Dizionario Zen

 

 

 

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Dizionario Zen

Buddha sanscr. pāli
Letter. "il risvegliato".

  • Uomo che ha raggiunto il perfetto risveglio che consente di uscire dal ciclo delle rinascite (saṃsāra) e che ha raggiunto la liberazione totale (nirvāṇa).
  • Nome con cui ci si riferisce al fondatore del buddhismo.
  • Quando lo zen pone la domanda «Chi è Buddha?» non cerca di conoscere i dati storici della vita di questo o quel buddha terrestre, ma penetrare la verità eterna, cioè atemporale, della natura di buddha (vedi Busshō).

Buddha, Dharma del
(giapp. buppō). La "legge del Buddha", la "dottrina del  Buddha",  la "regola del Buddha". In generale, si tratta dell'insegnamento del buddha Śākyamuni. Si basa sulla nozione di risveglio, verso cui tutto deve convergere. In  questo  senso  il termine  può essere  considerato   come


sinonimo di buddhismo. Nella tradizione zen, invece, il dharma del Buddha (buppō) non è interpretato nel senso di una dottrina da trasmettere con scritti o discorsi. Per lo zen il termine indica la verità essenziale, impossibile da apprendere in modo razionale, che il Buddha comprese e che è all'origine della dottrina buddhista. Tale verità si può cogliere soltanto in modo intuitivo, nel momento dell'illuminazione individuale.

Buddha, Natura di
(sanscr. buddhatā) Secondo il mahāyāna, buddhatā è la vera natura, immutabile ed eterna di tutti gli esseri. Dato che ciascun  essere possiede la natura di buddha, è possibile per tutti ottenere il risveglio e diventare un buddha (un “diventare” dunque che andrebbe  inteso in modo del tutto peculiare). Le teorie sull'essenza della natura di buddha variano secondo le scuole; vi è disaccordo sulla questione se tutti gli esseri, comprese le creature inanimate, possiedano realmente  tale natura. La risposta alla domanda sull'immanenza della natura di buddha negli esseri ha in gran parte determinato l'appartenenza di ciascuna scuola a una delle due grandi tradizioni buddhiste, hīnayāna o mahāyāna. Secondo la tradizione hīnayāna non tutti gli esseri hanno la possibilità di diventare buddha. La tradizione mahāyāna (di cui fa parte  lo  zen), invece, ritiene che l'accesso allo stato di buddha sia il fine supremo della vita, e che ogni essere possa realizzare la natura di buddha che è in lui attraverso la pratica spirituale (vedi Busshō).

Buddhamitra
Secondo la tradizione, nono patriarca indiano del chan.

Buddhanandi
Secondo la tradizione, ottavo patriarca indiano del chan.

Buddha ridente
(cin. Milefo) Rappresentazione del buddha Maitreya diffusa in Cina risalente al X secolo. Si trova una statua del buddha ridente nella sala dei quattro re celesti di ciascun monastero cinese. Di solito è rappresentato seduto, con la gamba destra sollevata (postura caratteristica di Maitreya), il ventre rotondo e nudo, la fronte corrugata, mentre ride di gusto e spesso è circondato da un gruppo di bambini. Secondo la tradizione, si tratterebbe della figura del monaco Budai, considerato l'incarnazione di Maitreya, buddha del futuro. In questo personaggio si ritrovano alcuni grandi ideali cinesi: il ventre tondo, simbolo di ricchezza, il riso e la posizione rilassata che esprimono la calma di una persona in pace con se stessa e con il mondo circostante. I bambini che gli stanno intorno testimoniano il suo amore per l'infanzia, una delle principali virtù cinesi.


Buddhāvatamsakasūtra sanscr.
(abbreviato in Avataṃsakasūtra) Letter. "sūtra della ghirlanda dei Buddha". Sūtra mahāyāna, fondamento delle teorie della scuola cinese Huayan (giapp. Kegon). Esso pone l'accento  sull'idea dell'"interpretazione libera e reciproca" di ogni cosa, nel senso che lo spirito umano è l'universo stesso ed è identico al Buddha. Dunque il Buddha, lo spirito, tutti gli esseri e tutte le cose sono un'unica e medesima realtà. La scuola cinese del chan (zen) accentua questo particolare aspetto della dottrina mahāyāna e per questo attribuisce grande importanza  all'Avatasakasūtra.  Il  Buddhāvatasakasūtra  fa parte dei vaipulyasūtra. Si presenta come una raccolta di diversi testi indipendenti, di cui il più lungo è il Gaṇḍavyūhasūtra e uno dei più importanti è il Daśabhūmikasūtra. È conservato soltanto nella traduzione tibetana e cinese. La più antica versione cinese risale al V secolo. Gli insegnamenti riportati nel testo del sūtra non provengono dal buddha Śākyamuni, che rimane per la maggior parte del tempo silenzioso; essi sono, piuttosto, spiegazioni che riguardano il dharmakāya di tutti  i buddha. Il silenzio del Buddha illustra la nozione di vacuità (śūnyatā). Nata dal silenzio, la dottrina appare come la sola manifestazione della vera realtà che sia accessibile alla coscienza umana.

Buddhità
Termine che evoca la realizzazione dell'illuminazione perfetta, caratteristica dei buddha. Realizzare la buddhità è la ragione d'essere   e il fine supremo di ogni essere vivente. Secondo le teorie più elaborate del buddhismo, quelle dello zen ad esempio, ogni essere vivente, ogni oggetto, ha - o, più esattamente, è - una natura, un'essenza di buddha (giapp. busshō). Di conseguenza, il problema non è tanto quello di "acquisire" la buddhità, ma di prendere coscienza dell'immanenza della perfezione originaria e di realizzarla nella vita quotidiana.

Buji-Zen giapp.
Atteggiamento di leggerezza colpevole di fronte alla disciplina e all'insegnamento dello zen. Tale atteggiamento può prodursi quando una persona, pensando di essere già diventata un buddha, crede di poter fare a meno degli esercizi, della disciplina e dell'illuminazione. Anche una sbagliata interpretazione della dottrina dello zen Sōtō (o mokushō- zen) può indurre a tali errori.

Bukan
Vedi Fenggan.

Bukkyō giapp.
Letter. "dottrina di Buddha". Il buddhismo.


Bu'nan Shidō
(1602-1676) Maestro zen giapponese della scuola Rinzai. Discepolo e successore nel dharma (hassu) di Gudō Kokushi (m. 1661) e maestro di Dōkyō Etan, a sua volta maestro di Hakuin Zenji.

Buppō giapp.
Vedi Buddha, dharma del.

Bushun Shiban
Vedi Wuzhun Shifan.

Busshin (1) giapp.
(sanscr. buddhakāya) Letter. "corpo di Buddha". In origine il termine di Busshin indicava il corpo fisico del buddha storico (Śākyamuni), ma il buddhismo māhāyana e il chan finirono poco a poco per modificarne il senso e il termine infine servì per indicare «le attitudini e le facoltà illimitate, risultanti dalla totale realizzazione della natura di buddha (busshō)».

Busshin (2) giapp.
Letter. "spirito di Buddha"; da shin (vedi kokoro). Sinonimo di busshō. Grande compassione, caratteristica dell'illuminato (Buddha) che ha raggiunto la perfezione.

Busshin-in giapp.
Letter. "sigillo dello spirito di Buddha". Sinonimo di inka-shōmei. Può essere abbreviato in "shin-in" o "butsu-in".

Busshō giapp.
Letter. "essenza di Buddha", spesso tradotto con "natura di buddha". Espressione che indica il substrato di perfezione e di realizzazione, immanente alle cose e agli esseri viventi. Secondo la dottrina zen, ogni uomo (ma anche tutti gli esseri viventi e le cose) possiede, o piuttosto è, la "natura di buddha", senza però averne coscienza, e  quindi  senza vivere come dovrebbe un risvegliato alla vera natura (Buddha). Il fine dello zen è di raggiungere tale risveglio (illuminazione, kenshō, satori), una vita e una morte che sia in ogni istante un'espressione spontanea dell'identità dell'individuo con la natura di buddha (vedi Mujōdō-no- taigen; anche Shō). Come spiega Hakuun Ryōko Yasutani, maestro zen del XX secolo, la natura di buddha (natura del dharma, vedi Hossō) è identica a ciò che il buddhismo chiama vacuità (giapp. ;  sanscr. śūnyatā). Egli aggiunge: «Con l'esperienza dell'illuminazione, che è la fonte della dottrina buddhista, si comprende l'universo del ku. Questo universo [...] è al di fuori dell'immaginazione. Allo stesso modo la sostanza reale delle cose, cioè la Natura di Buddha o Dharma, è inconcepibile  e  imperscrutabile.  Dato  che  tutto  ciò  che  è   pensabile


possiede forma e colore, qualunque cosa si concepisca come Natura di Buddha deve necessariamente essere irreale. Infatti ciò che si può concepire è soltanto un'immagine della Natura di Buddha, non la Natura di Buddha in sé. Ma benché la Natura di Buddha travalichi ogni  pensiero e immaginazione, dato che noi tutti intrinsecamente la possediamo, è possibile ridestarsi a essa» (Philip Kapleau, I tre pilastri dello zen: insegnamento, pratica e  illuminazione,  Roma,  Astrolabio  Ubaldini,  1981, p. 86-87).

Busso giapp.
Letter. "buddha-patriarca".

  • Il Buddha e i patriarchi (soshigata), "antenati" ai quali si fanno risalire tutte le scuole dello zen.
  • Il buddha Śākyamuni, fondatore del buddhismo.

Butsu giapp.
Vedi Buddha.

Butsuda giapp.
Vedi Buddha.

Butsudan giapp.
Sorta di tabernacolo che si trova nei templi e nei  monasteri  buddhisti, ma anche, in forma ridotta, in molte case giapponesi.

Butsuden giapp.
Letter. "stanza dei buddha". Edificio di certi grandi monasteri in cui si trovano statue dei buddha e dei bodhisattva, offerte alla devozione.

Butsudō giapp.
Letter. "la via del Buddha".

  • La dottrina del Buddha, il buddhismo. Butsudō è spesso impiegato come sinonimo di buppō (dharma del Buddha), anche se il termine Butsudō insiste soprattutto sulla formazione pratica nella via  che conduce all'illuminazione.
  • La via che conduce all'illuminazione, allo stato di buddha.
  • L'illuminazione completa, lo stato di buddha. Nello zen il termine butsudō è soprattutto utilizzato in quest'ultima accezione (per esempio nel shiguseigan).

Butsugen-On
Vedi Foyanyuan; vedi Kakushin.

Butsuju
Vedi Myōzen Ryōnen.


Buttō Kokushi
Vedi Jakuhitsu Genkō.

Byakue-kannon giapp.
Letter. "Kannon in abito bianco". Rappresentazione del bodhisattva Avalokiteśvara, venerato in Giappone come personalità femminile con il nome di Kannon o Kanzeon. È uno dei soggetti preferiti della pittura zen.

Byōdō giapp.
Letter. "identità". Identità profonda, "indifferenziazione" di tutti i feno- meni, nozione che si acquisisce con l'illuminazione.

Byōdō-Kan giapp.
Letter. "visione dell'identità". Esperienza dell'identità, dell'indifferen- ziazione fondamentale di tutte le cose e di tutti gli esseri viventi, in ragione della loro vera natura o natura di buddha (busshō).


C

Caduta di un Kōan Vedi Wato; vedi Kōan.

Cantongqi cin.
(wg. ts'an-t’ung-ch'i; giapp. Sandōkai) Letter. "concordanza  tra differenza e identità". Canto del maestro di chan Shtou Xiqian (giapp. Sekitō Kisen) in cui l'autore celebra lo stato di illuminazione che trascende la dualità. Il Cantongqi è ancora oggi recitato nei monasteri zen (soprattutto della scuola Sōtō).

Caodongzong
(wg. Ts'ao-tung-tsung) Vedi Sōtō, scuola.

Caoshan Benji
(wg. Ts'ao-shan Pen-chi; giapp. Sōzan Honjaku) (840-901) Maestro di chan, discepolo e successore nel dharma (hassu) di Dongshan Liangje (giapp. Tōzan Ryōkai). In collaborazione con il maestro Dongshan, egli fondò la scuola Caodong (giapp. Sōtō), che prende il nome dalle sillabe iniziali  dei  nomi  dei  suoi  due  fondatori.  Caoshan  compare  nel 10° esempio del Wumenguan. I suoi insegnamenti furono raccolti in un testo  intitolato  Fuzhou  Caoshan  Benjichanshi  yu-lu  (Fu-chou   Ts'ao- shan Pen-chi-ch0an-shih yü-lu, "Raccolta dei detti del maestro di chan Caoshan Benji di Fuzhou"). In gioventù egli aveva studiato i classici del confucianesimo, ma lasciò la casa dei genitori all'età di 19 anni per diventare monaco buddhista. Ricevette l'ordinazione completa a 25 anni. Dal suo monastero sul monte Lingshi a Fuzhou si recava spesso a Jiangxi per seguire le spiegazioni pubbliche sul dharma del Buddha del maestro Dongshan. Un giorno, grazie a un mondō scambiato con il maestro, questi riconobbe in lui un grande talento e lo accettò come discepolo. Caoshan fece esperienza dell'illuminazione profonda sotto la sua guida. Il Jingde chaun-denglu riporta la conversazione che ebbe luogo tra i due il giorno in cui Caoshan lasciò Dongshan: «Dongshan chiese: "Dove vai?". Caoshan rispose: "Là dove non c'è cambiamento". Dongshan disse: "Come puoi andare là dove non c'è cambiamento?". Caoshan rispose: "La mia partenza non è un cambiamento"». Dopo aver detto addio a Dongshan, Caoshan percorse il paese insegnando il dharma del Buddha quando le circostanze lo richiedevano. Fu infine invitato a stabilirsi nel monastero del Caoshan ("monte Cao") da cui prese il nome. Visse poi sul monte Heyu; in entrambi i posti attirò intorno a sé molti discepoli. Il 10° esempio del Wumenguan riporta il contenuto di uno hossen tra Caoshan e il discepolo Qingshui (Ch'ing-jui; giapp. Seizei): «Un monaco chiamato Qingshui disse a Caoshan: "Qingshui  è  solo  e  povero,  per  favore  aiutalo".  Caoshan rispose:


"Reverendo Qingshui!". Qingshui chiese: "Sì?". Caoshan disse: "Hai già bevuto tre coppe del vino dei puristi dello Zen, eppure ancora dici che non hai bagnato le labbra"».

Chadō giapp.
Letter. "via del tè". Una delle "arti" o "vie" (dō) giapponesi collegate allo zen. Essa è chiamata anche "cha-no-yū", che significa "infusione calda" o semplicemente "tè". Entrambe le denominazioni indicano che non si tratta di una cerimonia celebrata con il tè - al contrario di quanto potrebbe far pensare l'inesatta traduzione di "cerimonia del tè".  In questo caso esiste soltanto il tè, cioè uno stato di coscienza non duale a cui conduce questa via. Nel chadō si assiste alla convergenza di numerose forme d'arte, dall'architettura alla porcellana, alla pittura, all'arte del giardinaggio, all'arte delle composizioni  floreali  (kadō), riunite insieme per la creazione di un'opera d'arte completa, esistente soltanto nel momento presente, che fa appello a tutti i sensi e ammutolisce l'intelletto, fonte del dualismo.

Chakugo giapp.
Vedi Jakugo.

Chan cin.
(wg. ch'an) Vedi Zen.

Changqing Huileng
(wg. Ch'ang-ch'ing hui-leng; giapp. Chōkei Eryō)  (854/864-932) Maestro di chan, discepolo e successore nel dharma (hassu) di Xuefeng Yicun (giapp. Seppō Gison). Changqing ebbe 26 successori  nel  dharma; si parla di lui negli esempi 8°, 22°, 23°, 74°, 76° e 93° del Biyanlu. A proposito di Changqing, che prese i voti all'età di 13 anni e seguì gli insegnamenti di diversi maestri prima di incontrare Xuefeng, nella raccolta Zu Tang Ji (Tsu t'ang chi) si riporta che all'inizio della sua formazione incontrò molto difficoltà. Pur avendo un costante rapporto di dokusan con il suo maestro Xuefeng, sembrava non fare progressi, nonostante seri sforzi. Allore Xuefeng un giorno gli propose di prescrivergli un "rimedio per un cavallo morto", a condizione di applicarlo. Changqing gli promise che avrebbe seguito alla lettera il consiglio del maestro. Xuefeng gli ordinò di non tornare più a colloquio privato e di restarsene per diversi anni «seduto nel  raccoglimento (zazen) come un pezzo di legno in mezzo a un rogo ardente. Allora avrebbe conosciuto l'illuminazione». Una notte, dopo due anni e mezzo di questa pratica, lo spirito di Changqing si turbò; il monaco non riuscì   più a stare seduto. Si alzò e fece una passeggiata nel giardino  del monastero. Quando, di ritorno nella stanza dei monaci, sollevò un rotolo di bambù alla luce di una lampada, all'improvviso ebbe l'illuminazione. Changqing divenne poi uno dei maestri di chan più venerati.


Changsha Jincen
(wg. Ch'ang-sha Ching-ts'en; giapp. Chōsha Keijin) (m. 868) Maestro cinese di chan, discepolo del successore nel dharma (hassu) di Nanquan Puyuan (giapp. Nansen Fugan). Dopo aver ricevuto da Nanquan il sigillo della conferma (inka-shōmei), Changsha errò senza domicilio fisso attraverso la Cina, predicando il dharma del Buddha a seconda delle circostanze che incontrava sul suo cammino. Ebbe due successori. Il suo nome è menzionato nel 36° esempio del Biyanlu, nel quale assistiamo a un mondō di Changsha con uno dei suoi allievi: «Un giorno Changsha partì all'avventura sulle montagna. Poi ritornò e si  presentò alla  porta del monastero. Il più anziano dei monaci gli chiese: "Maestro, dove siete stato? Da dove arrivate?". Changsha disse: "Torno da una passeggiata in montagna". Il monaco chiese: "Fino a dove siete andato?". Changsha rispose: "Prima ho seguito il prumo dell'erba. Poi sono ritornato, seguendo il profumo dei petali che stavano per cadere". Il vecchio monaco disse: "Ecco chi sente la primavera". Changsha disse: "Questa sensazione, in effetti, è molto più forte di quella della rugiada d'autunno che sgocciola dai fiori di loto"».

Channa cin.
(wg. ch'an-na) Trascrizione cinese del sanscrito dhyāna. Vedi Zen.

Chanshi cin.
(wg. ch'an-shih) Vedi Zenji.

Chanzong
(wg. Ch'an-tsung; giapp. Zenshū) Letter. "scuola di zen". Lo zen considerato come scuola del buddhismo (vedi Zen). La parola cinese "tsung" (giapp. shū) è spesso tradotta con il termine  "setta",  che presenta però l'inconveniente di porre troppo l'accento sull'aspetto di separazione, di rottura rispetto alla corrente principale della religione a cui fa riferimento e quindi di dare una connotazione negativa - particolarmente evidente nell'aggettivo "settario". Le diverse "scuole" del buddhismo rappresentano modi più complementari che opposti, o perfino ostili, di spiegare il dharma del Buddha, per far aderire individui di qualsiasi provenienza. In Giappone ufficialmente esistono soltanto le scuole Rinzai, Sotō e Ōbaku; non si parla di "scuola di zen". Il termine Zenshū è usato, come quello cinese Changzong, in senso generico.

Chiji Vedi Inō.

Chikuhei giapp.
Vedi Shippei.


Chimon Kōso giapp.
Vedi Zhimen Guangzi.

Chisha Vedi Zhiyi.

Chōka giapp.
Letter. "compito del mattino". Recitazione mattutina dei  sūtra,  parte della pratica quotidiana in un monastero zen (tera).

Chōkei Eryō
Vedi Changqing Huileng.

Chōsan giapp.
Letter. "raccoglimento del mattino". Esercizio mattutino di zazen con cui inizia la giornata in un monastero zen (tera).

Chōsetsu Yūsai
Vedi Zhangzhuo Xiucai.

Chōsha Keijin
Vedi Changsha Jingcen.

Chōyu
Nome giapponese di Zhang Xiong. Vedi Kakushin.

Chuandenglu
(wg. Ch'uan-teng-lu) Vedi Jingde chuandenglu.

Chuaxinfayao
(wg. Ch'uan-hsin-fa-yao) Abbreviazione del titolo dell'opera Huangboshan Duanjichanshi chuanxinfayao (Huang-po-shan Tuan-chi- ch'an-shih  ch'uan-hsin-fa-yao)  Vedi  anche  Huangbo Xiyun.

Chūkai giapp.
Letter. "togliersi l'abito". Periodo di riposo tra gli esercizi di zazen in un monastero zen. Durante queste pause i monaci possono  lasciare  lo zendō e sdraiarsi nei dormitori del monastero per riposarsi.

Chū Kokushi giapp.
Vedi Zhongguoshi.

Cinque categorie dello zen
Classificazione delle principali categorie di chan, stabilite da uno dei più famosi maestri cinesi, Guifeng Zongmi. In questo caso il termine chan


(zen) viene impiegato nell'accezione molto generica di "esercizio di meditazione". Le cinque categorie sono:

  • Bonpu-zen (giapp. bonpu: "uomo ordinario, non illuminato"): varietà di zazen che si pratica senza motivazione religiosa, soltanto  per salute fisica e mentale.
  • Gedō-zen (giapp. gedō: "via estranea"). Il termine indica una varietà di zen che, anche se impregnata di religiosità, segue insegnamenti estranei alla dottrina buddhista. La meditazione dello yoga o la contemplazione cristiana rientrano ad esempio nella suddetta categoria, che include anche le pratiche meditative destinate esclusivamente allo sviluppo di poteri o di facoltà soprannaturali.
  • Shōjō-zen (giapp. shōjō,  "piccolo veicolo"; sanscr. hīnayāna).  Varietà di zen che conduce allo stato di mushinjō, caratterizzato dalla concentrazione dei sensi e dall'estinzione della coscienza. Se si dimora nello stato di mushinjō fino al momento della morte, non si rinascerà più; è un odo di sfuggire al ciclo delle rinascite (saṃsāra). Dato che si limita al raggiungimento della pace interiore individuale,  però,  lo shōjō-zen, dal punto di vista del mahāyāna, sarebbe in disaccordo con la dottrina suprema del Buddha, a differenza delle due ultime categorie di zen.
  • Daijō-zen (giapp. daijō, "grande veicolo"; sanscr. mahāyāna). L'obiettivo principale del daijō-zen è la contemplazione della natura del sé (kenshō, satori) e la realizzazione della "grande via" nella vita quotidiana (mujōdō-no-taigen). Poiché la contemplazione della natura del sé permette di scoprire il legame, cioè l'unità che esiste tra il sé e tutte le creature, e che la realizzazione della "grande via" nella vita quotidiana ha un effetto benefico per gli altri, questo zen agisce  nel senso del mahāyāna.
  • Saijōjō-zen (giapp. saijōjō: "il più sublime dei veicoli supremi"). Nella forma suprema di esercizio zen, la "via" è identica al "fine". Lo zazen non viene più inteso come un mezzo per arrivare all'illuminazione, ma come la manifestazione della natura di buddha (buddhō) che dimora in ciascun essere vivente. Praticato da tutti i buddha del passato, questo zen è considerato l'apogeo e il coronamento dello zen buddhista. La pratica, conosciuta anche con il nome di shikantaza, è particolarmente raccomandata da Dōgen Zenji. A volte si ritiene che il daikō-zen sia la pratica propria della scuola Rinzai e il saijōjō-zen quella della  scuola Sōtō. L'opinione è vera solo in parte, perché daijō e saijōjō si completano e compenetrano a vicenda. Entrambe le forme di zen sono praticate dalle due scuole. Lo zen Rinzai insiste però in modo più accentuato sulla contemplazione della natura del sé attraverso la meditazione  kōan, mentre il Sōtō privilegia la pratica shikantaza. La  classificazione  in cinque categorie riflette una concezione tradizionale del buddhismo e oggi andrebbe rivista, a causa dell'estensione dello zen oltre i limiti dei paesi di antica cultura buddhista. Un cristiano o un musulmano possono, ad esempio, praticare lo zen shōjō, daijō e saijōjō all'interno della loro confessione religiosa anche se, secondo la classificazione di Guifeng

Zongmi, qualsiasi zen non buddhista deve rientrare nella categoria dello gedō-zen.

Cinque gradi dell'illuminazione
(giapp. go-i) Graduatoria della realizzazione dell'illuminazione (kenshō, satori) in funzione della profondità raggiunta. Fu stabilita dal maestro di chan Dongshan Liangjie (giapp. Tōzan Ryōkai). I gradi sono, partendo dal più superficiale al più profondo: shō-chū-hen, hen-chū-shō, shō-chū- rai, ken-chū-shi, ken-chū-to. I segni "shō" e "hen" indicano due aspetti opposti della realtà come per esempio:

shō                                  hen
l'assoluto                          il relativo
l'essenziale                       il fenomenico
la vacuità                          la forma e il colore
l'identità                           la differenza
l'unità                              la molteplicità
la vera natura                   le qualità

I cinque gradi indicano i diversi tipi di relazioni reciproche tra shō e hen:

  • Shō-chū-hen (letter. "hen in mezzo a shō"). A un simile livello di esperienza, è il mondo dei fenomeni che predomina,  ma  è percepito come una manifestazione dell'essenziale, della nostra vera natura.
  • Hen-chū-shō (letter. "shō in mezzo a hen"). Nel secondo stadio dell'esperienza dell'illuminazione, è l'aspetto della non diversità che appare in primo piano; la molteplicità è secondaria.
  • Shō-chū-rai (letter. "[l'Uno] nato dal cuore di shō [e quindi di hen, in ragione della loro solidarietà]"). A tale livello, non esiste più alcuna coscienza né del corpo né dello spirito. Entrambi si cancellano completamente. È l'esperienza della vacuità (giapp. ku; sanscr. śūnyata).
  • Ken-chū-shi (letter. "penetrazione nel cuore dei due [aspetti

solidali]"). In questo stadio si prende coscienza con estrema precisione della specificità di ogni cosa. La vacuità scompare nei fenomeni.

  • Ken-chū-to (letter. "esito nel cuore dei due"). Al quinto e ultimo livello, la forma e il vuoto si compenetrano totalmente. Da un tale stato di coscienza sgorga l'azione spontanea, senza proposito,  senza intenzione né del cervello né del cuore, che reagisce istantaneamente a tutte le circostanze che si presentano (vedi Fugyō-ni-Gyō).

Congronglu
(wg. Ts'ung-jung-lu; giapp. Shōyō-roku) Approssimativamente "il libro della serenità". Raccolta di cento kōan composti nel XII secolo dal maestro di chan Hongzhi Zhengjue (giapp. Wanshi Shōgaku). L'opera prende il nome dall'eremo del maestro, chiamato "cella  della    serenità".


Oltre un terzo degli esempi del Congronglu è identico ai  kōan  dei Biyanlu e del Wumenguan. Il fatto che Hongzhi abbia compilato questa raccolta, pur appartenendo alla scuola Sōtō e pur passando per un accanito avversario del metodo di insegnamento mediante i kōan (kanna-zen) praticato dalla scuola Rinzai, prova senza ombra di dubbio che le divergenze tra le due scuole sui metodi di formazione non erano poi così profonde. Lo zen Sōtō faceva anch'esso uso del kōan ritenendo che fosse un efficace strumento didattico.

Congshen
(wg. Ts'ung-shen) Vedi Zhaozhou Congshen.

Contemplazione del sé Vedi Kenshō.

Cuiwei Wuxue
(wg. Ts'ui-wei Wu-hsüeh; giapp. Suibi Mugaku) (IX sec.) Maestro di chan, discepolo e successore nel dharma (hassu) di Danxia Tianran (giapp. Tanka Tennen) e maestro di Touzi Datung (giapp. Tōsu Daidō). Il nome compare nel 20° esempio del Biyanlu. Si sa poco sulla vita di Cuiwei, se non che egli, come il maestro Danxia, possedeva un temperamento molto libero dalle convenzioni e diffidava del sapere libresco, da cui il soprannome di Wuxue ("l'incolto"). Ebbe cinque successori nel dharma, di cui il più noto fu il grande maestro di chan Touzi.

Cuiyan Lingcan

(wg. Ts'ui-yen Ling-ts'an; giapp. Suigan Reisan) (IX-X sec.) Maestro di chan, discepolo e successore nel dharma (hassu) di Xuefeng  Yicun (giapp. Seppō Gison). Cuiyan ebbe due successori nel dharma di cui si sa ben poco. Altrettanto si può dire di lui stesso; compare nell'8° esempio del  Biyanlu.

 

Daoxin
(wg. Tao-hsin; giapp. Dōshin) (580-651) Quarto  patriarca  (soshigata) del chan, successore nel dharma (hassu) di Sengcan e maestro di Hongren. Avrebbe incontrato il terzo patriarca quando aveva 20 anni e si sarebbe distinto in modo particolare per la sua marcata inclinazione per la meditazione. Si diceva di lui che praticasse lo zazen con un'intensità e una devozione che non si erano più viste dopo Bodhidharma. Il Denkō-roku riporta le circostanze in cui avvenne la trasmissione del dharma del Buddha da Sengcan a Daoxin. «Il trentunesimo patriarca [cioè il quarto patriarca cinese], Daii Zenji [titolo onorifico attribuito a Daoxin], si inchinò davanti a Kanshi Daishi [titolo onorifico attribuito a Sengcan] e disse: "Vi prego, maestro, abbiate pietà di me. Mostratemi la via verso la liberazione!". Il patriarca [Sengcan] chiese: "Chi ti ha mai incatenato?"; "Nessuno, rispose il maestro [Daoxin]". Il patriarca disse: "Se è così, perché dunque chiedi la liberazione?". A quelle parole, il giovane novizio ebbe una grande illuminazione».
Daoxin, che si chiamava Sima (Ssuma) nella vita civile, era originario della provincia dello Henan. Lasciò la sua casa a sette anni per  studiare il buddhismo e incontrò Sengcan qualche anno dopo, rivelandosi un brillante allievo. dopo avergli trasmesso il patriarcato, Sengcan chiese a Daoxin di stabilirsi in un monastero buddhista sul monte Lu,  dove predicò il Lakāvatārasūtra, testo di importanza capitale a partire da Bodhidharma, e dove insegnò la pratica dello zazen. Trascorso un po'   di
tempo sul Lushan, Daoxin obbedì a un presagio che aveva ricevuto e si trasferì sulla montagna accanto, che passò alla storia con il nome di monte Shuangfeng (monte delle "due cime"). Molti discepoli non tardarono a radunarsi là; fondarono una comunità autarchica che divenne il modello delle future comunità del chan. Nei trent'anni trascorsi sul monte Shuangfeng, Daoxin riunì intorno a sé circa cinquecento discepoli. A differenza dei precedenti patriarchi del chan, ancora molto influenzati dai sūtra e dalla tradizione mahāyāna ortodossa, Daoxin dimostrò già una tendenza che in seguito si sarebbe rivelata caratteristica del chan: il rifiuto delle scritture a favore della pratica della meditazione. Si legge così  in  un  paragrafo  dei  suoi  scritti:  «Resta  seduto  in   meditazione


[zazen], pieno di ardore e di volontà! La meditazione seduta è la base [...] Chiudi la porta e siediti! Non leggere i sūtra, non parlare con nessuno. Se ti eserciti e fai degli sforzi per tanto tempo, conoscerai un frutto molto dolce, come la scimmia che estrae la noce dal guscio. Ma pochi sono quelli che ci riescono». Il più notevole tra tutti i discepoli di Daixin fu Hongren, futuro quinto patriarca; si distinse per la profondità con cui realizzò il dharma del maestro. Verso la fine della sua vita, Daoxin chiese a Hongren di costruire un mausoleo su un versante del monte Shuangfeng. Quando l'edificio fu pronto, Daoxin vi si ritirò e conobbe la grande metamorfosi mentre era immerso in profonda meditazione.

Daoxuan Lüshi
(wg. Tao-hsüan Lü-shih; giapp. Dōsen Risshi) (702-760) Maestro della scuola Vinaya in Cina. Nel 732 si recò a Nara, allora capitale del Giappone, dove introdusse non soltanto le idee della scuola Vinaya, ma anche quelle della scuola Huayan e della scuola chan del Nord (vedi Sud, scuola del). Discendente nel dharma (hassu) di terza generazione da Shenxiu (Sheng-hsiu), insegnò la meditazione chan al monaco giapponese Gyōhō (722-797). Gyōhō ne trasmise a sua volta gli elementi al monaco Saichō, che si recò poi in Cina per studiarvi le idee della scuola Tiantai proprio sul monte omonimo, prima di fondare la scuola Tendai una volta ritornato in Giappone. Durante il suo viaggio in Cina egli a sua volta incontrò un maestro del chan della scuola Niutou (Gozu). Questi contatti con il chan spiegano la presenza di elementi di esso nella pratica della scuola Tendai. Agli inizi dell'innesto del chan in Giappone (XII-XIII sec.) i primi maestri di zen trovarono rifugio e poterono esercitare la loro influenza soprattutto nei monasteri Tendai.

Daoyi
(wg. Tao-i) Vedi Mazi Daoyi.

Darani giapp.
Vedi Dhāraṇī.

Daruma
Nome giapponese di Bodhidharma.

Daruma-Ki giapp.
Letter. "l'anniversario della morte di Daruma". Anniversario della morte del primo patriarca del chan, Bodhidharma (giapp.  Daruma),  celebrato nei monasteri zen il quinto giorno del decimo mese dell'anno.


Daruma-Shū giapp.
Letter. "scuola di Daruma". Scuola di buddhismo importata dall'India in Cina dal maestro indiano Bodhidharma (giapp. Daruma). Altro nome del chan o zen.

Daruma-sōjō giapp.
Letter. "la discendenza di Daruma". Espressione zen che indica la vera trasmissione del dharma del Buddha da parte del maestro Bodhidharma (giapp. Daruma) e dei suoi successori, i patriarchi della linea di discendenza del chan (soshigata).

Dashi cin.
(wg. ta-shih) Letter. "grande maestro". Vedi Daishi (1).

Dasui Fazhen
(wg. Ta-sui Fa-chen; giapp. Taizui Hōshin) (ca. IX sec.) Maestro di chan, discepolo e successore nel dharma (hassu) di Changqing Daan (giapp. Chōkei Daian, VIII-IX sec.), a sua volta successore nel dharma di Baizhang Huaihai (giapp. Hyakujō Ekai). Il nome di Dasui è menzionato nel 29° esempio del Biyanlu. Prima di raggiungere Changqing, Dasui seguì gli insegnamenti di Dongshan Liangjie (giapp. Tōan  Ryōkai), Guishan Lingyu (giapp. Isan Reiyu) e diversi altri maestri di chan. Dopo l'illuminazione si ritirò sul monte Tasui, da cui prese il nome e dal quale scese soltanto una volta in dieci anni. Si racconta che vivesse nel tronco di un albero cavo. In seguito alcuni monaci si riunirono intorno a lui ed egli iniziò a impartire loro i suoi insegnamenti.

Datsuma giapp.
Trascrizione giapponese del termine dharma.

Den'e giapp.
(o denne, den-i) Letter. "trasmissione dell'abito". Espressione zen che indica la vera trasmissione del dharma del Buddha lungo la linea di discendenza tradizionale. Nei tempi antichi la consegna della ciotola dell'elemosina e dell'abito monacale testimoniava tale trasmissione da un patriarca (soshigata) al suo successore. Vedi Inka-shōmei, Denkō-roku.

Den-i giapp.
Vedi Den'e.

Denkō-roku giapp.
(abbreviazione di Keizan Oshō Denkō-roku) Letter. "scritti del monaco Keizan sulla trasmissione della luce". Raccolta di aneddoti relativi a esempi di trasmissione del dharma lungo la linea di trasmissione dei 52 patriarchi della scuola Sōtō, da Mahākāśyapa a Eihei Jō (Dōgen Zenji),


così come il maestro giapponese Keizan Jōkin li riferì ai suoi discepoli. Il Denkō-roku mostra come il dharma del buddha Śākyamuni fu trasmesso di patriarca in patriarca senza subire alterazioni. Insieme allo Shōbō- genzō è una delle più importanti opere della tradizione Sōtō. Il Denkō- roku non va  confuso  con  il  Dentō-roku  (vedi  Jingde  chuandenglu). Qualche esempio di trasmissione dell'intrasmissibile, caratteristica dello zen, ci è dato in alcuni passaggi del Denkō-roku: «Il primo patriarca, il venerabile Mahākāśyapa: un giorno che il Venerato attorcigliava un fiore (tra le sue dita) con una strizzata d'occhio [vedi Nenge-mishō], Kāśyapa sorrise. Il Venerato disse: "Mia è l'essenza del vero dharma, la meravigliosa conoscenza del nirvāṇa. La confido a Mahākāśyapa". [...] Il secondo patriarca, il venerabile Ānanda, chiese al venerabile Kāśyapa: "Il Venerato ti ha trasmesso qualcos'altro, oltre al suo vestito  di broccato e d'oro?". Kāśyapa apostrofò: "Ānanda!". Ānanda disse: "Sì?". Kāśyapa disse: "Gira l'asta della bandiera davanti alla porta". Ānanda ebbe la "grande illuminazione". Il 52° patriarca, Eihei Jō Oshō [Dōgen Zenji], volle seguire l'insegnamento del maestro Gen. Un giorno, mentre gli chiese di istruirlo, udì il kōan seguente: «Far passare un solo cavallo alla volta per più fessure» e immediatamente si illuminò. La sera si gettò a terra e disse: "Non mi preoccupo dell'unico cavallo, ma che cosa ne è delle molteplici fessure?". Gen abbozzò un sorriso e rispose: "Le hai attraversate". Il maestro (Eihei) si prostrò a terra».

 

Fenggan
(wg. Feng-kan; giapp. Bukan) Maestro di chan dell'epoca Tang (le date della sua vita non ci sono note, visse con ogni probabilità a metà del VII sec.). Fu rōshi del monastero Guoqing (Kuo-ch'ing) sul monte Tiantai. Il poco che si sa di lui proviene in larga parte dalla prefazione alla raccolta di poesie composte dall'eremita Hanshan (Hanshanshi), in cui si trovano anche brani attribuiti a Fenggan. Riguardo al suo ruolo di soggetto della pittura chan, vedi Hanshan.

Fengxue Yanzhao
(wg. Feng-hsüeh Yen-chao; giapp. Fuketsu Enshō) (896-973) Maestro di chan della scuola Rinzai, discepolo e successore nel dharma (hassu) di Nanyuan Huiyong (giapp. Nan'in Egyō), maestro di  Shoushan Shengnian (giapp. Shuzan Shōnen). Fengxue è considerato uno dei più grandi maestri della linea di discendenza Linji Yixuan (giapp. Rinzai Gigen) e si mostrò un nobile successore - come aveva  predetto Yangshan Huiji (giapp. Kyōzan Ejaku) - di Huangbo Xiyun (giapp. Ōbaku Kiun), maestro  di  Linji.  Il  nome  di  Fengxue  viene  menzionato  nel 24° esempio del Wumenguan come anche nel 38° e 61° esempio del Biyanlu. Fengxue studiò durante la giovinezza i classici  del confucianesimo e desiderava passare l'esame per diventare funzionario statale. Un primo insuccesso provocò un cambio di rotta nella sua vita: abbandonò casa ed entrò in un monastero buddhista, dove si sottopose alla severa disciplina del Vinaya e si dedicò allo studio dei testi filosofici del buddhismo mahāyāna, in particolare delle dottrine della scuola Tiantai. La speculazione filosofica pura non bastò a  soddisfarlo; partì così alla ricerca di un maestro in grado di aiutarlo a comprendere la verità nascosta nei testi. Fengxue era intelligente, aveva la risposta pronta, era sicuro di sé, nessuno riusciva a eguagliarlo nel dialogo. Così si ritenne troppo presto illuminato e ci volle tutta la severità di un maestro come Nanyuan per fargli accettare i suoi limiti e permettergli di seguire una vera formazione. La maturazione spirituale di Fengxue, che sotto il maestro Nanyuan finì per ricevere l'illuminazione, è descritta in dettaglio nel commentario del maestro Yuanwu al 38° esempio del Biyanlu.


Fenomeni e sensazioni illusorie Vedi Makyō.

Fenyang Shanzhao
(wg. Fen-yang Shan-chao; giapp. Fun'yō Zenshō) (947-1024) Maestro di chan della scuola Rinzai, discepolo e successore nel dharma (hassu) di Shoushan Shengnian (giapp. Shuzan Shōnen), maestro di Shishuang Chuyuan (giapp. Sekisō Soen). Si narra che percorse tutta la Cina e incontrò 71 maestri, alla ricerca di chi potesse ancora  esser  salvato nella tradizione del chan. Così nel suo insegnamento trovarono spazio elementi tratti da diverse tradizioni, che, grazie  a  lui, sopravvissero nella scuola Rinzai. Fenyang fu uno dei primi a celebrare i detti degli antichi maestri in forma poetica, creando il genere degli elogi (ju). Vedi Zhimen Guangzi e Xuedou Chongxian.

Foyanyuan
(wg. Fo-yen-yüan; giapp. Butsugen-on) Maestro cinese della scuola Fuke. Vedi Kakushin.

Fubo-mishō-izen giapp.
Letter. "precedente alla nascita dei propri genitori". Espressione che permette a un uomo di evocare la sua vera natura o natura di buddha (busshō); sinonimo di honrai-no-menmoku.

Fudochi shinmyō-roku giapp.
Scritto del maestro di zen Takuan. Il testo espone i principi della pratica dello zen e paragona l'atteggiamento mentale di un adepto dello zen a quello di un uomo che pratica la via giapponese della spada (kendō).

Fugen
Vedi Samantabhadra.

Fugyō-ni-gyō giapp.
Letter. "assenza di azione nell'azione". Espressione zen che indica un'azione priva di intenzione e che non lascia traccia nello spirito-cuore (kokoro). Il fenomeno è abituale nello stato di illuminazione profonda. È un modo di agire non premeditato, una reazione istantanea a date circostanze. Una condizione è però necessaria: è lo sviluppo della capacità denominata jōriki. Essa, però, da sola non  basta  per raggiungere lo stato di coscienza detto Fugyō-ni-Gyō. Bisogna  anche che il soggetto agente sia distaccato dai frutti dell'azione, che non sia neppure cosciente di sé, cioè del suo io limitato (ego), come soggetto dell'azione. Il distacco è impossibile senza illuminazione.

Fuhōzō giapp.
Letter. "trasmissione del dharma".


  • Trasmissione del dharma del Buddha lungo una linea di  discendenza di patriarchi (soshigata) che parte dal buddha Śākyamuni.
  • Patriarchi che hanno partecipato alla trasmissione del dharma del Buddha e che sono presenti nella linea di discendenza che risale al buddha storico.

Fukan zazengi giapp.
Letter. "i principi dello zazen raccomandati universalmente". Scritto che il grande maestro di zen Dōgen Zenji compose al suo ritorno in Cina come introduzione alla pratica dello zazen. In esso egli insiste sul fatto che lo zazen non è un "mezzo per arrivare all'illuminazione" e che non si deve mai smettere di praticarlo anche dopo aver conseguito l'illuminazione, essendo la disciplina fondamentale di tutti i buddha (vedi Zen). Lo sviluppo spirituale non si interrompe mai.

Fukasetsu giapp.
Letter. "l'indicibile". Proprio come ogni corrente mistica di qualsiasi civiltà e di qualsiasi epoca, lo zen afferma che l'esperienza vissuta nell'illuminazione (kenshō, satori) sfugge a qualsiasi formulazione razionale. Chiunque abbia preso coscienza della propria vera natura o natura di buddha (busshō) è «come un muto che abbia fatto un sogno», secondo le parole del maestro di chan Wumen Huikai (giapp. Mumon Ekai) nei commenti al primo esempio del Wumenguan, il celebre "kōan mu". È sull'esperienza del fukasetsu che si basa la messa in guardia, tanto caratteristica dello zen, contro ogni interpretazione letterale dei testi sacri. Questi non sarebbero altro che il «dito che indica la luna [la vera realtà] e non la luna stessa». Nella definizione dello zen in quattro proposizioni attribuita dalla leggenda a Bodhidharma, primo patriarca del chan - attribuzione peraltro contestata da molti studiosi, che la fanno risalire piuttosto al maestro Nanquan Puyuan (giapp. Nansen Fugan) - si può leggere: «Una trasmissione speciale al di fuori  delle  scritture [giapp. kyōge betsuden]»; «nessuna dipendenza da scritti [giapp. furyū monji]»; «dirigersi direttamente verso lo spirito dell'uomo [giapp. jikishi ninshin]»; «contemplare la [propria] natura e realizzare lo stato di buddha [giapp. kenshō jōbutsu]». Anche in ragione del carattere indicibile dell'esperienza, i maestri ricorrono volentieri a gesti durante i loro mondō e i loro hossen, vedendo in questo un mezzo di espressione superiore alla comunicazione attraverso la parola. Come attesta la ricchezza della letteratura chan, l'utilità dello scritto non è però affatto negata, anche se gli adepti di chan e zen non smettono di riaffermare che nessun testo potrà trasmetterla; solo colui che ha  vissuto l'esperienza evocata dai testi può comprendere che  cosa  essi esprimono.


Fukashigi giapp.
Letter. "l'inconcepibile". Ciò che sfugge a ogni pensiero, a qualsiasi concezione razionale, ciò che trascende il razionale; il "meraviglioso, l'insondabile". La dottrina dello zen considera la vera realtà, la vera natura o natura di buddha (busshō) come "fukashigi", perché è situata oltre il pensiero. Anche se tale realtà è inconcepibile e incomprensibile, però, resta nondimeno sensibile. L'esperienza dell'inconcepibile corrisponde con esattezza a ciò che prende il nome di illuminazione (kenshō, satori).

Fukatoku giapp.
Letter. "ciò che è impossibile ottenere". Il carattere inafferrabile, non sostanziale di ogni fenomeno. Il pensiero buddhista afferma che tutti i fenomeno sono legati a cause precise, dirette o indirette  (innen), e arriva alla conclusione dell'assenza di sostanza immutabile e  della vacuità di tutte le cose (giapp. , sanscr. śūnyatā), dunque dell'aspetto "fukatoku" dell'universo.

Fuke giapp.
Vedi Puhua.

Fuke, scuola
(cin. Puhuazong, wg. P'u-hua-tsung, o Puhua-chan, wg. P'u-hua-c'han; giapp. Fuke-shū) Una delle branche minori della tradizione del chan, fondata nel IX secolo da un maestro piuttosto eccentrico di nome Puhua (giapp. Fuke), discepolo di Panshan Baoji (giapp. Banzan Hōshaku) e "discendente nel dharma" di Mazi Daoyi (giapp. Baso Dōitsu). Nella scuola, che non entrò a far parte delle tradizioni canonizzate come Goke-shichishū, la recitazione dei sūtra come metodo di meditazione fu sostituita dall'utilizzo di flauti di bambù (giapp. shakuhachi). La scuola Fuke fu trasportata in Giappone dall'illustre maestro Kakushin. I suoi adepti, per la maggior parte laici, partivano in  pellegrinaggio  con cappelli di bambù a forma di alveare che mascheravano il viso e dissimulavano la loro identità. Si spostavano suonando un flauto, allo scopo di ricordare il dharma del Buddha ai fedeli; venivano chiamati komusō, i monaci della vacuità. Dopo essere divenuta, alla  fine dell'epoca dei Tokugawa (o di Edo), il rifugio di samurai senza signore (giapp. rōnin) che utilizzavano il cappello dei monaci per mimetizzarsi durante i loro attacchi, la scuola Fuke fu ufficialmente proibita nel corso dell'era Meiji.

Fuketsu Enshō
Vedi Fengxue Yanzhao.


Fukyō giapp.
Letter. "recitazione dei sūtra". Espressione del vocabolario zen che indica la recitazione dei sūtra da parte dei monaci.

Fun'yo Zenshō
Vedi Fenyang Shanzhao.

Furyū-monji giapp.
Letter. "nessuna dipendenza dagli scritti". Indipendenza del fedele dai testi sacri, una delle caratteristiche dello zen.

Fusa giapp.
Approssimativamente "tè per tutti". Offerta di tè a chi abita in un monastero da parte dei fedeli che provvedono ai bisogni della comunità.

Fusatsu giapp.
Pronuncia giapponese del termine cinese che trascrive il sanscrito "upavasatha". Fusatsu è una cerimonia buddhista la cui origine risale al buddha Śākyamuni. È celebrata due volte al mese nei monasteri zen e serve a rinnovare i voti (shiguseigan). Essa richiede la confessione delle manchevolezze ai precetti buddhisti (jūjūkai)  e  della  retribuzione karmica che ne deriva.

Fusetsu giapp.
Approssimativamente "diffondere la parola".  Presentazione generale della dottrina buddhista in un monastero zen (vedi Teishō).

Fushizen-fushiaku giapp.
Letter. "non pensare bene, non pensare male". Espressione zen che indica che un essere è riuscito a trascendere la visione duale del mondo che giudica e classifica i fenomeni in base alle categorie di bene e di male, di lodevole o di condannabile. Questo stato di coscienza non può essere raggiunto se non attraverso l'esperienza dell'identità profonda di ogni fenomeno, cioè attraverso l'illuminazione (kenshō, satori). L'espressione "fushizen-fushiaku" è tratta da una popolare storia della tradizione chan riportata nel 23° esempio del Wumenguan:  Huineng, sesto patriarca del chan, ricevette da Hongren, il quinto patriarca, "la ciotola e l'abito" (den'e), divenendo così successore nel dharma del suo maestro (hassu). Come sesto patriarca della discendenza, Huineng fu attaccato dai seguaci di Shenxiu che volevano portargli via con la  forza le insegne del patriarcato. Nella prima parte del 23° esempio del Wumenguan si legge quanto segue: «L'anziano Ming seguì il sesto patriarca dello Zen per tutta la strada lungo il ciglio della montagna. Quando il patriarca vide arrivare Ming, gettò il vestito e la ciotola del patriarcato su una roccia ed esclamò: "Questo vestito simboleggia  la fede;  è  giusto  lottare  per  esso?  Puoi  portarlo  via".  Ming  cercò    di


raccoglierlo ma non si riusciva a spostarlo, era fermo come una montagna. Vacillando, terrorizzato, Ming disse: "Sono venuto per l'insegnamento, non per il vestito. Per favore, istruiscimi". Il patriarca disse: "Non pensare bene, non pensare male, in  questo  preciso momento, qual è il tuo volto originale?". Ming ottenne immediatamente una grande illuminazione».

Fushō giapp.
Letter. "non nato". Espressione zen che indica l'assoluto, la vera realtà che non ha né nascita né morte, né comparsa né scomparsa, né tempo nel senso cronologico del termine.

Futan-kū giapp.
Letter. "non soltanto il vuoto". Comprensione del fatto che la vera natura o natura di buddha (busshō) dei fenomeni non è né "esistenza" né "non esistenza", ma le due cose assieme, a seconda del punto di vista che si adotta. Nel Mahāprajñāpāramitāhdayasūtra (giapp. MakaHannyaharamita Shin-gyō) o Sūtra del cuore, lo zen sottolinea in una breve formula la non differenziazione tra relativo e assoluto, un'identità che supera ogni apprensione logica e razionale (fugashigi): «La forma non è che vuoto, il vuoto non è che forma». L'espressione "futan-kū" è usata in contrapposizione a tankū ("soltanto vuoto"), termine utilizzato nel buddhismo giapponese per indicare la dottrina di certe scuole buddhiste che, in seguito a un'analisi logica, arrivano alla conclusione della non esistenza dei fenomeni e negano che possano esistere allo stesso tempo. La sintesi della forma e del vuoto non può essere concepita con la logica (anche la nozione di vacuità è di competenza dell'irrazionale). Solo l'esperienza dell'illuminazione profonda può permettere di comprenderla.


Gozan-bungaku giapp.
Letter. "letteratura delle cinque montagne". Termine generico che indica gli scritti dei maestri zen dei cinque principali monasteri zen (gozen) di Kyōto durante l'epoca degli Ashikaga (o di  Muromachi, 1338-1573). Sono considerati i fondatori della gozan-bungaku il maestro di chan Yishan Yining, che arrivò in Giappone nel 1299, e il suo discepolo giapponese Sesson Yūbai. Gli autori più noti sono il geniale Musō Soseki, che, proprio come Yishan Yining, fu uno straordinario artista e un importante maestro allo stesso tempo, e i maestri Gen'e (1269-1352), Shūshin (1321-1388) e Zekkai Chūshin (1336-1405), discepolo di Musō Soseki. Questi autori praticarono soprattutto la poesia cinese e la filosofia del neoconfucianesimo; diedero un grande contributo alla trasmissione della scienza e dell'arte cinesi in Giappone. Alcuni di loro acquisirono grande fama come pittori e maestri della "via della scrittura" (shōdō). Attraverso i suoi scritti, redatti in un giapponese semplice e comprensibile. Musō Soseki contribuì in modo particolare alla diffusione di questa letteratura zen in Giappone.

Gozu giapp.
Pronuncia cinese di Niutou. Vedi Farong.

Gozu, scuola
(cin. Niutouzong o Niutouchan; giapp. Gozu-shū) Branca secondaria e poco influente del chan (vedi Zen). Non fa parte delle scuole tradizionali (goke-shichishū). Fondata dal maestro cinese Farong (giapp. Hōyū), chiamato anche Niutou (giapp. Gozu), discepolo di Daoxin, quarto patriarca del chan, la scuola, che scomparve durante il periodo Song, trae  il  proprio  nome  dal  monte  Niutou  ("testa  di  bue")  su  cui visse


Farong. Il nome passò prima al maestro e poi alla scuola. La scuola Gozu fu trasmessa in Giappone da Saichō, fondatore del buddhismo Tendai. Tuttavia non arrivò mai a un livello di autonomia e di sviluppo sufficiente e si estinse in breve tempo.

Gozu-shū giapp.
Vedi Gozu, scuola.

Gṛdhrakūṭa sanscr.
Vedi Picco dell'Avvoltoio.

Guangzi
(wg. Kuang-tsu) Vedi Zhimen Guangzi.

Gufu-shogyō-zen giapp.
Letter. "lo zen dell'uomo insensato". Espressione zen che indica gli esercizi di meditazione che consistono nel riflettere su idee estrapolate dalle dottrine buddhiste ortodosse (come il "carattere effimero di ogni cosa", la "vacuità", il "non attaccamento all'Io"). Dalla forma di meditazione tradizionale lo zen ricava il vero esercizio di meditazione, lo zazen, che esclude ogni speculazione intellettuale sui concetti religiosi, per quanto essi siano sacri e sublimi, allo scopo  di liberare lo spirito dalla dipendenza da modelli mentali.

Guifeng Zongmi
(wg. Kuei-feng Tsung-mi; giapp. Keihō Shūmitsu) (780-841) Maestro di chan, proveniente dalla scuola Kataku. Più che come maestro di chan, egli è conosciuto come quinto patriarca della scuola Huayan (giapp. Kegon) del buddhismo, una scuola che intrattenne sempre strette relazioni con il chan sia in Cina che nel periodo iniziale della diffusione dello zen in Giappone. Guifeng fu autore di numerosi testi, alcuni dei quali apprezzati anche dagli adepti di zen. A proposito del suo ruolo nella scuola Huayan, vedi Zongmi, nome con cui era  conosciuto  in questa tradizione.

Guishan Lingyu
(wg. Kuei-shan Ling-yu; anche Weishan Lin-gyu; giapp. Isan Reiyū) (771-853) Grande maestro di chan, discepolo e successore nel dharma (hassu) di Baizhang Huaihai (giapp. Hyakujō Ekai), maestro di Yangshan Huiji (giapp. Kyōzan Ejaku) e di Xiangyan Zhixian (giapp.  Kyōgen Chikan). Guishan fu il più celebre maestro buddhista del suo tempo nel sud della Cina; intorno a lui si raggruppò una comunità monastica che contava 1500 membri ed ebbe 41 successori nel dharma. Con il suo discepolo Yangshan fondò la scuola Guiyang (Igyō) che derivò  il suo nome dalle loro iniziali. Guishan appare nel 40° esempio del Wumenguan e negli esempi 4°, 24°


raccolti nel Tanzhou Guishan Lingyuchanshi yulu (T'an-chou Kuei-shan Ling-yu-ch'an-shih yü-lu, "Raccolta dei detti del maestro di chan Guishan Lingyu di Tanzhou"). Guishan diventò monaco all'età di 15 anni e cominciò la sua formazione in un monastero della scuola del buddhismo Vinaya. All'età di 22 anni incontrò Baizhang, ne divenne discepolo e sotto la sua guida conobbe l'illuminazione profonda, dopo la quale continuò a progredire, restando una ventina d'anni come aiuto cuoco (tenzo) nel monastero del suo maestro. Fu il principale successore nel dharma di Baizhang, che gli diede il suo hossu in segno di conferma (inka-shōmei). Proprio questo hossu ebbe un ruolo in un hossen rimasto celebre tra i maestri Deshan e Guishan (Biyanlu, 4° esempio). Un giorno, mentre Baizhang cercava un abate in grado di dirigere un nuovo monastero sul monte Guishan, avvenne quanto riferito nel 40° esempio del Wumenguan. Il testo del kōan dice: «Il maestro Guishan iniziò nella comunità del maestro Baizhang, lavorando come capocuoco, Baizhang voleva designarlo maestro della Grande Montagna Gui e perciò chiese a lui e al capo della comunità di parlare davanti a tutti, in modo da poter scegliere la persona migliore. Baizhang prese una brocca, la mise sopra una pietra e chiese: "Se non puoi chiamarla brocca per l'acqua, come la chiami?". Il capo della comunità rispose: "Non la si può chiamare dardo di legno". Baizhang pose quindi la domanda a Guishan. Costui con un colpo rovescio la brocca e uscì. Baizhang sorrise e disse: "Il capo della comunità ha perso la montagna". E diede incarico a Guishan di cominciare a insegnare lo Zen su quella montagna». L'ex aiutocuoco si recò sul monte Guishan da cui poi trasse il nome; si costruì una capanna e si accontentò di continuare da solo la sua formazione. Non costruì alcun edificio, non prese allievi con sé. Soltanto dopo sette o otto anni si cominciò a prestare attenzione a questo curioso personaggio; ben presto allievi lo raggiunsero sulla montagna, dove oggi si trova un grande monastero.

Guiyang, scuola
(cin. Guiyangzong, wg. Kuei-yang-tsung; giapp. Igyō-shū) Scuola del chan che appartiene alle "cinque famiglie-sette scuole"  (goke- shichishū), cioè alle principali correnti della tradizione. Essa  prende nome dalla parte iniziale dei nomi dei suoi due fondatori, Guishan Lingyu (giapp. Isan Reiyu) e il suo successore Yangshan Huiji (giapp. Kyōzan Ejaku). Il metodo di insegnamento di questa scuola si distingueva per l'utilizzo di un sistema di 97 simboli iscritti in un cerchio. Nonostante la sua scomparsa, questo codice, attribuito dalla tradizione a  Huineng, sesto patriarca del chan (vedi Danyuan Yingzhen), influenzò la creazione delle dieci tavole dell'addestramento del bue (jūgyū[-no]-zu) e  dei cinque gradi dell'illuminazione del maestro  Dongshan.  Esso costituiva una sorta di linguaggio segreto che permetteva agli iniziati di dibattere sui principi fondamentali del chan. Coscienti del rischio di ridurre il sistema a un mero gioco formale, i maestri di chan lo trasmettevano


soltanto ad alcuni dei loro alunni, a patto che questi mantenessero il segreto più assoluto. A metà del X secolo la tradizione Guiyang (Igyō) si fuse con quella della scuola Linji (Rinzai) e perse per sempre ogni autonomia.

Gunin
Vedi Hongren.

Guoshi
(wg. Kuo-shih; giapp. Kokushi) Letter. "maestro della nazione" o "maestro del regno". Titolo attribuito dalla corte imperiale cinese a maestri buddhisti dalle capacità eccezionali, in particolare a quelli di cui l'imperatore si considerava discepolo.

Gyōbutsu giapp.
Letter. "agire [come un] buddha". Consacrarsi alla pratica fondamentale della via del Buddha (butsudō), cioè all'esercizio dello zazen.

 

Hongren
(wg. Hung-jen; giapp. Gunin Kōnin) (601-674) Quinto patriarca del chan, successore nel dharma (hassu) di Daoxin (giapp. Dōshin), maestro di Huineng (giapp. E'nō) e di Shenxiu (giapp. Jinshū). Secondo la tradizione, Hongren avrebbe incontrato il quarto patriarca quando aveva 14 anni, ma fin dal loro primo incontro impressionò Daoxin per la profondità della sua realizzazione dello spirito del chan. Il Denkō-roku riporta il dialogo tra il quarto e il futuro quinto patriarca. I due grandi maestri si divertono con similitudini di pronuncia tra i caratteri  che  significano  "nome, natura" e "essenza" (shō). Dato che il gioco di parole è impossibile da rendere in italiano, la traduzione che segue adopererà sistematicamente il termine "nome" là dove il testo dice "sei" o "shō": «Il trentaduesimo patriarca, Daiman Zenji (titolo onorifico di Hongren) incontrò il trentunesimo patriarca [Daoxin] sulla strada per Ōbai. Il patriarca [Daoxin] domandò: "Qual è il tuo cognome?". Il maestro [Hongren] rispose: "Benché abbia un nome [sei], non è un nome ordinario". Il patriarca disse: "Che sorta di nome è dunque?". Il maestro disse: "È Natura-di-buddha". Il patriarca disse: "Non hai cognome?". Il maestro rispose: "Non ne ho, perché sarebbe per natura Vacuità". Il patriarca restò in silenzio, confermò poi che Hongren aveva realizzato il dharma. E gli trasmise la veste del dharma». Consegnandogli la  sua  veste (den'e), il quarto patriarca confermò Hongren come suo successore nel dharma e fece di lui il quinto patriarca nella linea di discendenza del chan. Dopo la morte del suo maestro, Hongren fondò il monastero sul monte Huangmei (giapp. Ōbai), dove ebbe luogo il celebre episodio della successione del quinto patriarca (vedi Huineng), che avrebbe diviso il chan tra le scuole del Nord e del Sud.

Hongzhi Zhengjue
(wg. Hung-chih Cheng-chüeh; giapp. Wanshi Shōgaku) (1091-1157) Maestro di chan della scuola Caodong (Sōtō) in Cina, discepolo e successore nel dharma (hassu) di Danxia Zichun (giapp. Tanka Shijun). Il maestro Hongzhi è conosciuto soprattutto per la sua celebre discussione (amichevole) con il maestro di Linji (Rinzai) Dahui Zonggao (giapp. Daie Sōkō) sui rispettivi vantaggi del mokushō-zen,  raccomandato  dalla scuola Sōtō, e del kanna-zen, preferito invece dalla scuola Rinzai. Anche se poi venne talvolta inasprita da adepti un po' troppo zelanti, questa divenrgenza di opinioni tra i due uomini fu comunque minima, e  il maestro Hongzhi non esitò a incaricare il maestro Dahui di completare la stesura della sua opera (Congronglu) dopo la sua  morte.

Honrai-no-menmoku  giapp.
Letter. menmoku: "viso", honrai: "originale". L'espressione zen, tradotta con "viso primordiale" o "viso originale", è una delle metafore preferite per indicare la vera natura o natura di buddha (busshō) dell'uomo e di ogni cosa. Formulata come domanda:  «Qual  è il  tuo volto originale?»   o


«Qual è il volto che avevi prima della nascita dei tuoi genitori?», l'espressione costituisce il centro di un famoso kōan. Riconoscere il proprio volto originale significa prendere coscienza del proprio vero sé, dunque arrivare alla contemplazione della natura del sé (kenshō).

Honshi giapp.
Letter. "maestro originario".

  1. Nel buddhismo giapponese il termine indica, in generale, il buddha Śākyamuni.
  2. In particolare, il termine indica il fondatore di una corrente del buddhismo.
  3. Maestro da cui si riceve il jukai.
  4. Maestro di zen da cui si riceve l'inka-shōmei. Può darsi che un discepolo zen segua gli insegnamenti di più maestri durante la vita; solo colui che gli conferisce "il sigillo della conferma" è il  suo  honshi secondo la tradizione zen.

Honsoku giapp.
Letter. "esempio originale". Sinonimo di kōan. Nelle raccolte di kōan come il Wumenguan o il Biyanlu, l'espressione indica il kōan propriamente detto, in opposizione alle "spiegazioni" che lo precedono e agli "elogi" che seguono (ju).

Hon'u-busshō giapp.
Letter. "natura di buddha presente dalle origini". L'espressione zen è sinonimo di busshō, la natura di buddha.

Hōrin-ji giapp.
Vedi Baolinsi.

Hossen giapp.
Letter. "combattimento del dharma". Metodo caratteristico dello zen che ha per fine di dimostrare la verità vivente in modo immediato, senza ricorrere al pensiero discorsivo né ai dogmi filosofici o religiosi. Come il mondō, lo hossen consiste in uno scambio di domande e risposte accompagnate da gesti tra due uomini illuminati. Mentre il  mondō si riduce di solito a una domanda e a una risposta, esso può essere costituito da più domande e risposte. La maggior parte dei kōan provengono dai mondō o dagli hossen trasmessi dalla tradizione. A differenza di quanto potrebbe far credere l'espressione "combattimento del dharma", non si tratta affatto di una disputa o di una discussione animata; non si cerca di avere la meglio su un avversario attraverso la parola né di determinare chi dei due oratori sia il più abile. I protagonisti di uno hossen parlano delle proprie esperienze di zen; non conoscono né antagonismo né opposizione tra l'io e il tu. I due individui approfittano dell'occasione  per  verificare  la  profondità  della  propria  esperienza a


contatto con un'altra persona di grande forza spirituale e per completare così la propria formazione. Il Pangjushi yulu (vedi Pang Yun) contiene una serie di hossen tra un laico illuminato dell'epoca Tang e un famoso maestro di chan. Ne riportiamo uno: «Un giorno, il laico Pang si rivolse al maestro Mazi e gli disse: "Un uomo il cui volto originale non è adombrato vi chiede di alzare gli occhi". Mazi volse lo sguardo a terra. Il laico disse: "Soltanto voi sapete suonare a meraviglia l'arpa  senza corde". Mazi volse lo sguardo al cielo. Il laico si prostrò a terra. Mazi se ne andò. "Ecco come si guasta tutto a volersi mostrare troppo intelligenti!", disse il laico».

 

Ichibō giapp.
Letter. "un bastone". Espressione zen che designa l'uso che il maestro di zen fa del bastone (kyōsaku, shippei) per il bene del suo alunno. Vedi Bōkatsu.

Ichien
(o Dōkyō, Mujū) (1226-1312) Monaco giapponese della scuola Rinzai, discepolo di Ben'en (Shōichi Kokushi).
Ichien attraversò il Giappone per seguire gli insegnamenti dei maestri di diverse scuole zen. Fu l'autore dello Shaseki-shū ("Raccolta di sabbia e di pietre"), opera popolare che raccoglie storie e leggende, spesso piene di umorismo, con cui i maestri zen amano abbellire i loro discorsi.

Ichi-ensō giapp.
Vedi Ensō.

Ichiji-fusetsu giapp.
Letter. "non dire una [sola] parola". Espressione zen che ricorda come il Buddha (o i patriarchi, vedi Soshigata) non avrebbe mai, in nessun discorso, nominato con una sola parola la vera realtà (busshō), perché questa proviene dal livello dell'indicibile (fukasetsu). Cosciente di tale impossibilità, il Buddha si rifiutò anche, subito dopo la sua illuminazione profonda, di impartire insegnamenti, ma mosso a compassione dalla miseria degli esseri prigionieri del ciclo della vita e della morte (saṃsāra), alla fine accettò - come dicono i maestri zen - di "lasciarsi cadere nell'erba", ovvero di scendere dal livello della comprensione profonda a quello della coscienza ordinaria (bonpu-no-jōshiki), per mostrare, anche solo con il dito, a chi era pronto a intendere,  la direzione da seguire per riuscire a comprendere la vera realtà. Perciò, nei sūtra che descrivono gli insegnamenti del Buddha, in tutti gli scritti  e i discorsi dei maestri, lo zen non vede altro che "il dito che mostra la luna (la verità) ma non la luna stessa". Anche supponendo che la verità ultima possa essere trasmessa, lo sarà soltanto attraverso un processo misterioso (vedi Hassu) che lo zen chiama "trasmissione da spirito a spirito" (ishin-denshin). In base a tale idea, lo zen si designa come una "trasmissione speciale al di fuori delle scritture (dell'ortodossia)" (kyōge-betsuden); insiste anche sulla sua "indipendenza" rispetto alle parole e alle lettere (furyū-monji) e preferisce "orientarsi direttamente verso lo spirito (kokoro) dell'uomo" (jikishi-ninshin), piuttosto che seguire alla lettera le "dottrine" trasmesse dalla tradizione; ciascuno comprende infatti soltanto in funzione del suo livello di coscienza del momento, cioè non percepisce nient'altro che una proiezione di sé.


Ichiji-kan giapp.
Letter. "barriera di una parola". Espressione zen che designa il wato composto da un'unica parola. Le più celebri "barriere di una parola" sono il "mu" del maestro cinese Zhaozhou Congshen (giapp. Jōshū Jūshin), il wato del kōan del "cane di Zhaozhou" (1° esempio del Wumenguan) o ancora il "Kan!" del maestro cinese Yunmen Wenyan (giapp. Unmon Bun'en) tratto dal seguente kōan (8° esempio del Biyanlu): «Verso la fine del periodo d'estate [ango], Cuiyan disse ai monaci riuniti per seguire il suo insegnamento: "Durante tutta l'estate, mi sono rivolto  a voi, giovani e vecchi monaci; guardate se Cuiyan ha ancora tutte le sue sopracciglia!". Baofu disse: "I ladri hanno il cuore pieno di timore". Changqing disse: "Si sono fatti avanti!". Yunmen eslamò: "Alt!" [giapp. Kan=barriera]».

Ichiji-zen giapp.
Letter. "zen di una parola". Esercizio zen che consiste nel meditare su un'unica parola di un maestro (ichiji-kan) a guisa di kōan.  Nella tradizione del chan il maestro Yunmen Wenyan (giapp. Unmon Bun'en) è particolarmente celebre per i suoi ichiji-zen.

Ichimi-shabyō giapp.
Letter. "travasare da una scodella all'altra senza alterazione del gusto". Espressione zen che designa una trasmissione perfettamente fedele del dharma del Buddha, come avviene da un maestro al suo successore nel dharma (hassu). Vedi Ishin-denshin e Ichimi-zen.

Ichimi-zen giapp.
Letter. "zen dal sapore unico". Zen puro, autentico, lo zen del Buddha e dei patriarchi (soshigata). L'immagine del "sapore unico" fa riferimento all'esperienza della non differenziazione (della forma e del vuoto). Vedi anche Illuminazione. L'espressione è utilizzata in contrapposizione a gomi(-no)-zen.

Ichinen-fushō giapp.
Letter. "non produzione di pensiero". Nello zen l'espressione significa che il livello di coscienza raggiunto da un individuo che abbia eliminato ogni pensiero illusorio (vedi Accecamento) è quello di un buddha. Ichinen-fushō indica lo stato mentale che procura l'esercizio dello zazen e che è allo stesso tempo zazen nella sua forma più pura. Questo stato si caratterizza per un'eliminazione totale di ogni sentimento, sensazione, ragionamento  e  immagine  che  ci  accecano.  Perciò  lo  zen    afferma:
«Cinque minuti di zazen equivalgono a essere per cinque minuti un buddha!».


Ichinen-mannen giapp.
Letter. "un istante di coscienza (nen) diecimila anni". In questa espressione del buddhismo giapponese, la cifra diecimila indica soltanto una durata infinitamente lunga, qualcosa di incommensurabile; la formula fa allusione all'esperienza, comune a tutti i santi e ai mistici di  ogni civiltà e di ogni epoca, dell'assenza, nell'illuminazione, di una nozione temporale nel senso abituale del termine. Dal punto di vista dell'illuminazione, l'istante di coscienza è "eternità".

Ignoranza
Vedi Accecamento e Avidyā.

Igyō, scuola
Vedi Guiyang, scuola.

Igyō-Shū
Nome giapponese della scuola Guiyang-zong. Vedi Guiyang, scuola.

Ikkatsu giapp.
Letter. "un katsu". Grido (katsu) utilizzato da un maestro di zen come metodo di istruzione. Il maestro cinese Linji Yixuan (giapp. Rinzai Gigen) era particolarmente celebre per questo metodo, rimasto in uso soprattutto nella scuola Rinzai. Vedi Bōkatsu.

Ikkyū Sōjun
(1394-1481) Maestro di zen della scuola Rinzai, conosciuto nella storia dello zen per il suo umorismo e la profondità della  sua esperienza. Spesso qualificato "burlone dello zen" per via dello stile di vita anticonformista, Ikkyū è senz'altro il personaggio più popolare dello zen giapponese. Come un santo folle, deplorava la decadenza dello zen nei grandi monasteri. ci sono innumerevoli aneddoti, autentici o inventati, sulla vita che conduceva al di fuori di ogni convenzione sociale prestabilita. Si rivelò anche eccellente pittore, come pure maestro di "calligrafia" (shōdō) e poeta di grande qualità. Le sue  poesie, raggruppate nel Kyōun-shū, celebrano i grandi maestri dei tempi antichi, deplorano il declino dello zen e cantano le lodi del vino e dell'amore fisico. Ikkyū veniva spesso chiamato anche "l'asino cieco". Ecco due poesie caratteristiche della sua opera: «Quale discepolo del Rinzai / Si preoccupa ancora / Della Vera Tradizione? / Nelle loro scuole, / Non c'è posto / Per l'asino cieco / Che cerca la Verità / Camminando / Con i suoi sandali e il suo bastone. / Da loro, si pratica lo zen / Su un terreno sicuro, / Nella comodità e nella sicurezza, / Per  il  proprio  profitto. / Dieci giorni passati / Al monastero / Mi hanno riempito di inquietudine. / Il filo rosso / Che corre ai miei piedi / È lungo, ma intattno. / Se un giorno vuoi / Incontrami / Vai a informarti / Dal pescivendolo, / Dal locandiere / O dalle donne di  strada». Figlio illegittimo     dell'imperatore


Go-Komatsu, Ikkyū entrò fin dall'età di cinque anni come novizio in un monastero buddhista. Dotato di grande intelligenza, imparò presto a leggere le scritture e a comporre poesie nello stile classico cinese. A vent'anni fu preso come alunno del maestro di zen Kesō Sōdon (1352- 1428). Abate del Daitoku-ji, il maestro Kesō conduceva una vita di rigorosa disciplina in un piccolo tempio zen, lontano dagli intrighi politici e dalle questioni temporali in cui il monastero, come la maggior parte dei grandi monasteri dell'epoca, era coinvolto. Nel 1420 Ikkyū ebbe l'illuminazione, una notte su una barca, sentendo all'improvviso il verso di una cornacchia mentre era  immerso  nella  meditazione. Confermato dal suo maestro come successore nel dharma (inka-shōmei), Ikkyū si tenne anch'egli lontano dalla vita del monastero; visse prima come eremita sul monte Jōu; poi, nell'isolamento della sua "capanna di asino cieco" (giapp. katsuro-an) a Kyōto. Nel 1474 fu nominato abate di Daitoku-ji dall'imperatore; noin gli fu possibile venir meno a  tale incarico, ma evitò comunque di vivere dentro al monastero e preferì rimanere nel Shūon-an, piccolo tempio del suo villaggio natale a Maki, dove continuò a insegnare la verità dello zen nel suo modo anticonvenzionale a tutte le persone che gli facevano visita. Si racconta che, indispettito davanti allo stato di decadimento dello zen durante l'epoca in cui visse, Ikkyū avrebbe fatto a pezzi il suo certificato di conferma di maestro zen; da parte sua, non riconobbe alcun successore nel dharma.

Illuminazione
Termine con cui inappropriatamente si traduce talvolta il termine sanscrito bodhi (letter. "risveglio"). Nello zen, però, "illuminazione" è termine ormai invalso nell'uso occidentale come traduzione dell'inglese "enlightment". Tale fenomeno non ha comunque nulla a che vedere con qualunque esperienza ottica legata alla luce.

Ina giapp.
Vedi Inō.

Inga giapp.
Letter. "causa e frutto". Causa ed effetto, nel senso  della  legge buddhista del karman (vedi Innen). Lo zen si basa  sull'esperienza intuitiva e immediata della vera realtà, un'esperienza che trascende le categorie dello spazio e del tempo e supera tutte le concatenazioni spaziotemporali. Lo zen dice: «Inga ichinyo - La causa e l'effetto sono una sola cosa».

Ingen Hōgo giapp.
Letter. "le parole del dharma di Ingen" (cin. Yinyuan). Raccolta di detti e spiegazioni del maestro di chan Yinyuan Longqi che fondò la scuola giapponese Ōbaku a metà del XVII secolo.


Ingen Ryūki
Vedi Yinyuan Longqi.

Inka-shōmei giapp.
(o inka) Letter. "il vero sigillo della prova diventata visibile". Il sigillo che attesta la realizzazione dell'autentica illuminazione. Termine zen che designa il certificato ufficiale consegnato dal maestro di zen all'alunno che ha terminato la sua formazione presso di lui. Nel caso dei maestri che utilizzano il sistema del  kōan, l'espressione indica che il  discepolo ha risolto in modo soddisfacente tutti i kōan a lui sottoposti. Quando la disciplina non ricorre al kōan, accordare l'inka significa che il maestro è soddisfatto del grado di comprensione del suo allievo. Nella tradizione dello zen è soltanto dopo aver ottenuto questo certificato - e aver soddisfatto le eventuali altre condizioni imposte dal maestro, come l'attitudine a guidare gli altri - che l'adepto può a sua volta iniziare a insegnare ad altri alunni la via dello zen e dichiararsi rōshi e successore del suo maestro nel dharma (hassu). Non bisogna però credere che ottenere l'inka-shōmei significhi la fine della  formazione  per l'adepto. Più il maestro di zen approfondisce la sua esperienza, più si accorge che si tratta di un processo senza fine. Esso continuerà per altre innumerevoli vite successive. Così lo zen insegna che un buddha, anche dopo aver conseguito l'illuminazione perfetta, non cessa mai di approfondire la propria conoscenza. Accordando  l'inka,  il maestro attesta che il suo alunno ha raggiunto un grado di illuminazione tale da essere ormai capace di volare con le proprie ali. La tradizione zen si augura tuttavia che egli si sforzi comunque di incitare l'alunno a superarlo. Se l'alunno rimane uguale al maestro, si corre il rischio che il dharma di quest'ultimo decada con il passare delle generazioni e che i successori dei suoi successori diventino dei "miserabili riflessi di miserabili riflessi".

Inkin giapp.
Piccola campana con il manico di legno e il battente metallico che si appoggia su un cuscinetto. L'inkin a volte è utilizzato nei monasteri zen per segnare l'inizio o la fine dei periodi di zazen o per introdurre le recitazioni.

 

Jakumetsu giapp.
Letter. "quiete, stato di estinzione". Pronuncia giapponese dei due caratteri che in cinese servono a rendere il termine sanscrito "nirvāṇa". Jakumetsu corrisponde a uno stato di pace totale, al di là delle nozioni di nascita e di morte, di divenire e di scomparsa, di spazio e di tempo, che supera le regole dell'interdipendenza dei fenomeni dell'universo. È lo stato di coscienza in cui si trova chi ha conseguito un risveglio   perfetto,


cioè un buddha (vedi Illuminazione). Questo stato sfugge a ogni definizione - anche se qui proviamo a darne una -, perché non può essere pensato (fukashigi) né espresso in parole (fukasetsu). Ogni tentativo di spiegazione si scontra con l'impossibilità logica di delimitare (latino definire) l'"illimitato". Le sole definizioni possibili sono articolate in negativo, indicando che jakumetsu non è né questo né quello (sanscr. neti, neti) o anche che è "oltre" tutte le categorie del pensiero e della comprensione. Nella dottrina più elevata del buddhismo, sviluppata in modo particolare dallo zen, jakumetsu, o nirvāṇa, è identico a saṃsāra. L'"illimitato", l'"incondizionato", l'"assenza di qualità" sono identici al limitato (l'universo delle forme), al condizionato (ciò che è soggetto alla legge di causalità), cioè al karman e alle qualità che caratterizzano il mondo fenomenico. Se già il nirvāṇa sfugge all'intelletto, a maggior ragione l'unità del nirvāṇa e del saṃsāra risulterà inconcepibile, poiché non può essere percepita se non nell'illuminazione. La realizzazione dell'illuminazione perfetta da parte di un buddha significa vivere in uno stato di pace perfetta (jakumetsu, nirvāṇa), pur restando  dentro  al mondo dei fenomeni (saṃsāra); il nirvāṇa non  si  realizza necessariamente dopo la morte, in un "aldilà" diverso dall'universo di "quaggiù".

Jari giapp.
Vedi Ajari.

Jiangxi Daoyi
(wg. Chiang-hsi Tao-i) Vedi Mazi Daoyi.

Jianxing
(wg. Chien-hsing) Vedi Kenshō.

Jianyuan Zhongxing
(wg. Chien-yüan Chung-hsing; giapp. Zengen Chūkō) (ca. IX sec.) Maestro di chan, discepolo e successore nel dharma (hassu) di Daowu Yuanzhi (giapp. Dōgo Enchi). Il suo nome è menzionato nel 55° esempio del Biyanlu. Jianyuan è considerato il successore del maestro Daowu anche se, secondo il 55° esempio del Biyanlu,  ha  raggiunto l'illuminazione soltanto dopo la morte di Daowu, sotto la guida del maestro Shishuang Qingzhu (giapp. Sekisō Keisho).

Jihatsu giapp.
(o hatsu, hachi) Scodella di legno utilizzata dai monaci buddhisti per mangiare o per mendicare cibo (vedi Ōryōki).

Jikijitsu giapp.
Nella scuola Rinzai il termine designa il decano dei monaci incaricato di sorvegliare lo zendō. Vedi anche Godō.


Jikishi-Ninshin giapp.
Letter. "mirare direttamente allo spirito dell'uomo (shin, vedi Kokoro)". Espressione che indica il modo caratteristico dello zen di esporre il dharma del Buddha, senza ricorrere al pensiero concettuale né ad azioni basate su una visione duale del mondo. Vedi Fukasetsu.

Jikishi-tanden giapp.
Letter. "trasmissione univoca e diretta". Sinonimo di ishin-denshin, trasmissione del dharma del Buddha da spirito a spirito (kokoro), fondamento stesso della tradizione zen.

Jingde chuandenglu
(wg. Ching-te ch'uan-teng-lu; giapp. Keitoku  Dentō-roku) Letter. "annali della trasmissione della luce della lampada redatti nell'era Ching-te". Una delle più antiche opere arrivate fino a noi nella storia della letteratura chan, dovuta al lavoro di compilazione del  monaco cinese Daoxuan (giapp. Dōgen) nell'anno 1004. È composta da brevi biografie e da innumerevoli aneddoti sulla vita dei primi maestri fino a Fayan Wenyi (giapp. Hōgen Bun'eki), fondatore della scuola Hōgen. L'opera è in tre volumi, nei quali sono riportati gli atti e le parole di oltre 600 maestri e informazioni sulla biografia di alcune migliaia; costituisce una delle fonti principali del chan. Numerosi kōan che si ritrovano nella letteratura posteriore furono trascritti per la prima volta in questa raccolta.

Jingqing Daofu
(wg. Ching-ch'ing Tao-fu; giapp. Kyōsei [Kyōshō] Dōfu) (863/868-937) Maestro di chan, discepolo e successore nel dharma (hassu) di Xuefeng Yicun (giapp. Seppō Gison). Jingqing ebbe cinque successori nel dharma. Il suo nome viene citato negli esempi 16°, 23° e 46° del  Biyanlu.

Jinniu
(wg. Chin-niu; giapp. Kingyū) (ca. VIII-IX sec.) Maestro di chan, discepolo e successore nel dharma (hassu) di Mazi Daoyi (giapp. Baso Dōitsu). Il suo nome viene citato nel 74° esempio del  Biyanlu.

Jiri giapp.
Letter. "fenomeno [e] principio". Il relativo e l'assoluto, il mondo fenomenico e la vera realtà, la molteplicità e la non differenziazione.

Jiriki giapp.
Letter. "forza personale". Espressione che designa gli sforzi compiuti personalmente (zazen) per giungere all'illuminazione. Jiriki è in genere contrapposto a tariki, la "forza altrui". Gli adepti di alcune scuole buddhiste credono che la fede nel buddha Amitābha e l'invocazione del


nome di questi bastino ad assicurare la rinascita del fedele nel suo paradiso (vedi Terra pura) e dunque la salvezza (Amidismo). Un atteggiamento del genere, ponendo al primo posto il potere salvifico di un buddha, farebbe affidamento sull'idea di tariki. Altre correnti del buddhismo, come lo zen, credono nella possibilità di realizzare l'illuminazione e di ottenere la liberazione grazie ai propri sforzi,  cioè con una costante pratica meditativa (zazen). È ciò che si chiama jiriki. A un livello di comprensione più profondo, lo zen sottolinea comunque comunque che le cose e gli esseri sono tutti dotati fin dall'origine della medesima natura di buddha (busshō). Da questo punto di vista, l'opposizione tra jiriki e tariki diventa del tutto artificiale e si riduce a una differenza di prospettiva nella pratica religiosa. Lo sforzo personale del fedele (jiriki) non è altro che la manifestazione della "forza altrui" in sé.

Jishō giapp.
Letter. "essenza del sé". Sinonimo di vera natura o natura di buddha (busshō). Si tratta della natura immanente a ogni esistenza che non può essere percepita se non con la contemplazione dell'essenza del sé (kenshō, vedi anche Shō).

Jishō-shōjō-shin giapp.
Letter. "il puro (chiaro) spirito (shin, vedi Kokoro) dell'essenza del sé (jishō)". Espressione che designa la perfezione originale, la natura di buddha (busshō) immanente in tutte le cose e in tutti gli esseri, che non ha bisogno di "essere ottenuta". È una perfezione sempre presente, una realtà che la coscienza ordinaria (bonpu-no-jōshiki), in preda all'accecamento, non percepisce più.

Jiufeng Daoqian
(wg. Chiu-feng Tao-ch'ien; giapp. Kyūhō Dō-ken) Maestro di chan. Vedi Heshan Wuyin.

Jizō (1) giapp.
Vedi Kṣitigarbha.

Jizō (2)
Nome giapponese di Dizang. Vedi Luohan Guichen.

Jōbutsu giapp.
Letter. "diventare buddha". Espressione zen che indica la realizzazione da parte di un adepto della sua natura di buddha (busshō). Secondo la concezione zen, un uomo non può "diventare" buddha poiché lo è da sempre, dato che la sua vera natura è identica alla natura di buddha. L'individuo prigioniero della coscienza ordinaria (bonpu-no-jōshiki) ignora ciò e quindi ha l'impressione di "diventare" buddha, di accedere


alla buddhità, la prima volta che prende coscienza della sua natura profonda. Il termine jōdō è sinonimo di jōbutsu.

Jōdō (1) giapp.
Letter. "realizzazione della via". Sinonimo di jōbutsu.

Jōdō (2) giapp.
Letter. "salire nella sala [di zen]". Cerimonia che accompagna  l'entrata di un rōshi nello zendō, per tenere un teishō.

Jō jōza
Vedi Ding Shangzuo.

Jōkin
Vedi Keizan Jōkin.

Jōriki giapp.
Letter. "potere psichico". Forza o potere particolare, risultato della concentrazione mentale insegnata con lo zazen. Jōriki  procura soprattutto una costante presenza di spirito e la capacità di rispondere sempre in modo adeguato alle circostanze, anche a quelle impreviste o difficili. Secondo le parole di un maestro zen contemporaneo, Hakuun Ryōko Yasutani, jōriki è qualcosa di «più della capacità di concentrarsi nel senso comune del termine. È un potere dinamico che, una volta attivato, rende capaci, nelle situazioni più impreviste, di agire prontamente e in modo del tutto adatto alle circostanze senza bisogno di indugiare per raccogliere la mente. L'individuo che ha sviluppato il jōriki non è più schiavo delle passioni né si trova più alla mercé dell'ambiente. Sempre nel pieno dominio di sé e delle circostanze della vita, egli è capace di muoversi con perfetta libertà ed equanimità [...]. E benché sia vero che dal jōriki derivano molti poteri straordinari, tuttavia non possiamo con quest'unico mezzo recidere le radici della visione illusoria del mondo» (Philip Kapleau, I  tre  pilastri  dello  zen:  insegnamento, pratica e illuminazione, Roma, Astrolabio Ubaldini, 1981, pp. 61-2). Di fronte all'attrattiva che esercitano su molte persone il jōriki e i suoi "poteri magici" (siddhi), il grande maestro cinese Shitou Xiqian (giapp. Sekitō Kisen) ricorda: «È la realizzazione della natura di buddha che la nostra scuola mette al primo posto, e non i semplici esercizi di meditazione né i poteri che risultano dalla concentrazione».

Jōshin giapp.
Da (sadameru): "determinare, stabilire, decidere", shin: vedi Kokoro. Lo "spirito raccolto", stato in cui lo spirito perfettamente concentrato è assorbito nella contemplazione di una cosa e diventa tutt'uno con essa. Tale raccoglimento non è una semplice concentrazione che consista nel canalizzare tutta la propria energia psichica da un "qui" (il soggetto) a un


"altrove" (l'oggetto), atteggiamento duale che si traduce di solito in uno sforzo di tensione "attiva"; il raccoglimento del jōshin si caratterizza piuttosto per uno stato di ricettività fondamentalmente "passiva", anche se lo spirito resta lucido. La capacità di raccoglimento mentale è una delle condizioni essenziali per la pratica dello zazen.

 

Mazi Daoyi
(wg. Ma-tzu Tao-i; anche Jiangxi Daoyi, wg. Chiang-hsi Tao-i; giapp. Baso Dōitsu) (709-788) Uno dei più importanti maestri cinesi di chan, discepolo e unico successore nel dharma (hassu) di Nanyue Huairang (giapp. Nangaku Ejō). Fu il maestro, tra gli altri, di Baizhang Huaihai (giapp. Huakujō Ekai), Nanquan Puyuan (giapp. Nansen Fugan) e Damei Fachang (giapp. Daibai Hōjō), per citare solo i nomi più noti. Più di ogni altro maestro di chan da Huineng in poi, Mazi contribuì alla costruzione di un chan tipicamente cinese. Egli usava metodi di insegnamento quali il grido improvviso (xin. he!, giapp. katsu!), i gesti muti accompagnati dallo hossu o i colpi di bastone (shippei, kyōsaku). Buttava a terra i discepoli, torceva loro il naso, li tempestava di domande brutali o di risposte paradossali per farli uscire dalla "coscienza ordinaria" (bonpu-no- jōshiki), per liberarli da tutte le vie prefabbricate del pensiero  razionale e per permettere loro di provare l'esperienza dell'illuminazione grazie allo shock prodotto dal crollo brutale del modo ordinario di pensare e sentire. L'efficacia dei suoi metodi di insegnamento è attestata dal fatto che ebbe 139 successori nel dharma. Mazi è menzionato nel 30° e nel 33° esempio del Wumenguan, così come nel 3°, 53° e 73° esempio del Biyanlu. Pare che anche il suo aspetto fisico fosse impressionante. Si diceva che avesse lo sguardo di una tigre e la maniera di camminare di un bufalo. Poteva coprire il naso con la lingua e aveva sulla pianta dei piedi alcuni disegni a forma di ruota. Mazi era stato sottoposto durante la gioventù a una disciplina severa sotto la direzione di un "nipote" nel dharma del quinto patriarca (Hongren). Dopo la morte del maestro, si stabilì in un eremo sul monte Heng, dove restò seduto giorno e notte in zazen. Fu là che avvenne il celebre incontro con il futuro  maestro Nanyue (vedi Nanyue Huairang). Il 53° esempio del Biyanlu riporta un dialogo che ebbe luogo con Baizhang Huaihai, il successore di Mazi che ebbe un'enorme importanza per l'evoluzione futura del chan. Il kōan è tipico del metodo di insegnamento di Mazi: «Mentre il grande maestro Mazi stava passeggiando con Baizhang, i due  videro  passare in volo delle anatre selvagge. Il grande maestro disse: "Che cosa sono?". Baizhang disse: "Anatre selvagge". Il grande maestro disse: "Dove vanno?". Baizhang rispose: "Sono partite". A quelle parole, il grande maestro pizzicò con forza la punta del naso di Baizhang. Baizhang urlò di dolore. Il grande maestro disse: "Perché non sono partite?"». Il kōan non lo indica, ma noi sappiamo grazie al Jingde chuandenglu che, udendo le ultime parole, Baizhang conseguì l'illuminazione. Jingde chuandenglu ci dà   anche   un   esempio   di   collaborazione   tra   Mazi   e   il   celebre


contemporaneo  Shitou  (vedi  Shitou  Xiqian)  per  formare  monaci chan.
«Deng Yinfeng si congedò dal maestro [Mazi]. Il maestro gli chiese dove andava; Deng Yinfeng lo informò che andava da Shitou. "Shitou [letter. "roccia"] è un insolente", disse Mazi. "Ho con me un'asta di cui posso servirmi in ogni momento", rispose Deng Yinfeng. Quando giunse a destinazione, fece una volta il giro della dimora di Shitou,  agitò  il bastone e chiese: "Che cos'è?". Shitou esclamò: "Santo cielo! Santo cielo!". Deng Yinfeng non disse niente, ritornò da Mazi e gli raccontò l'accaduto. Mazi gli consigliò di tornare da Shitou e gli  chiese  di annusare e di fischiare due volte se Shitou ricominciava a dire: "Santo cielo!". Deng Yinfeng tornò quindi da Shitou. Ripetè gli stessi gesti di prima e chiese di nuovo: "Che cos'è?". In quel momento, Shitou fiutò e fischiò a due riprese. Deng Yinfeng se ne andò ancora una volta senza dire una parola. Fece a Mazi il resoconto dell'avventura. Mazi gli rispose che lo aveva avvertito che Shitou era un insolente».
Mazi è l'autore di molte famose massime, in particolare delle due risposte che fece alla domanda: «Che cos'è il Buddha?» (vedi Mondō). Ci sono noti anche gli hossen che ebbe con il laico Pang Yun e di cui si trova il racconto nel Pangjushi yulu. Le parole e gli insegnamenti di Mazi sono conservati nel Jiangxi Daoyi-chanshi yulu (Chiang-hsi Tao-i- chan-shih yü-lu, "Raccolta di parole del maestro di chan Daoyi del Jiangxi").

Meditazione
Concetto generico che indica l'esercizio che ha l'obiettivo di rendere la coscienza pronta a fare l'esperienza del "risveglio", della "liberazione". Non è fine a se stesso, ma nemmeno bisogna vedere in esso solo un mezzo per giungere allo scopo perché, come si sottolinea, "il cammino è lo scopo". Favorisce la concentrazione, rende lo spirito calmo e trasparente come un ruscello di cui si può percepire il fondo solo se la superficie è calma e l'acqua è limpida. L'esercizio assiduo della meditazione conduce a uno stato di coscienza non duale: ogni discriminazione tra soggetto e oggetto sparisce; le convizioni, come il tempo e lo spazio, sono trascese nell'esperienza di un "qui e ora eterno" e il meditante percepisce l'identità di vita e morte, del fenomenico e dell'essenziale, del saṃsāra e nirvāṇa. L'integrazione di tale esperienza nella vita quotidiana corrisponde allo stato che  solitamente  viene definito "liberazione" o "perfetto risveglio".

Meishō Tokken
Vedi Mingzhao Dejian.

Menju-kuketsu giapp.
Approssimativamente "trasmissione segreta personale". Espressione utilizzata per indicare il modo di trasmissione del dharma del Buddha da spirito a spirito (ishin-denshin) tra un maestro di zen e un discepolo.


Menpeki giapp.
Letter. "rivolto al muro". Espressione zen che fa riferimento ai "menpeki-kunen", i nove anni di zazen di Bodhidharma, primo patriarca del chan, nel monastero di Shaolin. Menpeki è diventato in pratica sinonimo di zazen. Nella scuola Sōtō si usa praticare lo zazen "di  fronte al muro" o "rivolti al muro", mentre i monaci della scuola  Rinzai si siedono al centro dello zendō. Su numerose pitture chan che rappresentano Bodhidharma, si vede il patriarca seduto di fronte a una parete rocciosa. Il senso dell'espressione "menpeki" non si  riduce tuttavia all'evocazione delle condizioni esterne della pratica zazen. In un senso più generale il termine indica lo stato di coscienza del meditante. Quest'ultimo è senz'altro desideroso di progredire sulla via dello zen e di conoscere l'illuminazione, ma si trova ben presto privato di ogni supporto e di ogni sostegno, incapace perfino di rappresentarsi la via  o lo scopo che persegue, posto nell'impossibilità di fare un passo avanti, come qualcuno che si trovi di fronte a una spessa muraglia. La disperazione che ne risulta può in certi casi portare il meditante a "lasciarsi andare" ai pensieri, alle invidie,  a  rappresentazioni  o ambizioni. Con improvvisa intuizione, tuttavia, può abbattere il muro che gli sta di fronte, cioè prendere coscienza del fatto che esso non è mai esistito.

Mianbi cin.
(wg. mien-pi) Vedi Menpeki.

Mingzhao Dejian
(wg. Ming-chao Te-chien; giapp. Meishō [Myōshō] Tokken) (ca. X sec.) Maestro di chan, discepolo e successore nel dharma (hassu) del maestro Luohan Daoxian (giapp. Rakan Dōkan). Soprannominato "il drago a un occhio" (cin. Duyanlong, giapp. Dokugan ryū), Mingzhao è menzionato nel 48° esempio del Biyanlu. Il maestro insegnò per 40 anni sul monte Mingzhao, da cui prese il nome, e attirò a sé numerosi discepoli. Se ne ripetevano i discorsi in tutti gli ambienti chan dell'antica Cina. Avrebbe avuto cinque successori nel dharma.

Miroku
Vedi Maitreya.

Mishaka
(sanscr. Miśaka) Nome giapponese del sesto patriarca indiano del chan.

Moji-zen giapp.
Vedi Kattō.


Mokuan Shōtō
Vedi Mu'an Xingtao.

Moku-funi giapp.
Letter. "non dualità silente". Espressione zen che indica nel silenzio la miglior manifestazione dell'essenza non duale della realtà, la vera natura o la natura di buddha (busshō), inerente a tutti i fenomeni. L'espressione è tratta dal Vimalakīrtinirdeśasūtra in cui il bodhisattva Mañjuśrī fa l'elogio di un laico illuminato, chiamato Vimalakīrti, oggetto di una venerazione particolare nello zen per il silenzio con cui riusciva, meglio che con qualsiasi discorso, a esprimere l'essenza della non dualità. si parla anche del "silenzio tonante" di Vimalakīrti.

Mokugyō giapp.
(o gyōrin) Letter. "pesce di legno". Tamburo di legno, intagliato  in origine a forma di pesce. Oggi è fabbricato di solito in forma rotonda. Lo si utilizza colpendolo con una bacchetta avvolta in uno straccio  durante la recitazione dei sūtra nei monasteri buddhisti. Nel buddhismo, i pesci, che non dormono mai, simboleggiano la disponibilità continua e il risveglio dello spirito, indispensabili sulla via della buddhità.

Mokushō-zen giapp.
(cin. mozhao chan) Letter. "zen dell'illuminazione  silenziosa". Espressione forgiata all'epoca del maestro di chan Hongzhi Zhengjue (giapp. Wanshi Shōgaku) per differenziare il metodo di meditazione preferito dalla scuola Sōtō da quello dello  "zen  della contemplazione della parola" (kanna-zen), caratteristico della scuola Rinzai nello stesso periodo. Il mokushō-zen insiste sull'importanza della pratica dello zazen senza l'aiuto di supporti esteriori quali il kōan, cioè su una forma di esercizio che il grande maestro giapponese Dōgen Zenji chiamerà più tardi shikantaza. Come si assimilò il kanna-zen alla pratica della scuola Rinzai, così si ridusse spesso la pratica della scuola Sōtō al mokushō- zen, nonostante anche nella tradizione Sōtō non si disdegnasse di ricorrere al kōan e la pratica della scuola Rinzai comprendesse alcuni elementi comuni con la scuola Sōtō.

Mondō giapp.
(cin. wenda) Letter. "domanda [e] risposta". Dialogo zen tra più  maestri o tra un maestro e i discepoli. Uno dei due pone una domanda relativa al buddhismo e a un problema esistenziale che lo turba profondamente. Evitando ogni teoria o ragionamento logico, l'altro risponde in modo da provocare nell'interlocutore una reazione che proviene dalle profondità del suo spirito-cuore (kokoro, hossen). Numerosi mondō furono ripresi poi nei kōan. Ecco alcuni esempi di mondō famosi: «Un monaco chiese al maestro Dongshan: "Che cos'è il Buddha?". Dongshan rispose:  "Tre libbre di canapa [giapp. masagin]"», «Damai chiese un giorno a Mazi:


"Che cos'è il Buddha?". Mazi rispose: "La coscienza è il Buddha"», «Un monaco chiese un giorno a Mazi: "Che cos'è il Buddha?". Mazi rispose: "Né coscienza né Buddha"», «Un monaco chiese a Zhaozhou: "Qual è il senso della venuta da occidente del patriarca? [giapp. seirai-no-i]". Zhaozhou rispose: "La quercia, là nel piccolo giardino"».

Monji-hōshi giapp.
Letter. "maestro del dharma [addetto] alle scritture". Espressione zen che indica un maestro che si attiene alla lettera della dottrina enunciata nelle scritture, senza comprenderne né applicarne il senso profondo.

Monju
Vedi Mañjuśrī.

Monna giapp.
Letter. "parola-domanda". Domanda posta da un discepolo di zen al maestro durante un mondō.

Mosshōryō giapp.
Letter. "l'assurdo, l'inesprimibile". Espressione zen che indica la vera realtà. Vedi Fukashigi e Fukasetsu.

Mosshōseki giapp.
Letter. "non lasciare tracce [dietro sé]". Simile all'uccello che non lascia tracce nel cielo e al pesce che non ne lascia nell'acqua, così, secondo lo zen, deve vivere chi ha realizzato l'illuminazione. La sua esistenza deve essere del tutto naturale, priva della minima traccia di coscienza della propria illuminazione. È ciò che si chiama il "secondo stato  di semplicità"; il primo sarebbe quello del neonato, che dura purtroppo solo poco tempo. Il secondo stato di semplicità è in effetti solo una riscoperta di quello originario, che esisteva molto prima della  condizione  di neonato. Per accedere allo stato di mosshōseki è necessario realizzare l'illuminazione profonda. Chi lascia intravedere tracce della propria illuminazione, chi "puzza di illuminazione", come si dice nello zen, non ha ancora integrato a sufficienza la lezione dell'illuminazione nella vita quotidiana. Vedi Goseki.

Mozhao chan cin.
(wg. mo-chao ch'an) Vedi Mokushō-zen.

Mu giapp.
(cin. wu) Particella privativa, letter. "niente, non, nulla, in-, non è, non ha, niente di". Wato del celebre kōan del "cane di Zhaozhou", spesso chiamato il "kōan mu". Esso (1° esempio del Wumenguan) riferisce: «Un monaco chiese a Zhaozhou: "Anche un cane ha la natura di Buddha?". Zhaozhou  ripose:  "No"  [cin.  wu;  giapp.  mu]».  Il  compito   dell'allievo


consiste nel comprendere in maniera diretta, senza intervento dell'intelletto, il senso profondo di questo kōan praticando lo zazen a partire da "mu". Il kōan si presta alla perfezione a fungere da Hosshin kōan (vedi Kōan) ed è spesso il primo che un maestro di zen dà all'allievo. Una volta che questi ne é venuto a capo, si dice che egli conosce "il mondo di 'mu'". È importante, durante tutta la formazione zen, scoprire e manifestare livelli di esperienza sempre più profondi.

Mu'an Xingtao
(wg. Mu-an Hsing-t'ao; giapp. Mokuan Shōtō) (1611-1684) Maestro di chan della scuola Huangbo (Ōbaku) in Cina, successore nel dharma (hassu) di Yinyuan Longqi (giapp. Ingen Ryūki), che accompagnò in Giappone nel 1655.  È in Giappone che Yinyuan  fondò la scuola  Ōbaku; ne mise Mu'an a capo come secondo patriarca nel 1664. Questi fondò il monastero Zuishō-ji, non lontano da Edo (l'attuale Tōkyō), nel 1671. Primo abate dello Zuishō-ji, Mu'an diede un contributo notevole all'espansione della scuola Ōbaku.

Mudrā sanscr.
Letter. "sigillo, segno". Vedi Dhyānimudrā.

Mugaku Sogen
Vedi Wuxue Zuyuan.

Mu-ichimotsu giapp.
Letter. "non una cosa". Espressione che risale  a  Huineng, sesto patriarca del chan in Cina. Indica che nessun fenomeno riposa su una sostanza immutabile. Le cose sono mere manifestazioni del vuoto (giapp. ;  sanscr. śūnyatā).

 

Wumenguan
(wg. Wu-men-kuan; giapp. Mumonkan) Letter.  "La  barriera senza porta". Una delle due principali raccolte di kōan della letteratura chan e zen; l'altra è il Biyanlu. Il Wumenguan fu compilato dal maestro Wumen Huikai (giapp. Mumon Ekai). È composto da 48 kōan scelti da  Wumen, che aggiunse a ognuno una breve spiegazione sul suo significato profondo e un elogio (ju). Il testo fu pubblicato nel 1229. Nel 1254 il Wumenguan fu introdotto in Giappone dal maestro giapponese Kakushin, discepolo e successore nel dharma (hassu) di Wumen. Shun'o Reizan, successore di Kakushin quattro generazioni dopo, pubblicò nel 1405, nel monastero di Kōon-ji, l'edizione giapponese tutt'ora in  uso.  Il Wumenguan comincia con il celebre "kōan mu" (Vedi Mu) che permise al maestro Wumen di raggiungere l'illuminazione profonda.  Esso  è utilizzato soprattutto come hosshin-kōan, cioè per aiutare il meditante   a


fare una prima esperienza di illuminazione (kenshō, satori) ed è proposto ancora oggi come esercizio iniziale. A causa della sua reputazione di "raccolta per principianti" e di una qualità letteraria più modesta, il Wumenguan è spesso considerato meno profondo del Biyanlu. In questo modo, però, non si considera il fatto che un kōan come "mu" può essere continuamente ripreso a livelli di illuminazione sempre  più  profondi, e che nel Wumenguan si trovano kōan (soprattutto il 38°) appartenenti alla categoria dei nantō-kōan, i più difficili da risolvere. I kōan sono l'espressione dell'esperienza dei maestri  dell'antichità,  un'esperienza che non è concepibile né comprensibile per via razionale  (fukasetsu). Essi si basano sul paradosso, cioè su quanto si trova al di là (greco: para) del pensiero (greco: dokein) o "al di là del concepibile". Per tale ragione sono tra i testi più difficili da tradurre di tutta la letteratura mondiale. Se non si è passati attraverso  un'esperienza  approfondita dello en è difficile trovare una traduzione adeguata, soprattutto se si vuole utilizzare i kōan nell'ambito di un programma di formazione spirituale. Il lettore di testi zen che si scoraggia perché i kōan gli risultano sconcertanti non deve mai dimenticare che quei testi sono per definizione incomprensibili, inaccessibili all'intelletto. Il loro scopo è proprio quello di incitare il meditante a trascendere i limiti della logica speculativa razionale. Le "soluzioni" apparentemente evidenti sono false dal punto di vista dello zen, se sono state trovate attraverso il ragionamento e la deduzione; un autentico maestro zen non fa nessuna fatica a trovare li errori. I testi del Wumenguan sono aiuti alla disciplina spirituale e sarebbe sbagliato classificarli esclusivamente nel reparto delle "belle lettere" o nella documentazione storica. Il meditante che pratica lo zazen a partire da un kōan non cerca affatto di sapere come abbia vissuto molti secoli prima questo o quel maestro di chan, né quali parole abbia pronunciato: gli interessa invece realizzare qui e ora la verità vivente contenuta nel kōan. Molti kōan del Wumenguan o di altre raccolte possono essere percepiti come aneddoti  superficiali  e divertenti - ai maestri di chan non mancava un acuto  senso dell'umorismo - perché la loro forza d'illuminazione - la sola a contare per lo zen - si manifesta soltanto nell'ambito della formazione sotto la guida di un rōshi.

Wumen Huikai
(wg. Wu-men Hui-k'ai; giapp. Mumon Ekai) (1183-1260)  Maestro di chan del ramo Yangqi della scuola Linji (Rinzai, vedi Yōgi, scuola), discepolo e successore nel dharma (hassu) di Yuelin Shiguan (giapp. Gatsurin Shikan) e maestro di Shinchi Kakushin, che introdusse in Giappone il chan della Yangqi e il Wumenguan, redatto dal suo maestro. Considerato all'epoca il più eminente maestro Linji del tempo, Wumen oggi è conosciuto soprattutto per la compilazione del Wumenguan, cioè per aver raccolto e pubblicato i 48 kōan che compongono l'opera, corredandoli ogni  volta di un commento esplicativo  e di un  elogio   (ju).


Egli nacque a Huangzhou, grande centro del chan dell'epoca Song. Si crede, perciò, che fin dalla più giovane età abbia avuto modo di confrontarsi con gli insegnamenti di questa tradizione. Il suo primo maestro fu Gong Heshang (Kung Ho-shang). In  seguito  approfondì le sue conoscenze con Yuelin (Yüeh-lin), che lo sottopose a una disciplina molto rigorosa e gli assegnò come esercizio ill "kōan mu" (vedi Mu). Per sei anni Wumen fu alle prese con il testo senza mai giungere all'illuminazione. Colto dalla più profonda disperazione, arrivò a giurare di non dormire più finché non avesse risolto il kōan. Vi meditò senza interruzione e quando sentiva che stava per vincerlo  il  sonno, percorreva il corridoio della sala di meditazione del monastero  e sbatteva la testo contro un pilastro di legno per tenersi sveglio. Un giorno, infine, ebbe un'improvvisa illuminazione udendo il suono del grande tamburo che annunciava l'ora di pranzo. Scrisse  subito  una poesia che cominciava con le parole: «In un cielo sereno, con un sole splendente, tutto d'un tratto il fragore del tuono [...]». Dopo che il maestro Yuelin ebbe controllato e poi confermato l'autenticità della sua esperienza, Wumen redasse un'altra breve poesia in versi di cinque sillabe, che si presenta così: «Mu Mu Mu Mu Mu / Mu Mu Mu Mu Mu / Mu Mu Mu Mu Mu / Mu Mu Mu Mu Mu». In seguito egli diventò un maestro di chan venerato in tutto il paese. Nel 1228 Wumen finì la redazione del Wumenguan, che, insieme al Biyanlu, è una delle  più celebri raccolte di kōan. L'opera fu stampata a partire  dall'anno seguente. Nel 1246 l'imperatore Lizong (Li-tsung) nominò Wumen abate di un grande monastero chan situato non lontano dalla capitale e gli attribuì il titolo onorifico di "occhio di buddha".
Alla fine della sua vita Wumen si ritirò in un piccolo convento di montagna. Nonostante la venerazione che gli veniva riservata ovunque, restò fino alla morte una persona estremamente modesta, che vestiva sempre con un semplice abito di stoffa grossolana e, nello spirito di Baizhang Huaihai (giapp. Hyakujō Ekai), prestò sempre il suo aiuto per i lavori manuali del monastero. La sua elegia funebre dice: «Il vuoto è non nato, / Il vuoto non passa mai, / Quando conosci il vuoto, / tu sei simile a lui».

Wuwei (1) cin.
(wg. wu-wei) Letter. "assenza di azione". Assenza di intenzione nell'azione; denota l'atteggiamento di non intervento nel corso naturale delle cose, aspetto centrale nel taoismo, soprattutto nel Daodejing e che gioca un ruolo essenziale anche nel buddhismo chan e nello zen. È la totale spontaneità che si adatta a ogni nuova situazione senza il minimo preconcetto né la minima intenzione. Wuwei non indica un ideale di non azione assoluta, ma un'attività priva di qualsiasi desiderio e direzione.

Wuwei (2) cin.
(wg. wu-wei) Vedi Cinque gradi dell’illuminazione.


Wuxue Zuyuan
(wg. Wu-hsüeh Tsu-yüan; giapp. Mugaku Sogen) (1226-1286) Maestro di chan della scuola Linji (Rinzai). Seguì gli insegnamenti di Wuzhun Shifan (giapp. Bushun [Mujun] Shiban) e diventò abate del monastero Zhenru a Taizhou. Nel 1279 lo shōgun Hōjō Tokimune lo invitò in Giappone, a Kamakura. Succedette a Lanqi Daolong (giapp.  Rankei Dōryū) alla testa del Kenchō-ji e fondò in seguito il monastero Engaku- ji, dove esercitò di nuovo le funzioni di superiore. Kenchō-ji ed Engaku- ji facevano parte dei gozan di Kamakura, cioè dei principali monasteri della città. Wuxue ricevette i titoli onorifici postumi di Bukkō Kokushi (o Bukkō Zenji) e di Emman Jōshō Kokushi.

Wuzhun Shifan
(wg. Wu-chun Shih-fan; giapp. Bushun [Mujun] Shiban) (1177-1249) Maestro di chan della scuola Linji (Rinzai) in Cina. Istruì Ben’en, che diede un importante contributo alla diffusione dello zen in Giappone. Wuzhun fu uno dei più eminenti maestri di chan del suo tempo. Fu abate di molti monasteri, tra cui il Wanshou sul monte Jing nella provincia del Zhejiang, che fu il primo delle “cinque montagne” (cin. wushan, giapp. gozan)  della Cina.

Wuzhuo
(wg. Wu-cho; giapp. Mujaku) (821-900) Maestro di chan della scuola Guiyang (Igyō), discepolo e successore nel dharma (hassu) di Yangshan Huiji (giapp. Kyōzan Ejaku). Durante la sua giovinezza percorse il paese per incontrare diversi maestri e nel corso di queste peregrinazioni si sarebbero verificati gli avvenimenti riportati nel 35°  esempio  del Biyanlu. Il nome di Wuzhuo ("assenza di  concatenazione")  gli  fu attribuito dall'imperatore della Cina, che sarebbe diventato lui stesso maestro di chan dopo l'illuminazione raggiunta sotto la guida  di Yangshan.

Wuzu Fayan
(wg. Wu-tsu Fa-yen; giapp. Goso Hōen) (ca. 1024-1104) Maestro del ramo Yangqi del chan Linji (Rinzai, vedi Yōgi, scuola), discepolo e successore nel dharma (hassu) di Baiyun Shouduan (giapp. Hakuun Shutan, maestro di Kaifu Daoning (giapp. Kaifuku Dōnei) e di Yuanwu Keqin (giapp. Engo Kokugon). Il nome di Wazu compare negli esempi 35°, 36°, 38° e 45° del Wumenguan. Il significato letterale del nome Wuzu è "quinto patriarca". Tuttavia egli non è il quinto patriarca del chan (vedi Hongren), ma un maestro posteriore che adottò il nome del monte Wuzu dove viveva. Wuzu diventò monaco all'età di 35 anni. Cominciò a studiare i sūtra e le scritture della scuola del buddhismo Yogācāra, ma, insoddisfatto degli studi filosofici, si indirizzò verso il chan e incontrò diversi  maestri  senza  che  nessuno  lo  soddisfacesse.  Rimase    infine


presso Baiyun, raggiungendo l'illuminazione il giorno in cui lo sentì spiegare il "kōan mu" (vedi Mu) a un altro discepolo. Nel 36° esempio del Wumenguan, Wuzu pone una domanda che la letteratura zen ama citare: «Wuzu disse: "Se incontri per strada qualcuno che ha realizzato la Via, non ti rivolgi a lui parlando o in silenzio. Allora, come ti rivolgi a lui?"».


Yamamoto Genpō
(1866-1961) Uno dei più eminenti maestri di zen dell'epoca moderna. Lo si soprannomina spesso "lo Hakuin del XX secolo". All'inizio degli anni '20, quando rischiava la cecità completa, questo ex  trovatello lasciò tutto, moglie e beni, per partire in pellegrinaggio. Entrò quindi in un monastero zen. All'età di 49 anni ricevette la conferma (inka-shōmei) dal maestro Sōhan nel monastero Enpuku-ji. Poi restaurò il Ryūtaku-ji vicino a Mishima, nella provincia di Shizuoka. Restò per diversi anni il superiore di questo tempio, che in precedenza aveva  avuto  anche Hakuin Zenji per abate. A 82 anni accettò a  malincuore la nomina di abate del Myōshin-ji di Kyōto. Fino a età relativamente avanzata rimase semianalfabeta a causa delle difficili condizioni di vita e di una vista molto ridotta. Questa migliorò in parte durante il periodo della sua formazione spirituale e poté così divenire uno dei più celebri maestri della via della scrittura (shōdō) in epoca moderna. Si fece notare anche per il suo stile di vita eccentrico, la passione per la grappa di riso e per le donne. Fu uno dei primi maestri zen a viaggiare nel mondo intero, recandosi in India, in Africa, in Europa e negli Stati Uniti.


Yamaoka Tesshū
(1836-1888) Adepto laico (giapp. koji) dello zen, dalla profonda ispirazione spirituale. Fu certamente il più grande maestro giapponese della via della spada (kendō) di tutto il XIX secolo, un eccellente  pittore e maestro di scrittura. Diventò uno dei più importanti uomini di stato del tempo. Nel momento della restaurazione dell'autorità imperiale all'inizio dell'epoca Meiji, dopo un lungo periodo di dominio degli shōgun, egli contribuì in maniera considerevole a scongiurare uno scontro finale cruento tra le truppe imperiali, capeggiate da Saigō Takamori, e i sostenitori dello shōgun, evitando così al Giappone un bagno di sangue nella presa della città di Edo (l'attuale Tōkyō). Una sua biografia è stata scritta da John Stevens, Lo zen e la spada. La vita del maestro guerriero Tesshū,   Luni, 2001.

Yangqi Fanghui
(wg. Yang-ch’i Fang-hui; giapp. Yōgi Hōe) (992-1049) Maestro di chan della scuola Linji (Rinzai), discepolo e successore nel dharma (hassu) di Shishuang Chuyuan (giapp. Sekisō Soen) e maestro di Baiyun Shouduan (giapp. Hakuun Shutan). Yangqi fondò la scuola di chan Linji che prese il suo nome (vedi Yōgi, scuola), uno dei due rami in cui il chan Linji si divise dopo la morte del maestro Shishuang. Questo ramo del chan fu introdotto in Giappone da maestri sia cinesi che giapponesi ed  è praticato ancora oggi.

Yangqipai
(wg. Yang-ch’i-tsung) Vedi Yōgi, scuola.

Yangqizong
(wg. Yang-ch’i-tsung) Vedi Yōgi, scuola.

Yangshan Huiji
(wg. Yang-shan Hui-chi; giapp. Kyōzan Ejaku) (807-883 o 813/814- 890/891) Uno dei randi maestri di chan, discepolo e successore nel dharma (hassu) di Guishan Lingyu (giapp. Isan Reiyū) e maestro di Nanta Guangrun (giapp. Nantō Kōyū). Yangshan fu uno dei principali maestri di chan del suo tempo. Le sue capacità gli valsero il soprannome  di "piccolo Śākyamuni". Prima dei 20 anni aveva già  incontrato  molte grandi figure del chan, come Mazi Daoyi (giapp. Baso Dōitsu) e Baizhang Huaihai (giapp. Hyakujō Ekai), e tra di loro si era fatto la reputazione di alunno eccezionale. Raggiunse l'illuminazione profonda sotto la guida di Guishan. Insieme al suo maestro è considerato uno dei due fondatori della scuola Igyō, che derivò il suo nome dalle sillabe iniziali dei loro nomi. Il maestro Danyuan Yingzhen (giapp. Tanen Ōshin), sotto la cui guida ebbe la prima esperienza di illuminazione, lo iniziò all'uso del sistema dei 97 simboli iscritti in un cerchio, destinato ad avere un   ruolo


essenziale nella tradizione della scuola Igyō. I mondō e gli hossen in cui Yangshan e il suo maestro Guishan si confrontano sono considerati esempi eccezionali di realizzazione dello spirito del chan. Essi sono contenuti nel Yuanzhou Yangshan Huijichanshi yulu (Yüan-chou  Yang- shan Hui-chi-ch'an-shih yü-lu, "Raccolta dei detti del maestro di chan Yangshan Huiji di Yuanzhou"). Il nome di Yangshan compare nel 25° esempio del Wumenguan, così come nel 34° e 68° esempio del Biyanlu.Fin dall'età di 15 anni Yangshan desiderava diventare monaco, ma i suoi genitori si opponevano alla sua vocazione. A 17 anni si tagliò due dita e le presentò loro come prova della sua risoluzione. I genitori allora lo lasciarono partire. Dopo avere incontrato alcuni grandi maestri di chan e cominciato ad aprire il suo "occhio del dharma" sotto la loro guida, trovò in Guishan il maestro ideale. Questi seppe guidarlo all'illuminazione profonda. Tra Guishan e Yangshan regnava una tale armonia di carattere e di concezione della spiritualità che di loro si poteva ben dire: «Tale padre, tale figlio».

Yanguan Qi’an
(wg. Yen-kuan Ch’i-an; giapp. Enkan Seian o Saian) (ca. 750-842) Maestro di chan, discepolo e successore nel dharma (hassu) di Mazi Daoyi (giapp. Baso Dōitsu). Il suo nome compare nel 91° esempio del Biyanlu.

Yantou Quanhuo
(wg. Yen-t'ou Ch'üan-huo; giapp. Gantō Zenkatsu) (828-887) Maestro di chan, discepolo e successore nel dharma (hassu) di Deshan Xuanjian (giapp. Tokusan Senkan) e maestro di Ruiyan Shiyan (giapp. Zuigan Shigen). Il nome di Yantou compare nel 13° esempio del Wumenguan e nel 5° e 66° esempio del Biyanlu. Egli era noto per lo sguardo acuto e l'acume dello spirito. Quando Deshan morì aveva 35 anni. Trascorse un po' di tempo in solitudine, poi alcuni discepoli si riunirono intorno a lui e divenne abate di un grande monastero. Nel periodo di instabilità sociale conseguente al declino della dinastia Tang, bande di predoni attaccarono il monastero. Avvisati in tempo, i monaci si diedero alla fuga. Soltanto il maestro Yantou rimase lì. I predoni lo trovarono assorto in piena meditazione e, delusi per non avere trovato niente da portare via, lo uccisero. La leggenda racconta che, nel momento in cui venne assassinato, Yantou emise un grido così forte che lo si sentì nel raggio di dieci miglia cinesi (li). L'urlo rimase famoso nella tradizione chan  con il nome di "grido di Yantou" e costituì un enigma per molti adepti del chan, perché contrastava con l'immagine ideale della vita e della morte di un maestro. Fu così soprattutto per il grande Hakuin Zenji. Soltanto dopo avere sperimentato l'illuminazione profonda quest'ultimo comprese la portata di esso ed esclamò: «In verità, Gantō [Yanyou] visse in piena forza e in piena salute!».


Yaoshan Weiyan
(wg. Yao-shan Wei-yen) Vedi Yueshan Weiyan.

Yasutani Rōshi
Vedi Hakuun Ryōko Yasutani.

Yaza giapp.
Letter. ya = yoru: “notte”, za: “stare seduto”. Zazen praticato in un monastero zen dopo l’abituale ora del sonno.

Yikong
(wg. I-k’ung; giapp. Gikū) Maestro di chan della scuola Linji (Rinzai). A metà del IX secolo si recò in Giappone, su invito dell’imperatrice Tachibana Kachiko, per insegnare il chan a corte e nel monastero Danrin-ji, edificato per questo scopo a Kyōto. Non trovando alcun discepolo di suo gradimento, né a maggior  ragione  nessuno che ritenesse degno di succedergli nel dharma (vedi Hassu), Yikong tornò in Cina alcuni anni più tardi. Fino al XII-XIII secolo (vedi Eisai Zenji, vedi Dōgen Zenji, vedi Kakushin), non furono fatti altri tentativi di tramettere il chan in Giappone.

Yinyuan Longqi
(wg. Yin-yüan Lung-ch'i; giapp. Ingen Ryūki) (1592-1673) Maestro di chan della scuola Linji (Rinzai), abate del monastero Wanfu (giapp. Manpuku-ji) sul monte Huangbo (giapp. Ōbakusan) in Cina. Yinyuan si recò in Giappone nel 1654 fondandovi la scuola Ōbaku. La casa imperiale giapponese gli conferì il titolo postumo di Daikō Fushō Kokushi (vedi Kokushi). Le sue massime e suoi insegnamenti sono stati raccolti nelle tre opere intitolate Ōbaku-hōgo, Fushō-kokushi-kōroku e Ingen-hōgo.

Yishan Yining
(wg. I-shan I-ning; giapp. Issan Ichinei) (1247-1317) Maestro di chan della scuola Linji (Rinzai). Dopo la vittoria dei mongoli  sulla dinastia Song, Yishan fu inviato in Giappone dall'imperatore mongolo Chengzong per ristabilire le relazioni interrotte all'epoca dei precedenti tentativi di invasione mongola del Giappone.  Quando sbarcò sul suolo  giapponese nel 1299, Yishan fu fatto subito incarcerare con l'accusa di spionaggio dallo shōgun Hōjō Sadatoki. Riuscì tuttavia a  convincerlo  ben presto della purezza delle sue intenzioni e fu poi nominato decimo abate del monastero Kenchō-ji a Kamakura prima di diventare abate dello Engaku-ji nel 1302. Nel 1312 si recò a Kyōto su  richiesta dell'imperatore Go-Uda per diventare il terzo abate del Nanzen-ji. È conosciuto non solo come maestro zen, ma anche come pittore ed esperto  della  "via  della  scrittura"  (shōdō).  Yishan  è  considerato     il


cofondatore, assieme al suo discepolo Sesson Yūbai, della "letteratura delle cinque montagne" (gozan-bungaku). Un altro suo discepolo, Musō Soseki, diede un grande contributo a trasformare i monasteri di Kyōto in centro di arte e cultura dalla forte impronta cinese.

Yixuan
(wg. I-hsüan) Vedi Linji Yixuan.

Yōgi, Scuola
(cin. Yangqizong, wg. Yang-ch'i-tsung, o Yang-qipai, wg. Yang-ch'i- p'ai; giapp. Yōgi-shū o Yōgi-ha; dal cin. pai [giapp. ha]: "ramo") Scuola zen la cui origine risale al maestro di chan Yangqi Fanghui (giapp. Yōgi Hōe). Fa parte delle "sette famiglie" (vedi Goke-shichishū) del chan e costituisce il più importante dei due rami che si formarono a partire dal chan Linji (Rinzai) dopo la morte del maestro Shishuang Chuyuan (giapp. Sekisō Soen). Nella tradizione dello zen Rinzai viene chiamato ramo Rinzai Yōgi. A questa scuola appartengono importanti maestri, tra i quali anche Wumen Huikai (giapp. Mumon Ekai), compilatore del Wumenguan. Furono i discepoli e i discendenti di Wumen (soprattutto Kakushin) a introdurre in Giappone lo zen del ramo Rinzai Yōgi, che esiste ancora oggi. Quando, alla fine dell'epoca Song, in Cina iniziò il lento declino del chan, questa tradizione diventò il crogiolo in cui confluirono tutti gli altri rami del chan. Durante la dinastia dei Ming il chan si mischiò  al buddhismo della scuola della Terra pura perdendo la sua individualità peculiare e cessò di esistere come linea di trasmissione del dharma del Buddha da "spirito a spirito" (ishin-denshin).

Yōgi-Hōe
Vedi Yangqi Fanghui.

Yōka Genkaku
Vedi Yongjia Xuanjue.

Yōmyō Enju
Vedi Yongming Yenshou.

Yongjia Xuanjue
(wg. Yung-chia Hsüan-chüeh; giapp. Yōka Genkaku) (665-713) Antico maestro di chan. Si pensa che fosse un discepolo di Huineng. Da giovane lasciò la casa dei suoi genitori per diventare monaco buddhista e studiò tutti i testi importanti del buddhismo. Conosceva molto bene le idee della scuoola Tiantai (giapp. Tendai), di cui seguì l'insegnamento per quanto riguarda il raccoglimento interiore (zazen). In particolare, praticava alla perfezione l'esercizio che consiste nel camminare, restare in piedi, seduto, sdraiato (gyō-jū-za-ga). Appena sentì parlare di Huineng,  si recò  al  monastero Baolin di Caoqi per  incontrarlo.  Dopo  i


due hossen tra Huineng e Yongjia riportati nel Jingde chuandenglu - che ebbero luogo al loro primo incontro -, Huineng non poté far altro che confermare l'illuminazione profonda di quest'ultimo. Egli  chiese a Yongjia, che si stava preparando per ripartire subito, di passare almeno una notte nel suo monastero e ciò valse a Yongjia il soprannome di "maestro dell'illuminazione e della sosta di una notte". Nel suo modo di insegnare il dharma del Buddha Yongjia Xuanjue combinava la struttura teorica della scuola Tiantai e la pratica del chan, cui aggiungeva anche la dialettica Mādhyamaka. I suoi insegnamenti sono tramandati in una collezione dal titolo "Raccolta del maestro di chan Yongjia Xuanjue".

Yongming Yenshou
(wg. Yung-ming Yen-shou; giapp. Yōmyō Enju) (904-975) Maestro di chan, discepolo e successore nel dharma (hassu) di Tiantai Deshao (giapp. Tendai Tokushō). Yongming, che sopravvisse soltanto tre anni a Tiantai, fu uno degli ultimi grandi maestri della scuola Fayan (Hōgen) del chan.

Yōsai
Vedi Eisai Zenji.

Yuanjuejing
(wg. Yüan-chüeh-ching; giapp. Engaku-kyō) Letter. “sūtra dell’illuminazione perfetta”. Secondo la tradizione, sūtra tradotto  in cinese nel 693 dal monaco buddhista indiano Buddhatrāta. Dodici bodhisattva, tra cui Mañjuśrī (giapp. Monju) e Samantabhadra (giapp. Fugen), vi ricevono delle istruzioni relative al  contenuto dell’illuminazione perfetta. Questo sūtra esercitò un’influenza determinante sul chan e sullo zen.

Yuanwu Keqin
(wg. Yüan-wu  K'o-ch'in; giapp. Engo Kokugon) (1063-1135)  Maestro del ramo Yangqi del chan della tradizione Linji (vedi Yōgi,  scuola e Rinzai, scuola), discepolo e successore nel dharma (hassu) di Wuzu Fayan (giapp. Goso Hōen), maestro di Huguo Jingyuan (giapp. Gokoku Keigen), Huqin Shaolang (giapp. Kokyū Jōryū) e Dahui Zonggao (giapp. Daie Sōkō). Yuanwu fu una delle più eminenti figure nel chan del suo tempo. Grazie a lui e Wumen Huikai (giapp. Mumon Ekai), anche lui della scuola Yangqi e più giovane di vent'anni, il chan conobbe i suoi ultimi giorni gloriosi in Cina, prima che il dharma trasmesso dai patriarchi (soshigata) da "spirito a spirito" (ishin-denshin) venisse diffuso in Giappone dove continuò a prosperare. In Cina, invece, iniziò un lento declino. Dahui, uno dei grandi discepoli di Yuanwu, contribuì in maniera considerevole alla messa a punto della pratica del kōan. Anche Hakuin Zenji, il grande rinnovatore dello zen Rinzai in Giappone, appartiene alla stessa   linea   di   discendenza   che  risale   a  Yuanwu.  Quest'ultimo  è


conosciuto soprattutto per avere composto il Biyanlu, la più celebre raccolta di kōan insieme al Wumenguan. Le sue note, le sue osservazioni (jakugo) e le spiegazioni che riguardano il centinaio di kōan  della raccolta compilata in precedenza dal maestro Xuedou Chongxian - che aveva già accompagnato ogni testo con un elogio (ju) -,  fecero del Biyanlu una delle maggiori opere della letteratura chan e uno dei più efficaci strumenti di formazione. Figlio di una famiglia del Sichuan, i cui capi da diverse generazioni erano letterati confuciani, fin dall'infanzia imparò a memoria i classici di questa tradizione, ma fu attirato molto presto dal buddhismo ed entrò in un monastero per immergersi nello studio dei sūtra. Colpito da una grave malattia, rischiò la morte e si rese conto che la sola erudizione lilbresca non gli avrebbe permesso di scoprire la verità vivente del dharma del Buddha. Decise perciò  di partire alla ricerca di un maestro di chan illuminato. Viaggiò fino al sud della Cina, dove infine si stabilì presso il maestro Wuzu, passando numerosi anni al suo servizio. Anche dopo avere ottenuto l'illuminazione profonda e aver ricevuto il sigillo della  conferma  (inka-shōmei), continuò ad approfondire la sua formazione spirituale presso Wuzu. In seguito, dopo la morte del maestro, si trasferì nella parte settentrionale del paese. Qui alcuni alti funzionari e poi l'imperatore Huizong  in persona, lo nominarono abate di diversi grandi monasteri chan. La conquista del nord della Cina da parte dei Kitai lo costrinse a rimettersi in cammino verso sud. Tornò, allora, nella sua provincia natale dove continuò a esercitare la sua attività di maestro di chan fino alla morte.

Yuean Shanguo
(wg. Yüeh-an Shan-kuo; giapp. Gettan Zenka) (1079-1152) Maestro del ramo Yanqi della tradizione chan Linji (vedi Yōgi, scuola e  Rinzai, scuola), discepolo e successore nel dhamra (hassu) di Kaifu Daoning (giapp. Kaifuku Dōnei) e maestro di Laona Zideng (giapp. Rōnō Sotō). Il nome di Yuean compare nell'8° esempio del   Wumenguan.

Yuelin Shiguan
(wg. Yüeh-lin Shih-kuan; giapp. Gatsurin Shikan o Getsurin Shikan) (1143-1217) Maestro del ramo Yangqi (Yōgi) della tradizione del chan Linji (Rinzai), discepolo e successore nel dharma (hassu) di  Laona Zideng (giapp. Rōnō Sotō) e maestro di Wumen Huikai (giapp. Mumon Ekai).

Yueshan Weiyan
(wg. Yüeh-shan Wei-yen; anche Yaoshan Weiyan, wg. Yao-shan Wei- yen; giapp. Yaku-san Igen) (745-828 o 750-834) Maestro di chan, discepolo e successore nel dharma (hassu) di Shitou Xiqian  (giapp. Sekitō Kisen), maestro di Daowu Yuanzhi (giapp. Dōgo Enchi) e  di Yunyan Tansheng (giapp. Ungan Donjō). Il Jingde chuandenglu racconta che lasciò la casa dei genitori all'età di 17 anni. Nel 774 fu ordinato sul


monte Heng dal maestro del Vinaya Xicao (Hsi-ts'ao). fu  di  certo l'allievo più brillante che Shitou inviò a Mazi Daoyi (giapp. Baso  Dōitsu). Il Denkō-roku riporta le circostanze che segnarono la trasmissione del dharma da Shitou (Sekitō) a Yueshan: «Il patriarca, Kōdō Daishi [titolo onorifico di Yueshan], andò a trovare Sekitō e disse:  "Conosco  quasi tutti i dogmi dei tre veicoli e dei dodici rami della legge. Un giorno ho sentito dire che esisteva nel sud l'indicazione diretta dello spirito dell'uomo. Tale indicazione permette all'uomo di diventare un buddha  e di realizzare la sua vera natura. Questo non mi è chiaro. Mi prosterno dunque davanti a voi, maestro, e vi supplico di avere pietà di me e la bontà di istruirmi". Sekitō disse: "Quando dici: 'è questo', gli passi di fianco. Che sia 'questo' o 'non questo', gli passi sempre di gianco. Che cosa ne pensi?". Il maestro [Yueshan] non seppe  cosa  rispondere. Sekitō disse: "Il tuo karman non si riferisce a questo luogo [per 'questo luogo', i maestri di chan intendono spesso la propria persona]. Va a stare qualche tempo da Baso Daishi [Mazi Daoyi]". Il maestro ubbidì all'ordine ricevuto, andò da Baso, gli presentò i propri rispetti e ripeté la sua domanda. Il patriarca [Mazi] disse: "A volte lascio sollevare le sopracciglia e strizzare gli occhi, altre volte non lascio sollevare le sopracciglia e strizzare gli occhi. A volte, ciò che fa sollevare le sopracciglia e strizzare gli occhi è precisamente QUESTO. Altre  volte, ciò che fa sollevare le sopracciglia e strizzare gli occhi, non è QUESTO. Che cosa ne pensi?". A tali parole, il maestro ebbe una grande illuminazione e si gettò a terra. Il patriarca disse: "Cosa hai compreso tanto improvvisamente per prostrarti in questo modo?". Il maestro rispose: "Quando ero da Sekitō, ero come una mosca che andava a sbattere contro un bue di ferro". Il patriarca disse: "Tu hai già trovato. Mantieniti bene. E tuttavia è Sekitō il tuo maestro"». Quando Sekitō, all'età di 84 anni, sentì che la sua fine si avvicinava, esclamò: «La sala del dharma crolla! La sala del dharma crolla! In fretta, monaci, correte a sostenerla». Poi sollevò una mano e disse: «Oh, monaci,  non comprendete le mie parole!», e spirò.

Yuezhou Qianfeng
(wg. Yüeh-chou Ch'ien-feng; giapp. E'shū Kenpoō) Maestro di chan dell'epoca Tang, discepolo e successore nel dharma  (hassu)  di Dongshan Liangjie (giapp. Tōzan Ryōkai). Il suo nome compare nel 48° esempio  del Wumenguan.

Yuige giapp.
Letter. “poesia (ge; sascr. Gāthā) lasciata (yui)”. Versi lasciati da un maestro di zen agli allievi al momento della sua morte. In questi componemtni, in genere molto brevi, i maestri zen trasmettono un’ultima volta in poche parole l’essenza della loro esperienza spirituale per stimolare i loro discepoli e incitarli a non abbandonare gli sforzi sulla  via


dello zen, nemmeno dopo il passaggio del maestro a un’altra vita (vedi Senge).

Yungai Shouzhi
(wg. Yün-kai Shou-chih; giapp. Ungai Shichi)  (1025-1115)  Maestro della linea di discendenza Huanglong del chan Linji (vedi Rinzai, vedi Ōryō, scuola), discepolo e successore nel dharma (hassu) di Huanglong Huinan (giapp. Ōryō E’nan).

Yunmen Wenyan
(wg. Yün-men Wen-yen; anche Kuangzhen, wg. K'uang-chen; giapp. Unmon Bun'en) (864-949) Maestro di chan, discepolo e successore nel dharma (hassu) di Xuefeng Yicun (giapp. Seppō Gison), maestro di Xianglin Chengyuan (giapp. Kyōrin Chōon), di Dongshan Shouzhu (giapp. Tōzan Shusho) e di Baling Haojian (giapp. Haryō Kōkan). Fu uno dei più eminenti maestri, uno degli ultimi "giganti" del chan. Il  suo  nome compare negli esempi 15°, 16°, 21°, 39° e 48° del Wumenguan  e negli
esempi 6°, 8°, 14°, 15°, 22°, 27°, 34°, 39°, 47°, 50°, 54°, 60°, 62°, 77°,
83°, 86°, 87° e 88° del Biyanlu. I principali insegnamenti di Yunmen sono conservati in un'opera intitolata Yunmen Kuangzhen-chanshi guanglu ("Raccolta estesa dei detti del maestro di chan Kuangzhen del monte Yunmen"; wg. Yün-men K'uang-chen-ch'an-shih kuang-lu). Per circostanze che segnarono la sua prima esperienza di illuminazione sotto la guida di Muzhou, vedi Muzhou Chenzunsi. Yunmen ebbe più di 60 successori nel dharma ed era famoso per la severità del suo metodo di insegnamento, sicuramente paragonabile a quella del maestro Muzhou. Egli diede inizio alla scuola Yunmen (giapp. Unmon), una delle "cinque famiglie" (vedi Goke-shichishū) del chan, che sopravvisse fino al XII secolo. I discendenti di Yunmen contribuirono in maniera considerevole alla trasmissione della letteratura chan. Il più noto fra loro fu il "nipote" nel dharma di Yunmen, il grande maestro Xuedou Chongxian (giapp. Secchō Jūken), il quale raccolse e accompagnò con elogi (ju) un centinaio di esempi tratti dalla vita degli antichi maestri (kōan). Questa raccolta servì poi da base a Yuanwu Keqin (giapp. Engo Kokugon) per compilare il Biyanlu. Yunmen fu uno dei primi grandi maestri a utilizzare in modo sistematico le parole dei suoi predecessori come metodo di formazione per i monaci. Da tale abitudine si sviluppò la pratica del kōan (vedi Kanna-zen e Dahui Zonggao). Yunmen aggiungeva spesso una "risposta diversa" (cin. bieyu, wg. pieh-yü; giapp. betsugo) a quella proposta nei mondō o negli hossen citati. Formulava poi una nuova domanda a cui rispondeva al posto dei suoi allievi con una "frase in sostituzione" (cin. tai-yü, wg. daiyu; giapp. daigo), come quella citata nel sesto esempio del Biyanlu, che diventò una delle più celebri massime della tradizione chan: «Durante una delle sue lezioni Yunmen disse: "Non vi interrogo sui giorni che precedono il quindicesimo. Ma, a proposito dei giorni che seguono il quindicesimo, dite una parola, parlate!".    Al


posto dei suoi alunni, rispose allora: "Giorno dopo giorno, un buono giorno"». Talvolta associava una "frase in sostituzione" a una "risposta diversa" e inventava, negli incontri seguenti, una nuova risposta a una domanda che aveva posto lui stesso e alla quale aveva già risposto sostituendosi agli allievi. Le risposte e le massime di Yunmen godono di grande considerazione nella tradizione del chan. Nessun altro maestro è citato quanto lui nelle raccolte dei kōan. Le sue parole  soddisfano sempre le tre condizioni essenziali per l'efficacia di un detto chan: 1. corrispondono esattamente alle domande poste, come "il coperchio si adatta alla scatola"; 2. hanno la forza di troncare l'accecamento, i pensieri e i sentimenti "duali" degli allievi come una spada affilata; 3. si adattano al livello di comprensione e allo stato di coscienza momentanea dell'uditorio in modo naturale, proprio come "un'onda segue l'altra". Le risposte di Yunmen spesso erano composte da una sola parola e fanno parte delle più celebri "barriere di una parola" (ichiji-kan) del chan. Tra le "barriere di una parola", si ha il famoso "kan!" citato nell'8° esempio del Biyanlu (vedi Ichiji-kan) e il kan-shiketsu del 21° esempio del Wumenguan. Si trova ancora un altro esempio di ichiji-kan caratteristico di Yunmen nel 77° kōan del Biyanlu: «Un monaco chiese a Yunmen: "Cosa sono le parole dei sublimi buddha e degli eminenti patriarchi?". Yunmen rispose: "Delle grossolane polpette di carne!"». Yunmen non era solo un maestro della parola, ma anche del mimo, come mostra il 22° esempio del Biyanlu: «Durante un sermone ai monaci Xuefeng disse: "Sul picco del Sud c'è un serpente dal muso di tartaruga. Dovete assolutamente andare tutti a vederlo". Changqing disse: "Molti di coloro che oggi si trovano nella sala del dharma vi perderanno la vita". Un monaco riferì questa riflessione a Xuansha, che disse: "Fratello Leng [Changqing] ha ragione. Ma anche se le cose possono andare come dice lui, non è questo che volevo dire". Il monaco chiese: "Cosa volevate dire allora?" Xuansha disse: "A cosa gli serve dunque il picco del Sud?". Yunmen prese il suo bastone, lo gettò davanti a lui e fece un gesto di spavento». Yunmen, così bravo a trarre profitto dalle "parole viventi" degli antichi maestri, manifestava invece la più sentita diffidenza verso la parola scritta, di cui è facile decifrare le lettere, ma di cui non sempre si riesce a comprendere il senso profondo. Per questo vietava ai suoi alunni di prendere nota delle sue parole. È stato grazie a un discepolo, il quale, nonostante il divieto, andava ad assistere alle lezioni con indosso un abito fatto di carta su cui prendeva appunti, che numerose massime e commenti del grande maestro sono giunte fino a noi, come ad esempio: "Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone".

 

Fonte: http://terebess.hu/zen/szoto/DizionarioZen.pdf

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