La costituzione americana

 

 

 

La costituzione americana

 

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La costituzione americana

 

3. La costituzione americana

 

I primi insediamenti inglesi nel Nord America avvengono nel corso del Seicento: si tratta, per lo più, di dissidenti religiosi, calvinisti o cattolici, che lasciano l’Inghilterra anglicana. L’impronta puritana alimenta un’etica sociale tesa a produrre molto e a consumare poco. Così nel corso del secolo successivo l’economia delle tredici colonie inglesi del Nord America conosce un notevole sviluppo, malgrado la legislazione vincolistica imposta dalla madrepatria, che vieta gli scambi con altri paesi senza la sua intermediazione. L’incremento è alla radice di una profonda discordanza fra le necessità delle colonie e la politica condotta dal governo inglese. I coloni americani, obbligati ad accettare la mediazione inglese nel loro commercio d’esportazione, registrano profitti risultano decisamente decurtati.

Se questa condizione di sostanziale dipendenza colpisce l’esportazione del tabacco, del riso, del cotone (prodotti dagli Stati del Sud: Virginia, Maryland, Nord e Sud Carolina e Georgia), del grano e del legname (provenienti dal Centro: New Jersey, New York, Delaware e Pennsylvania), maggiormente danneggiati risultano gli interessi delle colonie del Nord (New Hampshire, Massachusetts, Rhode Island e Connecticut), complessivamente chiamate New England, tradizionalmente volte alla varietà colturale, all’industria di conservazione del pesce, alla cantieristica e all’ebanistica. La politica coloniale tende a impedire la creazione di industrie locali per la trasformazione dei prodotti agricoli e naturali. Alle colonie, tradizionalmente, si riserva il ruolo di esportatrici di materie prime e di importatrici di manufatti.

Tuttavia, l’unione con la madrepatria continua a sussistere per la prima metà del Settecento e perdura durante la guerra dei Sette anni, combattuta fra Inghilterra e Francia sui mari e nelle colonie. L’appoggio dei coloni americani si rivela del resto fondamentale per il raggiungimento della vittoria da parte dell’Inghilterra nel 1763. Proprio il contributo dato durante il conflitto contribuisce a far avvertire come sempre più soffocante la soggezione all’Inghilterra, soprattutto quando essa vuole scaricare i costi della guerra sui coloni imponendo loro nuove tasse.

I coloni americani, nella seconda metà del Settecento, possono vantare una robusta tradizione di autogoverno. Malgrado la diversità di origine delle tredici colone, esse hanno istituzioni politiche sostanzialmente simili. Formalmente il potere è concentrato nelle mani del governatore, affiancato dai Consigli. Ciascuna colonia ha inoltre un’Assemblea legislativa. Ogni assemblea, eletta su base censitaria, ha come precipuo compito quello di esprimere – come i parlamenti di antico regime – parere vincolante sulle questioni fiscali; nel corso del tempo ha però ampliato le proprie prerogative, divenendo autentica espressione di autogoverno. Naturalmente non tutti hanno potere elettivo e possibilità di eleggibilità. Sono esclusi dall’elettorato gli schiavi, bianchi e neri numerosissimi nelle piantagioni delle colonie del Sud a causa della fiorente tratta sviluppatasi fra Sette e Ottocento, e i servi, ma anche quanti hanno un reddito basso, come la gran parte degli opera, i pescatori, gli artigiani e i piccoli commercianti. Sono discriminati per motivi religiosi gli ebrei e i cattolici. Malgrado non esista, come in Europa, un’aristocrazia di sangue che controlli i principali gangli del potere, la vita politica è controllata da gruppi ristretti, formati da persone colte, informate sulle principali novità culturali europee, che hanno avuto modo di completare i loro studi in istituti come Harvard (fondata nel 1636), Yale (1701), Princeton (1746), il King’s college di New York (1754), il College di Philadelphia (1755).

Tipico esponente di questa élite è Benjamin Franklin (1706-1790). Nato a Boston da una famiglia artigiana, apprendista tipografo a dodici anni, autodidatta, precoce giornalista, nel 1724 si reca a Londra dove entra in contatto con i principali esponenti della cultura illuministica. Tornato in America diviene editore di periodici, riuscendo ad accumulare una grande fortuna. Si dedica quindi alla coltivazione dei propri interessi culturali, fondando nel 1744 la Società filosofica americana e nel 1755 l’Accademia di Filadelfia. La varietà dei suoi interessi, che lo porteranno all’invenzione del parafulmine, alle lenti bifocali e a un particolare tipo di stufa, lo fanno accogliere alla Royal Society di Londra e all’Académie des Sciences di Parigi.

Benjamin Franklin è fra quanti, all’indomani della fine del conflitto con la Francia, auspica un rapporto diverso con la madrepatria inglese, più rispettoso delle autonomie americane e degli interessi economici locali. I coloni, infatti, si sentono parte integrante del mondo inglese e non sudditi lontani e trascurabili. Pertanto la reazione è estremamente vivace quando fra il 1763 e il 1764 l’Inghilterra adotta nelle colonie delle misure politiche e fiscali senza interpellarne gli abitanti. Nel 1763, senza alcuna ragione apparente, Londra decide di inviare in America un esercito di circa 10.000 uomini; pochi mesi più tardi, viene proibito ai coloni americani di avanzare verso ovest, varcando le catene montuose degli Allegheni e degli Appalachi, e di trattare con i pellerossa. Nel 1764 viene promulgato lo Sugar Act, una legge che aumenta l’imposta sullo zucchero, mentre in parlamento si discute su eventuali altre misure fiscali da adottare nelle colonie.

Di fronte alle minacce di inasprimento della tassazione, la protesta dei coloni diventa vibrante, come si legge nella petizione emessa il 18 dicembre 1764 dalla Camera dei Borghesi della Virginia (l’assemblea rappresentativa locale).

 

La petizione della Virginia al Parlamento inglese

Poiché risulta dalla riproduzione stampata della votazione della Camera dei Comuni della Gran Bretagna riunita in Parlamento, che in una seduta plenaria della Camera il 17 marzo scorso, fu stabilito che per la difesa, protezione e sicurezza delle colonie e piantagioni britanniche in America, è lecito imporre certi diritti di bollo nelle dette colonie e piantagioni, e tenendosi che tale argomento, allora respinto, possa venir ripreso e trattato in una seduta successiva, il Consiglio ed i Borghesi della Virginia, riuniti in Assemblea Generale, ritengono loro inderogabile dovere di protestare in modo rispettoso ma decorosamente fermo, contro tale misura, affinché dal loro silenzio in una crisi così grave non si possa desumere perlomeno una rinuncia a quei diritti che a loro giudizio sarebbero violati da tale procedura.

Essi considerano essenziale per la libertà britannica che le leggi che impongono tasse al popolo non siano fatte senza il consenso di rappresentanti scelti del popolo stesso; i quali, mentre sono a conoscenza delle condizioni dei loto elettori, sostengono al tempo stesso una parte proporzionale dell’onere imposto. Questo privilegio inerente alle persone che scoprirono e colonizzarono queste regioni, non può essere stato perduto per rinuncia o per revoca in seguito al loro trasferimento in questi luoghi non come vagabondi o fuggiaschi, ma autorizzati e incoraggiati dal principe e animati dal lodevole desiderio di ingrandire i domini britannici e di espanderne il commercio. Al contrario, esso fu garantito a loro ed ai loro discendenti, insieme con tutti gli altri diritti ed immunità dei sudditi britannici, da uno statuto reale che è stato invariabilmente riconosciuto e confermato da sua Maestà e dai suoi predecessori.

(da A. Aquarone, G. Negri e T. Scelba, La formazione degli Stati Uniti d’America. Documenti, Nistri-Lischi, Pisa, 1961)

 

La petizione ricorda come nella tradizione anglosassone le imposte si accompagnino alla concessione della rappresentanza. Ciò che si esprime, quindi, è un’auspicata autonomia in materia di scelte economiche e la richiesta di diritti politici anche per le colonie, in modo da far pesare la propria voce e i propri interessi in seno alle istituzioni politiche della madrepatria. Per tutta risposta, nel 1765 l’Inghilterra promulga lo Stamp Act, con il quale decide di introdurre nelle colonie americane una tassa di bollo sulle contrattazioni commerciali e gli atti giudiziari, che dovevano essere compilati su carta bollata: questa tassazione indiretta viene ad aggiungersi ai dazi doganali, colpendo particolarmente la suscettibilità dei coloni. La loro reazione si manifesta facendo appello al principio secondo il quale ogni tassazione deve essere approvata dai rappresentanti del popolo: un caposaldo del costituzionalismo inglese. Lo slogan No taxation without representation (Nessuna tassazione senza rappresentanza) ben riassume il rifiuto dei coloni a pagare una tassa imposta dal governo inglese, dato che nessun loro rappresentante siede al parlamento della madrepatria. Di fronte alle prime proteste lo Stamp Act viene ritirato; tuttavia, il governo inglese, aggrava la propria pressione con la pubblicazione del Declaratory Act, con il quale riafferma il proprio diritto a imporre le proprie leggi alle colonie.

 

Il «Declaratory Act»

Premesso che negli ultimi tempi le camere dei rappresentanti di alcune colonie e piantagioni di Sua Maestà in America hanno, contrariamente alle leggi, rivendicato per le colonie o per le assemblee generali delle medesime il diritto esclusivo di imporre dazi e tributi sui sudditi di sua Maestà nelle dette colonie e piantagioni; ed hanno, in conformità con tale pretesa, approvato voti, deliberazioni ed ordinanze lesivi dell’autorità legislativa del parlamento ed incompatibili con la dipendenza delle colonie e piantagioni della Corona di Gran Bretagna; si compiaccia pertanto la vostra eccellentissima Maestà di far dichiarare, e sia in effetti dichiarato dall’eccellentissima Maestà del re, con il parere ed il consenso dei Lords Spirituali e Temporali e dei Comuni qui adunati in Parlamento, e per l’autorità dei medesimi, che le dette colonie e piantagioni d’America sono state, sono e di diritto devono essere, soggette alla Corona imperiale ed al Parlamento della Gran Bretagna e dipendenti da essi; e che la Maestà del Re, con e per il parere ed il consenso dei Lords Spirituali e Temporali e dei Comuni della Gran Bretagna adunati in Parlamento, ebbe, ha e di diritto deve avere, pieno potere ed autorità di emanare leggi e statuti di sufficiente forza e validità da vincolare in ogni qualsivoglia caso le colonie ed il popolo d’America, sudditi della Corona di Gran Bretagna.

E si dichiari e stabilisca inoltre, in base all’autorità predetta, che tutte le deliberazioni, i voti, le ordinanze e i procedimenti di una delle dette colonie o piantagioni, che neghino o contestino il potere e l’autorità del Parlamento di Gran Bretagna di emanare leggi e statuti sono nulle a tutti gli effetti.

(da A. Aquarone, G. Negri e T. Scelba, La formazione degli Stati Uniti d’America. Documenti, Nistri-Lischi, Pisa, 1961)

 

 La tensione cresce, scoppiano i primi disordini. La frattura insanabile viene però rappresentata dalla promulgazione del Tea Act. bisognoso di nuovi introiti, inasprisce i dazi doganali già esistenti e impone un nuovo dazio sul tè, concedendone il monopolio del commercio alla Compagnia delle Indie ed escludendone così i mercanti americani. Un gruppo di coloni travestiti da pellerossa reagisce alla provocazione assalendo nel porto di Boston una nave e gettandone in acqua il carico di tè appartenente al monopolio. Al cosiddetto Boston Tea Party l’Inghilterra risponde con il blocco comminato al porto di Boston.

In un clima di esasperazione cominciano a serpeggiare nelle colonie i primi sentimenti indipendentistici. Tuttavia, quando nel 1774 l’assemblea della Virginia prende l’iniziativa di invitare tutte le altre colonie a riunirsi in un Congresso intercoloniale, si nutre ancora la speranza di ricucire lo strappo. Nel I Congresso continentale che si riunisce il 5 settembre a Filadelfia prevale l’atteggiamento di coloro che, pur considerando nulle le misure repressive inglesi e pur promuovendo il boicottaggio economico contro l’Inghilterra, sperano nella superiore giustizia della Corona.

Nel 1775 a Lexington un scontro armato fra truppe regolari e coloni ribelli induce re Giorgio II a dichiarare ribelli tutti i coloni. Il II Congresso continentale, riunitosi nel maggio dello stesso anno, si pronuncia quindi a favore della guerra contro la madrepatria e decide la costituzione di un esercito, di cui viene nominato comandante George Washington (1732-1799). Nel clima arroventato dei primi scontri militari, dove arride la vittoria ai coloni, matura la determinazione verso la separazione formale dalla Gran Bretagna. Il 4 luglio 1776 è approvata dal Congresso una Dichiarazione d’indipendenza, stilata da Thomas Jefferson (1743-1826), dopo che un comitato ne ha deciso le linee guida. Essa espone la «necessità» di sciogliere i vincoli di unione con l’Inghilterra data la «tirannia» di re Giorgio III sulle sue colonie americane. Oltre alla dichiarazione di indipendenza, si afferma quindi che i governi devono essere fondati con il consenso dei governati e che tutti gli uomini hanno uguali diritti, provenienti dalla comune natura. I diritti del re – e della nobiltà del sangue – vengono quindi cancellati in nome di una visione liberale della politica. Malgrado continuino gli scontri armati, il documento può essere considerato l’atto di nascita degli Stati Uniti d’America.

 

La Dichiarazione d’indipendenza

Quando, nel corso delle vicende umane, diventa per un popolo una necessità lo spezzare i vincoli politici che l’uniscono con un altro ed il pretendere tra le potenze della terra quel posto separato ed equo a cui gli danno diritto le leggi di natura ed il Dio della natura, un conveniente rispetto alle opinioni dell’umanità gli impone di dichiarare quali sono le cause che lo costringono alla separazione.

Riputiamo di per sé evidentissime le seguenti verità: che tutti gli uomini sono stati creati uguali; che il Creatore li ha investiti di certi diritti inalienabili; che tra questi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità; che per garantire tali diritti furono istituiti fra gli uomini i governi, i quali ritraggono i loro poteri dal consenso dei governanti; che quando una forma qualsiasi di governo è dannosa a quei giusti, il popolo ha il diritto di abolirla o di mutarla, istituendo un nuovo governo e dando a questo per fondamento quei principi e quell’ordinamento di poteri che al popolo stesso sembrino più adatti a provvedere alla propria sicurezza e felicità. La prudenza, è vero, consiglia che non si mutino per cause leggere e transitorie i governi da lungo tempo stabiliti [...]. Ma quando una lunga serie di abusi e di usurpazioni, invariabilmente diretti a conseguire lo stesso fine, mette in piena evidenza il disegno di ridurre un popolo alla soggezione di un dispotismo assoluto, esso ha il diritto e il dovere di abbattere un simile governo e di provvedere con nuove garanzie alla propria sicurezza futura. Tale è adesso la necessità che costringe queste colonie ad alterare gli antichi sistemi di governo. La storia del presente re della Gran Bretagna è una sequela di ripetute offese ed usurpazioni, dirette tutte al fine di stabilire su questi stati una tirannide assoluta. Per dimostrarlo esporremo in modo imparziale i fatti seguenti: ha saccheggiato le nostre navi, devastate le nostre coste, incendiate le nostre città, massacrati i nostri cittadini. Anche adesso sta trasportando grossi eserciti di mercenari forestieri per compiere l’opera di morte, di desolazione e di tirannide che è già incominciata con atti di crudeltà e perfidia, di cui si troverebbero appena esempi nei secoli più barbari e sono assolutamente indegni del capo di una nazione civile. Ha eccitato tra noi la ribellione interna ed ha cercato di spingere addosso agli abitanti della frontiera gli spietati Indiani, i quali, come ognun sa, non fanno distinzione di sesso, d’età o di condizione e uccidono tutti [...].

Ad ogni successivo stadio di questa oppressione abbiamo chiesto giustizia in termini umilissimi; alle nostre rinnovate petizioni, è stato sempre risposto con rinnovati insulti. Un principe, il cui carattere tirannico si manifesta con simili atti, non è degno di reggere un popolo libero. Né mancammo di riguardo ai nostri fratelli britannici: di tempo in tempo li abbiamo avvertiti dei tentativi del Governo di sottoporci ad una giurisdizione ingiusta ed abbiamo loro rammentato le circostanze della nostra emigrazione e del nostro stabilimento in questi paesi.

Invocando i sentimenti di giustizia e di magnanimità innati nella nazione inglese, li abbiamo scongiurati in nome dei legami di sangue che ci uniscono, a sconfessare quelle usurpazioni, che avrebbero inevitabilmente rotto tra noi ogni comunione e rapporto. Essi sono rimasti sordi alla voce della giustizia e del sangue. Ci troviamo dunque costretti a cedere alla necessità, dichiarando il nostro distacco e considerandoli, come consideriamo il restante dell’umanità, nemici in guerra, in pace amici.

Per conseguenza, noi, rappresentanti degli Stati Uniti d’America, adunati in congresso generale, invocando il Supremo Giudice dell’Universo e chiamandolo a testimone della rettitudine delle nostre intenzioni, pubblichiamo e dichiariamo solennemente a nome e per autorità del buon popolo di queste colonie, che queste Colonie Unite sono e per diritto devono essere stati liberi ed indipendenti; che esse sono svincolate da qualsiasi soggezione verso la corona britannica e che qualsiasi legame politico tra esse e lo stato di Gran Bretagna è e deve essere assolutamente sciolto; e che nella loro qualità di stati liberi ed indipendenti hanno piena facoltà di muovere guerre, concludere paci, contrarre alleanze, stabilire commerci e compiere tutti gli altri atti e cose che hanno diritto di compiere tutti gli stati indipendenti. Ed in sostegno di tale dichiarazione, e fidando fermamente nella protezione della Divina Provvidenza, impegniamo reciprocamente l’uno all’altro le nostre esistenze, i nostri beni, e il nostro sacro onore.

(da A. Saitta, Il cammino umano, II, La Nuova Italia, Firenze, 1961)

 

Nel testo fortissimi sono i richiami alla filosofia illuministica, soprattutto quando si rivendica per tutti i coloni il diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità (life, liberty and pursuit of happiness). Se il gruppo dirigente americano può vantare tanta raffinatezza filosofica e ideologica, non può contare su truppe ben addestrate per la difesa dall’aggressione britannica. La guerra appare subito difficile per gli americani, che si scontrano con forze superiori e assai più disciplinate. Per reperire il necessario aiuto militare, il gruppo dirigente americano invia in Europa Benjamin Franklin che perora la causa dei ribelli presso le più importanti corti europee. L’esercito dei ribelli, già vittorioso a Saratoga nel 1781, viene rafforzato da truppe francesi, spagnole e olandesi e ottiene nel 1783 a Yorktown una decisiva vittoria, che costringe gli inglesi alla resa. Nello stesso anno, con il trattato di Versailles, re Giorgio III riconosce l’indipendenza degli Stati Uniti.

Già all’indomani della vittoria di Saratoga, si cominciano ad affrontare i primi nodi per regolare i rapporti all’interno dell’Unione. Le colonie inglesi, divenuti ora Stati mantenendo il nome avuto in età coloniale, si mostrano estremamente gelose delle loro singole autonomie e poco disponibili a cedere una diminuzione della sovranità a vantaggio di un potere federale. Del resto, ogni colonia, ha interessi, struttura sociale, atteggiamento religioso e ideologico, sviluppo economico a sé stante. Se prima e durante la guerra, all’interno delle colonie, si erano distinti due diversi schieramenti politici, l’uno, formato dai lealisti fedeli alla corona inglese, e l’altro dagli indipendentisti, all’indomani della prima vittoria militare i ribelli si dividono sulla base della soluzione da adottare per i rapporti fra il governo centrale dell’Unione e il potere locale, detenuto dalle assemblee dei diversi Stati. I federalisti, fautori di un forte governo centrale, si oppongono agli antifederalisti, che intendono riservare al governo federale un valore poco più che simbolico.

Nel 1777, di fronte al pericolo di una nuova offensiva inglese, vengono varati i cosiddetti Articoli di confederazione, in pratica la prima costituzione degli Stati Uniti. Nel documento si rimarca come gli Stati Uniti d’America siano una confederazione di Stati sovrani. Il governo centrale ha la prerogativa di esercitare la politica estera e l’attività diplomatica e nomina gli ambasciatori; a esso inoltre compete l’organizzazione delle forze armate. I singoli Stati devono fornire la propria quota di miliziani e nominare gli ufficiali fino al grado di colonnello; ma è il governo centrale a rendere omogeneo l’esercito fornendo regolamenti unitari, unificando le uniformi e l’armamento, stabilendo le norme di addestramento e nominando tutti i generali. Al governo centrale inoltre spetta in esclusiva l’organizzazione e il comando della marina militare, nonché la direzione di tutte le operazioni. A tale uopo gli Stati formano – e mettono a disposizione dell’Unione – un tesoro comune. Sono poi di competenza esclusiva dell’Unione: lo stabilire un sistema comune di pesi, misure e monete; l’emettere carta moneta; l’accendere prestiti, l’organizzare e il gestire il servizio postale, il mantenere i rapporti con gli indiani non residenti entro i confini di uno Stato.

Ai cittadini di ogni singolo Stato sono garantite tutte le immunità e i privilegi di quelli di ogni altro Stato, nonché totale libertà di transito; i colpevoli di tradimento o di delitti comuni possono venire estradati da uno Stato all’altro su semplice richiesta. Infine, l’Unione è perpetua e tutti i cittadini sono tenuti a obbedire alla costituzione. È compito del Congresso nominare un comitato esecutivo con incombenze di governo: ciò vale a subordinare l’esecutivo al legislativo ed è un’ulteriore garanzia di libertà. Ma gli Stati sono i padroni, non i servi della Confederazione; essi controllano il Congresso, formato da loro rappresentanti. L’articolo 2 degli Articoli di Confederazione recita infatti: «Ogni Stato conserva la sua sovranità, libertà e indipendenza, nonché tutti i poteri, giurisdizioni e diritti che non sono stati esplicitamente delegati all’Unione».

La fine delle ostilità con l’Inghilterra segna l’inasprirsi del confronto tra federalisti e antifederalisti e l’infittirsi della discussione sulle soluzioni istituzionali da adottare. Si discute a lungo, ma il compromesso è difficile e laborioso. Un primo accordo si registra nel 1784, quando i tredici Stati stabiliscono che nuovi territori conquistati sarebbero divenuti nuovi Stati, indipendenti, che sarebbero entrati nell’Unione su basi paritarie: decisione importantissima, che avrebbe portato gli Stati da tredici a cinquanta dal 1780 al 1880.

Il 17 settembre del 1787 viene votata la nuova Costituzione degli Stati Uniti, che realizza un complesso sistema di equilibri formali e sostanziali fra gli interessi dei diversi Stati, cercando di contemperare le esigenze tra il Nord industrializzato e il Sud agrario, tra le esigenze del governo centrale e il diritto all’autonomia dei componenti.

Il potere legislativo è attribuito a un Congresso composto di un Senato e di una Camera dei rappresentanti. La Camera viene rinnovata ogni due anni in base ad un suffragio ristretto da criteri di censo. Il Senato è composto da senatori eletti per sei anni dai corpi legislativi di ogni Stato in numero di due; i senatori vengono rinnovati per un terzo ogni due anni. Presidente del Senato è il vicepresidente degli Stati Uniti. Senatori e rappresentanti percepiscono una indennità e non possono essere arresti per nessun atto legato all’esercizio delle loro funzioni. Le leggi varate dalla Camera e dal Senato al fine di diventare esecutive devono essere firmate dal presidente. In caso di contrasto fra potere esecutivo e potere legislativo, un progetto di legge ritorna al Congresso; se Senato e Camera lo approvano nuovamente con una maggioranza dei due terzi, esso diviene legge.

I costituenti guardano con approvazione al sistema di governo inglese prima della sua evoluzione in un sistema parlamentare. Il potere esecutivo è affidato ad un presidente eletto ogni quattro anni da collegi di «grandi elettori»: questi ultimi vengono eletti dai cittadini di ogni singolo in numero pari a quello di deputati e senatori che lo Stato esprime.  Il presidente, affiancato dal vicepresidente di sua nomina, è indipendente dalla fiducia del Congresso, per cui i membri del governo da lui scelti e nominati, a lui solo rispondono, dipendono dalla sua fiducia e durano in carica per quanto egli voglia. Sotto questo profilo, appare del tutto evidente come quello statunitense non sia un sistema parlamentare.

Il presidente è capo delle forze armate, è il primo artefice della politica estera del paese, nomina i giudici della Corte suprema, può porre il veto alle leggi, può sollecitare l’iniziativa legislativa del Congresso. A sua volta, il presidente subisce il controllo diretto del Senato nel campo della politica estera e nella nomina dei giudici, dei diplomatici e degli alti funzionari. In caso di violazione dei suoi doveri, il presidente viene messo sotto accusa dalla Camera.

Il potere giudiziario è affidato ad una Corte suprema e alle corti inferiori stabilite dal Congresso. I giudici della Corte suprema sono nominati a vita dal presidente dietro parere del Senato, con il compito primo di vegliare sulla costituzionalità degli atti degli altri due poteri.

Nel 1791 vengono aggiunti alla Costituzione altri articoli a garanzia dei diritti dei cittadini. Con i Primi dieci emendamenti viene riconosciuta l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, la libertà individuale, la libertà di stampa e di culto.

 

I primi dieci emendamenti

Emendamento I.

Il Congresso non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione, o per proibirne il libero culto; o per limitare la libertà di parola o di stampa, o il diritto che hanno i cittadini di riunirsi in forma pacifica e di inoltrare petizioni al Governo per la riparazione dei torti subiti.

 

Emendamento II.

Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben ordinata milizia, il diritto dei cittadini di tenere e portare armi non potrà essere violato.

 

Emendamento III.

Nessun soldato, in tempo di pace, potrà essere alloggiato in una casa privata senza il consenso del proprietario; né potrà esserlo in tempo di guerra, se non nei modi che verranno prescritti per legge.

 

Emendamento IV.

Il diritto dei cittadini a godere della sicurezza per quanto riguarda la loro persona, la loro casa, le loro carte e le loro cose, contro perquisizioni e sequestri ingiustificati, non potrà essere violato; e nessun mandato giudiziario potrà essere emesso, se non in base a fondate supposizioni, appoggiate da un giuramento o da una dichiarazione sull’onore e con descrizione specifica del luogo da perquisire, e delle persone da arrestare o delle cose da sequestrare.

 

Emendamento V.

Nessuno sarà tenuto a rispondere di reato che comporti la pena capitale o comunque infamante, se non per denuncia o accusa fatta da una Grande Giuria, a meno che il reato non sia compiuto da individui appartenenti alle forze di terra o di mare, o alla milizia, quando questa si trovi in servizio attivo, in tempo di guerra o di pericolo pubblico; né alcuno potrà essere sottoposto due volte, per un medesimo delitto, a un procedimento che comprometta la sua vita o la sua integrità fisica; né potrà essere obbligato, in qualsiasi causa penale, a deporre contro sé medesimo, né potrà essere privato della vita, della libertà o dei beni, se non in seguito a regolare procedimento legale; e nessuna proprietà potrà essere destinata a un uso pubblico senza un giusto indennizzo.

 

Emendamento VI.

In ogni processo penale, l’accusato avrà il diritto di essere giudicato sollecitamente e pubblicamente da una giuria imparziale dello Stato e del distretto in cui il reato è stato commesso (i limiti del quale distretto saranno stati precedentemente determinati per legge); e avrà diritto di essere informato della natura e del motivo dell’accusa; di essere messo a confronto con i testimoni a carico, di far comparire i testimoni a suo favore, e di farsi assistere da un avvocato per la sua difesa.

 

Emendamento VII.

Nelle cause che dovranno essere giudicate a norma delle Common Law, il diritto al giudizio a mezzo di giuria sarà mantenuto ogni volta che l’oggetto della controversia superi il valore di venti dollari; e nessun fatto giudicato da una giuria potrà essere sottoposto a nuovo esame in qualsiasi altra Corte degli Stati Uniti, se non secondo le norme della Common Law.

 

Emendamento VIII.

Non si dovranno esigere cauzioni esorbitanti, né imporre ammende eccessive, né infliggere pene crudeli e inusitate.

 

Emendamento IV.

L’enumerazione di alcuni diritti fatta nella Costituzione non potrà essere interpretata in modo che ne rimangano negati o menomati altri diritti mantenuti dai cittadini.

 

Emendamento X.

I poteri non delegati dalla Costituzione agli Stati Uniti, o da essa non vietati agli Stati, sono riservati ai rispettivi Stati, ovvero al popolo.

(da R. Hofstader, Le grandi controversie della storia americana, Roma, Opere Nuove, 1966, vol. I)

 

La delicata architettura istituzionale, assolutamente innovativa per molti aspetti, attira nel 1831 il francese Alexis de Tocqueville che visita gli Stati Uniti d’America e pubblica le sue considerazioni nell’opera La democrazia in America. Egli, ammirato, mette in luce il sapiente compromesso attraverso il quale si era riusciti a conciliare la sovranità dei singoli Stati con l’inderogabile esigenza di un superiore potere federale.

Alexis de Tocqueville

Un quadro della Costituzione americana

 

Una prima difficoltà si dovette presentare allo spirito degli americani. Si trattava di dividere la sovranità in modo che i diversi Stati che formavano l’Unione continuassero a governarsi da soli in tutto ciò che riguardava la loro politica interna, senza che la nazione intera, rappresentata dall’Unione, cessasse di costituire un corpo unico, capace di provvedere a tutti i bisogni generali. Questione assai complessa e difficile a risolvere.

Era impossibile fissare precedentemente, in modo esatto e completo, la parte di potere che doveva spettare a ciascuno dei due governi, fra i quali si stava per dividere la sovranità. Chi mai può prevedere tutti i particolari della vita di un popolo?

I doveri e i diritti del governo federale erano semplici e molto facili a definire, poiché l’Unione era stata formata allo scopo di rispondere ad alcuni grandi bisogni generali; invece i doveri e i diritti dei governi statali erano molti e complicati, poiché il governo statale penetrava in tutti i particolari della vita sociale.

Le attribuzioni del governo federale furono pertanto definite accuratamente, e si dichiarò che tutto ciò che non era compreso in esse rientrava nell’ambito delle attribuzioni dei governi statali.

Così il governo degli Stati rappresentò il diritto comune, il governo federale l’eccezione.

Ma poiché si previde che in pratica potevano sorgere questioni riguardo ai limiti esatti di questo governo eccezionale, e che sarebbe stato assai pericoloso abbandonarne la soluzione ai tribunali ordinari, istituiti nei diversi Stati, dagli Stati stessi, si creò un’alta corte federale, tribunale unico, che, fra le altre attribuzioni, ebbe quella di mantenere fra i due governi rivali la divisione dei poteri stabilita dalla costituzione.

I popoli fra loro non sono che individui. È soprattutto per comparire degnamente di fronte agli stranieri che una nazione ha bisogno di un unico governo.

All’Unione fu pertanto accordato il diritto esclusivo di fare la pace e la guerra, di concludere trattati di commercio, di levare eserciti, di armare flotte.

La necessità di un governo nazionale non si fa altrettanto imperiosamente sentire nella direzione degli affari interni; tuttavia, vi sono alcuni interessi generali ai quali solo un’autorità generale può utilmente provvedere.

All’Unione fu lasciato il diritto di regolare tutto ciò che si riferisce al valore della moneta; la si incaricò del servizio postale; le si dette il diritto di aprire grandi comunicazioni per unire le diverse parti del territorio.

In generale, i governi statali furono lasciati liberi nella loro sfera particolare; tuttavia, siccome qualcuno di essi poteva abusare di questa indipendenza e compromettere con misure imprudenti la sicurezza dell’Unione intera, così, per casi precedentemente definiti, si permise al governo federale l’intervento negli affari interni degli Stati. In tal modo, pur riconoscendo a ciascuna repubblica confederata il potere di modificare e cambiare la legislazione, le si impedì però di fare leggi retroattive e di creare nel suo seno una classe di nobili.

Infine poiché occorreva che il governo federale adempisse agli obblighi impostigli, gli si dette il diritto illimitato di levare imposte [...].

Il Senato non differisce solo dall’altra camera per il principio della rappresentanza, ma anche per il modo di elezione, per la durata del mandato e per la diversità delle attribuzioni.

La Camera dei rappresentanti è nominata dal popolo; il Senato, dai legislatori di ogni Stato. L’uno è il prodotto dell’elezione diretta, l’altro dell’elezione a due gradi.

Il mandato dei rappresentanti dura solo due anni; quello dei senatori, sei.

La Camera dei rappresentanti ha funzioni solo legislative; partecipa al potere giudiziario solo accusando i funzionari pubblici; il Senato concorre alla formazione delle leggi; giudica i delitti politici che gli vengono deferiti dalla Camera, ed è inoltre il grande consiglio esecutivo della nazione. I trattati conclusi dal presidente devono essere ratificati dal Senato; e le scelte presidenziali, per essere definitive, hanno bisogno dell’approvazione del medesimo corpo.

I legislatori americani avevano un compito difficile da adempiere: dovevano creare un potere esecutivo, che dipendesse dalla maggioranza, ma che fosse abbastanza forte per se stesso per agire liberamente nella sua sfera.

La conservazione della forma repubblicana esigeva che il rappresentante del potere esecutivo fosse sottoposto alla volontà nazionale.

Il presidente è un magistrato elettivo: il suo onore, i suoi beni, la sua libertà, la sua vita, rispondono in ogni tempo al popolo del buon impiego che egli farà del suo potere. Esercitando questo potere, egli non è d’altra parte completamente indipendente: il Senato lo sorveglia nei suoi rapporti con le potenze straniere e nella distribuzione degli impieghi, in modo che esso non possa essere corrotto, né corrompere.

I legislatori dell’Unione riconobbero che il potere esecutivo non avrebbe potuto adempiere al suo compito, se non avesse avuto maggiore stabilità e forza di quella che aveva negli Stati particolari.

Decisero allora che il presidente fosse nominato per quattro anni e potesse essere rieletto. Avrebbe avuto così il tempo di lavorare al bene pubblico, ed i mezzi necessari per operare.

Si fece del presidente il solo ed unico rappresentante del potere esecutivo dell’Unione. Ci si guardò anche di subordinare le sue volontà a quelle di un consiglio: mezzo pericoloso, che, indebolendo l’azione del governo, avrebbe diminuito la responsabilità dei governanti. Il Senato ha il diritto di rendere sterile qualche atto del presidente; ma non può costringerlo ad agire, né dividere con lui il potere esecutivo.

(da A. de Tocqueville, La democrazia in America, a cura di G. Candeloro, Bologna, Cappelli, 1957)

 

Un problema che rimane irrisolto durante il fervore legislativo che segue l’indipendenza è quello relativo alle popolazioni nera e pellerossa. I diritti che godono i cittadini americani sono patrimonio esclusivo della popolazione di pelle bianca. Sia ai neri che agli indigeni questi stessi diritti vengono negati.

 

Alexis de Tocqueville

La popolazione nera

Il territorio occupato ai nostri giorni, o reclamato dall’Unione americana, si estende dall’Atlantico al Pacifico. All’est e all’ovest i suoi limiti sono dunque gli stessi del continente; essa si avanza a mezzogiorno fino al limite della zona tropicale e risale in seguito in mezzo ai ghiacciai del Nord.

Gli americani sparsi in questo spazio non formano come i popoli d’Europa altrettanti rami di una stessa famiglia, ma si scoprono subito fra essi tre razze naturalmente distinte, e potrei dire nemiche. L’educazione, la legge l’opinione, perfino la forma esteriore dei tratti, hanno elevato tra loro una barriera quasi insormontabile; il caso le ha riunite sullo stesso suolo, ma le ha mescolate senza poterle confondere e ognuna persegue il suo destino per conto proprio.

Fra questi uomini così diversi, il primo che attira l’attenzione, il primo per cultura, potenza, benessere, è l’uomo bianco, l’europeo, l’uomo per eccellenza; sotto di lui appaiono il negro e l’indiano.

Queste due razze sfortunate non hanno in comune né l’origine, né il tipo fisico, né la lingua, né i costumi; solo le loro sventure si rassomigliano. Entrambe occupano una posizione inferiore nel paese che abitano; entrambi subiscono gli effetti della tirannide; e, anche se le loro miserie sono diverse, ne possono accusare i medesimi autori.

Gli indiani morranno nell’isolamento in cui hanno sempre vissuto; ma il destino dei negri è in certo modo allacciato a quello degli europei.

Le due razze sono legate l’una all’altra, senza tuttavia confondersi ed è per esse altrettanto difficile separarsi completamente o unirsi.

Il maggiore di tutti i mali che minacciano l’avvenire degli Stati Uniti nasce dalla presenza dei neri nel loro suolo. Quando si cerca la causa dei presenti imbarazzi e dei futuri pericoli dell’Unione, si arriva quasi sempre a questo primo fatto da qualunque punto si parta [...].

Non vi è un africano che sia venuto liberamente sulle rive del nuovo mondo, perciò tutti quelli che vi si trovano oggi sono o schiavi o affrancati. Così il negro con l’esistenza trasmette a tutti i suoi discendenti il segno esteriore dell’ignominia. La legge può distruggere la schiavitù, ma solo Iddio può farne sparire le tracce.

Lo schiavo moderno non differisce dal padrone solo per la mancanza di libertà, ma anche per l’origine. Voi potete rendere il negro libero, ma non potere fare in modo che egli non resti sempre uno straniero di fronte all’europeo.

Ma non è tutto: quest’uomo è nato nella bassezza; a fatica noi riconosciamo i tratti generali dell’umanità in questo straniero introdotto fra noi dalla servitù. Il suo viso ci sembra schifoso, la sua intelligenza limitata, i suoi gusti bassi, poco manca perché lo prendiamo per un essere intermedio fra il bruto e noi.

I moderni dopo aver abolito la schiavitù dovranno ancora distruggere tre pregiudizi assai più inafferrabili e tenaci di essa: il pregiudizio del padrone, il pregiudizio di razza e infine il pregiudizio del bianco.

È molto difficile per noi, che abbiamo avuto la fortuna di nascere in mezzo ad uomini simili a noi per natura ed uguali per legge, immaginare lo spazio insuperabile che separa il negro d’America dall’Europeo [...].

Mi sembra dunque che coloro che sperano che gli europei si confonderanno un giorno coi negri accarezzino una chimera. La mia ragione mi impedisce di crederlo e non vedo nulla che me lo provi nei fatti. Finora ovunque i bianchi sono stati più potenti hanno tenuto i negri nell’avvilimento o nella schiavitù, e i negri, ove sono stati più forti hanno distrutto i bianchi; è questo il solo conto che si sia mai aperto fra le due razze.

Se considero gli Stati Uniti del nostro tempo vedo bene che, in una parte del paese, la barriera legale che separa le due razze tende ad abbassarsi, ma non quella dei costumi: vedo dunque indietreggiare la schiavitù, ma non il pregiudizio che l’ha fatta nascere.

Nella parte dell’Unione ove i negri non sono più schiavi, essi sono forse più vicini ai bianchi? Chiunque abbia vissuto negli Stati Uniti avrà notato che si è prodotto un effetto contrario.

Il pregiudizio di razza mi sembra più forte negli Stati che hanno abolito la schiavitù che in quelli in cui esiste ancora, e in nessun luogo si mostra così intollerante come negli Stati in cui la servitù non è mai penetrata.

È vero che nel Nord dell’Unione la legge permette ai negri e ai bianchi di contrarre matrimoni legittimi, ma l’opinione pubblica dichiara infame il bianco, che si unisce a una negra e sarebbe molto difficile citare esempi di un simile fatto.

In quasi tutti gli Stati in cui la schiavitù è abolita si sono concessi ai negri i diritti elettorali, ma se uno di loro si presenta per votare rischia la vita. Se viene oppresso può querelarsi, ma trova solo bianchi fra i suoi giudici. La legge gli apre il banco dei giurati, ma il pregiudizio ne lo respinge. I suoi figli sono esclusi dalle scuole frequentate dai bianchi; nei teatri egli non può anche a prezzo d’oro sperare di sedersi vicino a colui che fu suo padrone; negli ospedali giace a parte. Si permette al negro di pregare lo stesso Dio dei bianchi, ma non di pregarlo allo stesso altare; egli ha i suoi sacerdoti e i suoi templi. Non gli si chiude la porta del cielo: l’ineguaglianza si ferma appena alle porte dell’altro mondo. Quando il negro non è più, si getta il suo corpo da parte e la differenza di condizione si ritrova anche nell’uguaglianza della morte.

Perciò il negro è libero, ma non può dividere i diritti, né i piaceri, né i lavori, né i dolori, né la tomba di colui di cui è stato dichiarato uguale; non può incontrarsi con lui da nessuna parte né della vita né della morte.

Nel Sud, ove la schiavitù esiste ancora, i negri sono tenuti meno accuratamente da parte; essi dividono talvolta i lavori dei bianchi e i loro piaceri; e si permette ad essi fino a un certo punto di mescolarsi con loro; la legislazione è più dura con loro, ma le abitudini più dolci e tolleranti.

Nel Sud il padrone non teme di elevare fino a sé il suo schiavo, poiché sa bene che potrà sempre se vuole rigettarlo nella polvere. Nel Nord, il bianco non scorge più distintamente la barriera che lo deve separare da una razza avvilita, e tanto più si allontana dal negro quanto più teme di confondersi un giorno con lui.

Nel Sud la natura, rientrando talvolta nei suoi diritti, viene per un momento a ristabilire l’uguaglianza fra bianchi e negri. Nel Nord l’orgoglio fa tacere perfino la passione più imperiosa dell’uomo: l’americano del Nord consentirebbe forse a fare della negra la compagna passeggera dei suoi piaceri se i legislatori avessero dichiarato che essa non deve aspirare a dividere il suo letto, ma poiché essa può divenire la sua sposa, egli si allontana da lei con una specie di orrore.

Così negli Stati Uniti il pregiudizio che respinge i negri cresce via via che i negri cessano di essere schiavi e l’ineguaglianza pesa nei costumi via via che scompare nelle leggi.

(da A. de Tocqueville, La democrazia in America, a cura di G. Candeloro, Bologna, Cappelli, 1957)

 

Tocqueville sottolinea le differenze di sentimento fra Nord e Sud riguardo alla questione degli schiavi. Tuttavia, negli anni in cui egli visita gli Stati Uniti, queste divergenze non sono tali da mettere in pericolo l’unità del nuovo paese. Il Nord industriale e il Sud schiavista si scontrano quando l’espansione verso nuovi territori, la «corsa all’Ovest» rende palese l’abissale differenza dei sistemi economici praticati nelle due diverse parti della nazione. I colonizzatori provenienti dal Nord, promotori della libera iniziativa, guardano con sospetto i grandi proprietari del Sud che intendono assoggettare nuove terre impiantando un’economia schiavista. Il tentativo di una soluzione legislativa del contrasto, tramite il compromesso del Missouri nel 1820 e il Kansas-Nebraska Act nel 1854, non sortisce alcun effetto positivo, tanto più che all’interno degli Stati del Nord cresce nell’opinione pubblica un sentimento di autentica ripulsa verso le pratiche schiavistiche. Nel 1830 lo scrittore D.T. Weld pubblica La schiavitù qual è, un testo appassionato di denuncia delle condizioni degli schiavi nelle piantagioni, che suscita un’enorme eco. La benevolenza nei confronti degli schiavi ammirata da Tocqueville negli Stati del Sud viene smascherata con sarcasmo e mostrata in tutti i suoi lati peggiori.

 

Dwight Teodoro Weld

La schiavitù

Milioni di uomini sono in questi Stati in questa condizione. Essi furono resi schiavi e tenuti così con la forza e col terrore, e tutto questo senza aver commesso alcun delitto! Lettore, cos’hai da dire per questo trattamento? È forse legale, giusto, benevolo? Supponi che io mi impadronisca di te, ti rubi la libertà, ti porti in un campo e ti faccia lavorare senza pagarti per tutta la vita; questo sarebbe giusto o gentile, o mostruosamente ingiusto e crudele? Ora ognuno sa che i proprietari di schiavi fanno queste cose agli schiavi ogni giorno, eppure si afferma stolidamente che li trattano bene e con gentilezza, e che la tenera considerazione per i loro schiavi impedisce ai padroni di infliggere loro crudeltà. Non abbiamo bisogno di alcuna metafisica per dimostrare l’assurdità di questa pretesa. L’uomo che ti deruba ogni giorno è davvero troppo tenero perché non ti picchia e non ti prende a calci! È vero, egli può strapparti i tuoi soldi, ma lo fa gentilmente per timore di urtarti. Egli può vuotarti le tasche senza scrupoli, ma se il tuo stomaco è vuoto, ciò tocca la sua sensibilità. Egli può farti lavorare tutta una vita senza pagarti, ma ti ama troppo per lasciarti affamato. Egli ti tosa dei tuoi diritti con piacere, ma si impressiona se lavori a testa nuda d’estate, o d’inverno senza calze calde. Egli può farti andare in giro senza la tua libertà, ma mai senza una camicia. Egli può calpestare in te ogni speranza di migliorare la tua condizione impegnandosi a farti morire come suo schiavo ma, pur torturando freddamente i tuoi sentimenti, egli ha troppa compassione per lacerarti le spalle. Egli può spezzarti il cuore, ma è molto tenero per la tua pelle. Egli può toglierti ogni protezione ed esporti così a tutti gli oltraggi, ma se tu ti esponi al maltempo, mezzo vestito e mezzo riparato, come si struggono le sue tenere interiora! I proprietari di schiavi parlano di trattare bene gli uomini, eppure non solo li derubano di tutto ciò che hanno e non appena lo hanno, ma li derubano anche di se stessi: delle loro mani e dei piedi, di tutti i muscoli, e delle membra, dei sensi, dei corpi e delle menti, del tempo, della libertà, dei guadagni, della libertà di parola e dei diritti di coscienza, del diritto ad acquistare cultura, proprietà e reputazione. Eppure quelli che li depredano di tutto questo vorrebbero farci credere di buon grado che i loro teneri cuori stillano tanto amore per i loro schiavi da tenerli sempre ben alloggiati e ben vestiti, da non farli faticare troppo nei campi, da non far dolorare le care schiene e non lasciare vuoti i loro cari stomachi.

Ma non vi è fine a queste assurdità. Sono forse imbecilli i proprietari di schiavi, oppure ritengono che lo sia il resto del mondo, tanto da pensare di bendarci gli occhi con tali sottili veli? protestano il proprio gentile riguardo per quelli che essi depredano di tutto quanto hanno ed ottengono, ora per ora! Di più: dopo essersi impadroniti delle loro vittime, ed aver annullato i loro diritti, pretendono ancora di essere gli speciali guardiani della loro felicità! [...] Noi ci proponiamo di confutare le loro asserzioni con le dichiarazioni di una moltitudine di testimoni imparziali, e quindi di sottoporre gli stessi proprietari di schiavi ad interrogatori che faranno sì che la verità venga dalle loro stesse bocche.

Noi proveremo che gli schiavi negli Stati Uniti sono trattati con barbara ferocia: che sono sfruttati all’eccesso, denutriti, miserabilmente vestiti e alloggiati, ed hanno un numero insufficiente di ore di sonno; che spesso debbono portare intorno al collo collari di ferro irti di punte, trascinare pesanti catene e pesi ai piedi mentre lavorano nei campi, e gioghi e corni; che sono spesso tenuti in ceppi giorno e notte per settimane insieme, obbligati a portare il bavaglio per ore o giorni, ad avere alcuni dei denti frontali strappati o spezzati per essere facilmente scoperti quando fuggono; che spesso sono flagellati con terribile durezza e le loro ferite sono cosparse di pepe rosso, acqua salata, trementina ecc., per accrescere il tormento; che spesso sono denudati, colpiti coi coltelli nelle membra e nelle spalle, pestati e lacerati da centinaia di colpi di remo, orribilmente feriti da artigli di gatti scagliati su di loro dai loro seviziatori; che spesso gli si dà la caccia con cani assetati di sangue e sono ammazzati come bestie, o fatti a pezzi dai cani; che spesso sono sospesi per le braccia e frustati e percossi fino allo svenimento, e, una volta fatti rinvenire con cordiali, ancora percossi fino a farli svenire di nuovo, talvolta fino a morire; che le loro orecchie sono spesso tagliate, gli occhi strappati, le ossa rotte, la carne ustionata con ferri incandescenti; che sono storpiati, mutilati, bruciati a fuoco lento fino a morire. Tutto questo,e ancora di più e peggio, noi lo proveremo. [...]

La barbara indifferenza con cui i proprietari di schiavi considerano la separazione forzata di mariti e mogli, genitori e figli, fratelli e sorelle, e la insensibile brutalità rivelata dal linguaggio con cui essi descrivono gli sforzi compiuti dagli schiavi nella loro struggente ansia di raggiungere coloro da cui furono strappati, rivelano una «pubblica opinione» del tutto insensibile verso la loro agonia, come se si trattasse di bestiame. È addirittura impossibile aprire un giornale del Sud senza trovarvi la prova di ciò [cone nei seguenti annunci per la cattura di schiavi fuggiaschi].

Dal «Savannah Georgian», 17 gennaio 1839:

100 dollari di compenso saranno versati per i miei due mariuoli Abram e Frank. Abram ha una moglie presso il colonnello Stewart, nella contea Liberty, una sorella a Savannah, presso il capitano Gronvenstine. Frank ha una moglie presso il Signor Le Cont, contea Liberty; la madre a Thunderbolt, e una sorella a Savannah.

W.M. Robarts

            Dal «Southern Argus», 31 ottobre 1837:

Fuggitivo – il mio negro Frederick, vent’anni circa. È senza dubbio presso la piantagione di G.W. Corprew ... poiché sua moglie appartiene a quel gentiluomo ed egli l’ha seguita dalla mia residenza. La ricompensa indicata sarà pagata a chiunque lo metterà in prigione e me ne informerà ad Athens, Alabama.

Kerman Lewis

Dal «Richmond Compiler», 8 settembre 1837:

Fuggito dal sottoscritto, Be. Egli è fuggito senza un chiaro motivo: suppongo che cerchi di recarsi presso sua moglie che fu portata via da questi paraggi lo scorso inverno.

John Hunt

Dal «Jackson Telegraph», 14 settembre 1838:

Imprigionata nel carcere di Madison, una donna negra che dice di chiamarsi Fanny e di appartenere a William Miller di Noble. Apparteneva prima a John Givins, di questa contea, che ora possiede molti dei suoi bambini.

David Shropshire, carceriere.

Numerose inserzioni di questo genere appaiono nei giornali del Sud. Lettore, osserva la spietata barbarie con cui i padroni e le padrone descrivono le lotte ed i pericoli di mariti e mogli separati, genitori e figli divisi, nel loro faticoso cammino notturno tra le foreste ed i fiumi, con le membra straziate ed il cuore spezzato, alla ricerca degli abbracci dei propri cari. In un caso una madre strappata da tutti i suoi bambini e portata in un altro stato ripercorre la strada nella solitudine, per centinaia di miglia per stringerli ancora una volta al cuore. Ma quando giunge vicino a loro è scoperta, catturata e incarcerata, mentre il padrone che l’ha comprata è avvertito dal carceriere con un’inserzione [perché provveda a recuperare la sua proprietà].

(da D.T. Weld, La schiavitù qual è, in R. Hofstader, Le grandi controversie della storia americana, Roma, Opere Nuove, 1966)

 

Nel Nord orientato all’abolizione della schiavitù sorge nel 1854 il Partito repubblicano, che ottiene l’appoggio di importanti settori industriali. La schiavitù dei neri, infatti, appare incompatibile non solo con le concezioni politiche e morali sulle quali sono fondati gli Stati Uniti, ma soprattutto e in primo luogo con le strutture di mercato, capitalistiche che si sono via via andate consolidando nel paese. Nel Sud, intanto, sempre più forti si fanno i propositi di secessione. Nel 1860 il candidato dei repubblicani alle elezioni presidenziali, Abraham Lincoln (1809-1865), viene eletto presidente. Malgrado Lincoln non sia un abolizionista radicale e cerchi di evitare rotture traumatiche, la sua elezione viene vista dagli stati del Sud come il sego di una rottura politica e sociale, cui bisogna rispondere con un attacco. Il 20 dicembre 1860 la Carolina del Sud, seguita da altri dieci Stati, dà inizio alla secessione dall’Unione, dando vita a una confederazione che ha la capitale a Richmond in Virginia e un presidente della persona di Jefferson Davis. È la guerra, in cui gli Stati del nord mettono in luce la loro straordinaria superiorità di uomini e mezzi. Lincoln inoltre fa approvare due leggi importantissime. La prima, nel 1862, la Homestead Law, concede a ogni cittadino di ricevere un appezzamento di terra, dietro il pagamento di una lieve tassa e l’impegno a coltivarla. La seconda, nota come Proclama di emancipazione, nel 1863, stabilisce la liberazione degli schiavi in tutti i territori ribelli.

 

Il Proclama di emancipazione

Il primo gennaio dell’anno di nostro Signore milleottocentosessantatre, tutte le persone tenute schiave entro qualsiasi Stato, o parte designata di uno Stato, il cui popolo si troverà in ribellione contro gli Stati Uniti, saranno allora, in avvenire e per sempre, libere; e il governo degli Stati Uniti, compresa l’autorità militare e navale, riconoscerà e manterrà la libertà di queste persone, e non farà atto o atti per reprimere gli sforzi di queste persone, o di qualunque di esse, per rendere effettiva la loro libertà.

            Pertanto, io, Abraham Lincoln, Presidente degli Stati Uniti, in virtù del potere di cui sono stato investito quale comandante in capo dell’esercito e della marina degli Stati Uniti, e quale misura di guerra adeguata e necessaria per la repressione di detta ribellione, in questo primo giorno di gennaio, nell’anno di nostro Signore 1863, e in conformità del mio proposito, pubblicamente proclamo per l’intero periodo di cento giorni dal giorno summenzionato, elenco e indico quali Stati, e parti di Stati, il cui popolo sia in questo giorno, rispettivamente in ribellione contro gli Stati Uniti, i seguenti: Arkansas, Texas, Louisiana, [...] Mississippi, Alabama, Florida, Georgia, Carolina del Sud, Carolina del Nord, e Virginia [...].

E in virtù del potere e del proposito predetti, io ordino e dichiaro che tutte le persone tenute in schiavitù entro gli Stati e le parti di Stati indicati, sono, e d’ora in avanti saranno, libere; e che il Governo degli Stati Uniti, incluse le autorità dell’esercito e della marina, riconoscerà e proteggerà la libertà di dette persone. Con questo mezzo ingiungo alle persone dichiarate libere di astenersi da ogni violenza, a meno che non sia giustificata da ragioni di autodifesa; e raccomando loro che, in tutti i casi possibili, esse lavorino fedelmente per salari ragionevoli.

E inoltre dichiaro e rendo noto che queste persone, se in condizioni idonee, saranno ammesse al servizio armato degli Stati Uniti per fornire guarnigioni nei forti, nelle postazioni, nelle stazioni, e in altri luoghi, ed equipaggi sulle navi di ogni tipo addette al servizio predetto.

E su questo atto, sinceramente considerato un atto di giustizia, autorizzato dalla Costituzione sulla base della necessità militare, io invoco l’autorevole giudizio dell’umanità e il benigno favore dell’Onnipotente Dio.

In fede di quanto procede ho steso la mia mano e fatto apporre il sigillo degli Stati Uniti sul presente proclama.

Fatto nella città di Washington, questo primo giorno di gennaio, nell’anno 1863 di nostro Signore, ed ottantesimo dell’Indipendenza degli Stati Uniti d’America.

(da Critica e documenti storici, a cura di G. Galasso, Napoli, Il tripode, 1972)

 

Nel 1865, finita la guerra, l’abolizione della schiavitù viene stabilita con l’Emendamento XIV della Costituzione, tuttavia per molto tempo rimarranno fra bianchi e neri le barriere del costume e del pregiudizio.

 

Fonte: http://bazzano.comunite.it/contenuti/dispense/istituzioni07_08/3.doc

Sito web da visitare: http://bazzano.comunite.it/

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