Diritto privato romano riassunto

 

 

 

Diritto privato romano riassunto

 

Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti. Se vuoi saperne di più leggi la nostra Cookie Policy. Scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento acconsenti all’uso dei cookie.I testi seguenti sono di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente a studenti , docenti e agli utenti del web i loro testi per sole finalità illustrative didattiche e scientifiche.

 

 

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

 

 

 

Diritto privato romano riassunto

 

CENNI STORICI

 

L’ordinamento romano in epoca arcaica

 

L’ordinamento romano è un sistema aperto di diritto giurisprudenziale fin dalle origini, caratterizzato dall’esistenza di uno specifico ceto di persone cui era demandato il compito di elaborare il diritto esistente: in epoca più antica tale carica era rivestita dal rex (re). In seguito fu demandato al collegio dei pontifices i quali rivestivano anche le alte cariche religiose.
In tale periodo le regole giuridiche vigenti in Roma erano istituite in base ad una natura consuetudinaria.
I mores (usi) quindi sono il mezzo in cui si manifesta il ius civile, cioè l’ordinamento che regola i rapporti sociali ed economici.
I pontifices come detto erano gli interpreti di questo ordinamento, nel senso che mediavano tra tale ordinamento e la società basando la loro produzione su casi concreti, dando così ai giudici, ai magistrati e ai privati la loro interpretazione della legge caso per caso.
Tali pronunciazioni, costituivano così dei precedenti ai quali il giudice era tenuto a prendere in considerazione durante la sua attività adattandoli e/o modificandoli di volta in volta ai vari casi che gli si presentavano; anche se in quel periodo non molti cambiamenti o modifiche vennero fatte a tali interpretazioni, per il fatto che non se ne era avuta esigenza perché la società romana dell’epoca non era assai sviluppata.
Già dall’inizio della repubblica, nella prima metà del V secolo a.c. , l’interpretazione dei pontifices, venne affiancata dalle leges rogate. Le leges rogare erano provvedimenti dell’assemblea popolare (comitia centuriata) formata dal patriziato laico e servivano per modificare dei provvedimenti gia esistenti.
Anche le XII Tavole (450 a.c.) sono state redatte sotto forma di lex rogata deliberata dall’assemblea popolare, anche se la funzione delle XII Tavole era ben diversa dalle leges rogate.
Le XII Tavole, avevano come oggetto principale i rapporti del diritto privato. Nelle XII Tavole erano state versate le memorizzazioni delle pronunce dei pontifices conservate negli archivi del collegio. Tale codificazione quindi si limitava a elencare quello che fino ad allora era stato prodotto nell’ambito dell’ordinamento romano.
V’erano poi alcuni settori dell’esperienza giuridica che non erano mai stati oggetto di pronunce da parte dei pontifices, questi aspetti riguardano per la maggior parte gli istituti giuridici e la qualificazione di questi. Infatti le prescrizioni delle XII Tavole riguardano in maggioranza norme di relazione che regolamentano i conflitti di interesse. Si può dire quindi che le XII Tavole non possono essere considerate come una codificazione in senso moderno, esse infatti contenevano più che altro di decisioni in merito a casi concreti che potevano, all’occorrenza, essere adattate ad un nuovo caso o sostituite a seconda dello sviluppo del costume. Infatti anche dopo il 450 a.c. i pontifices continuarono nella loro attività di interpreti senza sentirsi limitati nel loro operato dalle regole contenute nelle Tavole.
Alle leges rogate, vennero progressivamente affiancandosi i plebiscita, presi nei concilia plebis tributa, organizzazione di origine rivoluzionaria che comprendeva la plebe la quale era stata esclusa dalle magistrature cittadine, monopolio della nobiltà patrizia.
Buona parte delle riforme sul piano del diritto privato sono state introdotte da plebiscita, le quali vennero poi chiamate lex. Tali lex non furono mai utilizzate per creare nuovi istituti, ma solo per modificare quelli pre-esistenti. 
Tra il IV e il III secolo a.c. assistiamo ad un profondo sviluppo della società romana, prima nell’ambito dei traffici commerciali e poi anche a livello sociale e istituzionale, il chè comportava l’esigenza di regolamentare una serie di nuovi rapporti che fino ad allora non erano stati oggetto di regolamentazione; ai quali i pontifices non erano però ben predisposti. Questi rapporti vennero così ad avere tutela mediante l’attività del pretore, detto poi console. Ciò permise di risolvere molte controversie nascenti dai traffici internazionali, dei quali lo ius civile non se ne occupava in modo significativo. Queste innovazioni portarono alla nascita di un nuovo sistema detto ius honorarium, che andò ad affiancare il ius civile. Tale attività giurisdizionale fu successivamente allargata a tutti i rapporti.
Già verso la fine del III secolo a.c. l’intervento del pretore diventa massiccio e la sua figura si andò istituzionalizzando come quella di mediatore tra la natura e i rapporti umani. I pretori formulavano ogni anno un editto nel quale specificavano i casi di cui si sarebbero dovuti organizzare i processi.

Laicizzazione della giurisprudenza.

Il passaggio dalla giurisprudenza dei pontifices alla giurisprudenza laica si ebbe a seguito della divulgazione da parte dei pontefices del loro modo di operare, avvenuta intorno alla metà del III secolo a.c.
Quanto alla legittimazione dei giuristi laici a dare pareri vincolanti, venne a svolgere ruolo importante il concetto di auctoritas, cioè il potere di un soggetto di vincolare altri soggetti al proprio parere. Tale potere era nelle mani dei pontifices in relazione alla loro importanza istituzionale. In conseguenza si dedusse che anche i laici aventi una certa importanza istituzionale dovessero godere dell’auctoritas.
Col tempo all’auctoritas di natura sociale si andò affiancando alle qualità tecniche in campo giuridico dei singoli giuristi.

Il “jus controversium” ed il metodo casistico.

La sostituzione dei giuristi laici ai pontifices, fu causa di un profondo cambiamento.
Il carattere unitario del collegio dei pontifices, aveva fatto si che fino ad allora non vi fossero state divergenze di opinione. Quando la legittimazione a dare pareri in materia giuridica si spostò ai prudentes laici, i quali agivano singolarmente, sorse la possibilità che si potessero avere una pluralità di pareri divergenti, dando vita così al ius controversium.
Man mano che i giuristi aumentavano, anche il numero di pareri divergenti andava accrescendosi, tutti aventi la stessa autorità. La causa maggiore fu che il giudice laico non poteva essere in grado di valutare i pareri divergenti.
Nel caso in cui vi si presentavano in un determinato caso pareri contrastanti egli era tenuto a scegliere tra uno dei due.

Le fonti del diritto nel principato.

Con il principato si ebbero profondi mutamenti negli assetti istituzionali, questo però non porto rilevanti modificazioni nell’assetto socio-economico romano poiché non vi furono radicali innovazioni sul piano del diritto privato.
Il principes agiva da supervisore sulle cariche giurisdizionali. Scomparve la lex rogata, troppo legata all’ideologia repubblicana,  per far spazio ai senatusconsulta, i quali sono considerati idonei a creare ius civile e sono quindi direttamente vincolanti per i soggetti.
In questo periodo si ebbe anche la codificazione dell’editto pretorio, in modo tale che il pretore perde l’indipendenza politica nei confronti dell’imperatore. Il principe esercitava una sorta di sorveglianza sulla produzione letteraria dei giuristi per individuare chi realmente avesse l’auctoritas e le capacità tecnico-giuridiche necessarie. Quindi l’auctoritas del principe era sovrapposta alle altre. Era l’imperatore che valutava le capacità e le auctoritas dei vari soggetti, scegliendo così i prudentes. Si ritenne quindi che un giurista munito di ius respondendi avesse maggiore auctoritas rispetto ad un giurista che ne era sprovvisto; di conseguenza anche i pareri dei prudentes ebbero peso differente a seconda di colui che le avesse prodotte.

Le costituzioni imperiali.

Con Augusto si ha l’avvento delle costituzioni imperiali, le quali sono idonee a creare ius civile.
Esse si distinguono in due categorie: 

  • costituzioni generali, che pongono norme giuridiche in senso proprio (edicta e mandata);
  • costituzioni particolari, che risolvono un caso concreto (decreta epistulae e rescriptia). 

Gli edicta e i mandata si presentavano come istruzioni date dall’imperatore ai propri funzionari ed ai magistrati.
I decreta sono sentenze emanate direttamente dall’imperatore nell’esercizio diretto della giurisdizione. I rescriptia e le epistulae sono usati dall’imperatore per  dare un’opinione vincolante in merito al caso concreto.
I provvedimenti presi dal principe erano discussi in seno al consilium principis il quale era composto da esperti in materia giuridica. La cancelleria imperiale andava quindi ad affiancare i giuristi nella produzione delle fonti.

Ius controversium e giurisprudenza alla fine dell’epoca classica.

Verso la fine dell’epoca classica, il ius controversium non subì particolari cambiamenti restando vigore fino a Giustiniano. Novità non si ebbero nemmeno nel metodo della giurisprudenza, la quale restò sostanzialmente ancorata alla metodologia casistica. L’attività di produzione dei giuristi laici continuò in modo tale da fornire una sempre più vasta quantità di casi concreti così da poter fornire al magistrato materiale esaustivo per applicare meccanicamente questo o quel provvedimento a seconda del caso.

Il volgarismo postclassico e la compilazione giustinianea.

A partire dal 240 d.c. l’elaborazione del diritto vigente spetta ormai solo alla cancelleria imperiale.
Nel passaggio tra il III e il IV secolo d.c. i mutamenti furono molto più evidenti con l’affermarsi delle costituzioni generali, le quali vengono utilizzate anche per disciplinare i rapporti privatistici. Tale produzione viene definita “volgarismo” per il fatto che essa non avveniva in metodo scientifico (secondo la scuola classica). Nonostante i prudentes non producessero più, questi erano però, ancora oggetto di studio nelle scuole romane e quindi, anche se in una veste diversa, erano ancora fonti del diritto. Il giudice era tenuto a tenerne nel caso in cui una parte li avesse sottoposti alla sua attenzione. A regolamentare tale situazione fu fatta una legge detta legge delle citazioni la quale specificava quali autori potevano essere sottoposti all’attenzione del giudice.
Infine Giustiniano nell’aprile del 529 d.c. pubblica il Novus codex Iustinianus il quale fondeva al suo interno le costituzioni generali dei suoi predecessori insieme alla legge delle citazioni. Nel 530 d.c. abbiamo la compilazione del Digesto e nel novembre 534 si ebbe la compilazione di una nuova raccolta di costituzioni chiamata Novelle Costituzioni.

 

CAPITOLO 2

DIRITTO DELLE PERSONE E DELLA FAMIGLIA

I soggetti di diritto e la capacità giuridica. Le persone fisiche.

Anche nel diritto romano i soggetti di diritto si distinguono in persone fisiche, gli esseri umani, e le persone giuridiche.
Perché la persona fisica possa esser soggetto di diritto deve esistere: l’inizio e il termine di questa esistenza sono rappresentati dalla nascita e dalla morte.
La nascita si identifica con il completo distacco dal corpo materno e con la vita autonoma.
La persona fisica esiste solo in seguito alla nascita; durante la gravidanza, i romani non vedono nel feto un uomo.
In epoca repubblicana non esistevano registri di stato civile, per cui la prova della nascita poteva essere data con qualsiasi mezzo. Durante l’impero venne imposto l’obbligo di denunciare all’autorità la nascita di figli sia legittimi che illegittimi.
Anche la morte viene accertata con qualsiasi mezzo.
La persona fisica è fornita di capacità giuridica; la capacità giuridica è l’idoneità di un soggetto ad essere titolare di diritti e doveri. Le persone fisiche non sono le uniche ad essere titolari di capacità giuridica, infatti anche le persone giuridiche ne sono provviste.
In oltre va ricordato che in epoca romana, la capacità giuridica non è riconosciuta a tutti gli esseri umani.
Per essere soggetti di diritto bisogna essere anzitutto liberi e godere quindi dello status libertatis,
ma anche cittadino e godere quindi dello status civitatis. Inoltre doveva essere sui iuris, quindi non soggetto ad altrui potestas.
A partire dalla media repubblica è necessario solo lo status civitatis per godere di una completa capacità giuridica, mentre gli stranieri usufruivano del ius honorarium e del “ius gentium” (diritto delle genti appartenente a tutte le civiltà basato su regole comuni derivanti dalla natura). Nel principato poi viene riconosciuta ai filifamilias, la capacità giuridica di diritto privato nei limiti del peculium castrense.

 

Lo “status libertatis” e la schiavitù

 

Tutti i popoli antichi conoscevano il fenomeno della schiavitù.
In Roma, la schiavitù in senso proprio è stata sempre regolata  secondo la disciplina della proprietà.  Sul piano socio-economico si hanno diverse forme di schiavitù a seconda dei tempi e delle mansioni svolte dagli schiavi.
Alle origini e fino agli inizi del III sec. a.c. abbiamo schiavitù patriarcale dove la condizione dei filifamilias non si differenziava molto da quella degli schiavi.
Abbiamo poi gli schiavi addetti di massa ai lavori agricoli i quali vivevano in condizioni generalmente pessime; tale classe era costituita più che altro da individui provenienti da popoli lontani considerati barbari.
Ancora vi sono schiavi addetti alla manodopera artigianale, in cui era importante la specializzazione professionale che ne accresceva il valore.
V’erano poi gli schiavi urbani, destinati a lavori domestici o personali, dove al valore economico si aggiungeva l’attitudine del servo ai servizi ai quali era demandato. Altri erano poi demandati a capo di una piccola porzione di fondo e potevano allevare del bestiame e usufruire del lavoro di altri schiavi.
I poteri del dominus, erano pieni fino al ius vitae ac necis fino al periodo del principato, quando si iniziano ad avere interventi dell’imperatore, che prevedevano sanzioni penali e amministrative per il proprietario che mettesse a morte lo schiavo senza ragione oppure procedesse a sevizie.
Sul piano del diritto pubblico, lo schiavo è completamente irrilevante anche dal punto di vista della capacità processuale.
Nell’ambito del ius sacrum, lo schiavo religiosus poteva partecipare alle cerimonie dove sotto il punto di vista religioso lo schiavo fosse considerato un uomo, anche i luoghi e le cerimonie di sepoltura di schiavi e liberi coincidevano.

L’attività giuridicamente rilevante dello schiavo.

Essendo una res, lo schiavo era totalmente incapace di essere titolare di diritti e di obblighi sul piano del diritto privato. Lo schiavo non può contrarre matrimonio e l’unione di due schiavi può avvenire solo di fatto. La parentela di fatto fra schiavi è giuridicamente irrilevante. Uno schiavo può ricevere per testamento, purchè il soggetto interessato abbia raggiunto la libertà.
Sul piano patrimoniale l’incapacità dello schiavo è totale, egli poteva acquistare per il proprietario diritti reali e diritti di obbligazione mentre, non poteva alienare cose del proprietario. La responsabilità per gli atti posti in essere dello schiavo ricade completamente nella sfera giuridica del dominus.

Le cause della schiavitù.

Le principali cause di schiavitù sono la nascita da madre schiava e la prigionia di guerra.
Chi nasce da madre schiava, chiunque ne sia il padre, cade in proprietà del dominus della schiava stessa. Nel perido tardo classico si cominciò ad ammettere che il figlio nascesse libero se la madre fosse stata libera in un momento qualsiasi del periodo che va dal concepimento al parto.
L’altra principale causa di schiavitù è la prigionia di guerra che viene considerata come una applicazione dell’acquisto per occupazione e riguarda non solo i combattenti, ma anche la popolazione civile.
Il guerriero caduto in schiavitù perde la capacità giuridica, i suoi beni vengono annullati e si estinguono i debiti ed i crediti di cui era titolare; egli li riotteneva intatti nel caso in cui facesse ritorno in patria dalla prigionia. Il testamento del capitivus morto in prigionia era ritenuto valido, poiché egli si riteneva morto dal momento in cui egli era stato fatto prigioniero.
In oltre si cade in schiavitù se non ci si fa iscrivere nelle liste del censo o non si risponda alle chiamate militari; una donna libera poteva essere ridotta in schiavitù nel caso in cui questa intrattenesse una relazione con uno schiavo; ancora cadeva in schiavitù il libero che si fosse consapevolmente fatto vendere come schiavo. Nel tardo antico, cadono in schiavitù riscattabile i figli venduti appena nati dal padre (in caso di estrema necessità).

L’acquisto della libertà e le manomissioni.

Il servo diviene libero mediante un apposito atto del proprietario, la manumissio.
Abbiamo tre forme di manumissio: la manumissio vindicta, testamento, censu, che fanno acquistare allo schiavo contemporaneamente la libertà e la cittadinanza romana.
- La manumissio vindicta è un atto in cui si ha formalmente la pronunciazione di una formula liberatoria, allo scopo di far acquistare la libertà ad un soggetto in stato di schiavitù.
- La manumissio testamento è un atto mediante il quale il dominus dispone che nel periodo successivo alla sua morte, lo schiavo debba essere liberato.
- La manumissio censu consisteva nell’iscrizione dello schiavo come libero e cittadino nelle liste del censimento che dal 367 a.c. venivano preparate ogni cinque anni. La denuncia veniva fatta dal servo sotto autorizzazione del dominus.
Oltre a questi modi di manomissione, in seguito si ammisero anche altri modi non solenni i quali conferivano al manomesso solo la libertà e non la cittadinanza. Questi soggetti presero il nome di “latini iuniani” dal nome della legge del I sec. d.c. : la “LEX IUNIA NORBANA”.
Nel tardo antico si ha la distinzione tra manomissioni civili e pretorie, le prime perdono quasi completamente la solennità che avevano nei periodi precedenti.
A partire dal IV sec. d.c. si sviluppa una nuova forma di manomissione chiamata manumissio in ecclesia, la quale attribuisce anche la cittadinanza romana.
Tutti gli altri tipi di manomissioni non erano solenni e gli schiavi acquisivano lo status di latini iuniani quando il dominus che avesse agito in giudizio per riacquistare la potestas sul servus e il giudice gli avesse negato l’azione.
Nella legislazione di Augusto iniziano ad apparire delle restrizioni alla libertà di manomettere in relazione al numero di schiavi posseduti dal dominus (LEX FUFIA CANINA), all’età dello schiavo o del dominus (LEX AELIA SENTIA).
Fuori dalla manomissione la liberazione degli schiavi poteva avvenire: per legge, per volontà di un magistrato, per sanzione in capo al dominus, abbandono da parte del padrone, violazione del divieto di non prostituire l’ancilla, usucapione, assunzione di voti monacali da parte dello schiavo.

I liberti.

Nella categoria dei liberi si distinguevano gli “ingenui”, cioè coloro che nascevano liberi, dai “libertini” i quali l’avevano acquistata in seguito a manomissione.
Il liberto incorre in una serie di incapacità e di doveri nei confronti del “patrono”, il dominus che lo ha manomesso.
Quanto alle incapacità è fatto divieto al liberto di accedere all’ordine senatoriale ed equestre. Solo l’imperatore può provvedere ad equiparare la condizione dei liberti a quella degli ingenui mediante la “restituito natalium”.
Sul piano privatistico l’incapacità più importante è quella che vieta ai liberti di contrarre matrimonio con membri del ceto senatorio; inoltre il liberto non può citare in giudizio il patrono senza l’autorizzazione del magistrato; infine il patrono acquisisce metà del patrimonio del liberto a seguito della morte di questi nel caso non avesse eredi.
Quanto ai doveri, il liberto deve al patrono l’obsequium, deve cioè mantenere un certo comportamento nei suoi confronti; vi erano poi obblighi aventi ad oggetto la prestazione di servizi. Tali servizi si distinguevano in opere officialis, le quali non erano direttamente valutabili  economicamente; e fabriles, prestazioni valutabili economicamente che potevano anche essere cedute dal patrono a terzi.

Condizioni paraservili e altre cause minoratici di capacità giuridica.

Nel diritto romano vi erano altre condizioni che si avvicinavano a quella della servitù.
Una categoria particolare era rappresentata dalle “personae in causa mancipi”. Si trattava di discendenti soggetti alla patria potestas del paterfamilias che li aveva trasferiti ad un altro pater mediante mancipatio.
Le personae in causa mancipi mantengono libertà, cittadinanza e piena capacità giuridica per i rapporti personali; dal punto di vista dei rapporti patrimoniali, le personae in mancipio si trovano praticamente nella stessa condizione dei filifamilias. Essi uscivano dalla loro condizione di mancipati  soltanto con manumissio.
Altra condizione paraservile è il colonato, cioè una persona demandata dal potestas alla coltivazione di un appezzamento di terreno. Il colono e la terra divengono inscindibili: il colono non può abbandonare la coltivazione e, il proprietario che gli ha affidato il fondo non può allontanarlo dallo stesso per nessun motivo; il colono doveva al signore un canone, in denaro o in natura.
Si diveniva colono per nascita, per usucapione, per contratto, per legge dello stato.

Lo “status civitatis”: acquisto e perdita della cittadinanza.

Gli istituti del conubium e del commercium permettono allo straniero la possibilità di compiere atti all’interno dell’ordinamento romano. Il conubium attribuiva la capacità a contrarre matrimonio fra appartenenti a civitatis diverse. Dall’unione di un cittadino romano con una cittadina straniera munita di conubium, nascevano figli liberi e con la cittadinanza romana, ma la moglie non acquisiva la cittadinanza romana a meno che non abbia contratto matrimonio cum manu.
Il commercium attribuiva invece allo straniero il potere di compiere i gesta per aes et libram.
L’acquisto della cittadinanza avviene per nascita, per manomissione solenne, per legge e per sentenza. In costanza di matrimonio è cittadino romano chi nasca da padre romano; in caso di filiazione fuori dal matrimonio, è cittadino romano chi nasce da madre romana.
Agli inizi del I sec. a.c. Fu emanata una legge, la “LEX MINICIA” secondo la quale in relazione all’unione tra una cittadina romana e uno straniero sprovvisto di conubium, il figlio andava a prendere la cittadinanza del padre.
Diveniva cittadino romano anche lo schiavo liberato con una manomissione solenne.
In oltre la cittadinanza romana era concessa mediante una lex oppure con atto del magistrato autorizzato da una legge.
La cittadinanza si perde con la perdita dello status libertatis oppure mediante sentenza del magistrato con l’allontanamento dai territori romani.

I “Latini”.

Per latini s’intende tutti gli uomini liberi, non cittadini romani, ma che comunque si trovavano sotto la giurisdizione romana.
A partire dal IV sec. a.c., Roma fondò città stato indipendenti, alle quali conferiva la qualificazione di città latine e agli abitanti veniva attribuito lo status di latini. Tale status conferiva il diritto di stabilirsi presso una qualsiasi di queste città-stato ed il commercium, mentre non era attribuito il connubium. Inoltre vi era conferito il diritto di votare a Roma e di riacquistare la cittadinanza a Roma per coloro che si erano spostati da Roma verso quelle terre.
All’inizio dell’epoca repubblicana, le varie città avevano propri ordinamenti, i quali però dovevano coincidere in larga parte con quello romano. Successivamente si andò ad applicare direttamente il diritto romano, anche per i latini Iuniani.

 

Cittadinanza e capacità giuridica. La “constitutio Antoniniana”.

Nel 212 d.c. Antonino Caracalla concesse la civitas romana agli abitanti dell’impero che ne fossero sprovvisti tranne che per i Latini Iuniani e coloro che l’avessero persa in seguito a decisioni del tribunale. In seguito fu oggetto di discussione il problema della scelta del diritto da applicare ai nuovi cittadini. Secondo i principi, a costoro andava applicato esclusivamente il diritto romano. Questo accadde senza problemi in occidente, ma in oriente si continuarono ad utilizzare i vari diritti provinciali. In genere comunque i diritti locali continuarono ad essere usati come mores.

Lo “status familiae” e le origini della “familia”.

La famiglia proprio iure è fondamento di tutta la società romana. Essa era un si scioglieva con la morte del paterfamilias che aveva ampi poteri sulle persone libere che ne facevano parte.
Tale potere, chiamato patria potestas, giungeva fino al ius vitae ac necis (diritto di disporre della vita della persona soggetta). Coloro che sono sottoposti a patria potestas sono sprovvisti di capacità giuridica. Il filiusfamilias può contrarre iustum matrimonium, ma i figli nati da questo rapporto cadono sotto la potestas dell’avo. Alla morte del paterfamilias i discendenti immediati divengono tutti sui iuris. I maschi con prole diventano patersfamilias e vedono ricadere sotto la loro potestas i propri figli. Lo scioglimento anticipato della familia può avvenire per mancipatio, per adoptio o per conventio in manum.

La patria potestas.

Il paterfamilias aveva uguale potere nei confronti del filius e dello schiavo, perché la libertas e la civitas di cui godeva il filius, non avevano importanza. Solo alla morte del paterfamilias si avvertiva la differenza, poiché il filius diveniva sui iuris e lo schiavo passava sotto la potestas dell’erede. Il paterfamilias, per molti aspetti, trattava le persone sotto la sua potestas alla stregua di res. Vi era quindi una forte analogia tra l’esercizio della proprietà e della patria potestas.
Un aspetto fondamentale però differenzia la potestas familiare dalla proprietà sulle cose: la patria potestas è infatti inestinguibile e intrasmissibile. Infatti, la mancipatio di una res mancipi trasferisce all’acquirente lo stesso potere che aveva sulla cosa l’alienante; invece se il pater fa la mancipatio di un filiusfamilias, l’acquirente non acquista la patria potestas, poiché il filius si viene a trovare in causa mancipi.
Alle origini, il potere del pater sui discendenti non conosceva limiti sul piano del diritto privato. Il ius vitae ac necis incontrava vincoli di carattere sacrale. Con la progressiva laicizzazione della società, questi vincoli caddero in disuso, sostituiti dal controllo diretto da parte dello stato.
Per quanto riguarda i rapporti di natura personale, i discendenti hanno capacità matrimoniale, e concludono personalmente il matrimonio, con l’assenso del pater stesso.
Il filiusfamilias era  incapace dal punto di vista patrimoniale.
Più in avanti si riconobbe ai figli maschi la possibilità di obbligarsi per il ius civile e per il ius honorarium, e gli effetti ricadevano nella loro sfera giuridica. La capacità di obbligarsi dei filifamilias fu poi limitata da Vespasiano il quale emanò una legge secondo la quale non potevano essere concessi prestiti in denaro ai figli, a meno che il pater non si fosse impegnato direttamente.
Con Augusto viene introdotto il peculium castrense,  cioè la piena capacità giuridica sui dei beni acquistati dal filiusfamilias durante il servizio militare.
A difesa della patria potestas si usava la legis actio sacramento in rem e l’actio in rem per sponsionem.

Acquisto e perdita della patria potestas.

Il padre acquista la patria potestas sul figlio nato da iustum matrimonium. I nati fuori dal matrimonio, sono sin dalla nascita personae sui iuris.
La patria potestas si acquista poi mediante adrogatio, adoptio e conventio in manum.
La adrogatio ha per oggetto un altro paterfamilias e si svolge per assicurare la perpetuazione di una famiglia, sia a fini socio-economici, sia per fini sacrali. L’adrogatio era negata a chi avesse già dei discendenti, a chi non avesse compiuto ancora 60 anni e a chi fosse più giovane della persona che voleva arrogare. L’arrogatore acquistava la potestas sull’arrogato e per l’arrogato cessa qualsiasi rapporto di parentela civile, nella nuova famiglia egli va ad assumere la stessa posizione di un filius.
L’adoptio in senso stretto trasferiva un filiusfamilias dalla potestas di un pater a quella di un altro pater. Essendo la patria potestas inestinguibile e intrasmittibile le XII Tavole stabilirono che il pater, alienando un figlio per tre volte, perdeva la potestà su di lui. A questo punto entrava in scena il padre adottivo, che con una decisione del pretore aveva quindi il riconoscimento della patria potestas.
Potevano adottare solo i soggetti che fossero liberi, cittadini, puberi e di sesso maschile.
Si poteva adottare qualsiasi persona alieno iuri subiecta, sia maschio che femmina a patto che l’adottato fosse più giovane del padre adottivo.

Matrimonio e “conventio in manum”.

Abbiamo due tipi di matrimonio, quello cum manu (manus = potestas del marito) e quello sine manu: il primo  viene posto in essere  mediante le forme previste per l’acquisto della manus da parte del marito; il secondo si fonda sulla semplice reciproca volontà dei coniugi di essere marito e moglie.
Vi erano dunque due diverse condizioni della donna sposata: uxor in manu, la quale era sotto la patria potestas del marito; uxor sine manu, la quale conservava il suo stato originario.
La conventio in manum era l’istituto mediante il quale il marito assumeva la potestas sulla moglie. Questi avveniva in tre modi:

  • “Confarreatio”,atto costituito da una serie di rituali religiosi i quali si concludevano con l’unione spirituale dei due e con l’ingresso della moglie nella famiglia del marito;
  • “Coemptio” molto simile alla mancipatio, a differenza che questa era espressamente compiuta matrimonii causa;
  • “Usus” il quale era un caso di applicazione dell’usucapione il quale andava a riparare, dopo un anno, ad un errore od omissione della coemptio.

Il matrimonio era normalmente preceduto da “sponsio”, fidanzamento; il quale creava tra gli sponsalia una certa responsabilità a contrarre in futuro iustum matrimonium.

Validità e scioglimento del matrimonio.

Secondo le XII Tavole, un matrimonio per essere valido deve avere certi requisiti.
Gli sposi devono essere puberi, sani di mente e non devono essere in rapporto di parentela naturale o civile; vi doveva essere reciproca capacità matrimoniale.
Con Augusto, venne fatto divieto agli ingenui appartenenti ai ceti più alti di sposare donne di dubbia fama, vale a dire attrici o liberte.
Vi era poi il divieto per la donna di contrarre nuovo matrimonio entro un certo tempo dallo scioglimento del primo, questo periodo di tempo viene chiamato “tempus lugendi”.
Nel tardo antico vengono stabiliti nuovi divieti a carattere religioso.
Il matrimonio si scioglie, per morte di uno dei coniugi. Alla morte era equiparata la perdita della libertà. Anche la perdita della cittadinanza comportava lo scioglimento del matrimonio. Il matrimonio si scioglieva anche in seguito al ripudio inviato da uno dei coniugi all’altro.
Il coniuge alieni iuris, non poteva divorziare senza il consenso del paterfamilias.
Nel matrimonio cum manu, il divorzio non comportava l’uscita della donna dalla famiglia del marito.
Il divorzio consensuale, resta valido.

Rapporti personali e patrimoniali fra i coniugi.

I rapporti personali fra i coniugi sono regolati più che altro dal costume.
Sul piano sociale vi è il dovere reciproco di fedeltà, rispetto ed assistenza.
L’adulterio è la violazione del dovere di fedeltà da parte della moglie; in base alla legislazione, il marito aveva il potere di uccidere il correo dell’adultera se colti in flagrante. Il marito comunque non poteva esercitare lo ius vitae ac necis sulla moglie. L’esercizio di tale potere spettava al padre naturale dell’adultera.
I rapporti patrimoniali sono diversi a seconda che il matrimonio sia cum manu o sine manu. Nel matrimonio cum manu non si possono avere rapporti patrimoniali tra i coniugi, perché la moglie è priva di capacità giuridica. Nel matrimonio sine manu si ha la separazione dei beni, quindi la donna è titolare del proprio patrimonio e lo amministra senza l’ingerenza da parte del marito. Vi erano poi dei beni chiamati “parapherna” che erano di proprietà della moglie, ma venivano amministrati dal marito, come ad esempio la dote.
La dote se è costituita dall’avente potestà sulla donna è detta “dos profeticia”, oppure è “dos adventicia” quando è costituita dalla donna.
I negozi costitutivi della dote sono tre:

  • La “dotis dictio” era una obbligazione verbale compiuta dall’avente potestà sulla donna, dalla donna stessa, o da un terzo debitore nei confronti della donna.
  • La “promissio dotis” era un’applicazione della stipulatio, per il fatto che si faceva menzione della causa dell’obbligazione assunta. 
  • La “datio dotis” aveva invece effetti reali e consisteva nell’immediata trasmissione della proprietà delle cose facenti parte della dote mediante mancipatio, traditio o in iure cessio.

Poteva essere oggetto di dote qualsiasi diritto patrimoniale. Originariamente non andava restituita e rimaneva definitivamente nel patrimonio del marito. In seguito si ammise la dote profecticia dovesse essere restituita al paterfamilias di lei.

Parentela civile e parentela naturale.

La “adgnatio” è la parentela civile che unisce tutti i discendenti legittimi e maschi del paterfamilias. Anche le donne avevano un rapporto di parentela agnatizio con il capostipite, ma esse non potevano trasferire l’adgnatio.
La adgnatio si acquista per nascita da iustum matrimonium, in seguito ad adrogatio, adoptio, conventio in manum, e legittimazione dei figli avuti fuori da iustum matrimonium.
Il vincolo gentilizio è un altro rapporto di parentela riconosciuto dal ius civile e deriva dall’appartenenza ad un organismo più ampio, la “gens”. Essi si contraddistinguono per la comunanza del “nomen”, detto “nomen gentilicium”.
Il vincolo gentilizio era rilevante in materia ereditaria in caso di mancanza di agnati.
Vi era poi la parentela di sangue chiamata “cognatio” nella quale non esiste differenza tra uomini e donne. Ai fini della successione questa può essere presa i considerazione solo dal pretore. Soltanto in epoca giustinianea viene definitivamente abolita la prevalenza della parentela agnatizia in materia di tutela e di successioni.

La capacità di agire. Gli “impuberes”.

La capacità di agire è rappresentata dalla idoneità di un soggetto a porre in essere un’attività giuridicamente rilevante, per di creare, modificare o estinguere un rapporto giuridico. Nel diritto romano, la capacità di agire può essere limitata da cause attinenti all’età, al sesso, a vizi della sfera mentale e caratteriale.
La “infirmitas aetatis” è causa di esclusione o diminuzione della capacità di agire per chi è inferiore ad una certa età: la piena capacità si raggiunge con la pubertà la quale viene verificata con la “inspectio corporis”; per i ragazzi il raggiungimento della pubertà fu poi imposto da Giustiniano al compimento dei 14 anni.
Nel periodo classico gli impuberi vennero divisi in tre categorie. Gli “infantes”, gli “infantia maiores” e i “pubertati proximi”.
Gli infantes sono totalmente incapaci di agire e gli atti da loro compiuti non hanno alcun effetto giuridico.
Gli infantia maiores sono solo parzialmente incapaci di agire; possono solo migliorare la loro situazione patrimoniale, ma non deteriorarla. Essi avevano piena responsabilità per i negozi compiuti senza l’auctoritas del tutore.
I pubertati proximi sono capaci di commettere volontariamente o negligentemente atti illeciti.

 

La “tutela impuberum”

 

La tutela impuberum ha lo scopo di fornire all’impubere assistenza e protezione. Vi sono tre specie di tutela: legitima, testamentaria, dativa.
La tutela legitima si ha quando il testatore non ha designato nessuno, e spetta al parente legittimo più vicino in grado. Con Giustiniano si ebbe poi che venisse conferita anche ai cognati.
Nella tutela testamentaria il paterfamilias nomina un tutore ai discendenti impuberi.
Nella tutela dativa, secondo la LEX ATILIA del 210 a.c., il pretore assegnava all’impubere un tutore nel caso in cui questi non ne abbia.
Il tutore testamentario può rinunciare in qualsiasi momento alla carica mediante “abdicatio tutelae”. Il tutore legittimo poteva compiere lo “in iure cessio tutelae”. Il tutore dativo non può rinunciare alla carica, ma può solo presentare delle cause che giustifichino il rifiuto della carica stessa.
Il tutore legittimo deve essere sui iuris, maschio e pubere. Nella tutela testamentaria e in quella dativa il tutore non è necessario che sia sui iuris. Le donne non potevano diventare tutori, ad eccezione della vedova che si impegnava a non risposarsi la quale poteva essere tutrice dei propri figli.
Nell’amministrazione del patrimonio dell’impubere il tutore utilizzava la rappresentanza indiretta oppure esercitava l’auctoritas con la quale il pupillo poteva compiere atti di persona , ma con l’assistenza del tutore.
Contro il tutore testamentario si esercitava la “cognitio” che aveva per effetto la rimozione del tutore al posto del quale veniva nominato un tutore dativo.
Per regolare i rapporti tra tutore e pupillo viene introdotta l’actio tutelae la quale colpisce il tutore che abbia agito con dolo o con negligenza.

La “tutela mulierum”.

La donna era totalmente incapace per il diritto pubblico, mentre aveva piena capacità processuale.
Sul piano del diritto privato, la donna era incapace per gli atti che concernevano la patria potestas.
La donna risponde senza per le obbligazioni derivanti da delitto mentre per le obbligazioni derivanti da contratto si applica la stessa disciplina dell’impubere. In oltre la donna poteva alienare solo le res nec mancipi e, come creditrice, poteva estinguere una obbligazione. Aveva invece bisogno del tutore per gli atti che le potevano recare svantaggio.
Anche la tutela mulierum poteva essere legittima, testamentaria o dativa. Ella era esonerata dalla tutela dopo che avesse partorito 3 figli se ingenua oppure 4 se liberta, nell’ambito di un iustum matrimonium.

Le curatele.

Le curatele riguardano il pazzo, il prodigo e il minore di 25 anni.
La curatela sul pazzo veniva attribuita ai suoi adgnati e comprendeva la potestas su egli e sulla sua pecunia. In mancanza di adgnati l’attribuzione della curatela era disposta dal pretore.
Il furiosus è totalmente incapace di agire.
La curatela sul prodigo spetta agli adgnati e, in mancanza, ai gentiles. L’interdizione del prodigo spettava al magistrato. Era prevista anche una curatela dativa. Il prodigo interdetto, era capace dal punto di vista del diritto penale. Dal punto di vista patrimoniale non poteva in alcun modo diminuire il suo patrimonio senza l’assenzo del curatore. Il curatore era chiamato ad amministrare il patrimonio dell’interdetto.
La curatela sul minore riguarda tutti i maschi dai 14 ai 25 anni. Essa disciplinata dal ius honorarium a seguito della “LEX LAETORIA DE CIRCUMPITIONE ADULESCENTIUM”, che fissava una pena pecuniaria a chi durante un negozio avesse approfittato dell’inesperienza del minore di 25 anni. Il curatore è scelto dal minore tra sue persone di fiducia e di esperienza. Il pretore disponeva a favore del minore la restituito in integrum del maltolto. In seguito si stabilì che il curatore doveva essere nominato da un magistrato. Dopo questi sviluppi il curatore prese sempre più ad amministrare il patrimonio del minore, facendo diventare sempre più simile tale istituto ad una tutela impuberum.

Le persone giuridiche.

Ciò che caratterizza le persone giuridiche è il concorrere di un elemento personale e un elemento materiale. Dove prevale l’elemento personale si ha un’associazione o corporazione.
Nei casi in cui prevale l’elemento materiale, la personalità giuridica viene conferita al patrimonio mentre l’elemento personale è messo in secondo piano.
L’associazione più importante nel periodo romano era lo stato inteso come S.P.Q.R. il quale ha una personalità separata da quella dei cittadini e dagli organi che lo compongono. Lo stato era in una condizione di supremazia rispetto ai cittadini, supremazia esercitata  mediante l’imperium dei magistrati. Questa supremazia riguardava aspetti politici amministrativi e privatistici.
Lo stato tutelava il suo patrimonio mediante l’imperium dei magistrati.
Un cambiamento si ha con il principato. Il principe, è un soggetto privato che allo stesso tempo ricopre una carica pubblica. Nell’ambito del patrimonio del principes si viene così a creare una distinzione fra i rapporti personali e quelli che invece riguardano la sua posizione istituzionale: questi rapporti costituiscono il fisco, che va al successore del trono e non agli eredi privati del principe.
Con l’affermarsi dell’assolutismo imperiale, si assiste alla privatizzazione del fisco da parte del sovrano.
Persone giuridiche sono anche le città-stato romane. Esse sono inglobate in un’altra città-stato (Roma), la quale riserva per se la funzione politica generale.
Esistevano due tipi di città stato: i municipia e le coloniae. I municipia sono città stato già esistenti, alle quali viene lasciata l’autonomia e la precedente organizzazione prima che fossero annesse a Roma. La colonia è una nuova città fondata da Roma e viene a far parte dello stato romano.
Nei confronti dello stato esse sono sottoposte all’imperium come i privati cittadini.
D’altro canto esse hanno una supremazia nei rapporti con i loro cittadini sul piano del diritto pubblico e del diritto privato.
Dal punto di vista patrimoniale, sia lo stato che le civitates sono autonome.
La ”LEX IULIA DE COLLEGIS” regolava la materia delle associazioni. Per la costituzione di nuove associazioni i fondatori dovevano essere minimo in tre; e dovevano essere autorizzati dal senato. Le associazioni venivano trattate alla stregua delle città romane. Inoltre le associazioni devono disporre di un patrimonio. Nel tardo antico si vanno affermando le corporazioni delle arti dette “scholae”. In certi casi per esercitare una determinata professione, era obbligatorio iscriversi alla relativa corporazione.
Nell’esperienza romana non sono conosciute fondazioni che abbiano autonomia patrimoniale, abbiamo solo la figura delle fondazioni fiduciarie, dove un patrimonio viene affidato ad una persona (fisica o giuridica) la quale si occuperà di utilizzarlo per un determinato scopo generalmente di beneficenza.

 

CAPITOLO 3

ATTI E NEGOZI GIURIDICI

 

I fatti giuridici e la loro classificazione.

Si dice fatto giuridico, qualsiasi fatto storico rilevante per il diritto.
Essi si distinguono tra atti giuridici e fatti giuridici in senso stretto.
Gli atti giuridici sono i fatti umani che vengono valutati in base alla volontà di colui che agisce.
Tutti gli altri fatti non compiuti dall’uomo sono fatti giuridici in senso stretto.
All’interno degli atti giuridici si distinguono gli atti leciti e gli atti illeciti a seconda che lo scopo e gli effetti si verifichino in conformità o in contrasto con la volontà di colui che agisce.
Gli atti illeciti costituiscono la violazione di diritti soggettivi.
Si ha poi la distinzione tra negozi giuridici e atti giuridici in senso stretto.
Nel negozio giuridico è fondamentale lo scopo pratico perseguito dalle parti, senza il quale il negozio non produce effetti.
Nell’atto giuridico in senso stretto, gli effetti si producono in base alla dichiarazione, senza considerare lo scopo pratico.

 

I soggetti del negozio giuridico

 

Gli elementi del negozio giuridico si distinguono in essenziali e accidentali. Gli elementi essenziali sono quegli elementi senza i quali un negozio non esisterebbe; gli elementi accidentali sono quelli aggiunti dalle parti come la condizione ed il temine.
Oltre a questi vi sono i “naturalia negotii”, cioè effetti che si producono senza che siano necessariamente considerati.
Per il negozio giuridico è necessaria la presenza di uno o più soggetti dette parti.
I soggetti del negozio devono essere capaci di agire. I negozi giuridici  possono essere unilaterali, bilaterali o plurilaterali, a seconda che ci siano una, due o più parti. Esempio di negozio unilaterale è il testamento.
Il negozio bilaterale (o plurilaterale) è l’accordo tra due o più parti per creare, modificare o estinguere un rapporto giuridico.

 

La manifestazione di volontà e la sua forma

 

La struttura del negozio giuridico consiste nella manifestazione di volontà delle parti.
Una dichiarazione si definisce espressa, quando la causa, viene manifestata mediante l’impiego di una struttura discorsiva, verbale o scritta. Tutte le altre vengono dette tacite, in quanto la volontà del soggetto si ricava dal comportamento tenuto.
La dichiarazione deve essere emessa volontariamente. Nei negozi unilaterali è sufficiente che l’unica parte emetta dichiarazione e mantenga un comportamento concludente. Nel negozio bilaterale, è necessario che esistano e s’incontrino le manifestazioni di volontà di entrambe le parti.
La forma del negozio è il modo in cui la dichiarazione negoziale si presentano esteriormente.
Possiamo avere negozi a forma libera o a forma vincolata. A forma vincolata, l’ordinamento fissa le modalità con le quali porre in essere il negozio. A forma libera, l’ordinamento lascia alle parti la scelta della forma.

Il contenuto e la causa del negozio.

La manifestazione di volontà ha per oggetto l’assetto di interessi voluto dalle parti.
Il contenuto del negozio deve essere possibile, determinato e lecito.
La causa consta nello scopo perseguito dalle parti con il negozio.
Essa è elemento essenziale rappresenta la funzione socio-economica del negozio.
Non bisogna però confondere la causa con i motivi in quanto la prima è essenziale mentre i secondi sono irrilevanti.
La nozione di causa viene poi utilizzata per distinguere i negozi causali dai negozi astratti. Nei negozi causali l’ordinamento produce effetti considerando la funzione socio-economica. Nei negozi astratti, invece, gli effetti giuridici si producono senza considerare tale funzione.

L’interpretazione del negozio giuridico.

L’interpretazione della dichiarazione si basa sui fatti rilevanti che condizionano la volontà del dichiarante.
Alle origini venivano utilizzate forme solenni per il negozio, dette “certa verba”, ed era rilevante solo il significato oggettivo. Infatti nelle XII Tavole, si pone l’accento solo sui verba e non sulla volontà; e ciò valeva sia per i negozi “inter vivos” che per quelli “mortis causa”. Successivamente i negozi si svincolarono dal formalismo dell’antico ius civile e si giunse alla conclusione che nei negozi causali “inter vivos”, il significato delle dichiarazioni si basava sulla comune intenzione delle parti (id quod actum est).
Successivamente anche nei negozi “mortis causa” divenne decisivo il significato attribuito dal testatore alla propria dichiarazione, anche se detto significato fosse diverso dal valore oggettivo dei verba adoperati.

Invalidità ed inefficacia del negozio giuridico.

In ordine ai vizi del negozio abbiamo la nullità e l’annullabilità. Nella prima l’atto non produce effetti; nella seconda l’atto produce provvisoriamente effetti, fin quando chi abbia interesse non si attivi per farli rimuovere.
I negozi invalidi sono quei negozi affetti da vizi di forma e si dividono in negozi nulli e annullabili.
Per il ius civile l’unica alternativa è quella tra negozio valido, che produce definitivamente i suoi effetti, e negozio nullo, che non li produce.
Diversa sul piano del ius honorarium dove il pretore può l’invalidare un negozio efficace secondo il ius civile; cio fa si che anche nel diritto romano si abbia il negozio annullabile.

I vizi dell’elemento soggettivo. Incapacità ed errore.

L’assenza o la riduzione della capacità di agire produce per il ius civile, la nullità del negozio nel caso degli impuberes, delle donne, dei furiosi e dei prodigi. Per i minores XXV annis si ha invece un’invalidità pretoria di negozi civilmente validi.
Nel negozio giuridico si intende per errore qualsiasi falsa rappresentazione della realtà.
L’errore sul contenuto del negozio può riguardare l’oggetto del negozio stesso. Nel diritto romano l’errore sulla causa è l’errore sul tipo di negozio che le parti vogliono porre in essere.
L’errore-vizio riguarda uno fra i qualsiasi motivi che hanno determinato la parte a concludere il negozio.

Il dolo negoziale.

Si parla di dolo negoziale quando la falsa rappresentazione della realtà è essere provocata volutamente dalla controparte.
Nel diritto romano, la parte di cui fosse stato con l’inganno carpito il consenso, trova protezione nel ius honorarium, mediante l’exceptio doli e l’actio de dolo. L’actio de dolo era un’azione pretoria e veniva concessa solo dopo un’istruttoria del pretore volta a stabilire se l’interesse in questione fosse o meno degno di tutela.
Nell’exceptio doli generalis il comportamento doloso consisteva in una omissione in mala fede.
La LEX IULIA IUDICIORUM PRIVATORUM impone al convenuto di obbligarsi sulla base della buona fede e la parte ingannata può la rimozione degli effetti del negozio.

La violenza.

Abbiamo due tipi di violenza: la violenza assoluta e quella relativa.
Nella violenza assoluta è esclusa la volontarietà a concludere un negozio; mentre la violenza relativa incide sulla formazione della volontà.
La violenza relativa è irrilevante nell’esperienza romana.
La violenza assoluta consiste nel fatto che un soggetto ha un comportamento negoziale non imputabile alla sua volontà poiché esso deriva dall’azione fisica di un’altra persona.
Nella violenza relativa era rilevante soltanto nel ius honorarium e si ha quando il soggetto è posto nell’alternativa di compiere un negozio o di subire un danno ingiusto.
I requisiti della violenza sono che la minaccia deve essere attuale e portata seriamente. Essa deve consistere in un danno serio alla persona della parte o dei suoi familiari o ai suoi beni.

Illiceità del negozio.

Il negozio può essere invalido perché illecito e cioè violi un divieto legislativo o una norma inderogabile, oppure vada contro l’etica e il buon costume.

La condizione.

La condizione collega l’efficacia del negozio stesso all’avverarsi di un evento futuro ed incerto.
Abbiamo vari tipi di condizione.
Le condizioni affermative dove si prende in considerazione il verificarsi; quelle negative dove se ne prende in considerazione il mancato verificarsi.
La condizione sospensiva fa iniziare gli effetti del negozio al verificarsi di un fatto futuro ed incerto.
La condizione risolutiva fa cessare gli effetti del negozio al verificarsi del fatto futuro ed incerto.
Le condizioni casuali sono quelle il cui avveramento dipende esclusivamente dal caso.
Le condizioni potestative sono quelle dove l’avveramento dipende dalla volontà di una delle parti.
Le condizioni miste sono quelle dove l’ avvenimento dipende sia dalla volontà delle parti sia dal caso.
Abbiamo in oltre la distinzione tra condizioni possibili ed impossibili, lecite ed illecite. E’ impossibile una condizione, se il fatto non poteva, al momento del negozio, verificarsi; è possibile nel caso contrario. La condizione è valutata come illecita dal punto di vista funzionale, in quanto serve a rendere palese un motivo illecito.
Avveratasi la condizione, vi è il problema di determinare il momento in cui inizino gli effetti del negozio. A tale proposito distinguiamo l’ efficacia retroattiva da quella irretroattiva: nella prima gli effetti si considerano venuti in essere al momento della conclusione del negozio; nella seconda al momento in cui si è avverata la condizione.
 
Il termine.

Il termine è la clausola che fissa un limite temporale agli effetti del negozio. Possiamo avere un termine iniziale (sospensivo) e un termine finale (risolutivo).
In tutti i negozi, in genere è sempre apponibile il termine iniziale, mentre quello finale trova soprattutto applicazione nei rapporti di durata, dove esso è ammissibile anche nel caso di actus legitimi come l’in iure cessio dell’usufructus.

La rappresentanza.

La figura della rappresentanza si ha quando un soggetto non può o non vuole compiere personalmente un negozio.
Si intende per rappresentanza quella figura in cui un soggetto (rappresentante) agisce per conto ed eventualmente in nome di un’altra persona (rappresentato).
Distinguiamo la rappresentanza necessaria dalla rappresentanza volontaria.  La prima si ha quando il rappresentato sia incapace di agire, mentre la seconda si ha quando il rappresentato capace di agire non reputi opportuno compiere personalmente atti che lo riguardano.
Abbiamo poi la rappresentanza diretta, in cui il rappresentante agisce in nome e per conto del rappresentato e gli effetti del negozio si producono direttamente nella sfera giuridica del rappresentato. E’ rappresentanza indiretta invece, quando il rappresentante agisce per conto del rappresentante senza che ci sia però la spendita del nome, con la conseguenza che gli effetti del negozio ricadono nella sfera giuridica del rappresentante.
Diversa è ancora la figura del “nuncius”, che è una specie di <<lettera parlante>>, in quanto si limita a trasmettere la volontà della parte, senza autonomia decisionale e senza prender parte alla forma del negozio.
Nella rappresentanza si ha una scissione della figura della parte negoziale: si ha infatti la parte in senso formale, il rappresentante, e la parte in senso sostanziale, il rappresentato.

 

 

CAPITOLO 4

IL PROCESSO E LA DIFESA DEI DIRITTI

 

Il processo e l’azione.

La caratteristica essenziale della norma giuridica e del diritto consiste nella coattività, diretta o indiretta: dalla violazione della norma giuridica nasce la sanzione e la possibilità di chiedere che questa venga inflitta.
La sanzione è un danno giusto inflitto a chi abbia violato una norma.
L’inflizione della sanzione deve essere collegata all’accertamento della violazione, accertamento effettuato da un terzo imparziale; tale accertamento avviene attraverso il processo, in cui il terzo imparziale verifica la violazione della norma, dispone la sanzione e la infligge.
Per far avviare la macchina del processo privato, il soggetto ha l’onere di assumere l’iniziativa, cioè di esercitare l’azione.
Le fonti romane definiscono l’azione come “diritto di pretendere attraverso una formula quanto è dovuto all’attore”.
Le actiones romane sono azioni tipiche cioè mezzi giudiziari atti a determinare situazioni giuridiche soggettive. Queste prevedono una certa forma rappresentate dai “certa verba” e dai “concepta verba”.
Tra le azioni distinguiamo quelle dichiarative e quelle esecutive.
L’azione dichiarativa tende all’accertamento della violazione e alla determinazione delle conseguenze.
L’azione esecutiva è volta a far infliggere la sanzione prevista a colui che ha violato.
Nell’ambito delle azioni dichiarative si distinguono poi le azioni di condanna, costitutive e di mero accertamento.
L’azione di condanna è volta ad ottenere dal giudice l’accertamento della violazione ed una pronuncia in cui si imponga un determinato comportamento a colui che ha violato.
Nelle azioni costitutive si chiede al giudice l’accertamento ed un’ulteriore pronuncia che produca direttamente la modificazione richiesta dall’attore.
Le azioni di mero accertamento hanno solo lo scopo di verificare se ci sia stata o meno la violazione di un diritto soggettivo.

Le “legis actiones” dichiarative.

Nella storia del processo romano si hanno tre sistemi processuali: quello delle legis actiones, il processo formulare e, infine, la cognitio extra ordinem.
L’origine del processo romano è quella delle legis actiones che si dividono in dichiarative ed esecutive.
Le azioni dichiarative sono la “legis actio sacramento” (in rem ed in personam), la “actio per iudicis arbitrive postulationem” e “per condicionem”.
Le azioni esecutive sono la “legis actio per manus iniectionem” e quella per “pignoris capionem”. La più antica tra quelle dichiarative è la “legis actio sacramento”.
Tale procedura era divisa in due fasi: una fase in iure, dinanzi ad un magistrato il quale aveva il compito di impostare la controversia; ed una fase “apud iudicem” dinanzi al giudice cittadino scelto di comune accordo dalle parti, il quale doveva giudicare la controversia.
A seconda che l’actio avesse per oggetto una cosa o una persona avremo “legis actio sacramento”  “in rem” oppure “in personam”.
Nell’agere in rem se ad oggetto vi fosse una cosa mobile la cosa oggetto della controversia doveva essere presente “in iure”. Nel caso fosse un immobile bastava invece un simbolo.
Nella recita dell’actiones non vi era distinzione tra convenuto e attore poiché tutti e due recitavano la stessa actio.
A seconda delle epoche cambia il significato del “sacramentum”. All’inizio era una formula di giuramento a carattere religioso. In epoca successiva, il sacramentum divenì una sorta di scommessa, con la quale ogn’una delle parti prometteva di pagare allo stato una certa somma nel caso avesse perso.
Quanto alla “legis actio sacramento in personam” l’attore afferma il proprio diritto mentre il convenuto lo nega.
La “legis actio per iudicis arbitrive postulationem” si usava soltanto per ottenere lo scioglimento di uno stato di comunione di un bene o di una eredità.
La “legis actio per condictionem” viene usata solo per far valere le obbligazioni che hanno ad oggetto il trasferimento della proprietà di una determinata cosa o di una determinata quantità di denaro.

 

Le “legis actiones” esecutive.

La “manus iniectio iudicati” è un’azione esecutiva diretta ad infliggere al debitore, già condannato in un processo dichiarativo, un danno fisico. Il debitore non poteva difendersi personalmente, ma doveva ricorrere ad un terzo che ne assumeva la difesa e l’eventuale onere nel caso in cui perdesse.
Altra forma di legis actio esecutiva è quella “per pignoris captionem” dove il creditore si impossessa di cose mobili appartenenti al debitore dopo avere pronunciato i certa verba. Questa azione era concessa di solito all’esattore delle imposte nei confronti del contribuente non pagante.

L’origine del processo formulare e la sua estensione ai cives.

 

Nel processo con gli stranieri per la mancanza di un ordinamento comune alle due parti, il pretore  giudicava in base alla sua auctoritas e alle istruzioni date dal magistrato al giudice scelto dai contendenti. Con l’andare avanti del tempo si venne a creare una raccolta di queste istruzioni le quali andarono a costituire dei formulari ai quali il pretore faceva riferimento.Successivamente pretore iniziò a utilizzare il processo formulare anche per le controversie tra cives per offrire una tutela giudiziaria laddove il ius civile non fosse stato in grado di farlo.
Questa situazione durò fino al I sec. a.c.  quando con la LEX AEBUTIA le legis actiones e le formulae vennero messe sullo stesso piano di importanza per il ius civile. Dopo un secolo le legis actiones furono definitivamente abolite dalla LEX IULIA IUDICIORUM PRIVATORUM che fece del processo formulare il processo ordinario per le controversie private riguardanti materie tutelate dal ius civile. La LEX IULIA fissò poi anche i requisiti che il processo formulare doveva rispettare per far si che si avesse un giudizio legittimo ed avesse così effetti civili. Era necessario che il processo si svolgesse in Roma tra cittadini romani, e fosse giudicato da un unico giudice romano anch’egli. Tutti gli altri processi erano processi che si fondano esclusivamente sull’imperium del magistrato.

La “formula” e le “partes formularum”.

La formula è il momento centrale del processo formulare. La struttura della formula era strutturata in questo modo: se a allora x ; se non a allora y. Vale a dire: se risulteranno le condizioni per accogliere la domanda dell’attore, tu giudice condanna; se non risulteranno, assolvi.
Le formule erano costruite su determinate strutture di discorso tipiche.
Le parti della formula sono quattro: “demonstratio”, “intentio”, “adiudicatio” e “condemnatio”.
Con la “intentio” l’attore dichiara su che cosa si basa la sua azione. L’intentio può essere certa o incerta: è certa quando si dichiara che il convenuto deve una cosa determinata; è incerta quando non viene determinato cosa il convenuto deve all’attore.
La “demonstratio” serve ad individuare l’oggetto della controversia.
La “condemniatio” è la parte della formula nella quale si da al giudice il potere di condannare o di assolvere.
La “adiudicatio” si trova solo nelle azioni con cui i comproprietari di una comunione.

 

 

I tipi delle azioni formulari.

Una prima distinzione è quella tra azioni edittali e decretali: le prime sono quelle azioni, la cui formula viene proposta nell’editto; le seconde sono quelle in cui il pretore non proposte dall’editto e che trovano tutela nell’imperium del pretore.
In base alla struttura distinguiamo i “iudicia bona fidei”, le “actiones arbitrariae”, i “praeiudicia”.
I “iudicia bonae fidei” sono “actiones in personam” dove il mancato adempimento degli obblighi di una sentenza precedente da parte del convenuto è in buona fede; per tanto il pretore poteva  ordinare al convenuto di svolgere una prestazione diversa.
Nelle “actiones arbitrariae” il giudice godeva di un ampio potere discrezionale.
I “praeiudicia” sono azioni di mero accertamento.
Le formule onorarie sono tre: le “formulae in factum conceptae”, le “formulae ficticiae” e le formulae con trasposizione di soggetti.
Le “formulae in factum conceptae” si hanno in seguito all’accertamento della intentio con la conseguente autorizzazione al giudice di condannare o assolvere il convenuto.
La “formula ficticia” contiene nell’intentio una una clausola che ordina al giudice di comportarsi come se fosse avvenuto un fatto in realtà non accaduto.
Le azioni con trasposizione di soggetti, sono azioni edittali o decretali in cui nella demonstratio o nell’intentio si indica un soggetto, mentre nella condemniatio ne indica un altro.

Exceptio e praescriptio.

Exceptio era una clausola inserita nel iudicium,dove per pronunciare la condanna il giudice deve accertare l’inesistenza del fatto opposto dal convenuto. Questa veniva allegata ai concepta verba i quali altrimenti non avrebbero permesso al giudice di tenere conto di circostanze non previste nella loro formulazione.
I romani distinguevano le eccezioni in “peremptoriae” e “dilatoriae”, a seconda che potessero venire opposte in qualsiasi momento e contro ogni persona o che , invece, avessero un’efficacia limitata nel tempo o opponibili soltanto nei confronti di determinati soggetti.
La “praescriptio” era invece una premessa, che imponeva al giudice di considerare avvenuta la “litis contestatio”.

Il processo in iure.

La convocazione in giudizio del convenuto avviene mediante la “in ius vocatio”, cioè l’intimazione di recarsi in tribunale che fa l’attore al convenuto. Essa è accompagnata  da un “editio actionis”, in cui l’attore indica al convenuto il fondamento dell’azione.
Il convenuto, invocato in giudizio è tenuto a presentarsi immediatamente dinanzi al magistrato di persona o mediante un rappresentante.
La fase in iure del processo si esauriva genericamente entro lo stesso giorno della convocazione delle parti.
L’attore indicava nell’albo la formula che riteneva adatta alle proprie pretese dopodiché doveva specificare i fatti su cui fondava la sua richiesta.
Dopo di ciò iniziava una fase in cui le parti evidenziavano i punti in controversia da tener presenti per costruire la formula; se il convenuto ammette che l’azione intentata dall’attore è fondata si avviava un processo esecutivo.
Un altro mezzo che eliminava la controversia o influiva sul tipo di azione concessa è il giuramento. La parte che giura o vede rifiutato dalla controparte il giuramento risulta vittoriosa.
L’attore doveva porre particolare attenzione alla redazione della formula poiché poteva incorrere nella “pluris petitio”, che si aveva quando l’attore stesso avesse formulato errato il proprio diritto, aggravando l’obbligo del convenuto.
Abbiamo quattro forme di pluris petitio: re (oggetto del diritto in misura maggiore di quella reale), loco  (luogo errato), tempore (periodo di pretesa errato), causa (prestazione pretesa errata).
Le parti dovevano poi accordarsi sul giudice privato. Poteva essere nominato giudice qualsiasi soggetto maschio capace d’agire, pubere, non colpito da cause d’infamia.
Se le parti non riuscivano a mettersi d’accordo, ne veniva estratto a sorte uno dall’albo dei giudici.
La fase in iure del processo si chiudeva con la “litis contestatio” che serviva a fissare i termini della controversia.

I mezzi ausiliari del processo formulare.

I mezzi ausiliari del processo pretorio sono tutti fondati sull’imperium del magistrato.
Questi sono: “interdicta”, “stipulationes pretoriae”, “restitutiones in integrum”, “missiones in possessionem”.
L’interdictum è un’ordine del pretore che intima ad un soggetto di tenere un certo contegno.
La “stipulationes praetoria”  si ha quando un soggetto chiede al magistrato di costringere un altro soggetto ad assumersi, un’obbligazione il cui contenuto era predeterminato nell’editto.
Con il termine “restituito in integrum” si indica il risultato di un provvedimento del pretore che si risolve praticamente in una datio actionis.
Le “missiones in possessionem” ed “in bona” consistevano in un atto che immetteva il soggetto che aveva posto istanza, nel possesso dei beni appartenenti ad altro soggetto.

Il processo “apud iudicem” e la sentenza

 

Nella fase apud iudicem, il giudice decideva la controversia secondo il proprio discrezionale parere. La sua sentenza dipendeva in gran parte dalle sentenze dei prudentes e dai rescriptia della cancelleria imperiale ai quali il giudice privato faceva riferimento.
Egli non era tenuto a dare motivazioni delle proprie decisioni e le parti potevano anche essere lasciate all’oscuro di queste. La sentenza del giudice privato non era soggetta ad impugnazione. La condanna aveva ad oggetto soltanto somme di denaro.

Il processo esecutivo.

Il processo viene fatto per garantire l’esecuzione della sentenza.
L’esecuzione era prevalentemente patrimoniale. Si tratta di un’esecuzione a carattere generale, poiché, per qualsiasi credito si fosse proceduto, il debitore veniva a perdere tutto il proprio patrimonio, e nella procedura venivano soddisfatti anche tutti gli altri creditori.

La “cognitio extra ordinem”.

Essa si svolge per intero dinanzi ad un organo dello stato che poteva essere un funzionario imperiale o un magistrato.
Nella cognitio si conoscono due forme di convocaione del convenuto: la “evocatio” e la “denuntiatio”.
La più diffusa è la denuntiatio, che consiste in un atto, in cui si espongono sommariamente i fatti al convenuto ed è contenuto l’invito a comparire dinanzi al giudice competente.
L’evocatio è invece una citazione pubblica fatta dall’ufficio giudiziario competente, in seguito all’iniziativa dell’attore.
La mancata comparizione del convenuto comporta la perdita automatica del processo.
Dinanzi al giudice le parti espongono in modo informale le proprie pretese, senza essere legate agli schemi formulari. La sentenza della non ha necessariamente ad oggetto una somma di denaro. Le sentenze cognitorie sono appellabili. In appello vi era direttamente il principe o il prefetto pretorio. L’appello doveva essere presentato intermini brevissimi dalla parte soccombente.

 

Il processo postclassico e giustinianeo

 

Nel processo postclassico vi è una profonda ristrutturazione degli organi giudicanti. Ai magistrati municipali rimane soltanto qualche causa di basso valore economico.
Giudice ordinario di primo grado è il governatore della provincia.
Le forme di citazione del convenuto variano con il tempo. Dapprima vi è la “litis denuntiatio”, una citazione scritta proveniente dall’attore e inviata con l’autorizzazione del giudice.Dal giorno della notifica corre un periodo di quattro mesi, entro i quali, per non incorrere in contumacia, le parti devono presentarsi dinanzi al giudice di primo grado competente.
Successivamente a questa forma si sostitui il “libellus conventionis”, con la quale l’attore si rivolge direttamente al giudice il quale convoca il convenuto mediante atto pubblico.
Il processo si svolge per intero dinanzi allo stesso giudice. 
Dopo la convocazione e la comparizione delle parti si procede con la prima fase, chiamata “principium litis” dove vengono risolte le questioni processuali relative alla competenza per materia e territorio.
Dopo si ha il “medium litis”, in cui le parti mostrano le prove a favore della propria pretesa o difesa.  Nel processo postclassico viene ad essere esteso il potere di iniziativa da parte del giudice con l’interrogatorio delle parti e con l’indicazione dei punti da provare.
Anche i criteri di valutazione delle prove subiscono sensibili modificazioni: vengono introdotte le prove legali, cioè quelle proveil cui valore è fissato dall’ordinamento.
In questo periodo si afferma poi il principio che la parte soccombente deve rimborsare alla parte vittoriosa il costo del processo.
Nel periodo postclassico, si viene definitivamente affermando il regime dell’appello. Giudice supremo d’appello è l’imperatore, il quale riconosce degni di appello supremo solo i casi giudicati in primo e secondo grado dai giudici illustri.

 

Fonte: http://www.ceraunavolta.biz/andreacoppola.too.it/TACCUINO%20CULTURALE/appunti/DIRITTO_PRIVATO_ROMANO.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

Parola chiave google : Diritto privato romano riassunto tipo file : doc

 

 

 

Visita la nostra pagina principale

 

Diritto privato romano riassunto

 

Termini d' uso e privacy

 

 

 

Diritto privato romano riassunto