla funzione (a residenza, a verde pubblico ecc.) che ciascun lotto assumerà e dai metri cubi che vi verranno costruiti. Essa è finalizzata a due principali scopi: permettere al Comune di acquisire gratuitamente le aree necessarie per la realizzazione delle dotazioni territoriali, trattare equamente i proprietari delle aree interessate dagli interventi, riconoscendo a ciascuno i medesimi oneri e diritti edificatori.
  • PIANIFICAZIONE: La pianificazione territoriale e urbanistica si articola su tre livelli territoriali: regionale, provinciale e comunale. Facendo riferimento alle funzioni di governo del territorio di propria competenza, la pianificazione tiene conto di tutti i fattori in gioco ed individua gli obiettivi e le linee programmatiche di un certo assetto del territorio. Le funzioni di pianificazione territoriale e urbanistica sono esercitate attraverso i piani.

 

  • PIANO: Il piano generale è lo strumento di pianificazione con il quale un ente pubblico territoriale detta, per l'ambito di propria competenza, la disciplina di tutela e di uso del territorio, coordinando lo sviluppo urbano e rurale coerentemente con i bisogni sociali ed economici. Il piano di settore sviluppa discipline di tutela e uso per alcuni temi contenuti nei piani generali, definendo obiettivi prestazionali specifici. Il piano attuativo rende esecutivi gli indirizzi delineati dal piano generale.
  • PTCP: Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale – strumento urbanistico generale che definisce l’assetto dell’intero territorio provinciale, con particolare riferimento per gli interessi che hanno una natura sovracomunale. Esso è strumento di coordinamento sia delle politiche settoriali della Provincia, sia della pianificazione urbanistica comunale. 

 

  • PRG - PIANO REGOLATORE GENERALE: superato strumento urbanistico generale a tempo indeterminato per il governo dell’intero territorio comunale. Regola(va) e pianifica(va) il territorio comunale dal punto di vista urbanistico tenendo conto degli aspetti economico-sociali ed ambientali.

Avrebbe dovuto indicare in coerenza con gli indirizzi e le prescrizioni della pianificazione sovraordinata (PTCP): le destinazioni delle zone formanti il territorio, precisando le zone destinate all’espansione urbana, le aree ad uso pubblico, i vincoli (storici, ambientali e paesistici) da osservare, la viabilità. Detta(va) le sue regole attraverso tavole cartografiche e norme di attuazione.
La legge regionale n. 20 del 2000 ha sostituito il P.R.G. con tre strumenti distinti: il Piano Strutturale Comunale PSC, il Regolamento Urbanistico Edilizio RUE e il Piano Operativo Comunale POC, distinguendo gli aspetti strutturali e strategici dalla disciplina attuativa e regolamentare.

  • PSC – PIANO STRUTTURALE COMUNALE: strumento urbanistico generale a tempo indeterminato che contiene gli aspetti strutturali e strategici che interessano tutto il territorio comunale. Valuta la consistenza, la localizzazione e la vulnerabilità delle risorse naturali e antropiche e di conseguenza opera scelte di assetto, sviluppo e tutela del territorio definendo gli ambiti caratterizzati da diverse politiche e obiettivi, fissa i limiti di sostenibilità delle trasformazioni e definisce gli interventi da attuare rimandandoli al POC e al RUE.

 

  • POC  - PIANO OPERATIVO COMUNALE: E’ lo strumento urbanistico di attuazione delle scelte strategiche definite nel Piano Strutturale (PSC). Viene anche detto “Piano del Sindaco”, in quanto ha la durata temporale di cinque anni e con esso l’amministrazione sceglie come governare, nel dettaglio e con azioni puntuali, le trasformazioni del territorio comunale. Il POC è predisposto in conformità alle previsioni del PSC e non può modificarne i contenuti; esso viene adottato e approvato dal Consiglio Comunale con una fase intermedia di deposito durante il quale i cittadini e la Provincia sono chiamati a esprimere le proprie osservazioni di merito.
  • PUA: Sono i piani urbanistici attuativi, che servono cioè a mettere in pratica (attuare), le scelte degli strumenti urbanistici: ce ne sono di vario tipo e molti di loro fanno riferimento a vecchie leggi e come usa in  urbanistica si citano con sigle: il PEEP, i PIP, i PRU, i PRUSST, i PPIP e così via. Dietro a ciascuna sigla ci sono leggi diverse, obiettivi diversi, ambiti diversi di applicazione, spesso fonti di finanziamento diverse.

 

  • PUBBLICAZIONE DEL PIANO: fase dell'iter in cui il piano (o uno strumento urbanistico), è esposto al pubblico, per un certo periodo di tempo,  per eventuali osservazioni.

Q

  • QUADRO CONOSCITIVO: È un elemento costitutivo dei nuovi strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica (che derivano dalla legge regionale 20/2000), che provvede alla organica rappresentazione e valutazione del territorio e dei processi evolutivi che lo caratterizzano. I contenuti del quadro conoscitivo (dinamiche dei processi evolutivi, analisi fisiche e morfologiche, valori del territorio, vincoli..) forniscono il punto di partenza per la definizione degli obiettivi del piano. L'implementazione e l'integrazione di questo elaborato sono un aspetto importante anche per le successive fasi operative del piano e per quella di monitoraggio.

R

  • RENDITA quella forma di reddito che deriva dalla proprietà di un bene scarso. Anche il suolo (e la sua proprietà), essendo un bene scarso, genera una rendita, che in ambito urbano assume valori diversi in relazione alla appetibilità delle aree. Rendendo edificabile un’area agricola il piano attribuisce ad essa una rendita fondiaria di molto maggiore a quella che l’area possedeva prima, e che è proporzionale ai diritti edificatori. Anche la realizzazione delle dotazioni territoriali, poiché contribuisce ad aumentare l’appetibilità di un’area, determina un innalzamento dei valori della rendita urbana.

 

  • RUE Regolamento Urbanistico ed edilizio. Nelle intenzioni di chi lo ha proposto, con la legge urbanistica regionale 20/2000, dovrebbe essere la raccolta di tutte le norme (una volta chiamate Norme tecniche di attuazione, regolamento edilizio, etc),  che disciplinano le attività sul territorio comunale come previste dagli strumenti urbanistici, specificando i modi, le forme, le quantità, gli indici, fino ad arrivare ai requisiti prestazionali e qualitativi delle opere edilizie.
  • RIQUALIFICAZIONE: La riqualificazione urbanistica è da intendersi come attività di pianificazione, programmazione e progettazione tesa al recupero di aree degradate, sia dal punto di vista qualitativo, sia dal punto di vista funzionale. La riqualificazione urbana si attua attraverso interventi concreti finalizzati al recupero, alla rivitalizzazione e all'adeguamento degli ambienti urbani degradati e funzionalmente superati rispetto a nuove esigenze sociali.

S

  • SOSTENIBILITÀ: Metodo di valutazione dell’attività pianificatoria, del territorio e non solo, utilizzato nel giudizio delle sue possibili conseguenze. In particolare esso si riferisce alla verifica della capacità del sistema in esame (ad esempio, il territorio) di “assorbire” senza conseguenze negative, per le generazioni attuali e future, le trasformazioni attuate in esso. La sostenibilità è uno dei principi che hanno assunto grande importanza nelle recenti politiche di revisione della pianificazione territoriale. Esso si riferisce al modello di sviluppo che, per evitare un uso indiscriminato delle risorse non riproducibili (ad esempio il suolo, l’aria, ecc.) o che si riproducono con lentezza (ad esempio i boschi, le risorse idriche, ecc.), gioca sulla valorizzazione di alcune risorse culturali e sociali, abitualmente non utilizzate, in modo tale da coinvolgerle nel raggiungimento di forme di approccio nuove e alternative. La sostenibilità, e con essa lo sviluppo sostenibile, viene applicata fondamentalmente a tre "sistemi": quello economico, quello ambientale e quello sociale e, in ognuna delle tre dimensioni, possiamo ritrovare la medesima manifestazione del principio sopra citato. 

 

  • STANDARD: parola inglese, sta ad indicare le caratteristiche minime obbligatorie alle quali deve essere rispettata in una realizzazione urbanistica o edilizia (densità, altezze, distanze ecc.). Tradizionalmente per ‘standard urbanistici’ si intende la quantità minima di aree pubbliche espressa in metri quadrati per abitante (in Emilia Romagna 30 mq per abitante), che gli strumenti urbanistici devono riservare per la realizzazione delle dotazioni territoriali: aree verdi parcheggi, scuole ecc.Più recentemente (LR. 20/2000) il concetto di standard ha assunto un significato più ampio: da valore quantitativo, indicante il rapporto minimo tra insediamenti e spazi pubblici, esso diviene anche un parametro di definizione della qualità delle dotazioni territoriali che si vuole perseguire con il piano (standard di qualità urbana ed ecologico ambientale).
  • SALVAGUARDIA: situazione di un piano adottato,  ma non ancora approvato. Periodo in cui coesistono contemporaneamente due strumenti urbanistici: quello vigente (cioè valido) e quello adottato (da validare). Il Sindaco non può autorizzare progetti e interventi in contrasto con le previsioni del piano adottato o tali da comprometterne l’attuazione (in questo caso si parla appunto, di misure di salvaguardia).

 

T

  • TERRITORIO: Il territorio nei piani nuovi viene diviso in: urbanizzato, urbanizzabile e rurale. Si intende territorio urbanizzato l'insieme delle aree edificate, in costruzione ed i lotti interclusi, che con continuità formano il tessuto urbano esistente; il territorio urbanizzabile comprende tutte le aree individuate dai piani come idonee allo sviluppo dell'insediamento urbano e di infine il territorio rurale è costituito da tutto il resto di territorio che non sia già urbanizzato o urbanizzabile

V

 

  • VALSAT: Valutazione di Sostenibilità ambientale e territoriale – procedura di valutazione preventiva degli effetti e degli impatti derivanti dall’attuazione delle scelte di un piano per eliminare o mitigare gli eventuali effetti negativi. Si tratta di un processo sistematico inteso a valutare le conseguenze in campo ambientale e territoriale di una politica o di una scelta del piano per garantirne la sostenibilità fin dall’avvio del processo di formulazione della decisione. Gli esiti della valutazione sono approvati contestualmente al piano e raccolti in un apposito documento (VALSAT) che ne costituisce parte integrante.
  • VARIANTE Modifica parziale o totale di uno strumento urbanistico, a seguito di modificazioni avvenute nella normativa o nel territorio che il piano intende governare. 

 

  • VINCOLO: in linea di massima si può intendere per vincolo qualsiasi condizione (anche strutturata come norma), limitante i comportamenti di un qualunque soggetto rispetto a determinate possibilità d’intervento sul territorio. Ce ne sono tantissimi e tutti (in genere), adeguatamente motivati. I più famosi sono i vincoli paesistici (forse si voleva dire paesaggistici?chissà?), i vincoli di tutela, a loro volta articolati in fluviale, idrogeologico, etc, etc.

Z

  • ZONA: Parte di territorio con caratteri di omogeneità, individuata come tale dallo strumento urbanistico e sottoposta ad una specifica disciplina urbanistica contenuta nelle Norme Tecniche. In regime di PRG, nel territorio comunale si individuano 6 zone contraddistinte da lettere: "A" quelle di interesse storico e pregio ambientale; "B" quelle parzialmente edificate; "C" quelle di espansione residenziale; "D" quelle per gli insediamenti produttivi, esistenti o di espansione; "E" quelle agricole; "F" quelle per attrezzature o impianti di interesse generale. Ciascuna zona, a sua volta, può contenere delle distinzioni interne (sotto-zone) finalizzate a valorizzare le diversità che caratterizzano il territorio. In regime di PSC, invece, il concetto di zona viene sostituito da quello di “ambito”.

* PER APPROFONDIRE E INTEGRARE:
www.muleta.org , www.iuav.it ,  www.comune.bologna.it  , www.comune.scandicci.fi.it altri siti utili

 


Piano                                                                                                                        Standard urbanistici

 

 

Le immagini sono state scaricate dal sito www.muleta.org che ringraziamo.

 

Fonte: http://www.celestini.it/filemanager/download/168/GLOSSARIO%20DI%20URBANISTICA2.doc/

 

Autore del testo: a cura di:  Barbara, Chiara, Elena, Graziella, Marcella, Maria e Piergiorgio

 

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