Costituzionalismo antico e moderno riassunto Mc ilwain

 

 

 

Costituzionalismo antico e moderno riassunto Mc ilwain

 

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Costituzionalismo antico e moderno riassunto Mc ilwain

COSTITUZIONALISMO ANTICO E MODERNO

(CAPITOLO 1) DEFINIZIONI MODERNE DEL COSTITUZIONALISMO

Mai come ora il mondo è in bilico tra le procedure del diritto e i sistemi fondati sulla forza, in apparenza più rapidi ed efficienti. Per scegliere razionalmente quale sia la strada migliore da seguire è necessario percorrere ed esaminare la storia del costituzionalismo, tentando di valutare i suoi successi passati e considerando anche ciò che gli è stato opposto. Per far ciò prendiamo in considerazione il costituzionalismo anglosassone.

ARTHUR YOUNG, famoso agronomo inglese, nel 1792, menzionava con spregio la nozione francese di costituzione, affermando che i francesi avessero solo adottato un nuovo termine e lo usassero “come se la stessa costituzione fosse una torta da preparare secondo ricetta”.

Anche a EDMUND BURKE risultava altrettanto ripugnante questa “torta da preparar secondo ricetta”; egli non aggiungeva quasi niente sulle costituzioni americane ma, a suo giudizio, nulla sarebbe potuto essere peggiore di quella francese, dalla quale, secondo la sua concezione, non poteva che derivare altro che male.

THOMAS PAINE, filosofo inglese, invece, riteneva che “una costituzione non è l’atto di un governo, ma l’atto di un popolo che crea il governo. Una costituzione è, quindi, antecedente ad un governo: il governo è la creatura della costituzione”. Sembra probabile che Paine intendesse per “costituzione” solo le costituzioni scritte francesi e americane. Per lui una “costituzione scritta” sembrava essere il solo tipo di costituzione degna di nome, perciò nel Parlamento inglese una costituzione non c’era.

Questi giudizi esprimono molto chiaramente il contrasto tra la nuova concezione di “costituzione”, cioè una formulazione consapevole da parte di un popolo della sua legge fondamentale, e la concezione tradizionale e più antica, per cui costituzione erano solo i principi sostanziali che si potevano dedurre dalle istituzioni funzionanti di un paese e dal loro sviluppo.

Henry Saint’John, visconte di BOLINGBROKE esprime meglio di chiunque altro questa concezione antica: “intendiamo per costituzione quel complesso di leggi, istituzioni e consuetudini, derivato da alcuni principi fissi, diretto a determinati fini di pubblico bene, e che costituisce il sistema generale secondo cui la comunità ha accettato di essere governata”.

Differenza da notare, tra la concezione di Paine e quella di Bolingbroke, quella che per il primo un atto del governo contrario alla costituzione è un atto di un potere senza diritto mentre, per il secondo è solo mera prova che il governo non è buono.

In realtà, Bolingbroke riproponeva semplicemente i vecchi schemi del Politico di Platone, quando affermava che i governi possono essere giudicati in base alla loro conformità alle consuetudini e leggi in vigore in un paese.

Se un governo fallisce in questo conformarsi è un governo cattivo, ma non privo di fondamento giuridico: il fallimento non implicherebbe, come riteneva Paine, che esso possa essere disobbedito, tranne che nel caso di una rivoluzione.

Ed è curioso notare che Bolingbroke ricorreva allo stesso esempio di Paine per un decreto “incostituzionale”: il Septennial Act inglese del 1716.

Paine considerava questo decreto come la prova conclusiva che “non v’è costituzione in Gran Bretagna”.

Bolingbroke disse che “se fosse stato predetto ai patrioti della Rivoluzione, ciò sarebbe apparso improbabile e mostruoso”.

Quando Bolingbroke, nel 1733, affermava che il Septennial Act sarebbe parso “mostruoso” ai Whig della Rivoluzione, diceva ciò per reazione contro l’arbitrarietà della nozione, che nasceva proprio allora, dall’onnipotenza del Parlamento.

I nuovi Wigh si erano già spostati troppo lontano, verso quell’assolutismo che i loro predecessori avevano spazzato via. Bolingbroke lamentava un abuso ma non offriva rimedi; aveva solo visto ciò che molti non hanno visto cioè la grande frattura tra la dottrina Whig del 1689 e quella riscontrabile nel regno di Giorgio III o di Giorgio I. Gli oppositori di Giacomo II, nel Convention Parliament del 1688, avevano agito come la voce della nazione, di tutto il popolo non come corpo con un’autorità sovrana ordinaria.

Se Bolingbroke diceva che il Septenial Act sarebbe parso mostruoso ai rivoluzionari del 1688, a questi ultimi l’affermazione di Northington e di Mansfield, avversata da Camden e dagli americani, che “ogni governo può arbitrariamente imporre leggi a tutti i sudditi”, sarebbe parsa dieci volte più mostruosa! Non pare esagerato dire che la dottrina liberale dello Stato dopo il 1760 si distingue con difficoltà dai principi di Giacomo II che portarono alla rivoluzione del 1682.

In entrambi i casi, il governo rivendica l’autorità di imporre leggi arbitrariamente con la sola differenza che nel primo caso questo governo era sotto il controllo di un parlamento non riformato mentre nel secondo era dominato dalla volontà di un re dispotico.

Si prospettava inevitabile un’altra rivolta in America, quasi quanto lo era stata quella del 1688 in Inghilterra, proprio perché gli inglesi dell’America del Nord si ribellarono a un principio così arbitrario e “si trovavano nella medesima relazione con l’Inghilterra in cui questa era stata con il re Giacomo II nel 1688” diceva Edmond Burke.

Nella difficile ma molto importante questione, se gli americani fossero legalmente e costituzionalmente giustificati a resistere a tal mostruosa dottrina molti si son rifiutati, da un punto di vista giuridico, di preferire la parte di Camden e degli americani, schierandosi a favore di Northington e Mansfield.

Dal punto di vista politico, il problema è stato meno discusso poiché alla base del parlamento vi era un consenso.

E’ l’aspetto politico che ci interessa e che colloca sullo sfondo la concezione di ciò che una costituzione è o dovrebbe essere.

Lo stesso Paine, affermando che una costituzione per essere tale deve sempre essere antecedente ad ogni governo, pone una massima politica e non una regola della legge inglese.

Che si appoggi o meno la teoria di Paine, si conviene che la sua analisi sia comunque notevolmente acuta.

I punti più significativi di tale analisi sono i seguenti:

  • che v’è una differenza fondamentale tra un governo del popolo e una costituzione del popolo, sia il governo affidato ad un re o ad un’assemblea rappresentativa;

  • che questa costituzione è “antecedente” al governo;

  • che essa definisce l’autorità che il popolo dà al suo governo, e quindi per ciò stesso la limita;

  • che ogni esercizio di autorità, oltre i limiti così stabiliti, è un esercizio di “potere senza diritto”.

  • che in tutti gli Stati in cui la distinzione tra governo e costituzione non è rispettata nei fatti, non v’è costituzione poiché la volontà del governo non ha freni e lo Stato è, così, dispotico.

Una cosa Paine non chiarisce pienamente: se un governo esercita un “potere senza diritto” è implicito che il popolo abbia diritto di resistenza?

Tale diritto è legale o solo politico? La resistenza è giuridicamente fondata o extralegale? Si può inserire nella struttura dello Stato qualche disposizione che possa dichiarare un atto del governo ultra vires e perciò che i sudditi siano esonerati dalla sua esecuzione?

In altre parole, può un governo essere limitato legalmente con qualche sistema che non faccia ricorso alla forza?

Paine a ciò non risponde chiaramente: pare che non vi sia altro da fare se non ricorrere alla forza.

Elemento difettoso, quindi, nella costruzione di Paine, il judicial review: egli pensava innanzitutto in termini di politica e la sanzione per i diritti lesi, quelli dell’uomo e non quelli del cittadino, era un’azione extralegale piuttosto che un freno costituzionale. Sicuramente egli notava una certa lentezza a livello di rimedi legali per gli abusi esistenti ma pian piano altri cominciarono a capire che tali rimedi per risultare efficaci e vincolanti dovevano essere sanzionati da una legge; lo stesso Camden aveva sottolineato che i principi di diritto dovessero essere incorporati nella costituzione.

Deduzione logica da ciò era che proteggere il diritto equivaleva a imporre “limiti costituzionali”.

Già prima che Paine scrivesse, in America era stata avvertita una sorta di necessità d’interpretazione giudiziaria e di una limitazione attraverso essa degli atti del governo, seppur vaga e istintiva; Solo più tardi si svilupperà pienamente e consapevolmente. E’ riscontrabile negli scritti di James Otis del 1764 che affermava: ”se il legislativo supremo sbaglia è denunziato dall’esecutivo…questo è governo! Questa è costituzione!” oppure nei sermoni del reverendo James Lovell del 1771 in cui, parlando del re d’Inghilterra egli esclamava: “…egli non è onnisciente. Sebbene sia il più potente principe della terra è soggetto alla divina costituzione della Legge; e detta legge egli la chiederà e riceverà dai dodici giudici d’Inghilterra”.

C’è, tuttavia, un altro aspetto importante della concezione costituzionalistica di Paine in cui egli può sembrar differire sostanzialmente dalle vedute di altri oppositori del governo arbitrario: egli afferma che una vera costituzione è sempre “antecedente” al governo in carica di uno Stato; se con la parola “antecedente” intendeva una priorità nel tempo, Paine finiva con l’asserire così un principio che può essere vero solo per costituzioni “sgorgate fuori” coscientemente da un popolo, in un momento preciso, com’era accaduto appunto nelle tredici colonie d’America.

Ciò posto, la sola vera costituzione sarà quella “scritta”.

“Antecedente”, però, può essere stato usato con intenzione assai diversa: la citazione fatta innanzi mostra, in modo evidente, che per Bolingbroke i principi della costituzione stanno prima di tutti gli atti di un governo non perché abbiano una priorità nel tempo, ma perché sono superiori per il carattere e per l’autorità obbligante.

Difatti, la nozione tradizionale di costituzionalismo comprendeva una serie di principi incorporati nelle istituzioni di una nazione, non esterni ad esse e nemmeno precedenti nel tempo.

Ciò che era precedente nel tempo era, dunque, nient’altro che la vita stessa di tali istituzioni come di tutte le leggi: i liberali pensavano, perciò, di combattere per la conservazione di “antiche” libertà piuttosto che per la creazione di altre, nuove.

Per alcuni di questi, la salvaguardia delle libertà necessarie sembra che abbia implicato la conservazione integrale del diritto consuetudinario della nazione.

Edward Coke, ad esempio, pensava che l’intero complesso della common law inglese doveva essere mantenuto intatto se si voleva proteggere la libertà dei sudditi contro un governo arbitrario. Per lui il complesso della common law era “fondamentale” e tutte le leggi consuetudinarie rappresentavano per lui una sanzione più alta di qualsiasi legislazione di altro genere. Egli intendeva la libertà non come una nozione astratta, tipica dell’epoca illuminista, ma come specifici diritti concreti: è più esatto dire che Coke pensava in termini di “diritti” e non di diritto e di libertà al plurale e non al singolare. Esempio interessante, in uno dei discorsi di Giacomo I: egli osserva che gli scozzesi intendano per leggi fondamentali solo quel diritto per il quale è impossibile la confusione e in forza della quale è mantenuta la discendenza dei loro Re e l’ereditarietà della successione e della Monarchia e non deducono ciò dalla common law, non avendola, ma dallo Ius Regis.

Ciò dimostra che in una siffatta concezione non tutte le leggi consuetudinarie sono fondamentali, alcune soltanto lo sono più delle altre, in ragione del loro proprio carattere, e che queste ultime soltanto riguardano il supremo organo di governo dello Stato. Per Giacomo I tali leggi non andavano oltre la garanzia del suo proprio diritto regale, per altri potevano estendersi fino ad includere alcune limitazioni nell’interesse dei sudditi.

L’espressione “legge fondamentale”, entrata in uso secondo Gardiner solo dopo il dibattito per lo ship-money, può essere vagamente riscontrata anche in un’asserzione di Whitelocke nel 1610, che la tassazione senza sanzione del Parlamento “è contraria alla naturale composizione e costituzione della politica di questo regno, cioè allo ius publicum regni, e sovverte quindi il diritto fondamentale del reame e introduce una nuova forma di Stato e di governo” e che è altresì contraria alla legge municipale del paese cioè allo ius privatum, alla legge di proprietà e di diritto privato”.

Qualsiasi cosa se ne voglia pensare dal punto di vista teorico, la nozione di Paine, che afferma che la sola vera costituzione è antecedente e che il governo di una nazione è soltanto una creatura di tale costituzione, è più strettamente conforme di ogni altra all’attuale sviluppo del costituzionalismo dell’inizio del secolo diciannovesimo; la norma generale di tutti i paesi “costituzionali” è stata quella di creare costituzioni scritte, di definire e limitare i governi.

La prima esperienza di ciò si ebbe nell’America del Nord, e dalle colonie ribelli passò in Francia, e fu da questa trasmessa a larga parte del continente europeo, da dove si è spiegata ai giorni nostri verso l’oriente.

Evidente anomalia, l’eccezione dell’Inghilterra i cui limiti al potere sono stati posti fin dall’epoca medievale, ma non son stati scritti. Eccezione più apparente che sostanziale poiché il motivo per cui i principi essenziali, la stessa costituzione, non son stati imprigionati in un documento formale è che i limiti al potere arbitrario si son fissati così fermamente nella tradizione nazionale che le minacce contro di essi non son sembrate mai tanto serie da necessitare dell’adozione di un testo formale e il fatto che fossero “non scritti” non gli rende meno costituzionali.

Si potrebbe obiettare tuttavia che le tredici colonie inglesi, le cui tradizioni erano pur quelle della madrepatria, hanno senza eccezione adottate tali costituzioni scritte. Ciò per un duplice motivo;

Innanzitutto, le costituzioni scritte americane consistono di una codificazione di istituzioni e principi da lungo tempo in vigore, molto poco dottrinarie e aprioristiche di altre. In secondo luogo, l’indipendenza americana costituiva una rottura nella continuità, rottura che l’Inghilterra non ha mai conosciuto, che richiedeva un codice scritto.

Anche la rivoluzione del 1688 portò a pochi mutamenti strutturali: il bill dei diritti del 1689, il Triennal Act del 1694 e l’Act of Settlement del 1701, summa dell’accordo rivoluzionario, furono disposti in forma di statuti ordinari seppur vi siano prove che dimostrano il ritenerli fondamentali.

Il testo del Triennal Act dimostra che i cambiamenti che si realizzarono furono rivoluzionari ma l’Inghilterra non ha, evidentemente, sentito la necessità di codificare i propri principi costituzionali. Tali principi esistevano ed esistono ancora e ancor oggi s’odono richieste occasionali per una loro codificazione.

Dal 1911 al 1914 i cosidetti die hards tra i membri della Camera dei Lord chiedevano una protezione più forte del mero diritto di partecipazione agli Act del Parlamento; e nel 1914 un piccolo gruppo propose di far rivivere una parte delle prerogative regali non più esercitata da più di due secoli. Fu anche fondata una rivista per esprimere questo punto di vista “The Candid Quarterly Review”.

La Prima guerra mondiale distrasse l’attenzione da queste questioni costituzionali ma esse potrebbero nuovamente venire in superficie; anzi, non sarebbe sorprendente se le richieste si facessero più nuove e diffuse “per qualcosa di fondamentale che come la magna Charta fosse fissa e inalterabile”.

I membri della Camera dei Comuni, malgrado i successivi ampliamenti dell’elettorato, sono ancora in gran parte aristocratici e le tradizioni aristocratiche tuttora controllano e limitano l’azione parlamentare. Queste tradizioni operano come inibizioni sull’azione parlamentare ed hanno quasi la stessa efficacia d’impedimenti reali e giuridici. Finché ciò durerà, non vi sarà necessità di restrizioni legali degli organi legislativi e la dottrina dell’onnipotenza del parlamento resterà poco discussa.

Tale dottrina non è stata messa in dubbio sol perché non è stata ritenuta pericolosa da una classe abbastanza numerosa e potente che potesse opporvisi con successo ma appare prevedibile che una simile situazione non possa durare.

La dottrina giuridica dell’onnipotenza del Parlamento non avrebbe potuto durare regolarmente fino ad oggi in Inghilterra, se le sue spigolosità non fossero state smussate da consuetudini, la cui azione è stata praticamente altrettanto invariabile quanto quella della legge stessa.

Quando queste convenzioni avranno perso la loro efficacia, vi sarà la richiesta di una legge, e le convenzioni saranno sostituite da leggi o completamente messe da parte.

Evidenti esempi d’inadeguatezza delle consuetudini si manifestano maggiormente nella sfera coloniale dove la tradizione è meno sperimentata che nella madrepatria, dove l’equilibrio tra legge e consuetudine è chiaramente rilevato.

L’eccezione dell’Inghilterra è più apparente che reale anche perché se l’autorità del Parlamento fosse nei fatti come è nel diritto, ne risulterebbe un dispotismo popolare e il governo che attribuisce a se stesso il potere che gli aggrada “esso è, in realtà, solo un governo senza costituzione” diceva Paine. (Quindi, pur non essendo scritta, la costituzione c’è!)

Come principio generale, si deve ammettere la verità della proposizione di Paine che “una costituzione non è l’atto di un governo, ma di un popolo che costituisce un governo”. E se ciò è vero la conseguenza è che le forme e i limiti stabiliti in questo “atto costituente” si pongono come la costruzione di una costituzione superiore, per carattere, agli Acts di ogni governo: il governo stesso non potrà esercitare un potere che non sia stato “enumerato”.

Ogni governo costituzionale è, quindi, per definizione, un governo limitato.

Si può ammettere che tali limiti non debbano essere necessariamente antecedenti nel senso inteso da Paine ma si deve ammettere che essi sono fondamentali. Fondamentali non sol perché basilari ma anche perché inalterabili tramite processo legislativo ordinario.

Queste concezioni si sviluppano in una fase piuttosto recente, definita autocosciente o consapevole, in cui il popolo appunto crea la sua costituzione con un’azione costituente diretta ed espressa.

Tale fase è solo il prodotto di un’altra fase più antica e molto più lunga in cui le costituzioni erano intese non come creazione ma come eredità nazionale e, pertanto, vincolanti in ragione del fatto che risalivano indietro nel tempo.

E’ il lungo sviluppo di questa prima e meno cosciente fase che sarà trattato con più dettagli.

E’ ovvio che qualità essenziale del costituzionalismo è il fatto che sia, esso stesso, limitazione legale del governo, l’antitesi del governo arbitrario e dispotico, il governo della volontà al di sopra della legge.

Anzi, questa è la più antica, persistente e duratura delle caratteristiche essenziali del vero costituzionalismo.

(CAPITOLO 2) LA CONCEZIONE ANTICA DELLA COSTITUZIONE

Nell’Oxford Dictionary sono elencati molti significati della parola “costituzione”.

Nell’Impero romano la parola, nella sua forma latina, divenne il termine tecnico per gli atti legislativi dell’imperatore; e la chiesa l’ha preso in prestito e l’ha impiegato nei regolamenti ecclesiastici validi per tutta la chiesa o solo per qualche provincia.

Dalla Chiesa o dagli stessi libri di diritto romano il termine venne preso in uso nel tardo medioevo per essere applicato agli atti secolari del tempo.

In Inghilterra, le famose Constitutions of Clarendon del 1164 erano definite da Enrico II e da altri, appunto come “costituzioni” delle relazioni che si supponeva fossero esistite tra Stato e chiesa al tempo di Enrico I. Si trattava però in sostanza di disposizioni ecclesiastiche sia pur promulgate dall’autorità secolare e ciò può spiegare l’applicazione ad esse della parola “costituzioni”. Di frequente la parola è usata per indicare un editto reale.

In questo periodo, e per secoli dopo, “costituzione” significa sempre uno specifico atto amministrativo.

La parola era usata per distinguere quest’atto particolare dalla consuetudo, o antico costume; mai nel nostro senso moderno, per indicare, cioè, la completa ossatura giuridica dello stato.

Questa nozione moderna di costituzione appare per la prima volta all’inizio del sedicesimo secolo in una frase del vescovo Hall del 1610 e in alcune parole di James Whitelocke dello stesso anno.

In particolare la frase di quest’ultimo include due concezioni della costituzione strettamente connesse tra loro e insieme di diverso carattere.

Le due forme del più antico costituzionalismo, espresse dalla politeia greca e dalla constitutio latina e le loro interrelazioni nella storia: tale è l’argomento che mi propongo di trattare.

Comincerò dalla politeia greca, che è appunto la forma più antica.

Di tutti i vari significati, la politeia greca è conforme ad uno dei più antichi.

Essa significa, innanzitutto, lo stato com’è attualmente: comprende le innumerevoli caratteristiche che determinano la natura di uno stato, incluse la struttura sociale ed economica e le materie di governo. Si tratta, dunque, di un termine descrittivo.

“I greci riconoscevano una stretta analogia tra l’organizzazione dello stato e l’organismo di un essere umano individuale. Essi pensavano che corpo e mente, il primo guidato e governato dalla seconda, hanno un corrispondente nei due elementi costitutivi dello Stato, i governati e i governanti”.

Nella lingua greca non v’è nulla che corrisponda alla parola latina ius.

La dottrina politica dei Greci si basa sulla Legge di Natura, una spiegazione filosofica dei fatti concreti ed esistenti piuttosto che nella fondazione di una base, da cui dedurre nozioni giuridiche concrete. La legge di natura non diventava mai la prova di legittimità di un governo; per i sofisti non ha alcuna validità e anche per i loro grandi avversari, come Platone e Aristotele non si spingevano mai a dire che tale legge era coercitiva, pur credendo in una legge universale di natura.

Una delle più chiare spiegazioni di questo atteggiamento greco verso la questione fondamentale delle relazioni tra governo e legge si trova nel Politico di PLATONE, filosofo greco. Quest’opera, sebbene meno importante della Repubblica, è stata fin troppo trascurata.

La questione centrale discussa nel Politico è quella eterna della relazione tra governo e legge.

Platone viene proclamato un compagno di fede da alcuni recenti sostenitori dello stato totalitario. Come si possa fare onestamente una tale affermazione, dopo aver attentamente meditato il Politico, è fuori della mia comprensione.

Tutta la discussione del Politico dimostra chiaramente che questa non è la vera posizione di Platone, ma semmai il suo esatto contrario. È ben vero che nel Politico i difetti del governo costituzionale sono chiaramente riconosciuti e sono colti con assai perspicuità che in qualsiasi altra opera platonica.

Il governo costituzionale, ammette il filosofo, è da considerare come il secondo in una scala di valori; il primo posto è riservato ad un governo non impacciato da leggi, che rimane, però, pur sempre un ideale.

I limiti giuridici impacciano sempre un governo: vi possono essere delle cose buone che esso farebbe se non fosse intralciato. Un governo costituzionale sarà sempre un governo debole se paragonato con quello arbitrario.

Il costituzionalismo soffre dei difetti inerenti ai suoi stessi meriti: dal momento che non può fare troppo male gli è impedito di fare troppo bene: conviene rinunciare al bene per prevenire il male, oppure è preferibile sottomettersi al male per assicurare il bene? Questo è il problema pratico fondamentale del costituzionalismo ed è anche il principale problema del mondo contemporaneo. E’ il grande problema al centro del Politico.

La risposta platonica è basata sulla distinzione tra l’ideale e l’attuale. La Repubblica guarda all’ideale; il Politico si occupa dell’attuale, dell’attingibile che è, sicuramente, meno perfetto dell’ideale ed è la presenza delle restrizioni che lo fa tale: la legge, dice Platone, non concede a nulla di essere contrario alla sua volontà”, “la legge non può comprendere esattamente ciò che è più nobile e più giusto o ordinare immediatamente ciò che è buono per tutti.

Le differenze degli uomini e delle azioni e il movimento infinito e irregolare delle cose umane non consentono una norma universale e semplice che sia valida per sempre. Come sono familiari al costituzionalismo tali obiezioni!

Vi è un rimedio pratico di ciò fondato sull’equità, per le deficienze delle norme giuridiche rigide: la concessione di un potere discrezionale al governo in casi eccezionali per dispensare dalla legge o per scusare una sua infrazione implica la consapevolezza che questa legge non può assicurare una giustizia adeguata in ogni singolo caso. Dopo tutto, il principale difetto di tutte le leggi è anche la loro più essenziale e più valida caratteristica, la loro generalità.

Considerazioni di questo genere inducono Platone a considerare che il miglior governo, teoricamente, è quello fondato sulla discrezione del sovrano e non sulle leggi;

Egli si chiede: “come il pilota vigila sugli interessi del battello e della ciurma, e preserva la vita dei suoi marinai, non rinunciando alle regole della sua arte ma facendo della sua arte una legge, allo stesso modo non può forse essere creata una vera forma di governo da quelli che sono capaci di governare con uno spirito simile e che mostrano, superiore alla legge, la forza dell’arte?

Dal brano risulta evidente che il miglior governo ideale esiste quando il governante non è limitato da leggi, ma fa della sua arte una legge. Ciò fa chiedere se Platone insista sulla superiorità del dispotismo sul costituzionalismo o si sforzi di illustrare esattamente il contrario. E se egli creda all’esistenza reale o alla possibilità di un governante che sia dotato di una tale “forza dell’arte” e crede che questa possa essere veramente la sola legge dello Stato.

La risposta dipende dalla risposta ad un’altra domanda: credeva egli che il suo filosofo-re fosse apparso o potesse apparire in uno Stato reale sulla terra?

Non conosco in tutte le opere di Platone un sol passo che provi la sua fiducia nella reale esistenza di un tal superuomo. E, senza questo semidio, il dispotismo diventa per Platone non il migliore, ma il peggiore di tutti i governi possibili.

Tra gli estremi sta lo Stato per così dire di secondo grado, lo stato che ha un governo costituzionale.

Per Platone un regime si differenzia dall’altro per l’assenza o la presenza della giustizia. In un governo costituzionale, le leggi sono di molto inferiori alla saggezza del perfetto sovrano, in ragione della loro rigidezza; ma non sono null’altro che imitazioni di tale perfetta saggezza, copie, a giudizio di Platone, che contengono una misura più grande di vera giustizia di quel che possa contenere la volontà arbitraria di un uomo vizioso o ignorante. La legge, diceva Aristotele, è “intelligenza senza passione”.

Il Politico sembra rivelare le reali opinioni di Platone più chiaramente della descrizione che si legge nella Repubblica.

Egli non spiega, alla fine, perché pensa che la consuetudine nazionale sia una guida più sicura della volontà di un governante, ma dà una inequivocabile prova che tale è il suo pensiero.

La sua preferenza era forse, soprattutto, pratica ma quale che ne sia stata la ragione, la fede platonica può difficilmente essere messa in dubbio.

Su un altro punto soltanto possiamo fermarci: in comune con Socrate e Aristotele e contro l’opinione dei sofisti, Platone crede in una norma universale della vita politica, una norma che si potrebbe approssimativamente chiamare “legge di natura”.

Ma vi è una differenza tra la concezione platonica e quella più tarda, trasmessa dagli stoici a Roma.

La legge di natura era per Platone un termine di paragone, una sorta di punto di riferimento ideologico: si pone come una misura comune cui si può riferire una forma istituzionale in un paragone dei suoi meriti con quelli di un’altra, altresì un atto fatto entro uno stato per paragonarlo con un altro.

In tal modo, si pone la distinzione tra la vera legge in astratto e leggi particolari: le leggi particolari sono buone quando contengono la vera legge e non altrimenti.

Il costituzionalismo di tale periodo classico sembra fermarsi a questo confronto di istituzioni o leggi e non va più lontano di una valutazione o comparazione puramente ideologica.

La concezione costituzionalista fondata sulla nozione di legge, che prevale generalmente in questo periodo, prevede una costituzione intesa nel senso primitivo, dell’intera natura o composizioni di una cosa.

Una tale concezione della legge può giustificare che si dica che un atto legislativo è cattivo, ma mai che non è legittimo.

Non c’è luogo in essa per una distinzione tra un provvedimento che obbliga costituzionalmente, perché costituzionale, ed un altro che è nullo per incostituzionalità: il che vuol dire che la legge della costituzione non è coercitiva ma solo normativa e che le costituzioni non hanno sanzioni nel senso moderno del termine.

Qualsiasi cosa l’espressione “legge incostituzionale” possa aver indicato per Platone e Aristotele, non ha certo mai potuto significare: una legge nulla per incostituzionalità; e, se “legge costituzionale” può aver designato forse quella che concerneva l’ossatura dello stato, non ha, però, mai indicato una legge “fondamentale” nel senso nostro del termine.

La differenza è solo uno degli aspetti della differenza tra concezione moderna dello Stato e quella antica.

I Greci pensavano la legge in uno Stato come un aspetto soltanto dell’intera politica, non come qualcosa di estraneo e di separato dallo Stato, a cui questo dovesse conformarsi.

Essi, cioè, pensavano la legge in termini di Stato e non lo Stato in termini di legge, come i Romani e gli uomini del Medioevo.

Solo dopo l’apparizione della nozione di una legge più alta e più antica, sopra la quale le leggi degli stati particolari sono foggiate e a cui devono conformarsi per essere valide, la moderna concezione del costituzionalismo poté sostituire quella antica.

Il cambiamento tuttavia, cominciò quando s’intendeva per legge non quella dello stato stesso, ma una legge antecedente sia nel tempo sia nel potere di sanzione.

Da questa grande differenza tra l’antica e moderna concezione del costituzionalismo derivano conseguenze pratiche molto importanti. Poiché nella teoria più antica la politeia, o, come diciamo, la costituzione, include non solo uno ius publicum regni ma l’intera vita dello stato, due o tre grandi differenze pratiche tra lo stato antico e quello moderno sembrano dover derivare logicamente:

  • nell’antico regime non vi era rimedio contro un atto incostituzionale, tranne che un’ipotetica rivoluzione;

  • tale rivoluzione quando avviene non modifica solo la legge pubblica incostituzionale ma l’intero complesso delle istituzioni dello Stato, un mutamento di tutto il sistema; una rivoluzione sociale prima che politica.

  • di importanza fondamentale e di vasta portata della maggior parte delle rivoluzioni in Grecia: i mutamenti erano attuati con la violenza, la proscrizione, l’ostracismo e anche la morte.

(CAPITOLO 3) IL COSTITUZIONALISMO ROMANO E LA SUA INFLUENZA.

Indubbiamente, sulla storia del costituzionalismo hanno influito in modo non indifferente il significato e l’importanza della costituzione repubblicana di Roma.

Tale influenza fino a una o due generazioni fa non veniva riconosciuta poiché le libertà costituzionali erano connesse alle istituzioni delle tribù germaniche: Roma avrebbe contribuito poco o niente alle istituzioni e idee medievali e moderne in questo campo, salvo che con la massima dell’assolutismo imperiale “ciò che piace al re ha forza di legge”.

Lo stesso Tacito che, scrivendo, contrapponeva le virtù dell’antica Germania alla degenerazione di Roma faceva riferimento alle istituzioni di Roma imperiale, non a quelle delle Repubblica.

Trattando specificatamente le istituzioni di Roma repubblicana, tenteremo di evitare la spinosa questione delle origini.

Il primo che le ha analizzate è stato CICERONE, avvocato e discepolo di Panezio.

Egli espone nella Repubblica e nelle Leggi le fondamentali relazioni tra Stato e legge e ci si può chiedere se nel farlo, parli l’avvocato o lo stoico ellenistico.

Poiché non si è abbastanza competenti da rispondere a tale quesito ci limiteremo a esporre i principi generali della costituzione romana così com’era in concreto negli ultimi due o nell’ultimo secolo della Repubblica, o piuttosto come si può ricostruirla in base ai materiali di quel tempo giunti fino a noi.

Evidente è l’abisso esistente tra il costituzionalismo di Aristotele e quello di Cicerone: un mutamento stupefacente separa la teoria del primo dalle successive filosofie del secondo e di Seneca. Ed è proprio tale abisso a rappresentare, presumibilmente, lo spartiacque tra il pensiero politico antico e moderno e a render palese che per rintracciare le origini della moderna dottrina politica e costituzionale si debba risalire limitatamente a Roma repubblicana.

Per i principi generali distintivi del costituzionalismo romano non esiste forse una guida moderna più penetrante e suggestiva del monumentale Geist von romischen Rechts di Rudolf Ihering. L’universalismo dell’autore si manifesta nell’asserzione che i popoli, formati da una mescolanza di razze, si distinguono di solito per una persistente energia: una caratteristica tipica dei Romani, e, nei tempi moderni, degli Inglesi, che molto rassomigliano ai Romani.

Ma il tratto romano di maggior significato per la storia costituzionale consiste nel fatto che si deve attendere molto a lungo prima di trovare in un giurista la franca ammissione che la volontà di un governante è legge.

È evidente, dice l’autore delle Institutiones di Giustiniano, citando Ulpiano, che un comando dell’imperatore in debita forma è una lex ma nessun’autore prima di Ulpiano si era avventurato a dirlo così schiettamente.

Al più Gaio, nel II secolo dopo Cristo, dirà che non si è mai dubitato che la volontà dell’imperatore debba ricevere l’obbedienza riservata ad una lex ma egli non dice ancora che la volontà dell’imperatore ha la forza piena di una legge: le sue precise parole sono che non v’è dubbio che una costituzione imperiale possa tenere il luogo di una legge, poiché l’imperatore stesso riceve il suo imperium in forza di una legge.

È chiaro che la chiave per comprendere la fonte di ogni autorità politica è a Roma la definizione di lex. La lex, dice Gaio, è ciò che il popolo romano ordina e ha stabilito; quattro secoli dopo, le Institutiones di Giustiniano la definiscono come “ciò che il popolo romano era abituato a stabilire quando era convocato a questo scopo da un magistrato senatoriale”.

Gaio pone la lex al primo posto, come atto di tutto il popolo, mentre l’autorità di ogni altra forma di legislazione romana dipende dalla sua relazione con la lex. I patrizi, si dice, rifiutarono di essere obbligati da atti fatti dalla plebe soltanto, fino a quando questi non furono resi uguali alle leges per effetto di una lex approvata da tutto il populus.

I decreti del Senato non erano leges, sebbene col tempo furono ritenuti per tali; i dubbi sulla loro validità derivavano forse dalla mancanza di una lex specifica simile alla Lex Hortensia, in forza della quale i plebisciti erano stati riconosciuti uguali alle leges. Nonostante questi dubbi con l’andar del tempo sembrò giusto che il Senato fosse consultato al posto del popolus, divenuto troppo numeroso per potersi riunire per legiferare.

L’osservanza dei decreti del Senato dipendeva, quindi, più da una convenzione che da una legge.

Fu questa la necessità che indusse a confidare al senato la cura della Repubblica.

La distinzione nella sigla SPQR (Senatus Popolusque Romanus) significa qualcosa di simile.

Anche le constitutiones dell’imperatore come i decreti del senato avevano per Gaio effetto di leges, senza diventare esse stesse leges; ma, d’altra parte, non si può dubitare della piena equivalenza legale di una costituzione imperiale e di una lex, come invece è lecito farlo per un Senatus consultum.

Era, lo ribadiamo, in forza di una lex definita che l’imperatore riceveva il suo imperium.

Ma comunque, non possiamo avere dubbi sulla teoria romana della costituzione: il popolo, e il popolo soltanto, era la fonte di tutte le leggi. SPQR significa Senato e popolo.

Uno dei maggiori contributi di Roma alla dottrina costituzionalistica fu la distinzione tra ius publicum e ius privatum, una distinzione ancora oggi alla base delle nostre garanzie per i diritti legali individuali contro le ingerenze del potere politico.

La vera natura di questa distinzione sfugge; esisteva una stretta relazione a Roma tra diritto pubblico e privato.

Diritto pubblico, secondo le Institutiones di Giustiniano è solo quella parte del diritto “quod ad statum rei Romanae spectat”; diritto privato è “quello che riguarda l’interesse degli individui”: la loro essenza è la stessa e la differenza è nell’oggetto piuttosto che nella natura.

Come Ihering ha scritto, lo Stato, come portatore di diritti, è l’intera cittadinanza e la civitas non è un’astrazione distinta dal popolo, e perciò i diritti sono inerenti al popolo tutto e a ognuno individualmente.

Diritto pubblico e privato non si possono distinguere: il soggetto è esattamente lo stesso per entrambi, la persona fisica.

La sola differenza sta nel fatto che il diritto privato tocca gli individui privati, mentre tutti i singoli cittadini similmente partecipano al pubblico.

E’ contrario alla verità storica affermare che i principi del diritto privato erano quelli che si differenziavano dal diritto pubblico; i principi generali erano gli stessi in entrambi i casi solo che la loro prima applicazione si trova più chiaramente nelle relazioni tra individui.

La salvaguardia dei diritti più efficiente di un individuo contro un altro individuo fu trovata nell’impegno del popolo a proteggere questi diritti; l’intero popolo era così responsabile per la protezione dei diritti individuali.

Quello romano era, dunque, all’inizio, un diritto molto concreto e la concezione secondo cui è lo Stato che protegge il diritto in astratto, fu il risultato di un lungo sviluppo.

Gli stessi principi, come generalizzò Henry Maine, venivano fuori dalla procedura che procedeva per tentativi da un rimedio particolare all’altro: si sono sviluppati a poco a poco come razionalizzazione di rimedi esistenti e parziali.

Il primitivo sviluppo giuridico è la graduale trasformazione di “torti senza rimedio legale”, in una serie di offese oggetto di azione legale.

È solo con una simile indagine che possiamo giungere a una nozione del vero contenuto della parola lex nello sviluppo costituzionale romano. A questa parola se ne aggiunge, poi, un’altra di quasi uguale importanza, la parola sponsio.

Nel senso costituzionale pieno della parola, lex è una forma di obbligazione applicabile a tutto il popolo.

Ciò giustifica pienamente la generalizzazione di Ihering, secondo cui l’effetto di una legge per il cittadino è quella di un contratto che egli ha accettato e la violazione è la violazione di un obbligo che egli ha assunto.

La legge è una forma di obbligazione che vincola tutto il popolo e che vincola ognuno, poiché ognuno è supposto che abbia assentito all’atto. Papiniano ha evidenziato ciò in una solo frase: “lex est communis rei publicae sponsio”.

Per sponsio si intendeva l’essenza stessa del vecchio contratto verbale a Roma e Gaio ci informa che le sue formule (“Dari spondes?” “Spondeo”) potevano essere usate solo dai cittadini romani, mentre altre eran usate da tutti.

Alle sponsiones private corrispondevano le rogationes con cui si chiedeva a tutto il popolo se volesse assentire alla legislazione proposta e così vincolarsi con una legge: questo consenso dava forza legale alla misura.

La promulgazione è, dunque, la rogatio poiché questa contiene esattamente il provvedimento che il popolo trasforma in legge quando l’accetta col suo voto.

Il parallelo tra Roma e l’impero britannico è sicuramente utile ma ancor più lo sarebbe analizzare e paragonare le più antiche caratteristiche nazionali che possono spiegare le successive somiglianze.

Prima di paragonare la Roma del terzo e quarto secolo dell’era cristiana con l’Inghilterra del secolo diciannovesimo (periodi rispettivamente in cui il diritto romano diviene diritto di tutta la penisola e il diritto britannico una common law) perciò dovremmo far attenzione alla rassomiglianza tra la Roma repubblicana e l’Inghilterra del corrispondente periodo di crescita, cioè dei primi tre secoli successivi alla conquista normanna del 1066.

Fu la tendenza costituzionalista di questi periodi nei due sistemi di diritto consuetudinario a dominare il mondo occidentale: in essi si formarono quei principi fondamentali del diritto pubblico e privato, che costituivano lo spirito vero del costituzionalismo romano come di quello inglese.

L’espansione del diritto inglese nel sud dell’Inghilterra fu un processo graduale d’incorporazione di consuetudini locali diverse in un sistema che, col tempo, divenne generale e “comune”: la common law.

Parimenti lo ius gentium di Roma consisteva di principi giuridici comuni agli stati italiani, che l’espansione di Roma introdusse nel sistema giuridico romano.

Tra gli eroi sconosciuti del costituzionalismo inglese ci sono i giudici di Enrico II come Richard de Lucy e Ranulf Glanvill che diedero al diritto inglese ciò che i praetores peregrini avevano dato a Roma.

L’espansione dei sistemi giuridici romano e inglese giunge in un momento della storia dei due paesi in cui il diritto era in processo di formazione e gli stessi procedimenti di creazione della legge non erano ancora sviluppati. Per questo i mutamenti giuridici dei secoli XII e XII in Inghilterra e negli ultimi secoli della Repubblica a Roma, tendevano ad essere l’opera di giuristi piuttosto che di legislatori.

Il diritto romano e il diritto inglese si trasformarono, così, in un diritto fatto dal giudice, ed alla fine entrambi i sistemi presentarono le caratteristiche di tale diritto. Una tra le principali caratteristiche che troviamo in entrambi i sistemi, la grande abbondanza di finzioni legali: i magistrati non potevano mutare la legge, ma potevano forzarla al fine di coprire nuove circostanze. Tali espedienti tendono, poi, a scomparire quando il mutamento avviene tramite azione cosciente del legislatore e divengono oggetto di disprezzo da parte dei moderni riformatori.

In periodi antichi, però, tali finzioni erano l’usuale mezzo con cui i giudici tentavano di tenere il diritto al passo coi tempi: la storia del diritto, sia romano che inglese, ne è piena.

Numerosi esempi nella Roma dei tempi più antichi: si può riscontrare una finzione paragonabile al Principato, “una monarchia assoluta truccata nelle guise d’una repubblica”. In Inghilterra, addirittura, il sovrano titolare dello sviluppo costituzionale così peculiare è un re.

Chissà cosa avrebbe pensato Aristotele del Principato romano e sotto quale forma l’avrebbe classificato visto che nelle sezioni della sua Politica nulla rassomiglia all’antitesi caratteristica del Principato stesso o della monarchia “limitata” in cui il re regna ma non governa.

A Roma vi furono delle “rivoluzioni” così come in Grecia; ma a Roma si preservò sempre una certa continuità formale, che tendeva a nascondere, sotto le vecchie forme, innovazioni che in Grecia sarebbero state apertamente confessate.

Questo principio di continuità spiega il paradosso del più tardo Impero romano cioè che un despota come Giustiniano comprenda nella sua legislazione scritti animati dallo spirito del costituzionalismo.

Da tutto ciò risulta evidente che la prima conclusione è che la vera essenza del costituzionalismo romano non può cercarsi in quelle tarde proposizioni assolutistiche, cui è stata dedicata tanta attenzione come la massima famosa secondo cui “quod principi placuit legis vigorem habet”; va cercata piuttosto nel più antico e più profondo principio che il populus, e nessun altro che tutto il populus, è la fonte ultima dell’autorità legale.

La dottrina fondamentale di base allo Stato romano è il costituzionalismo non l’assolutismo.

Una seconda affermazione che si può fare è la seguente: prima del Rinascimento italiano l’influenza delle istituzioni e delle idee politiche di Roma su quelle degli Stati in processo di sviluppo dell’Europa occidentale si esercitò attraverso la compilazione giuridica di Giustiniano non tramite altri mezzi, quali la storia o la letteratura romane.

Un’ultima affermazione è che l’influenza di Roma realmente decisiva sulla successiva ideologia politica europea si esercitò durante il Medioevo, nel senso di un rafforzamento del costituzionalismo, e non dopo il Rinascimento italiano, nel senso di una tendenza dell’assolutismo.

L’attacco del rinascente diritto romano contro il diritto consuetudinario britannico nel secolo sedicesimo fu un totale fallimento. Il diritto inglese era duro e restò immune da influenze straniere: consolidatosi nel periodo medievale vide attribuita la sua tenace persistenza all’influenza dei collegi degli avvocati ma il periodo critico che lo forgiò si ebbe molto prima che queste associazioni di giuristi fossero fondate; fu esattamente al momento dello sviluppo di un sistema amministrativo comune, fusione di più diritti consuetudinari. La common law sopravvisse perché “comune” già da molto tempo. Nella consuetudine inglese non vi era alcuna qualità misteriosa, se non questa: la common law fu fatta per distinguerla da tutte le consuetudini affini, non per diventare la rivale di Roma nel sistema giuridico del più tardo mondo occidentale. La sua vittoria finale sul romanesimo non fu il risultato di un’inerente superiorità.

Questa vittoria si ebbe alla fine del XIII secolo, ma il risultato era stato in realtà già determinato dagli avvenimenti del secolo precedente: se Irnerio avesse insegnato, o se un Enrico III invece di Enrico II avesse seguito Stefano sul trono d’Inghilterra, noi forse useremmo il Digesto di Giustiniano nelle nostre scuole di diritto. Non fu un merito implicito delle consuetudini inglesi a fare di esse il “diritto del paese” ma furono l’uniformità dei writs e i giudici itineranti di Enrico II che compirono tale opera.

Ovviamente la legge è una cosa e la giurisprudenza è un’altra.

Agli inizi del sedicesimo secolo il giurista inglese SAINT-GERMAN divideva il diritto inglese in “diritto di ragione primaria” e “diritto di ragione secondaria”; distingueva, cioè, i principi definitivi della legge di natura universale e immutabile e le deduzioni specifiche che l’uomo può trarre da quei principi.

Tali deduzioni secondarie quando sono comuni a tutti i paesi, Saint-Germain le chiama “leggi di ragione secondaria generale”. La “legge di ragione secondaria particolare”, invece, è tale solo in un regno ed in nessun altro.

Nel periodo antico della formazione della common law si trovano delle semplici consuetudini ma anche una razionalizzazione di esse, una giurisprudenza, una “legge di ragione secondaria particolare” britannica. Chiaramente, queste leggi particolari ed anche la sua propria particolare giurisprudenza, non può che essere conforme ad una giurisprudenza generale ed universale.

La “legge di ragione secondaria generale” inglese fu permeata dalle concezioni giuridiche romane.

Nella formazione della common law, le concezioni romane hanno un posto non meno importante delle consuetudini inglesi, che esse servono a razionalizzare. Certamente esse vennero all’Inghilterra troppo tardi per rimpiazzare il diritto consuetudinario stesso, ma giunsero in tempo per avere parte nella disposizione e nello sviluppo del diritto e della “legge di ragione secondaria particolare” da esso dedotta.

Distinguere quale sia l’effettiva entità dell’apporto dato è difficile e ciò spiega le grandi divergenze tra stimati storici moderni del diritto: Maine afferma che Bracton ha spacciato per inglese un diritto che per un buon terzo era romano; Maitland afferma che dire un trentesimo invece che un terzo sarebbe stato più esatto,…

Dare una ratio a ciò è, però, destinato a essere inconcludente.

Si può trarre qualche conclusione dalle osservazioni avanzate.

Innanzitutto, per giungere a cogliere lo spirito degli antecedenti costituzionali medievali, bisogna considerare al pari del contenuto della legge anche l’elaborazione dottrinale.

Seconda conclusione è che tale scienza giuridica è quasi interamente romana, seppur non lo sia stata tanto considerata.

Infine, si può riaffermare che il principio politico fondamentale di tale scienza giuridica romana non è l’assolutismo di un principe ma la dottrina secondo la quale il popolo è la fonte di ogni legittima autorità politica di uno Stato.

Quest’ultima affermazione, più frequentemente contestata, richiede maggiori prove.

Nel periodo immediatamente successivo alla Conquista, in Inghilterra, le prove sono insignificanti, disperse e piuttosto inconcludenti: poche frammentarie sentenze si incontrano nelle opere giuridiche del periodo e tra tutte le cosiddette Leges Henrici Primi sono le più importanti. Alla fine del periodo normanno nel solo prologo del Liber pauperum di Vacario troviamo una ripetizione di alcune proposizioni del primo titolo del Digesto sulle fonti del diritto. Ma il libro di Vacario era scritto nello spirito dei primi glossatori: antiquario e romano, non conteneva alcun riferimento al diritto inglese e alla sua relazione con quello di Roma. Per una prova concreta di maggiore evidenza dobbiamo giungere al regno di Enrico II: nel De Legibus Et Consuetudinibus Angliae attribuito a RANULF GLANVILLE, primo giudice di Enrico durante i suoi ultimi anni. L’autore considera il suo libro come l’equivalente inglese delle Institutiones di Giustiniano e il suo prologo è modellato su quello giustinianeo, sebbene poi il suo libro non lo sia affatto. Un paragone dei due prologhi è istruttivo per le loro rassomiglianze come per le differenze: dopo la menzione della necessità delle leggi come delle armi, entrambi contengono un paragrafo che narra le gesta del sovrano, dopo di che vi è una breve analisi giuridica. Giustiniano fa riferimento solo al diritto scritto e alle compilazioni di questo fatte per suo ordine; Glanville dice che nel tribunale del re ogni decisione è sottoposta alle leggi del regno e alle consuetudini derivate dalla ragione e osservate a lungo; in tali decisioni il re non disdegna di consultare tra i suoi sudditi quelli che emergono per le loro virtù e per la perizia del diritto e delle consuetudini del reame.

“Non dovrebbe essere assurdo definire leges le leggi inglesi, anche se non scritte: cioè quelle manifestamente promulgate e con l’avviso almeno dei magnati e sotto l’autorità del principe”.

Il ragionamento dell’autore è strettamente affine a quello di una o due notevoli sentenze del Digesto; esse s’incontrano in un estratto da Salvio Giuliano: “La consuetudine immemoriale è osservata come una lex; è quella legge che è detta essere stata stabilita dall’uso. Poiché le leges stesse sono vincolanti per essere state ricevute per giudizio del popolo; ed anche quelle cose che il popolo ha approvato senza uno scritto sono vincolanti per tutti. In concreto che differenza c’è tra ciò che il popolo ha reso noto di volere con un voto e ciò che esso manifesta di volere con atti?”.

Un altro esempio dell’atteggiamento di Glanville si rileva nel 1185 quando, alla morte dell’abate, sì propose di consegnare al re tutti i possedimenti dell’abbazia stessa inclusi quelli del priore e del convento. Il priore e i frati fecero appello a Glanville, presidente del tribunale. Egli, volgendosi agli altri giudici, disse che i diritti consuetudinari erano stati stabiliti ragionevolmente e giudiziosamente e il re non avrebbe voluto né osato andar contro di essi o mutare di essi qualcosa.

Tutti i giudici accettarono tale punto di vista e il tribunale decise in favore del priore e dei frati.

Il suo pensiero politico era costituzionalistico. Il suo riferimento nel prologo alla massima “quod principi placuit legis habet vigorem” era stata citata come prova della sua dottrina assolutistica. Ma dedurre da una citazione incidentale un’adesione al contenuto è solo prova della fertilità dell’umana immaginazione.

Si può dire senz’altro che questo giurista inglese avesse compreso più chiaramente di molti storici moderni il vero principio della costituzione romana, che non era l’assolutismo, ma la dottrina che il popolo è la sola fonte del diritto; che egli credeva che questo principio valesse per le istituzioni inglesi non meno che per le romane e che queste sue dottrine costituzionali erano rappresentative di quelle fatte osservare nell’Inghilterra medievale.

Ulteriori ragioni per tali conclusioni si possono trovare in Bracton più di sessant’anni dopo Glanvill.

(CAPITOLO 4) COSTITUZIONALISMO NEL MEDIOEVO

Tra Glanvill (fine del XII secolo) e Bracton (metà del secolo successivo) lo sviluppo delle istituzioni politiche inglesi procede rapido.

Ma nulla, come il libro sulle leggi e le consuetudini inglesi di HENRY DI BRATTON (o BRACTON), testimonia con piena chiarezza la vera natura dei principi generali su cui si fonda la costituzione dell’Inghilterra medievale.

L’opera di Bracton è un’opera di giurisprudenza. Senza dubbio ha come su oggetto la legge inglese; ma a nessun lettore può sfuggire la grande influenza che su esso ha esercitato una scienza molto più antica e molto più comprensiva di ogni “diritto di ragion secondaria” e “particolare” d’Inghilterra: il diritto romano.

Bracton non aveva alcuna intenzione di sostituire il diritto inglese con quello romano: era già troppo osseo per poter essere modificato da dottrine straniere.

Volendo stabilire quale era il debito di Bracton verso i romanisti, in primo luogo egli ha trovato in essi certi ampi principi di giurisprudenza, elevate premesse di ogni diritto civilizzato, espresse in termini chiari e accurati.

In secondo luogo, vi sono esempi in cui norme meno generali e più specificamente romane sono adottate o proposte per risolvere casi concreti.

Il debito più grande è meno facilmente definibile: Bracton si è impadronito dello spirito più che della sostanza. Ciò che ha assimilato non è tanto questa o quella regola, ma un metodo di ragionare sul diritto, di intendere i nessi che rendono le varie norme interdipendenti, di concepirle tutte come le parti di un solo ordinamento.

Questo “spirito”, che anima l’opera di Bracton, tocca il diritto pubblico come il privato.

Vi sono delle proposizioni abbastanza originali di Bracton, da cui si ricava l’essenziale del suo pensiero costituzionale.

Una delle più significative è la citazione che egli fa dell’affermazione di Papiniano: “Lex est communis rei publicae sponsio” e l’applicazione di essa al diritto inglese.

Un altro esempio s’incontra nella Introductio, parafrasi del prologo di Glanvill: “Mentre in quasi tutte le regioni si usano le leges e il diritto scritto, dentro i confini dell’Inghilterra hanno valore le leggi non-scritte e le consuetudini. Tuttavia, non sarà assurdo chiamare le leggi inglesi leges, anche se sono non-scritte, poiché qualsiasi cosa è giustamente stabilita e approvata col consiglio e il consenso dei magnati e il comune impegno della repubblica e l’autorità del Re o del principe che ha la precedenza, può avere la forza di una lex…”.

Si rileva anche la massima di Ulpiano “quod principi placet legis habet vigorem” ed è interessante paragonare la proposizione di Giustiniano con il più tardo commento di Bracton. Mentre il primo dice che la volontà del principe ha forza di legge “perché” (cum) il popolo gli ha concesso con una lex regia l’intera sua autorità, il secondo afferma che quella volontà ha forza di legge “secondo la legge regia (cum lege regia) che è stata fatta”.

Per Giustiniano la volontà del principe è legge, perché (cum) il popolo gli ha concesso tutto il suo potere; Bracton, invece, dice che la volontà del principe è legge insieme con, cioè in accordo con la lex regia; e questa lex regia non riconosce nulla al di là di una vera definizione di ciò che la legge è realmente, promulgata dall’autorità del re solo dopo discussione coi magnati e dietro loro avviso.

Quella di Giustiniano è la dottrina di un assolutismo pratico; quella di Bracton sembra essere una chiara asserzione al costituzionalismo.

Bracton conosceva il significato vero della frase originale ma volge quell’evidente affermazione di assolutismo in un’affermazione di costituzionalismo con dei metodi eroici, come il mutare una congiunzione causale in una preposizione e l’omettere il riferimento alla concessione di tutto il potere al principe.

Il passaggio in questione s’incontra, in Bracton, subito dopo una menzione del giuramento d’incoronazione. E’ lecito dedurre che egli considera il giuramento fatto dai Re d’inghilterra, al momento della loro incoronazione, come qualcosa di analogo alla lex regia in virtù della quale gli imperatori romani ricevevano, l’imperium e la potestas.

Il giuramento era per Bracton la lex regia inglese. Non si tratta qui di una lex regia che, come quella delle Insitutiones, conferisca al principe tutto il potere del popolo; ma è una lex che limita l’autorità del sovrano e lo costringe ad agire conformemente alle sue solenni promesse.

Solo quando un’espressione della volontà del principe è conforme alla lex regia che la sua volontà diventa vincolante.

Sembra evidente che, per Bracton, la monarchia inglese era molto lontana da un dispotismo del tipo di quello giustinianeo.

Vi sono, tuttavia, altri passi della sua opera, che fanno giungere a conclusioni nettamente opposte.

In quello stesso da noi appena utilizzato, Bracton dice che il re “non dovrebbe avere un pari, e ancor meno un superior”; e appoggia tale affermazione citando il codex di Giustiniano.

Il che indica che il limite all’azione del sovrano è imposto dal sovrano stesso e per sua spontanea volontà.

In altro luogo, l’autore scrive che “né i giudici né le persone private possono o devono discutere intorno agli editti o agli atti del re”; il sovrano, quindi, non è sottoposto a nessuna autorità umana.

L’apparente contraddizione tra le differenti proposizioni di Bracton portò nei secoli successivi a una duplice tradizione, una costituzionalista e l’altra assolutista.

Nei grandi processi di stato, sotto gli Stuart, sulle infrazioni da parte del re dei diritti o delle libertà dei sudditi, Bracton è quasi sempre citato da entrambi, oppositori e difensori della prerogativa regale; e le citazioni hanno tutte l’apparenza della plausibilità.

Bracton era un assolutista o un costituzionalista, o uno sciocco? Questo è il problema.

La sola risposta ragionevole è che egli era uno sciocco. Sembra impossibile che un uomo sano abbia potuto affermare che il re non ha un suo pari e ancor meno un superior, e che nessuno possa mettere in dubbio i suoi atti; e che abbia potuto, insieme, soggiungere che la volontà del re non è legge se non nella forma di una proposizione cui l’assenso dei magnati è necessario.

Il problema di Bracton è in realtà il problema stesso di tutta la dottrina costituzionale medievale.

V’è in Bracton un passo molto importante, che dà, a nostro giudizio, la soluzione dell’apparente contraddizione.

Esso contiene la chiave per penetrare nel problema più importante del costituzionalismo medievale e s’incontra in una sezione dedicata al possesso dei beni esterni e in cui dopo aver trattato dei beni materiali l’autore si volge a quelli immateriali, come i “diritti” e le “libertà”.

Nella sua analisi di questi ultimi Bracton considera il problema di chi può concederli e di quelli che spettano al re.

In queste proposizioni troviamo una summa del regime inglese alla metà del secolo tredicesimo.

Se confrontate con le precedenti si può dedurre una soluzione alla contraddizione.

Bracton, in primo luogo dice che il re ha per sé il governo, il gubernaculum del reame. Gli atti di governo sono nelle mani del re soltanto: egli non ha pari e molto meno un superior, e nessuno, neppure un giudice può mettere in discussione un atto propriamente regale o può revocare in dubbio la sua legittimità.

Vi è qui una distinzione tra governo e legge, tra gubernaculum e iurisdictio. E nel governo il re non solo è l’unico amministratore, ma ha anche il diritto e deve avere tutti i poteri necessari per un’amministrazione effettiva: egli ha “nelle sue mani” tutte le cose “connesse” al governo.

Il governo non include la giurisdizione. Ma per l’attività di governo e per gli affari “connessi”, il re è propriamente un autocrate; è “assoluto”, non ha pari, e i suoi atti sono letteralmente fuori discussione.

Uno dei tratti essenziali del costituzionalismo di Bracton è certamente la netta separazione che egli fa tra gubernaculum e iurisdictio, accordando al re un’autorità irresponsabile ed autocratica per il primo, ma solo per esso.

E questo è anche il solo tratto importante della nostra dottrina costituzionale medievale che ha corso il rischio di andare smarrito nei più moderni sviluppi del pensiero politico per lo scarso rilievo attribuitogli.

Da queste cose su cui il re ha poteri discrezionali e che costituiscono il suo gubernaculum dobbiamo ora volgerci verso quella che Bracton chiama iurisdictio.

La parola iurisdictio, come il termine lex, è impiegata da Bracton talvolta in senso ampio, talvolta in senso più specifico, nel senso più ampio essa include tutta l’autorità del re, ma in molti brani essa è utilizzata in maniera chiaramente distinta da gubernaculum, in modo che questi due termini uniti costituiscono l’insieme dei poteri della Corona.

L’aspetto della iurisdictio, che è molto importante per la nostra tesi, è ovviamente quello negativo: il fatto che nella iurisdictio, a differenza che nel gubernaculim, il diritto è qualcosa di più che una mera forza direttiva che doveva guidare la volontà del re ma da cui il re poteva legittimamente non sentirsene legato, poiché egli stesso doveva imporsi da se vincoli di tal genere e se rifiutava, ciò rientrava nei suoi diritti. Questo era vero solo nella sfera del gubernaculum.

Nell’ambito della iurisdictio, al contrario, v’erano limiti al potere discrezionale del re, vincoli stabiliti da una legge positiva e coercitiva. Un atto reale, al di fuori di tali limiti, era ultra vires.

È dunque nella sfera della iurisdictio, piuttosto che in quella del gubernaculum, che troviamo la prova più evidente che nell’Inghilterra medievale la massima romana dell’assolutismo non aveva riconoscimento: in questa, infatti, il re era obbligato per il giuramento a procedere secondo la legge e non altrimenti.

Sebbene i giudici fossero designati dal re e agissero in suo nome, erano legati dal loro giuramento a determinare i diritti del suddito non in funzione della volontà del sovrano, ma secondo la legge; questa non era una teoria ma una pratica concreta e generale tant’è che il re Giovanni volle sostituire la sua volontà a questo diritto, il risultato fu la guerra civile e la Magna Carta.

I giuristi romani avevano distinto tra imperium e iurisdictio ma, al tempo di Giustiniano, la volontà dell’imperatore dominava l’uno e l’altra, come dimostra l’ordine di Giustiniano stesso per i compilatori dell’antico diritto di fare, in forza della sua sola autorità, tutti quei cambiamenti giudicati necessari.

Nell’Inghilterra medievale, invece, mutamenti di questo genere potevano essere fatti solo per quegli atti che il re aveva nelle sue mani. Nel campo dell’attività di governo la massima assolutista delle Institutiones era pienamente applicata; in quello della iurisdictio questa applicazione non vi fu mai.

Della distinzione illustrata dal Bracton è necessario mostrare ciò che ne persiste dopo lo stesso Bracton e se merita l’importanza attribuitale.

La testimonianza più conveniente è quella di Sir JOHN FORTESCUE e del suo libro Governance of England. Egli si serve di una formula per indicare il sistema inglese, espressa nella frase regimen politicum et regale; l’aggettivo politicum si riferisce alla iurisdictio e il regale al gubernaculum di Bracton.

Questa formula è stata molto discussa; era abituale identificare il regale col gubernaculum; con il politicum si intendeva che fossero introdotti, nel governo come nella giurisdizione, i pari che per Bracton non avevano parte nel primo ma solo nella seconda.

La differenza tra queste due contrastanti interpretazioni sta nelle diverse connotazioni date da Fortescue alla parola politicum.

Il politicum di Fortescue non implica un organo di governo responsabile d’innanzi al popolo e indipendente dal re, con autorità di controllare gli atti della sua amministrazione. Al contrario politicum non sembra in contraddizione con le affermazioni di Bracton che, per quel che riguarda l’attività di governo, il re non ha pari e molto meno un superior.

Per Fortescue, come per Bracton, ciò non significa nulla di più che un limite legale al governo del re.

Per Fortescue, come per Bracton non vi era e non poteva esservi governo legittimo in Inghilterra, se non il governo del re.

Come era vero per il secolo XIV, lo era per il XV che il fatto fondamentale è che il re governava il paese, e, per quanto ricevesse consigli restava da ultimo responsabile per tutti gli atti esecutivi. Fortescue dice che il governo inglese era un regimen politicum et regale, cioè insieme politico e monarchico e questi non erano per lui termini che si escludevano l’un l’altro. Resta vero che la dottrina costituzionale di Fortescue è piuttosto medievale che moderna e che comprende ancora i concetti essenziali della teoria dello Stato di Bracton.

Se questa interpretazione della dottrina di Fortescue è corretta, non abbiamo trovato in lui traccia della moderna dottrina repubblicana o democratica del controllo dell’amministrazione nazionale; ciò significa che nelle parole di Fortescue non vi è nulla della moderna teoria o pratica dei “freni e contrappesi”. Il governo era un potere discrezionale concentrato nelle mani di un singolo: della dottrina costituzionale medievale ha scarsa rilevanza il fatto che molti funzionari o consigli potessero essere impiegati da un re medievale, se tutta la loro autorità era comunque una delegazione di potere discrezionale del re.

Nel Medioevo, vi era la minaccia della rivolta contro un governo oppressivo ma tale freno non poteva essere considerato costituzionale o legittimo.

Il governo, vero e proprio, distinto dalla iurisdictio, era “limitato” non da un controllo politico coercitivo ma solo dall’esistenza di diritti definibili per legge e non per la mera volontà del sovrano.

Se un tale sistema non avesse avuto gravi difetti, sarebbe sopravvissuto fino ai nostri giorni, senza bisogno dell’aggiunta di un controllo dell’amministrazione: i principi della Digna Vox non erano una protezione sufficiente della libertà e del diritto contro la volontà arbitraria.

L’aggiunta del moderno controllo politico del governo ai limiti della sua attività richiese una rivoluzione che si ebbe in Inghilterra solo alla fine del XVII secolo, in Francia solo alla fine del XVIII e costò ad entrambi paesi molto sangue.

(CAPITOLO 5) DAL MEDIOEVO AI TEMPI MODERNI

Come s’è visto, il principale punto devile di tutta la dottrina costituzionalistica medievale consiste nella sua incapacità a comminare una pena, eccettuata la minaccia dell’esercizio della forza rivoluzionaria, contro quel principe che concretamente calpesti quei diritti dei suoi sudditi.

Si può chiaramente riconoscere questo difetto senza negare l’esistenza di una dottrina costituzionale nel medioevo.

L’importanza del periodo che tratteremo consiste proprio nel tentativo, e nel finale successo di questo tentativo, di assicurare una precisa sanzione per i diritti dei sudditi contro la volontà arbitraria del principe.

La lotta del diritto sull’arbitrio è stata lenta e tarda ed ha prodotto un costo terribile di sangue e ricchezze e ha necessitato di una vera e propria rivoluzione.

Se non vi fosse stato uno scisma religioso come quello che vi è stato, il costituzionalismo medievale, con la fatale debolezza delle sue sanzioni, sarebbe stato spazzato completamente via dal potere nazionale concentratosi in un principe che non doveva più sottomettersi ai diritti e alle rivendicazioni di una moltitudine di potenti signori feudali.

Il grande problema del XVI secolo fu il conflitto tra il vecchio gubernaculum e la vecchia iurisdictio.

In tale periodo, secondo le apparenze, la iurisdictio era destinata ad essere sommersa dal gubernaculum; e se le dottrine della quasi illimitata obbedienza fossero rimaste immutate, la iurisdictio sarebbe davvero scomparsa del tutto.

Tra i vari esempi di queste dottrine può essere sufficiente ad illustrare la situazione quello di William Tyndale che nel 1528 scrisse il suo trattato dell’Obbedienza di un Cristiano. Sarebbe difficile esprimere la teoria dell’assolutismo monarchico in termini più estremi o più imperiosi.

La iurisdictio fu salvata dalla morte da due cose: la resistenza dell’antico diritto consuetudinario inglese e l’emergere di nuove e radicali discordie religiose tra i sudditi del re.

La prima di queste influenze è stata chiarita da Maitland in alcune brillanti conferenze.

Appunto in questo periodo, il diritto romano fu introdotto in Germania e vi era una seria minaccia che fosse parimenti introdotto anche in Inghilterra. Dal punto di vista politico o costituzionale, ciò che dava valore al sistema romano agli occhi dei suoi difensori del secolo XVI non era, come per Glanvill o per Bracton, la sua origine popolare, ma piuttosto la tendenza dispotica contenuta nella famosa massima “ciò che piace al principe ha forza di legge”; in ogni modo, l’attacco romanistico fu un fallimento e la iurisdictio contribuì grandemente a questo risultato.

Il risultato finale sarebbe stato, però, diverso se la forza della iurisdictio fosse stata controbilanciata da un governo sostenuto dall’appoggio unanime di sudditi che avessero continuato a pensare del re quel che Tyndale pensava.

Il governo non ha trovato, però, tali sostegni per via delle discordie religiose che cominciarono a diventare veramente importanti a partire dalla metà del secolo.

Il dovere di mantenere la Chiesa era un obbligo a cui il principe era legato dal suo stesso giuramento d’incoronazione; la trascuranza di un tal dovere era considerato un misfatto grave quanto la violazione di un diritto e agli occhi di molti era assai più serio, perché metteva in pericolo l’anima immortale.

Nella lotta tra iurisdictio e gubernaculum non fu soltanto la resistenza del diritto inglese che salvò quella dalla distruzione; ma fu anche, in parte, la debolezza del governo.

Si potrebbe porre in dubbio la sopravvivenza della iurisdictio nel periodo dei Tudor.

Tenteremo di dimostrare la persistenza della iurisdictio e quindi la distinzione tra essa e il gubernaculum. E ci volgeremo, così, al principale contributo dei secoli XVI e XVII al moderno pensiero costituzionalistico, il cui sviluppo culmina appunto in una nuova sanzione, che si aggiunge alle antiche limitazioni legali al governo ereditate dal Medioevo.

Nella trasmissione ai nostri tempi di tali limiti la parte dell’Inghilterra è più importante di quella di qualsiasi altro paese europeo: la storia del costituzionalismo nel periodo critico del 500 e del 600 è innanzitutto la storia di alcuni aspetti della costituzione inglese.

In Inghilterra, nei secoli XVI e XVII, la iurisdictio dovette fronteggiare le usurpazioni da parte del governo, anche se non fu apertamente sopraffatta e se la vecchia linea di separazione tra essa e il gubernaculum fu indebolita ma non distrutta.

La storia costituzionale di questo periodo è la storia di un attacco inglese a questa linea e di una difesa inglese.

Per prima cosa, si pone in chiaro la sopravvivenza della iurisdictio e lo si può fare con le fonti giuridiche del periodo. Qualche lettera di Stephen Gardiner, cancelliere d’Inghilterra durante il regno della Regina Maria è altrettanto significativa. Egli, nel 1547, dice che “un’azione contraria ad un Act del Parlamento non è scusata, anche in caso di tradimento ed anche se colui che l’ha fatta ha agito per ordine del Re”.

Gardiner infine racconta un episodio del regno di Enrico VIII che fornisce la più chiara prova delle sue tesi difensive: “Lord Cromwell aveva messo nella testa del Re che la sua volontà e il suo piacere fossero considerati come legge: questo significava essere veramente un re.

Una dozzina di anni dopo, nel primo anno del regno di Elisabetta, John Aylmer, vescovo di Londra, scriveva il suo libro; esso contiene un’affermazione di costituzionalismo appena meno impressionante di quella di Gardiner.

Queste proposizioni sono notevoli per più aspetti e non solo per una data così antica come il 1559: esse includono non solo un’inequivocabile affermazione delle antiche limitazioni all’autorità del principe, ma anche un’asserzione della monarchia mista come la vera forma del governo inglese.

In più, pongono la materia della guerra e della pace in potere del parlamento invece che del re soltanto: principio che non fu mai seriamente dibattuto in Parlamento prima del 1621.

Che l’asserzione di Aylmer fosse vera e che in Inghilterra non tutto dipendesse dalla volontà della regina ma dalle leggi scritte, è ampiamente provato dalle fonti giuridiche dell’epoca, come i sommari del giudice Jenkins dei casi della Camera del Tesoro.

Per essere un vero sovrano il principe deve far valere la sua volontà come legge: questo era il pensiero di Thomas Cromwell.

Sembra probabile che il dialogo tra Cromwell e Gardiner a Hampton Court fosse il preludio del tentativo di Enrico VIII di mettere in pratica la concezione della regalità di Cromwell con lo Statute of Proclamations del 1539. E sembra egualmente probabile che la lode di Aylmer si riferisse agli uomini della Camera dei comuni che costrinsero il re a sostituire il suo originale progetto con un altro.

Evidentemente una lotta tra volontà e legge ebbe luogo in Inghilterra intorno all’anno 1539, e fu l’ultima per centocinquant’anni. Che essa non sia divenuta una vera e propria guerra aperta prima degli Stuart si deve spiegare innanzi tutto con la natura del Parlamento nel periodo dei Tudor.

La Regina Elisabetta è poco probabile che pensasse al parlamento come a un’istituzione permanente: non vi era una branca coordinata di governo ma piuttosto una speciale assemblea riunita di volta in volta conosciuta come Parlamento.

Nei quarantacinque anni del regno di Elisabetta vi furono solo undici parlamenti, la cui durata fu raramente più lunga di qualche settimana; le origini del Parlamento come organo normale e regolare del governo inglese vanno rintracciate solo dopo la Restaurazione.

Infatti, anche nei periodi comparativamente brevi in cui il parlamento era in sessione l’influenza del re era predominante e il carattere “assoluto” del suo governo era riconosciuto dal parlamento stesso.

Mai fu dimenticato, dal re o dal parlamento, che il re era la vera testa.

Interessanti esempi dell’insistenza della regina sul principio secondo il quale il governo vero e proprio non era affare parlamentare ma del principe soltanto, s’incontrano in quasi tutti i parlamenti di Elisabetta a partire dal 1566.

Sembra ragionevolmente certo che la linea di distinzione così chiaramente tracciata da Bracton nel Trecento, tra iurisditio e gubernaculum resta ancora, alla fine del secolo XVI, la migliore guida per comprendere la costituzione inglese. Alla fine del regno di Elisabetta, tutti sembrano accettare, la duplice teoria secondo la quale il re è sottoposto alla legge, ma non è sottoposto a nessun uomo, mentre il diritto dei privati è determinato e protetto dalla legge ed è sotto il controllo dei tribunali e dei parlamenti.

Ma tale delicato equilibrio tra giurisdizione e governo resta tale se la testa e le membra del regime restano “unite e formano insieme un solo corpo politico”, diceva Enrico VIII.

Ora il legame che le univa mostrava segni di strappi già nel regno di Elisabetta; e, sotto il successore di lei, cominciarono ad apparire delle lacerazioni, che presto si allargarono fino a dividere lo Stato.

Nella contesa tra iurisdictio e gubernaculum, che cominciò negli ultimi anni del regno di Elisabetta e si svolse apertamente sotto il suo successore, ogni parte metteva in evidenza il fatto che i suoi diritti erano una “eredità”.

Giacomo stesso insistette sempre sui suoi diritti reali come ereditari. Per lui le leggi fondamentali davano protezione a lui soltanto e non ai sudditi; e tali erano quelle con cui è mantenuta la discendenza del Re e l’eredità della successione e della Monarchia. Non facevano parte della common law e perciò non erano adatte alla lingua di un giurista nell’alta Corte del Parlamento che restava per Giacomo solo una “corte giudiziaria subalterna” e “non era possibile a ogni sconsiderato e scervellato di proporre nuove leggi di sua propria invenzione”.

Ancora, nel 1621, ordinava che “nessuno può mescolarsi con qualcosa che concerna il nostro governo e che essi fossero capaci di punire ogni uomo che si conduca male in Parlamento così durante le sedute come dopo. Noi non possiamo approvare di chiamare privilegi parlamentari i vostri antichi e indubbi diritti ed eredità, ma possiamo soltanto considerare che i vostri privilegi sono derivati da grazie e concessioni dei nostri antenati e nostre e sono più una tolleranza che un diritto ereditario. State in guardia dall’usurpare le prerogative della Corona!”

La vera natura e gravità di tale questione sono indicate nelle repliche a queste affermazioni del re fatte da uomini come Thomas Wentwort ed Edward Coke.

Il primo disse: “le leggi consuetudinarie sono tradizionali: noi reclamiamo le nostre libertà allo stesso titolo che voi i vostri stati, per tradizione”.

Coke, invece: “quando il re dice che non può ammettere le nostre libertà di diritto, egli colpisce alla radice. Noi serviamo qui per migliaia e decine di migliaia”.

In queste repliche si trova il primo accenno del futuro sviluppo costituzionale della responsabilità del governo innanzi al popolo, non solo sul piano della giurisdizione ma su quello politico.

La crisi del 1621 segna l’inizio del nuovo principio di responsabilità politica che rafforza le vecchie garanzie giurisdizionali per la protezione dei diritti dei sudditi minacciati dalla volontà arbitraria del sovrano. Il Parlamento cominciava a essere “la grande massa del paese” e cominciava ad agire in suo nome e nel suo interesse contro un capo, i cui diritti ereditari non potevano più a lungo essere conciliati con le libertà dei membri dello Stato.

Il principio del consenso del popolo che Coke e Wentworth riaffermano nel 1621, è antico. Era il fondamento originario del potere vincolante delle leges nella Roma repubblicana, ed era stato fatto valere da Bracton quando questi aveva riaffermato il principio di Papiniano secondo il quale la lex è impegno comune dello Stato (“lex est communis rei publicae sponsio”) e come quando aveva ribadito che le leggi “non potevano essere mutate o annullate senza il comune consenso di tutti quelli che avevano contribuito col loro consiglio e consenso a promulgarle”.

Ad esso si riferiva Eduardo I nei suoi appelli al Parlamento del 1295 ed esso è implicito nel rifiuto del Parlamento nel 1366, della supremazia papale in Inghilterra e in Irlanda, poiché “nessuno poteva porre il reame o il suo popolo sotto una siffatta supremazia senza il consenso e l’accordo del Parlamento stesso”.

Il principio era antico ma dovette passare molto tempo prima che divenisse egualmente chiaro.

Nel 1621, la vecchia dicotomia di giurisdizione e governo veniva mostrando, visto il rapido accrescersi del potere monarchico, la sua debolezza: la mancanza di sanzione per la protezione della sfera del diritto dall’invasione del potere del governo.

Si cercò di ricollegarsi a certi precedenti, però, veramente inadeguati.

Era necessaria una punizione per le infrazioni dei diritti e non ve ne era alcuna.

Nient’altro se non una rivoluzione, poteva aggiungere la sanzione necessaria ad assicurare le libertà legali del popolo.

La iurisdictio segnava, infatti, i limiti dell’autorità del re ma non provvedeva i mezzi per costringerlo all’osservanza di tali limiti. Una difficoltà pratica derivava dall’effettiva indistinzione della linea che divideva la sfera del governo regio e del diritto privato, e dalla facilità con cui questa linea poteva essere ignorata dal re.

Esempio interessante di ciò è offerto dalla storia della tortura giudiziaria in Inghilterra.

Era affermato che “la tortura non è usata in Inghilterra, poiché essa è per gli schiavi”.

Tuttavia l’uso concreto di tali crudeli tormenti nell’Inghilterra di Elisabetta e di Giacomo I è attestato da prove indiscutibili. L’anomalia di questi casi era spiegata alla luce del fatto che fosse una pratica trasmessa e giustificata da una serie di precedenti come una prerogativa indiscutibile della Corona anche se in contrasto con i principi fondamentali della ragione e del diritto.

L’illegalità della tortura, in senso stretto, è vera; essa non era giusta secondo la common law, era contraria alla Magna Charta e a molti statuti e perciò i giudici non potevano infliggerla come punizione nel corso dell’ordinaria amministrazione della giustizia. Ma era giuridicamente valida come atto di prerogativa, potere superiori alle leggi e capace di sospenderne l’esecuzione. La tortura è così solo un caso di vecchio parallelismo di iurisdictio e governo.

La prerogativa del re non era solo fuori del corso della common law; essa minacciava anche di essere sopra di essa.

Altri esempi delle relazioni tra governo e giurisdizione, nel periodo critico del costituzionalismo all’inizio del secolo XVII si possono facilmente addurre ma, di tutti, i monopoli sono l’esempio più significativo.

Il monopolio era una branca della prerogativa regia nella sfera del suddito, una concessione fatta in virtù della assoluta autorità del re, incontrollabile da ogni legge e indiscutibile dai sudditi anche nell’Alta corte del Parlamento.

Esso era, come diceva Elisabetta nel 1597, “il maggior fiore del suo giardino è più grande perla nella sua Corona e nel suo Diadema”. Questi monopoli erano palesemente contrari agli statuti e alla common law ed erano oppressivi nei loro effetti concreti.

Fino a uno o due anni prima della sua morte, Elisabetta, non ebbe dubbi che i monopoli erano solo affar suo e riteneva che non erano fatti per la lingua di un giurista.

In seguito ad un reclamo, per un brevetto ritenuto contrario alla legge, la Camera dei comuni si occupò della questione (nonostante la prerogativa regale non potesse essere messa in questione) nonostante i ministri raccomandassero un’umile petizione alla regina. Era piuttosto risoluta nel procedere con una legge per restringere la prerogativa regale, un metodo senza precedenti.

Elisabetta, su annuncio del presidente della camera, promise piena riparazione per tutti i reclami. Inoltre aggiunse “qualunque brevetto è concesso sarà lasciata, per impugnarlo, una libertà accordabile con legge ma che se uno dei sudditi poteva presumere di mettere in questione il potere o la validità della prerogativa regale annessa alla sua corona, avrebbe ricevuto severe punizioni secondo le loro colpe”.

La resa era solo virtuale.

La minaccia contro la legge e la giurisdizione e contro tutti i diritti legali, inerente in una prerogativa con i limiti così vaghi e indefiniti come quella di Elisabetta era evidente.

Solo i primi due Stuart avrebbero eliminato senza più indugi quell’incertezza che ancora durava negli animi nel 1603.

(CAPITOLO 6) IL COSTITUZIONALISMO MODERNO E I SUOI PROBLEMI

Per completare l’analisi dell’evoluzione storica del costituzionalismo moderno bisogna trattare ancora tre punti fondamentali: la concezione prevalente nell’Inghilterra degli Stuart, il sorgere del convincimento che la legge esistente non era una sufficiente garanzia delle libertà dei sudditi senza l’aggiunta di sanzioni, che nessun precedente costituzionale fino al 1603 prevedeva e i problemi costituzionali del mondo.

La concezione costituzionale nei primi anni del regime degli Stuart non sembra molto diversa da quella del periodo dei Tudor. Ciò che si scriveva dell’Inghilterra del 1551 era ancora vero subito dopo il 1603: “il Re d’Inghilterra esercita due poteri: il primo monarchico e assoluto, il secondo ordinario e legale”.

Il potere del Re è duplice, ordinario e assoluto: due poteri che hanno principi diversi e fini diversi.

Il potere ordinario è volto al profitto dei sudditi, per l’esecuzione della giustizia civile e la determinazione del meum; è esercitato con equità e giustizia nei tribunali ordinari ed è chiamato dai civilisti ius privatum e da noi common law. Queste leggi non possono essere mutate senza il Parlamento.

Il potere assoluto del Re non consiste in ciò che è volto al beneficio di una persona particolare, ma consiste in ciò che è volto al beneficio generale del popolo, ed è la salus populi; il popolo è il corpo e il Re è la testa.

Come la costituzione di questo corpo varia, varia anche tale legge assoluta secondo la saggezza del re, per il bene comune.

Edward Coke ammetteva che questa era una prerogativa indiscutibile. Lo stesso Giacomo I parlava di essa come della sua “publica prerogativa”, “non adatta alla lingua di un giurista”.

Sembra evidente che essa era niente più e niente meno che il vecchio, familiare gubernaculum di Bracton.

Questa dottrina era quasi universalmente accettata durante il regno di Giacomo I, come lo era stata nel periodo dei Tudor. Tuttavia, gli uomini divennero gradualmente sempre più consapevoli della minaccia mortale alla loro libertà che essa involgeva.

Nel 1627 Robert Heath, procuratore generale, dichiarava: “ il Re non può imporre di procedere altrimenti che secondo le leggi di questo Reame…Ma c’è una profonda differenza tra quei comandi conformi al diritto e l’absoluta potestas, che un sovrano ha e in forza della quale un re comanda. Può qualcuno dire –il Re non può fare ciò?No; Noi possiamo dire soltanto – egli non vorrà fare ciò. E’ pericoloso invocare fiduciosamente precedenti..”.

La verità è che i precedenti giuridici in materia di governo erano in favore del Re.

Nel diritto vigente non vi erano rimedi e vi erano invece serie difficoltà, che chiedevano un rimedio. Era la crisi del Parlamento.

La lotta costituzionale del secolo XVII non fu così semplice come le storie vorrebbero talvolta fa credere: essa non fu un chiaro confronto tra dispotismo e libertà. La chiave, anche per questa difficoltà, resta la vecchia distinzione tra iurisdictio e gubernaculum, su cui ci si è fermati prima, ed è una chiave che è stata usata troppo poco.

La verità è che l’Inghilterra era quasi matura per la rivoluzione, ma nessuno avrebbe osato confessarlo.

Vi erano, da una parte, uomini che consideravano gli antichi diritti legali danneggiati da un re che poteva usurparli impunemente; dall’altra, vi erano uomini che resistevano ad ogni tendenza ad imporre al re limiti che non erano mai stati imposti prima. Gli uni invocavano soltanto i precedenti dell’antica iurisdictio; gli altri, altrettanto correttamente, potevano citare innumerevoli esempi di atti di governo, che andavano al di là o anche contro la common law.

Da una tale difficoltà non vi era altra via d’uscita, se non la rivoluzione.

Vi fu lo scontro tra due concezioni costituzionali che, col tempo, divennero inconciliabili. I re Stuart non ne furono certamente la causa ma si può, tuttavia, far loro la colpa che la lotta fu affrettata e la sanguinosa conclusione fu accresciuta da una stupidità, arroganza, incostanza e testardaggine regale senza pari nella storia.

Inoltre, la notizia che nelle corti di giustizia non vi fossero uomini rigidamente imparziali ma molti corrotti ha influenzato lo studio di questa fase critica dello sviluppo delle idee e delle istituzioni costituzionali. Tuttavia, non v’è in tutta la storia costituzionale periodo più importante di questo e che più di questo richieda una ricostruzione prudente e obiettiva, che tenga esatto conto dei precedenti come delle condizioni contemporanee. Ed è, appunto, nell’analisi dei precedenti che la persistenza dei vecchi e familiari concetti di iurisdictio e gubernaculum si rivelerà della massima importanza.

L’argomento che segue a questo, in un ordine logico di trattazione, non può essere altro che il rovesciamento, da parte dei rappresentanti in Parlamento del popolo inglese, delle dottrine costituzionali contenute nei giudizi dei tribunali inglesi, il rafforzamento, cioè, dei diritti dei sudditi mercè l’aggiunta, per la prima volta, di un controllo legale e politico sul governo, sufficiente a proteggere questi diritti dagli abusi regali.

Questo controllo sull’antica potestas absoluta implicava una vera e propria rivoluzione nelle istituzioni e nelle idee politiche inglesi.

Non è necessario narrare gli avvenimenti drammatici tra il 1621 e il 1689; è più importante considerare la natura dei mutamenti costituzionali che causarono.

Il più rilevante fu la costruzione di un re responsabile per l’attività di governo come per la giurisdizione, e responsabile non soltanto innanzi a Dio ma innanzi alla legge e innanzi al popolo. Restava Legibus solutus ma questo significava che la sua persona era sottratta alla forza coercitiva della legge, non più, come per i Tudor, che i suoi atti ufficiali fossero fuori dalla competenza delle corti o fossero sottratti al controllo politico dei rappresentanti del popolo nel parlamento.

Da un punto di vista strettamente giuridico il re non può essere ingiusto.

Dal 1689 tutto questo era mutato o stava rapidamente cambiando.

La reazione successiva all’esecuzione di Carlo I aveva provato la necessità di esentare il re personalmente da ogni responsabilità criminale: in questo senso il sovrano poteva ancora “ non essere giusto “, era ancora legibus solutus.

Ma la vecchia massima ha acquistato un significato nuovo: non più che il re non poteva violare la legge, ma che la violazione della legge non poteva essere considerata un atto del re. Un singolo atto ingiusto del re non era legale, perché il re non può essere ingiusto: l’assoluta perfezione del principe era un fatto pregiudiziale.

Viene fuori è una nuova responsabilità del re per gli atti di governo, e non è soltanto per la iurisdictio, ma per l’intero campo del gubernaculum; Mattew Hale, in due suoi saggi, la aggiunge alla potestas coercitiva e potestas directiva, in cui nel Medioevo era distinto il potere del governo. E’ la potestas irritans actus contrario, il potere di rendere nulli gli atti contrari alla legge. Sebbene il Re per tali atti non sia soggetto al potere coercitivo, gli strumenti e i ministri, immediati esecutori di queste cose illegali, sono soggetti al potere coercitivo della legge e il re non può fare nulla per giustificare o difendere i suoi ministri. Questa è una delle ragioni per cui il re non può essere ingiusto, poiché ciò che è ingiusto e contrario al diritto non è un atto del re ma del ministro o funzionario che ha messo in esecuzione i suoi ordini.

La nuova responsabilità è solo una responsabilità innanzi alla legge, contestabile legalmente dai tribunali contro i ministri della corona: la sua effettività, come pratica protezione dei diritti individuali, era dunque discutibile fino a quando il potere giudiziario non fu dichiarato assolutamente indipendente dal re con l’Act of Settlement del 1701.

Ma neppure questo fu veramente sufficiente: il processo di rafforzamento e di garanzia dei diritti individuali contro l’arbitrio governativo fu completo soltanto quando a questa potestas irritans, meramente giuridica e negativa, fu aggiunto il positivo controllo politico del governo da esercitarsi da parte dei rappresentanti del popolo in Parlamento.

La responsabilità giuridica fu, così, rafforzata dalla responsabilità politica; e il popolo ebbe così il potere di licenziare un ministro perché ne disapprovava la politica, senza che vi fosse una violazione della legge.

Raccontare nei dettagli la nascita di questi ultimi principi politici non è possibile, se non con qualche esempio illustrativo, che mostri alcune fasi del processo attraverso il quale il moderno principio democratico del controllo politico del popolo sul governo derivò dai poteri fino allora concessi soltanto da re.

Il re era il supremo governante e ciò comprendeva l’esercizio di un potere “innato nella persona del re assoluto”.

I poteri concreti del re erano così enumerati dal giudice Crawley nel 1637: dar leggi ai sudditi, fare la pace e la guerra, creare i supremi magistrati, l’estremo appello al re per il perdono dei delitti, il battere moneta, ricevere obbedienza, fedeltà e omaggio, imporre tasse senza il comune consenso del Parlamento.

La lista fatta dopo la Restaurazione, da Matthew Hale, è sostanzialmente la stessa, con l’omissione – veramente significativa – del diritto di imporre tasse senza il consenso del Parlamento e con l’aggiunta del potere di Militia del Reame, che fu la conseguenza immediata della prima guerra civile.

Alcuni di questi poteri erano concessi al re anche dai più estremisti dei suoi avversari.

Il potere di imporre tasse non fu mai ammesso, naturalmente e molto giustamente; il potere della Militia fu rimesso in questione dopo il 1642; le patenti di monopolio resisterono anche dopo il regno di Elisabetta, ma la prima azione statutaria contro di esse si ebbe già nel 1624.

A queste “invasioni” della prerogativa reale non molte altre seguirono, poiché con la Rivoluzione del 1689 il Re stesso divenne debitore del suo titolo al Parlamento e il completo controllo politico dell’amministrazione da parte del Parlamento rese non necessari ulteriori limiti giuridici.

La storia costituzionale è di solito la registrazione di una serie di oscillazioni. Talvolta sono i diritti privati, che si pongono come il problema principale, tal’altra volta è la necessità di prevenire un disordine, che minaccia di mutarsi in anarchia, che passa innanzi a tutto: in generale, il Cinquecento è segnato piuttosto da questa seconda caratteristica.

In Inghilterra, il 600 è, invece, caratterizzato da un’oscillazione verso l’estremo opposto, e il 700, in appartenenza, da un’oscillazione verso la potestas absoluta, ma questa volta, però, si tratta di un potere che ripete la sua autorità dell’assemblea nazionale, invece che dal re.

Tali mutamenti possono essere iscritti nelle mutue relazioni di gubernaculum e iurisdictio. Quando i diritti del governo sono indebitamente rafforzati, quelli degli individui risultano apertamente minacciati; e, per converso, quando questi ultimi diventano più forti, è il governo che diventa troppo debole per mantenere l’ordine.

La costituzione era tenuta come mezzo per bilanciare potere e diritti; bisogna pur riconoscere che nei fatti questa perfetta bilancia non può mai essere mantenuta per molto tempo. Hobbes affermava, infatti, che quegli uomini che sognavano un equilibrio di poteri nello Stato inseguivano un ideale possibile astrattamente ma del tutto impraticabile in termini concreti e fu uno dei primi a credere che una lotta del tipo di quella che si svolgeva in Inghilterra non poteva che terminare con la supremazia assoluta di una delle due parti contendenti.

Il Parlamento, dopo la Rivoluzione inglese, assunse i doveri come molti dei diritti, del re inglese ma restava irrisolto il rapporto tra i due. Certo è che nessun limite politico pratico potè mai essere imposto al potere del popolo.

In concreto, il popolo talvolta si è imposto dei limiti da sé e tal altra non l’ha fatto.

Durante il diciannovesimo secolo vi fu la tendenza a restringere la sfera del governo e ad accrescere i diritti dei cittadini. Ciò portava spesso a una fredda indifferenza di coloro che avevano dei diritti ereditati da difendere: la politica del laissez faire diventava il mantenimento dello status quo ed implicava la protezione di abusi tradizionali.

Fu allora che il pendolo cominciò a muoversi nella direzione opposta: lo Stato si avviava verso la regolamentazione totale, abbandonando la politica delle mani nette.

Queste fasi, nelle condizioni moderne, mutano con estrema rapidità.

La più antica storia del costituzionalismo non può fornire risposte decisive e conclusive a molti di questi problemi, poiché le condizioni attuali sono diverse da quelle del passato. Tuttavia, uno studio attento e imparziale del passato non è privo di valore pratico e può aiutare ad analizzare problemi del presente.

Anzi, è proprio l’antica distinzione tra iurisdictio e gubernaculum a essere un valido aiuto.

Anche noi abbiamo dinanzi la iurisdictio come il gubernaculum e la loro conciliazione resta il nostro più serio problema pratico. Vi è la necessità, come nel passato, di mantenere intatte entrambe le parti, rafforzandole entrambe, facendo attenzione a ogni possibile oppressione dell’una sull’altra.

La minaccia costante è quella rivolta ai diritti della persona.

Mai nella storia gli individui sono minacciati dalle usurpazioni del potere esecutivo come lo sono ora; mai la iurisdictio è stata messa in più gravi difficoltà dal gubernaculum e mai come ora vi è la necessità di individuare il pericolo e di denunciarlo.

Se la iurisdictio è essenziale alla libertà, e la iurisdictio è parte del diritto, è il diritto che deve essere difeso contro l’arbitrio e la sola istituzione essenziale a ciò è un potere giudiziario onesto, abile, preparato ed indipendente. I tentativi degli Stuart di corrompere ed intimidire i loro tribunali dovrebbe essere di lezione a coloro che pensano di avviare riforme sociali e mantenerle senza l’aiuto di tribunali liberi dal controllo dell’esecutivo.

Indubbio che la procedura giudiziaria necessiti di riforma perché troppo lenta e faticosa ma insistere sull’indispensabilità dei limiti legali al potere esecutivo e sul controllo di tali limiti ad opera di tribunali indipendenti non significa indebolire lo stesso potere esecutivo.

Ribadiamo, ciò che risulta utile contro l’arbitrio del potere esecutivo, in aggiunta al limite negativo giuridico della sfera del governo, è la piena responsabilità politica verso il popolo per tutti gli atti positivi che il governo compie nella sua propria sfera di attività.

Ma senza un potere adeguato non può esistere una tale responsabilità: il potere deve essere concentrato ed evidente per tutti.

Il nostro governo, purtroppo, si sta adeguando in misura allarmante al gioco di “passare la mano” e ciò rende impossibile stabilire la responsabilità di atti che non potrebbero essere difesi se la responsabilità stessa potesse essere fissata.

Questa dissipazione del potere esecutivo non è il prodotto di un’antica esperienza politica ma è un’invenzione del secolo XVIII, sono equilibri sconosciuti prima del Settecento e per nulla facenti parte dell’eredità costituzionale inglese.

Il timore maggiore risiede nell’eventualità di spazzar via ogni protezione, giuridica e politica e lasciare gli individui senza difesa innanzi al pericolo sempre attuale dell’arbitrio governativo.

La debolezza, infatti, non è garanzia di costituzionalismo ma è sinonimo di abusi e corruzione.

Indebolire l’esecutivo non ha mai rappresentato un rimedio che invece, risiede, nella iurisdictio posta sotto la protezione di tribunali indipendenti, accompagnata da un gubernaculum forte abbastanza da poter provvedere ai suoi doveri essenziali e regolato in modo tale da assicurare il funzionamento del principio della piena responsabilità innanzi al popolo tutto per la fedeltà ai suoi programmi.

Si necessita, quindi, di equilibrio tra iurisdictio e gubernaculum.

Nell’impero della costituzione scritta in cui viviamo, alcune cose sono classificate come iurisdictio e messe sotto la protezione dei tribunali mentre altre cose sono lasciate a libera discrezione degli organi di governo.

La distribuzione di queste materie tra i due ambiti ha bisogno di costante revisione e aggiornamento.

La più sicura garanzia del vero equilibrio, anche in un governo del popolo e per il popolo, consiste in una costituzione che contenga una siffatta distribuzione e, relativamente al costituzionalismo, i due elementi per cui battersi restano i limiti giuridici al potere arbitrario e una completa responsabilità politica del potere esecutivo innanzi al popolo.

Fonte: http://download1478.mediafire.com/9wk3k20nkmsg/0e0j1ly5zdyuu8o/Riassunto-MC-ILWAN-Costituzionalismo-antico-e-moderno-1.odt

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