Economia politica appunti e riassunti

 

 

 

Economia politica appunti e riassunti

 

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Economia politica appunti e riassunti

 

CONCETTI FONDAMENTALI

 

Economia – Economia politica o Economia teorica – Economia applicata

L’economia politica o applicata nasce come scienza sociale. L’economia teorica si sviluppa successivamente con l’uso di strumenti matematici sempre più raffinati. L’economia politica tiene conto anche delle condizioni istituzionali e reali, l’economia teorica no, è maggiormente astratta.

 

Economia – Politica economica

La politica economica mette al centro del suo studio le politiche attraverso le quali si può influenzare l’andamento dell’economia. La politica economica studia come lo stato determini le condizioni dei processi economici e come possa intervenire, attraverso la politica monetaria, fiscale, le regolamentazioni e la spesa pubblica

 

Microeconomia – Macroeconomia

La microeconomia è l’analisi economica del comportamento dei singoli operatori e di come questi operatori fanno le loro scelte; i suoi oggetti di studio sono la domanda, l’offerta e le condizioni di equilibrio. La macroeconomia studia la domanda e l’offerta aggregata, l’equilibrio complessivo, l’economia internazionale. Macroeconomia e microeconomia sono approcci diversi, ma possibili, al fatto economico e possono portare a risultati diversi.

 

Economia neoclassica (o dell’offerta) – Economia keynesiana (o della domanda)

L’economia neoclassica si sviluppa alla fine del secolo XIX con i la scuola economica dei Marginalisti ed è una microeconomia, studia cioè l’economia dal lato dell’offerta. L’economia neoclassica studia l’offerta, la produzione, il funzionamento dei mercati. L’economia keynesiana si sviluppa nel XX secolo, è una macroeconomia e studia la ricchezza di interi gruppi sociali, solitamente nazioni. L’economia keynesiana studia il fatto economico dal lato della domanda, cioè del consumo, della spesa. Diverse sono le ricette che le due economie propongono in caso di crisi. I Keynesiani vogliono far aumentare la domanda aumentando la spesa pubblica, favorendo gli investimenti, diminuendo le tasse e abbassando il tasso d’interesse in modo che si sia una maggiore liquidità disponibile. Per i neoclassici questi correttivi generano solo inflazione; per risolvere le crisi occorre piuttosto migliorare l’offerta e la produzione facendo funzionare il mercato attraverso riforme e la ristrutturando le imprese; il bilancio pubblico dev’essere tagliato per lasciare spazio all’iniziativa privata.

 

Equilibrio economico generale – Input / Output

Secondo la teoria dell’equilibrio economico generale, i mercati, attraverso il gioco della domanda e dell’offerta e la flessibilità dei prezzi, si mantengono in equilibrio. Il processo economico è considerato come finito e consiste in materie prime – processo industriale – bene finito. Per la teoria input / output i prezzi sono fissi, dati. Il processo economico è visto come un ciclo: ciò che esce da un processo rientra in un altro processo.

 

Economia pubblica o scienza delle finanze

L’economia pubblica studia il bilancio dello stato.

 

Nuovi campi.

L’analisi economica estende ogni giorno i campi a cui è applicata (per esempio: economia della conoscenza).


QUADRO STORICO DEL PENSIERO ECONOMICO

 

L’economia è una scienza, utilizza il metodo scientifico, ma è ricca di discussioni e dibattiti. Una delle spiegazioni di questo fenomeno consiste nel fatto che gli economisti spesso sono portatori di interessi diversi di fronte ai problemi economici, sui quali è difficile avere una posizione neutrale. Il motivo più profondo, in realtà, è che l’economia affonda le sue radici in quadri concettuali estremamente diversi tra loro. L’evoluzione di queste visioni economiche procede con l’evoluzione della realtà economica: spesso la precede, a volte la segue. Le diverse concezioni economiche hanno comunque la tendenza a convergere con il passare del tempo.

 

L’ECONOMIA PRECLASSICA

Il nucleo fondamentale dell’economia politica si forma in Europa nel XVIII secolo: convenzionalmente la nascita dell’economia politica viene collocata nel 1776, con la pubblicazione de “La ricchezza delle nazioni” di Adam Smith. Prima di questa data esistono comunque precursori a cui gli economisti classici si rifanno. L’economia politica infatti è frutto della civiltà occidentale, anche se anche altre civiltà hanno dato il loro contributo, e le sue radici affondano nel pensiero greco, in cui erano contenuti embrionalmente, ad  esempio, i concetti di moneta e di divisione del lavoro. I Romani non incidono molto sul pensiero economico, ma ci lasciano in eredità il diritto, che è fondamentale garante dello sviluppo dell’economia, soprattutto attraverso l’istituto della proprietà privata. La proprietà privata è fondamentale nello sviluppo economico: i sistemi in cui questa non è riconosciuta (come nei sistemi comunisti e nei paesi sottosviluppati) lo sviluppo economico è impossibile. La proprietà privata è impensabile senza un diritto.

 

Il contributo della Scolastica. La Scolastica ha un approccio moralistico ai processi economici, cerca cioè di capire cos’è e cosa non è lecito nell’economia secondo i principi cristiani. All’interno di questa scuola di pensiero si sviluppa la teoria dei prezzi e il concetto di “giusto prezzo”. Il giusto prezzo è visto come il prezzo naturale, introducendo così l’esistenza di un ordine naturale che precede quello creato dall’autorità. Il giusto prezzo viene intuitivamente associato al concetto di mercato concorrenziale

 

La nascita dell’economia politica è associata alle quattro rivoluzioni che caratterizzano l’epoca moderna:

  • Rivoluzione scientifica. L’economia è una scienza e utilizza il metodo scientifico.
  • Rivoluzione statale. Il concetto di stato nasce in Italia con le prima città-stato, dove avviene la separazione del potere dalla persona che lo detiene. La sovranità diventa un concetto astratto.
  • Rivoluzione agricola. Avviene il passaggio dall’agricoltura di sussistenza a quella moderna, in grado di dar luogo all’accumulazione. Lo sfruttamento delle terre viene razionalizzato attraverso il sistema delle enclosures. Questo evento produce anche l’espulsione dei piccoli di molti contadini dalle terre in cui vivevano, i quali si avvieranno a formare il proletariato urbano.
  • Rivoluzione industriale.

 

Il mercantilismo. La scuola economia del mercantilismo si sviluppa nel tardo medioevo. Il mercantilismo assegna un ruolo fondamentale ai mercanti, che producono profitto attraverso il meccanismo della concorrenza. Un ruolo di primo piano è svolto anche dallo stato, perché senza stato il commercio non può né esistere né essere redditizio. Infatti lo stato doveva garantire la pace e la sicurezza andate perdute dopo la caduta dell’impero romano, condizioni imprescindibili del commercio. Lo stato inoltre doveva sostenere i commercianti proteggendoli e favorendo la colonizzazione di nuove terre. Importante secondo questa scuola economica è la capacità di importare ed esportare in nuovi mercati. Import ed export sono possibili sono con l’intervento dello stato per proteggere l’industria nazionale e aprire le porte a nuovi mercati anche con l’uso della forza. Il concetto di ricchezza si evolve e per i mercantilisti, che avevano sotto gli occhi gli effetti dei flussi di oro ed argento che arrivavano dall’America, consiste nella quantità di monete preziose possedute.

 

La fisiocrazia. Alla rivoluzione agricola è collegata un scuola economica: la fisiocrazia. I fisiocrati danno una grandissima importanza all’agricoltura come fondamento della ricchezza. La ricchezza per i fisiocrati consiste nell’avere un prodotto netto, un residuo, che rimane alla fine del ciclo economico dopo aver soddisfatto i bisogni di chi partecipa al ciclo. Questo residuo è ciò che può essere accumulato e ciò che permette lo sviluppo. L’autore più conosciuto di questa scuola e Quesnais, che scrive il“Tableau economique”. Quesnais mette in relazione tre diverse classi sociali:

  • Classe dei produttori. Sono gli agricoltori.
  • Classe dei proprietari. E’ la classe dominante, composta da coloro che si appropriano del sovrappiù residuo. E’ anche la classe dei consumatori.
  • Classe degli intermediari. E’ la classe manifatturiera e dei piccoli proprietari, che trasformano la ricchezza prodotta dall’agricoltura in ciò che serve al consumo dei proprietari. Per Quesnais, visto che l’unica attività che produce ricchezza è l’agricoltura, questa classe è sterile, incapace di produrre  ricchezza. In questo contesto Quesnais introduce la differenza tra lavoro produttivo, cioè l’agricoltura, e lavoro improduttivo.

 

L’ECONOMIA CLASSICA

 

William Petty. Petty, musicista e poi economista, introduce il concetto di “conti economici nazionali”, riprendendo un tema già sviluppato nel ‘500 dal frate francescano italiano Luca Pacioli che aveva inventato la tabella a doppia entrata per tenere i conti delle entrate e delle uscite. Petty è considerato il fondatore della scuola di pensiero dell’ “Aritmetica politica”, basata sull’idea che il procedimento scientifico può essere applicato anche alle scienze politiche. Da qui nascerà la statistica, in origine scienza dello stato.

 

Adam Smith. Adam Smith, filosofo moralista scozzese, è considerato il capostipite della scuola economia classica. La sua opera maggiore in campo economico è “La ricchezza delle nazioni”.

  • La mano invisibile. Secondo Smith, è l’avidità, l’interesse dei singoli e la ricerca del profitto attraverso la concorrenza che produce l’efficienza economica, la quale produce e benessere. La mano invisibile del mercato trasforma questi istinti umani in virtù.
  • Il paradosso del valore. Smith distingue tra valore d’uso, cioè l’utilità che possiede un determinato bene, e valore di scambio, cioè il prezzo di mercato. Esistono beni con alto valore d’uso e basso valore di scambio, come ad esempio l’acqua, e beni con alto valore di scambio e basso valore d’uso, come ad esempio i diamanti. Ciò che determina il valore di scambio è la scarsità ed è questo il valore che interessa l’economia. Smith si chiede quale sia il rapporto tra i due valori e come si può spiegare il prezzo naturale di un bene. Smith adotta a questo proposito la teoria del valore-lavoro. Gli economisti classici affermano che è il lavoro ciò che crea ricchezza, perché solo il lavoro è in grado di trasformare la realtà. Il lavoro si incorpora in un bene direttamente e indirettamente: direttamente attraverso il numero di ore che un certo numero di operai deve lavorare per produrre un bene, indirettamente attraverso il lavoro che serve a produrre il capitale (per esempio le fabbriche o i macchinari industriali) necessario alla produzione del bene.

A spiegare il legame tra prezzo naturale e prezzo di mercato sarà Marshall nel XX secolo, introducendo la distinzione tra breve periodo e medio-lungo periodo. Nel breve periodo conta il prezzo di mercato, nel lungo periodo il prezzo di produzione, cioè quello naturale.

  • Libertà di commercio. Per Smith lo stato non è il garante del commercio come per i mercantilisti, ma un suo impedimento. Occorre perciò smantellare le protezioni e lasciare libero il mercato. Su questo fronte gli economisti classici furono anche molto impegnati in politica, ad esempio nella battaglia sull’abolizione dei dazi sul grano che proteggevano i proprietari terrieri ed affamavano le classi povere. La battaglia si concluse con l’abolizione in Gran Bretagna dei dazi su questo alimento nel 1846.

 

Malthus. Secondo la legge nota come “legge di Malthus”, la popolazione cresce in maniera geometrica, mentre la produzione agricola cresce in maniera aritmetica. Ciò determina un progressivo impoverimento della popolazione, la cui crescita va severamente limitata. Un’altra importante teoria di Malthus è quella secondo cui c’è sempre una tendenza alla sovrapproduzione. Infatti il profitto spinge ad una produzione sempre maggiore e l’aumento della produzione causa la crisi. Per risolvere questo problema occorre dare alle classi opulente la possibilità e gli strumenti per consumare la produzione in eccesso e superare il vincolo della domanda.

 

Ricardo. Ricardo affronta il problema della distribuzione del reddito, che è ciò che garantisce la possibilità di riprodurre il processo economico. Il salario è determinato da fattori produttivi e va fissato ad un libello di sussistenza. I proprietari invece si appropriano del sovrappiù dovuto al profitto: questa eccedenza è ciò che può dar luogo all’accumulazione del capitale. Se i proprietari non se ne appropriassero il processo economico non potrebbe riprodursi. Il profitto è visto come un residuo che rimane alla fine del processo economico. Per Ricardo, poiché i fenomeni economici sono riproducibili, l’economia è lo spazio della riproducibilità.

 

Marx.

  • Teoria del plusvalore. Marx vede secondo un’ottica politica il fatto che i produttori si approprino del sovrappiù derivante dal processo economico. Secondo Marx il plusvalore è ingiustamente sottratto ai lavoratori
  • Evoluzione del sistema capitalistico. Come Malthus Marx ha una visione negativa dell’evoluzione demografica: le classi proletarie saranno sempre più numerose e sempre più povere. Per questo motivo il capitalismo tende all’autodistruzione, perché, impoverendo gran parte della popolazione, non può garantire il consumo dei prodotti che tende a produrre in misura sempre maggiore
  • Teoria del valore-lavoro. Marx riprende la teoria smithiana del valore-lavoro, cercando di dare una dimostrazione matematica della trasformazione del lavoro in prezzi. Questo punto sarà aspramente criticato dagli economisti successivi che evidenzieranno gli errori di questa teoria, fino a che Sraffa negli anni ’60 riuscirà a legare matematicamente lavoro e prezzi.

 

Le concezioni proprie dell’economia classica in breve

  • L’economia è la scienza della riproducibilità, non della scarsità. Il fenomeno economico è un processo circolare che procede all’infinito e si espande all’infinito. Alcuni pensatori hanno una visione apocalittica secondo cui il processo economico finirà per autodistruggersi o cessare per fattori esterni.
  • La ricchezza consiste nel sovrappiù, nel residuo che rimane alla fine del processo economico. I meccanismi della distribuzione del reddito sono essenziali: deve esistere una classe borghese che si appropria del surplus e una classe proletaria con redditi di sussistenza perché esista il progresso economico.
  • Distinzione tra valore d’uso e valore di scambio.

IL PENSIERO NEOCLASSICO

 

Quadro storico-culturale. All’interno dell’illuminismo inglese si sviluppa la corrente filosofica dell’utilitarismo, secondo la quale l’utilità è il punto cardine dell’economia. L’utilitarismo, i cui maggiori autori sono Mill e Bentham, vedono l’utilità in funzione della felicità, che dev’essere l’obbiettivo da raggiungere in tutti campi del sapere. Secondo gli utilitaristi l’individuo va posto al centro del discorso economico, tralasciando il concetto di classe.

In campo industriale si sviluppano la grande impresa e la società per azioni, che causano la separazione dell’individuo dall’impresa intesa come beni di produzione: proprietà e controllo sono separate. I lavoratori si organizzano, nascono le grandi organizzazioni sindacali. Sorgono le prime infrastrutture e si inizia a parlare di produzione di massa. Taylor con il metodo che da lui prende il nome, il taylorismo, organizza scientificamente la produzione di massa, misura il prodotto matematicamente e suddivide la produzione in diverse fasi riunite nella “catena di montaggio”. Ford dà inizio alla rivoluzione automobilistica e innova ulteriormente l’organizzazione della fabbrica (si parla di fordismo). Si afferma la potenza coloniale inglese e allo stesso tempo sorge la potenza americana.

 

Nuove teorie economiche sfociano nel 1870 in tre opere economiche fondamentali:

  • Teoria dell’economia politica, pubblicata in Gran Bretagna da Jevons.
  • Principi di economia politica, pubblicata a Vienna da Menger
  • Principi di economia pura¸ pubblicata a Losanna da Walras.

In queste tre opere si parla del concetto di utilità in economia e sulla base di questo concetto vengono introdotti principi nuovi nella teoria economica.

    • Principio dell’utilità marginale decrescente: l’utilità decresce con l’aumento del consumo, vale a dire che più un bene è disponibile, meno vale. Questa teoria è anche detta teoria della scarsità. La scarsità diventa la molla fondamentale dell’economia.
    • Principio della massimizzazione dell’utilità, cioè della massimizzazione della soddisfazione vincolata dei bisogni. In quest’ottica l’economia diventa la scienza delle scelte.
    •  La produzione è vista come uno scambio e anche alla base della produzione c’è il concetto di utilità. La produzione è uno scambio tra fattori di produzione è prodotto.
    • Equilibrio economico generale. I diversi fattori economici sono tra di loro in rapporto di interdipendenza attraverso il mercato. Il mercato è un mezzo per la soddisfazione di tutti gli operatori e per la massimizzazione dell’utilità. Il gioco economico e i processi sociali vengono visti secondo una visione armonica.

Mentre l’economia classica era a tutti gli effetti una scienza sociale, l’economia neoclassica diventa una scienza pura, astratta dal suo contesto sociale e va assomigliando sempre più ad una scienza naturale. Questo accade anche perché avvengono due eventi gravidi di conflitti sociali: nel 1864 viene fondata da Marx la prima Internazionale mentre nel 1870 si verifica l’episodio della Comune di Parigi. Proprio per non alimentare le situazioni di conflitto si sente la necessità espellere dall’economia le parti riguardanti il contesto sociale per “sterilizzare” l’economia sul piano sociale.

 

L’impostazione neoclassica è tuttora valida, ma occorre dare conto di altre teorie che sono state via via formulate e che hanno contraddetto o si sono aggiunte alle teorie neoclassiche. L’elenco che segue dimostra come l’economia proceda per critiche.

  • Teoria keynesiana. La teoria di John Maynard Keynes nasce dopo la grande crisi del ’29. La stagnazione economica e i processi economici incontrollabili che si erano sviluppati in quel periodo spingono quest’economista americano a ideare una teoria che contraddica quella neoclassica dell’equilibrio. Per Keynes i mercati non sono in grado di autoequilibrarsi e lo stato deve avere un ruolo attivo nell’economia intervenendo attraverso meccanismo della domanda. La visione di Keynes è macroeconomica.
  • La sintesi neoclassica è basata sulla fusione tra economica neoclassica ed economia neokeynesiana. La teoria di Keynes è vista come un caso particolare dell’economia neoclassica in cui sono necessari un certo interventismo statale e una visione aggregata, macroeconomica, dell’economia. Un’economista appartenente a questa corrente è Franco Modigliani.
  • L’italiano Piero Sraffa nel 1960 pubblica il libro “Produzione di merci a mezzo di merci”, in cui si trova una critica radicale alla teoria della distribuzione neoclassica secondo la quale ognuno sul mercato ha quello che gli spetta e la soddisfazione generale è assicurata dai meccanismi del mercato. Questa corrente di pensiero è detta neoricardiana.
  • Nuova macroeconomia classica. La macroeconomia classica nasce negli anni ’70 sulla spinta di avvenimenti come l’inflazione generata dall’aumento del prezzo del petrolio o la sospensione della convertibilità del dollaro in oro che sosteneva il sistema internazionale dei cambi. Si verifica il fenomeno della “stagflazione”, cioè una stagnazione accompagnata ad un’alta inflazione, fenomeno non previsto dall’economia classica. Si critica l’impostazione keynesiana e neoclassica e la teoria del “fine tuning”, secondo cui lo stato deve intervenire per regolare l’inflazione e il tasso di disoccupazione. Gli eventi degli anni ’70 dimostrano infatti che l’interventismo statale non risolve questi problemi. La migliore politica economica diventa quindi quella automatica, che prevede di lasciare il mercato libero di autoregolarsi e di intervenire solo quando il mercato stesso lo richieda e non quando lo stato lo ritenga più opportuno.
  • Anche la nuova macroeconomia classica viene poi criticata. Stiglitz critica la visione neoclassica del mercato introducendo il concetto di asimmetria informativa,vale a dire che non tutti gli operatori che si trovano sul mercato sono sullo stesso piano. Infatti non tutti dispongono di tutte le informazioni né delle stesse informazioni. Il mercato quindi non può funzionare automaticamente ed è perciò necessario l’intervento statale.

 

I grandi problemi da affrontare nel prossimo futuro:

  • Globalizzazione. Il mercato ha subito e subisce tutt’ora un processo di globalizzazione. La maggior parte delle decisioni economiche importanti sono prese da organizzazioni internazionali e non più nazionali.
  • Problema della conoscenza. Il valore oggi non risiede tanto nelle materie prime, quanto nelle informazioni e nei meccanismi di trasmissione delle stesse. Occorre anche garantire l’accesso meno asimmetrico possibile alle informazioni per garantire il funzionamento del mercato.
  • Pace e sicurezza internazionale.
  • Temi connessi al cambiamento sociale (come ad esempio l’aumento della durata della vita).

CONTI ECONOMICI NAZIONALI

 

I conti economici nazionali sono uno strumento indispensabile per capire l’andamento dell’economia e per prendere decisioni economiche.

 

Gli operatori economici  sono la famiglia, le imprese e lo stato. Alla famiglia compete il consumo, cioè la domanda, alle imprese la produzione, cioè l’offerta, allo stato la spesa pubblica e il prelievo fiscale.

 

La famiglia può essere vista sia nei singoli componenti sia come unità. La famiglia si evolve con il tempo grazie alla crescita demografica, alla riduzione del numero dei componenti, all’evoluzione del ruolo della donna che ora partecipa attivamente al consumo, all’allungamento della vita. Ogni teoria del consumo o del reddito deve considerare l’evoluzione del modello famigliare e la pluralità di modelli famigliari presenti in uno stesso modello.

 

Le imprese possono essere suddivise tra piccole imprese e grandi imprese, oggi sempre più multinazionali. La società è costruita attorno alla produzione, cioè intorno a tante e diverse industrie, che si caratterizzano per i diversi settori in cui operano, per la diversa organizzazione, la maggiore o minore produzione e i maggiori o minori investimenti.

 

Con stato indichiamo sia il governo centrale che i vari governi locali. Inoltre a causa della crescente integrazione economica tra gli stati si pone sempre più la questione se sia o no necessario un governo mondiale.

 

Esistono anche realtà intermedie tra questi tre elementi, come le imprese a gestione famigliare o le imprese a gestione pubblica o a partecipazione statale.

 

IL PIL

 

Il pil è il prodotto interno lordo, cioè la sintesi di un intero modello economico. Questo indicatore dà la possibilità di controllo. Dietro il concetto di conti economici nazionali c’è il modello economico classico input-output.

 

Tavola delle interdipendenze settoriali: matrice che si costruisce su precise identità contabili.

Valore aggiunto dal punto di vista della domanda: VA = C (consumo) + I (investimento) + E (esportazioni) + G (spesa pubblica)

Valore aggiunto dal punto di vista dell’offerta: VA = industria + servizi + agricoltura + pubblica amministrazione

Valore aggiunto dal punto di vista della distribuzione del prodotto: VA = W (salari) + P (profitti) + T (tasse) + R (rendite)

L’identità contabile sta a significare che in un certo paese e in un certo momento offerta, domanda e prodotto devono essere uguali.

 

Per calcolare il PIL si usa la tavola delle interdipendenze settoriali.Questo strumento è una tabella a doppia entrata basata sul concetto di input - output; a sinistra si riportano gli imput, cioè i beni da utilizzare, a destra gli output, cioè i settori in cui vengono utilizzati i beni. Ogni riga della colonna indica un bene e il suo utilizzo nei diversi settori, ogni colonna indica quali beni sono necessari alla produzione in un determinato settore.

 

 

 

OUTPUT

INPUT

Settore 1

 Settore 2

D

Bene1

Q11

Q12

 

Bene2

Q21

Q22

 

 

Ogni Qij indica la quantità utilizzata di un determinato bene in un determinato settore.

L’ultima colonna a destra è la colonna D, della domanda finale: nelle sue celle occorre indicare quanto prodotto arriva direttamente sul mercato o serve a produrre beni di investimento, cioè quanto prodotto non viene utilizzato direttamente per la produzione di altri beni.

Nella tavola di interdipendenza ogni bene è legato agli altri, in quanto o viene venduto sul mercato o concorre alla produzione di altri beni, i quali producono valore venendo venduti sul mercato o venendo utilizzati nella produzione di altri beni. La variazione della quantità utilizzata di un bene si ripercuote su tutta la tabella.

I conti economici così calcolati ci consentono di vedere il prodotto dal punto di vista della domanda, della produzione o della distribuzione del reddito. Tutte le relazioni che si possono cogliere con questo strumento ci consentono di presentare il flusso di beni e servizi di una nazione in modo coerente e sintetico.

 

I conti economici nazionali sono uno strumento attraverso cui accogliamo informazioni e che permette la misurazione di diversi indici sulla base di dati rilevanti. Questo strumento ci consente di mettere insieme dati diverse provenienze in un quadro coerente e semplice, in modo di permettere analisi e riflessioni. I conti economici nazionali inoltre consentono il confronto tra le diverse economie nazionali essendo tutti misurati secondo standard omogenei elaborati dall’ONU. Sono diventati molto importanti nell’UE dopo gli accordi di Maastricht che basano la valutazione della finanza dei paesi proprio su due rapporti che hanno il PIL a denominatore; per garantire l’uniformità dei dati statistici l’UE ha emanato una direttiva vincolante in merito.

 

La sintesi dei conti economici nazionali ci permette di misurare l’attività di uno stato attraverso diversi indicatori, il più usato dei quali è il PIL, il ridotto interno lordo. Nel PIL considero i beni e i servizi finali che vengono consumati durante il periodo considerato. Non posso però  conteggiare anche i beni intermedi, in quanto il loro valore è incorporato nel bene finale. Nella produzione entrano però anche beni di investimento che verranno utilizzati in periodi futuri. Se conteggio solo gli investimenti che vengono utilizzati nel periodo in cui effettuo la misurazione ho il prodotto netto, se considero tutta la produzione di un periodo ho il prodotto lordo. La differenza tra i due prodotti sta nel conteggio degli ammortamenti, che indicano la perdita di valore di un bene di investimento nel tempo ma sono difficilmente misurabili con esattezza, ragione per cui si preferisce utilizzare il prodotto interno lordo.

 

Il PIL è un dato di flusso e si distingue da PNL, cioè prodotto nazionale lordo, in quanto considera tutte le attività svolte sul territorio di un dato paese indipendentemente dalla loro nazionalità. Il prodotto nazionale lordo invece considera tutte le attività svolte dai cittadini di un paese indipendentemente dal territorio in cui si svolgono. Si usa il PIL per la difficoltà di rilevare le informazioni necessarie al calcolo del PNL.

 

Per passare dal prodotto nazionale al reddito nazionale occorre considerare che il reddito è quanto viene percepito da coloro che partecipano al processo di produzione, mentre il prodotto è il semplice risultato di quel processo. Dal PIL perciò vanno tolti i trasferimenti netti all’estero, cioè la parte di prodotto che va all’estero, e aggiunti i trasferimenti netti dall’estero. Inoltre non comprende le imposte indirette. Possiamo anche voler calcolare il reddito personale, che è il reddito effettivamente disponibile, che si ottiene togliendo dal PIL quella parte di reddito che le società non distribuiscono come dividendo e aggiungendo i trasferimenti dallo stato alle famiglie.

Il PIL viene calcolato in termini nominali, cioè a moneta corrente (nel caso dell’Italia in Euro), ma quando confrontiamo il PIL di uno stesso paese nel tempo ci interessa l’evoluzione del PIL in termini non monetari, ma di volume. Occorre quindi depurare il PIL dalla componente inflazionistica, dando luogo al PIL reale, su cui è possibile calcolare le variazioni. Per passare da un PIL nominale ad un PIL reale occorrono degli strumenti, numeri indici, che misurano la variazione del livello dei prezzi: i deflatori del PIL.

 

Un problema che si pone quando si confrontano i PIL di diverse nazioni è quello di passare dalle monete nazionali ad una moneta comune. Ci sono due strade per risolvere questa difficoltà: usare i tassi di cambio o le parità di potere d’acquisto. La prima strada consiste nell’utilizzare i tassi di cambio tra le valute rilevabili sul mercato per confrontare PIL espressi in monete differenti. Usando questa soluzione le difficoltà nascono dal fatto che i tassi di cambio sono sì noti e facilmente rilevabili, ma molto variabili, perciò possono avere un peso molto forte. Per questo motivo si usa la parità di potere d’acquisto, cioè dei numeri indici che consentono di passare da una valuta all’altra e che si fondano sul livello di prezzi di un paniere di beni considerati rappresentativi: confrontando i prezzi del paniere in diversi stati si ottiene un indice che permette di confrontare i redditi. Le parità di potere d’acquisto sono gli indicatori normalmente usati, ma presentano diversi svantaggi, per il fatto che sono misurate raramente e con grandi difficoltà, specialmente nei paesi piccoli o in via di sviluppo.

 

I conti nazionali nascono come conti economici ma diventano sempre più anche conti sociali, facendo entrare nel loro computo anche fattori “sociali”, come l’istruzione, l’ambiente o la protezione sociale. Per questi elementi sono stati creati anche dei conti “satellite” che permettono la stessa precisione e lo stesso confronto possibile con i conti economici nazionali.


FORMAZIONE DEI PREZZI E INFLAZIONE

 

I prezzi di mercato sono prezzi che soddisfano la domanda e l’offerta e sono prezzi di equilibrio a patto che gli altri fattori rimangano stabili. I prezzi sono indicatori per capire il livello di scarsità dei beni e veicoli di trasmissione delle informazioni. Chi stabilisce i prezzi è la legge impersonale della domanda e dell’offerta e sono stabiliti per garantire l’assorbimento dell’offerta e soddisfare la domanda (fenomeno del market clearing). I prezzi sono uno strumento per capire se e come funziona il mercato.

 

Misurazione del livello dei prezzi. La variazione dei prezzi è detta “inflazione” (o “deflazione” se i prezzi diminuiscono invece di aumentare).La misurazione dei prezzi può avvenire alla produzione o al consumo. Il primo dato si ha rilevando ciò che avviene prezzo i settori economici di produzione, il secondo è rilevato sui settori di distribuzione. I due dati non sono la stessa cosa e non hanno gli stessi valori. In Italia c’è una divaricazione tra i due indici: l’inflazione dei prezzi alla produzione è molto bassa (circa 0,5%), quella dei prezzi al consumo si attesta sopra il 2%. Questo fenomeno significa che nel tempo la distanza tra i prezzi alla fabbrica e nel negozio tende a crescere. Il prezzo alla produzione dà luogo al ricavo e quindi al reddito di chi partecipa al ciclo di produzione, mentre il prezzo al consumo è ciò che gli operatori spendono. Quindi se i prezzi alla produzione aumentano maggiormente dei prezzi al consumo si erode il potere d’acquisto dei salari.

 

L’inflazione generalmente si riferisce ai prezzi al consumo ed è una variabile chiave dell’economia. La sua importanza sta nel fatto che su di essa si basano le decisioni di politica economica delle banche centrali e dei governi. Inoltre l’aumento dell’inflazione determina una diminuzione del livello di produttività e del potere d’acquisto dei redditi.

 

 

Per spiegare l’inflazione occorre studiare il meccanismo di formazione dei prezzi.

 

 

Mercato non perfettamente concorrenziale   Mercato perfettamente concorrenziale.

 

In un mercato concorrenziale l’equilibrio si forma all’incontro tra curva di domanda e curva di offerta. Se consideriamo un mercato perfettamente concorrenziale, poiché in concorrenza la curva di domanda è piatta in quanto il prezzo lo fa il mercato e non le singole transazioni, il prezzo dipende solo dal livello della curva di domanda. Si parla quindi di un’inflazione da domanda. I costi non entrano in questo processo, possono rompere l’equilibrio e variare la quantità di prodotto, ma non variare il livello dei prezzi. Per variare il livello dei prezzi occorre variare la domanda.

                                              

Nel caso dell’inflazione da domanda ogni provvedimento che influenza il livello dei costi è inutile. Per controllare l’inflazione occorre agire sulla domanda attraverso la politica monetaria: rallentando la crescita economica diminuisce la domanda, perciò si ha un abbassamento dei prezzi. Surriscaldando l’economia invece aumenta l’inflazione. Nel caso dell’inflazione da costi è molto importante influire sui costi di produzione, riducendo i quali si riduce il livello dei prezzi, attraverso le politiche dei redditi, che regolano salari e prezzi. I costi possono essere controllati ad esempio fissando con un contratto collettivo i salari oppure introducendo nuove regolamentazioni statali. Una corrente di economisti ritiene che le politiche dei redditi sono inutili e occorre perciò lasciare il mercato libero di fissare i costi di produzione; per controllare l’inflazione l’unico metodo efficace sarebbe una politica monetaria che influisca sulla domanda in maniera anche drastica.

 

L’inflazione tende ad autoalimentarsi: se crescono i prezzi si erode il potere d’acquisto dei salari, quindi i lavoratori cercano di aumentarli. I salari sono costi di produzione, quindi se vengono aumentati salgono i prezzi del prodotto. Questa spirale causa l’aumento dell’inflazione. Un’alta inflazione causa anche una diminuzione di produttività nei confronti dei mercati esteri in cui l’inflazione è minore, in quanto aumentano più rapidamente che altrove i prezzi dei beni. Per migliorare il livello di produttività danneggiato dall’alta inflazione si svaluta la moneta nazionale, causando un’ulteriore inflazione. Per questi motivi e per la crisi petrolifera, l’Italia negli anni ’70 e ’80 ha avuto un’inflazione superiore al 10%. Da qui è nata la necessità di una politica dei redditi per tenere sotto controllo inflazione e livelli salariali. Negli anni ’80 (accordo Lama –Agnelli) i contratti prevedevano il sistema della scala mobile cioè i salari erano legati all’inflazione e aumentavano automaticamente. Oggi (accordo Ciampi del ’93) i contratti si basano sull’inflazione programmata, cioè sull’aumento previsto dei prezzi piuttosto che su quello reale. Ciò consente di limitare la spirale inflativa. Se l’inflazione reale è maggiore dell’inflazione programmata l’accordo prevede compensazioni per i lavoratori.

 

Le politiche dei redditi sono state molto importanti in Italia soprattutto dopo che nel ’79 la lira è entrata nel Sistema Monetario Europeo, che vincolava il sistema dei cambi ad oscillazioni fisse più o meno ampie. Non potendo più contare sulla svalutazione della lira per aumentare la competitività delle imprese italiane sul mercato europeo, era ancora più importante che l’inflazione italiana fosse al livello degli altri stati europei, altrimenti ne avrebbero fortemente risentito le nostre esportazioni. Si fecero perciò le “politiche del rientro” per fare in modo che l’inflazione italiana scendesse avvicinandosi ai livelli europei. Con l’introduzione dell’Euro il vincolo esterno alla produzione causato dallo SME è diventato ancora più stringente, perciò ci sono ulteriori motivi perché l’inflazione italiana sia uguale a quella europea. Eppure in Italia il tasso d’inflazione è di circa  dello 0,5 – 1% superiore alla media UE. Questo fenomeno crea un problema di competitività delle nostre esportazioni. Inoltre ora la politica monetaria è decisa a livello comunitario ed è fondata sull’inflazione media nell’UE, per cui avere un’inflazione più alta rispetto agli altri paesi significa che la politica monetaria della banca centrale europea è troppo poco restrittiva per le necessità italiane, ma non c’è la possibilità di correggerla.

 

Per tutti i motivi appena esposta il differenziale tra tasso di inflazione italiano e tasso di inflazione europeo è un problema grave. Il dibattito economico spiega in vari modi le cause dell’attuale tasso d’inflazione in Italia:

  • L’introduzione dell’Euro. Il passaggio da lire ad euro, che in sé sarebbe solo una conversione a tasso fisso quindi non generatrice di inflazione, ha indubbiamente portato ad un aumento reale o percepito dei prezzi. Questo si può spiegare per vari motivi.
    • Ci sono stati arrotondamenti indebiti nel tasso di conversione, cioè c’è stato chi se n’è approfittato per speculare sull’euro. Questo fenomeno dovrebbe però avere effetto solo sul medio termine ed essere appianato dai meccanismi del mercato che tendono ad espellere gli speculatori.
    • L’inflazione percepita è maggiore di quella reale in quanto:
      • sono aumentati maggiormente i beni di cui si fa un acquisto frequente e di cui ci si accorge maggiormente delle variazioni di prezzo, mentre altri beni durevoli, di cui il consumatore non conosce perfettamente le situazioni di mercato, sono aumentati di meno.
      • sono maggiormente aumentati beni in settori di largo consumo come l’alimentare fresco e i pubblici esercizi.

Anche l’effetto dell’inflazione percepita è però un effetto di breve periodo destinato a rientrare.

  • Il mercato. In Italia c’è un differenziale tra l’indice dei prezzi alla produzione e l’indice dei prezzi al consumo tale che i prezzi al consumo crescono in maniera più rapida e il margine di intermediazione tende a crescere. Questo fenomeno non accade in Europa. Se il differenziale persiste è un sintomo di un malfunzionamento del mercato: in Italia nel settore della distribuzione c’è una scarsa concorrenza, in quanto è un settore molto parcellizzato e molto irrigidito dalle regolamentazioni statali. Gli interventi statali di regolamentazione distorcono la concorrenza e poiché la concorrenza tra produttori è maggiore di quella tra i distributori, persiste questo differenziale inflativo.
  • Le tariffe. Esistono dei prezzi fissati dal settore pubblico in quanto prezzi di servizi o beni offerti da un monopolio pubblico; in un paese come il nostro dove è ampio il peso dello stato le tariffe incidono in maniera determinante sull’inflazione. Le tariffe a livello nazionale sono aumentate meno dell’inflazione, ma le tariffe stabilite a livello locale sono aumentate in misura maggiore. Per questo fenomeno ci sono due possibili soluzioni: o si impone che le tariffe siano fissate a livelli non inflazionistici o si liberalizza il mercato dei servizi pubblici. La prima soluzione non può però essere definitiva, in quanto si tratta solo di rimandare ad un momento successivo degli aumenti che occorrerà comunque imporre.
  • Gli ordini professionali fissano le tariffe di certe prestazioni distorcendo per questo motivo il mercato.

La differenza di competitività tra USA e UE sta proprio nella mancata efficienza


IL PROGRESSO TECNICO

 

Nell’economia classica l’equilibrio è dovuto alle curve di domanda e di offerta. La curva di domanda riflette le preferenze del consumatore, considerando come dati queste preferenze e non indagandole. La curva di offerta riflette il processo di produzione le tecnologie disponibili, ma anche questi fattori vengono assunti come dati. Le teorie economiche considerano quindi il progresso tecnico come un fattore esogeno. Il progresso riduce i costi di produzione, ma l’analisi economica neoclassica ne analizza solo gli effetti e non le cause.

 

Ci sono però nuove teorie economiche che cercano includerere anche il progresso tecnico.

 

Teoria input – output. La tavola delle dipendenze settoriali dà una fotografia del progresso tecnico, in quanto una sua modificazione cambia i rapporti tra le matrici. Le matrici di questa tavola possono perciò essere utili anche per fare un’analisi strutturale del processo tecnico.

I primi modelli della crescita economica non comprendono il progresso tecnico, né come fattore esogeno, né come fattore endogeno.

 

Modelli post keynesiani: modello di Domar. g = s/V = n  v=k/y

L’economia post keynesiana si pone un problema: come crescono le economie in equilibrio, cioè senza generare inflazione o disoccupazione?

Secondo il modello di Domar il tasso di crescita g è determinato dal tasso di risparmio s, cioè dal rapporto tra risparmio e reddito e da v, che è il rapporto tra capitale k per unità di bene prodotto, y. Il tasso di risparmio è importante in quanto il risparmio permette l’accumulazione, che dà origine all’investimento. L’investimento migliora le capacità economiche di un sistema, quindi senza investimento l’economia si scontrerebbe prima o poi con i vincoli della capacità produttiva. Il capitale incorporato in ogni unità di bene è una misura inversa della produttività e il progresso tecnico è un modo per migliorare questa produttività, il cui aumento si ripercuoterà poi sul tasso di crescita. N indica il tasso di crescita della popolazione ed è un vincolo sotteso a questi modelli di crescita: senza crescita della popolazione, che è forza lavoro e capitale umano, non ci può essere crescita economica in equilibrio.

 

Modelli post keynesiani: modello di Kaldor. g(n) = 1/s = p/k

Il tasso di crescita che dipende da n è legato ad s, cioè alla capacità di risparmiare. Diversamente dal modello di Domar, è legato anche ai profitti p in rapporto al capitale k. Il saggio di profitto è importante perché serve a superare un vincolo alla produzione. I profitti infatti vengono reinvestiti, mentre i salari vengono semplicemente spesi, e l’investimento serve a superare il vincolo della capacità produttiva. L’accumulazione e l’investimento in questo modello non sono finanziati dai risparmi, ma dai profitti (come se ci fosse un sistema finanziario poco sviluppato). In questo modello entra in gioco anche la distribuzione del reddito, perché in un sistema in cui i profitti vengono compressi a favore dei salari, l’accumulazione si riduce e il sistema urta contro i vincoli di capacità produttiva. Se p/k viene compresso, la crescita è minore.

 

A seguito della critiche a questi modelli viene preso in considerazione anche il progresso tecnico, come fattore esogeno.

 

Modelli neoclassici: Solow.

In questo modello sono importanti le quantità P, il saggio di profitto, che è il rapporto tra profitti e salario, e la quantità K, l’intensità del capitale nel processo produttivo, cioè il rapporto tra capitale e lavoro. Quest’ultima quantità può essere una misura di quanto prevalgano i mezzi tecnici o il lavoro umano. Inoltre Solow fa due ipotesi: rendimenti di scala costanti e rendimenti marginali decrescenti. La prima ipotesi implica che il rendimento dei fattori di produzione non varia al variare delle dimensioni dei processi produttivi, la seconda che i prodotti marginali del lavoro e del capitale sono decrescenti.

 

                                   P

 

 

 

 

 

 

 

 


K

Secondo questo modello, il rapporto P /K è decrescente, perciò se aumenta la quantità di capitale per unità di lavoro, diminuisce il saggio di profitto. Tra i valori possibili, l’industria sceglierà la tecnica di produzione, dando più peso al capitale o al lavoro, in base ai costi dei fattori di produzione. L’equilibrio tra i fattori di produzione dovrà inoltre essere coerente con il saggio di produzione: in questo senso il saggio di produzione definisce le caratteristiche del processo di produzione. Inoltre il saggio di produzione dovrà essere coerente con le indicazioni del mercato.
Se in un paese ho abbondanza di lavoro e scarsità di capitale, ciò spingerà ad un aumento del saggio di profitto, in quanto i salari sono bassi. In un paese dove c’è poco lavoro disponibile e a prezzo alto, i salari saranno più alti e il saggio di produzione minore.

Quindi è la distribuzione tra profitti e salario che mi porta a decidere l’intensità di capitale per unità di lavoro, perciò a scegliere tra diverse combinazioni di fattori produttivi. E’ fondamentale perciò la flessibilità dei salari, per poter scegliere le tecniche produttive coerenti con il mercato e con la distribuzione del reddito.

Critiche.

Il modello non funziona nella realtà perché nel tempo l’intensità di capitale per unità di lavoro tende a crescere e al tempo stesso crescono la produttività di capitale e lavoro, ma la distribuzione del reddito tra salari e profitti (P) non varia. Si ha quindi un aumento dell’intensità di capitale, ma non una diminuzione del saggio di profitto. Perciò Solow introduce un altro elemento: il concetto di progresso tecnico, che va al di là del rapporto k/l e riguardi la possibilità di aumentar la produttività di capitale e lavoro.

Solow riscrive la funzione di produzione come Q = f(L, K, t). t è un fattore tempo, una variabile strumentale che approssima l’effetto del miglioramento tecnico. Occorre perciò analizzare anche il modo in cui il tempo agisce sul progresso tecnico. Il progresso tecnico agisce sulla funzione di produzione attraverso il coefficiente l. Mentre il tasso di crescita nel modello di Domar era uguale alla crescita della popolazione, Solow formula l’equazione g = n + l. Il fattore progresso tecnico è comunque posto in modo esogeno: viene incorporato nel modello, ma assunto dall’esterno.

 


Modelli successivi.

I modelli successivi hanno l’obiettivo di spiegare il progresso tecnico non assumendolo come progresso tecnico e di incorporarlo nei modelli economici. I modelli possono essere suddivisi in tre famiglie:

  • Modelli con rendimenti di scala crescenti
  • Modelli con rendimenti di scala costanti, ma con riferimenti espliciti del progresso tecnico
  • Modelli empirici che cercano di contabilizzare il progresso tecnico

 

1) Modelli con rendimenti di scala crescenti.

Questa famiglia di modelli assumono che i rendimenti di scala siano crescenti e non più costanti come nei modelli neoclassici. I rendimenti di scala costanti impediscono infatti di considerare pienamente il progresso tecnico, mentre i rendimenti di scala crescenti prevedono che al crescere delle dimensioni del processo produttivo cresce anche il rendimento dei fattori produttivi.

Già in Smith, con il concetto di divisione del lavoro, è presente in embrione il concetto dei rendimenti di scala crescenti.

Il rapporto tra mercato e divisione del lavoro viene poi ripreso da Young, per il quale il mercato si crea perché c’è la divisone del lavoro, ma è altrettanto vero che il mercato spinge alla divisione del lavoro e quindi all’aumento della produttività. E’ quindi l’estensione del mercato che regola il rendimento dei fattori produttivi, spingendo alla divisione e alla specializzazione del lavoro.

Per Keldor non è soltanto la produttività del capitale a determinare l’investimento, ma è anche valida la relazione inversa. Solo quando si investe su grande scala è possibile avere un’alta produttività. E’ necessario perciò che i processi produttivi abbiano grandi dimensioni. più aumentano le dimensioni, più si accumulano conoscenze e investimenti, più aumenta la produttività.

Arrow introduce il concetto di “apprendimento generato dall’attività produttiva” (learning by doing), cioè che se è vero che le conoscenze sono fattori della produzione, è vero anche il contrario.

Per Romer nella singola impresa l’efficienza è indipendente dalla scala di produzione, ma quando si considerano le imprese aggregate, cioè l’Industria, quanto questa è più grande, tanto più genererà conoscenza di cui beneficeranno altre imprese migliorando così la produttività. Per Romer ciò che conta quindi è la dimensione del complesso delle imprese, per cui i rendimenti di scala sono costanti per la singola impresa e crescenti per l’industria.

Marshall analizza le condizioni per cui le piccole e medie imprese sono competitive come le grandi imprese attraverso il concetto di distretto industriale. Il distretto industriale è un sistema di piccole e medie imprese che operano a livello locale specializzate in un’attività produttiva. Le imprese che appartengono al distretto industriale riesce ad essere molto efficiente, tecnologicamente avanzato e perciò con elevata produttività. Questo modello spiegava come anche le piccole medie imprese potessero realizzare un’alta produttività, se aggregate in un distretto industriale dotato di infrastrutture fisiche ed immateriali (sistemi di trasferimento della conoscenza).

Con i modelli che considerano rendimenti di scala crescenti il progresso tecnico diventa endogeno: tanto più cresce la scala dell’impresa, maggiore è il progresso tecnico e quindi la produttività.

 

2) Modelli con rendimenti di scala costanti, ma con riferimenti espliciti del progresso tecnico

Teoria del capitale umano (Becker). Il capitale è il bene prodotto in grado di produrre altri beni e che esplica la sua attività nel tempo. Questo vale per il capitale fisico, ma anche per quello umano. Il capitale umano può essere creato attraverso l’istruzione, che serve a creare un fattore produttivo importante quanto il capitale fisico. Il lavoro non è un fattore produttivo che si trova in natura, ma va in prodotto attraverso investimenti (à learning by schooling). Imprese, sistemi locali e pubblici devono investire nella produzione di capitale umano.

Innovazione tecnologica. L’innovazione tecnologica non consiste sono in investimenti espliciti nelle conoscenze, ma anche nell’applicazione di nuove tecniche e nella capacità di rispondere agli stimoli del mercato. Schumpeter cerca di spiegare come l’innovazione tecnica generi produttività attraverso il concetto di “distruzione creatrice”. Il processo distruttivo tipico del capitalismo produce innovazione continua, perciò un progresso tecnico e della produttività. L’innovazione tecnologica segue un ciclo: viene prodotta, viene introdotta nella produzione, produce prodotti maturi ed infine esce dalla produzione. I cicli tecnologici sono più lunghi di quelli economici ed hanno influenza su di loro.

Rapporto produzione – produttività. Il ciclo economico non è solo un ciclo di produzione, ma anche di produttività: un aumento della produzione spinge ad un aumento della produttività. Secondo la visione di Verdoorn tutte le politiche che cercano di far crescere l’economia aumentano anche la produttività. Okun invece afferma che la produttività si muove in modo prociclico, cioè segue l’andamento del ciclo economico. Ciò accade perché Okun individua alcuni fattori produttivi fissi o quasi fissi, che non possono essere smantellati quando il ciclo economico è negativo, come ad esempio il lavoro o il capitale. Non potendo perciò ridurre il peso dei fattori produttivi in periodi di recessione, le imprese ne riducono la produttività in modo da abbassare comunque il livello di produzione. Perciò se si vuole mantenere alta la produttività occorre garantire la flessibilità del capitale e del lavoro.

Incorporazione del progresso tecnico (Kaldor). Il progresso tecnico non avviene in astratto, ma si incorpora negli strumenti di produzione. Quando un’impresa  investe in macchine sostituendo i vecchi modelli il progresso tecnico viene incorporato nel processo produttivo. L’investimento è lo strumento e la misura del progresso tecnico. I beni di investimento migliorano le loro capacità produttive con il passare del tempo e studiando come le diverse invenzioni entrano nei processi produttivi si può studiare il progresso tecnico. Si parla di “annate” del progresso tecnico.

Legando progresso tecnico ed investimenti, Kaldor ha stabilito un legame forte tra economia e progresso tecnico: c’è progresso tecnico solo quando le imprese investono in macchine che lo incorporano; senza investimento non c’è progresso, ma solo scienza. Il modo migliore per garantire il progresso tecnico è quindi garantire un’elevata crescita economica.

 

3) Modelli empirici che cercano di contabilizzare il progresso tecnico

Questi modelli distinguono tre tipi di progresso tecnico: il progresso tecnico che risparmia lavoro, quello che risparmia capitale e il progresso tecnico neutrale. Il progresso tecnico può portare a risparmiare lavoro perché le macchine migliorano la loro efficienza o può portare a risparmiare capitale perché una macchina può fare il lavoro di più macchine.

Occorre capire quanto progresso tecnico si incorpora e quanto non si incorpora nei beni di produzione. Infatti il livello di efficienza dei beni di produzione è il massimo ovunque, ma le produttività sono diverse tra paese e paese. Per spiegare questa differenza si usa il concetto di progresso tecnico non incorporato, cioè quella parte del progresso tecnico che non entra nei beni di investimento, ma è esterno, intangibile e sta nell’organizzazione.

Denison cerca di contabilizzare il progresso tecnico attraverso il metodo del residuo. Denison identifica i fattori del progresso tecnico in lavoro, capitale e investimenti e ne esamina il diverso peso nei diversi paesi. Questi fattori però non spiegano che una parte dei differenziali di crescita tra i diversi paesi. La parte residua costituisce il progresso tecnico non incorporato, che Denison considera il vero progresso tecnico. Il progresso non incorporato è indipendente da lavoro e capitale e spiega la differenza di crescita.


Modelli evoluzionistici del cambiamento tecnico.

 

Gli economisti neoclassici, che hanno costruito i loro modelli sulla base di analogie con la fisica, avevano una concezione atomistica dell’impresa, che era vista come un’entità base, isolata, capace di prendere decisioni in base agli stimoli del mercato, cioè offerta, domanda e prezzi. Le decisioni da prendere sono vincolate dalla massimizzazione dei profitti. L’impresa è perciò solo un astrazione che compie il procedimento matematico della massimizzazione vincolata.

Questo modello non soddisfa più gli economisti: l’impresa non è solo un ente astratto, ma nasce, muore, cresce come un essere vivente.

 

TEORIA DELL’IMPRESA.

L’impresa, secondo le concezioni più moderne, non è un’unità elementare, ma un fatto complesso al cui interno ci sono persone che interagiscono tra di loro.

Berle e Means, nel loro libro pubblicato nel ’32, analizzano il momento in cui si passa dal modello familiare di impresa alla società per azioni. In questo momento si verifica la separazione tra proprietà e controllo, che non spetta più al proprietario, ma al manager, che è colui che assume le decisioni. La separazione tra proprietà e controllo è un elemento di trasparenza nella gestione dell’impresa.

Penrose analizza la crescita dell’impresa, che era un fatto non considerato dalla teoria atomistica dell’impresa. L’analisi economica moderna cerca di spiegarsi perché le imprese crescano o meno e la Penrose lo fa utilizzando la curva della crescita.

Teorie manageriali dell’impresa: in una società in cui le grandi imprese si strutturano come società di capitali, ciò che fa l’impresa è il management. Gli obbiettivi del management non sono sempre in linea con quelli della società, in quanto non hanno come obbiettivo la soddisfazione degli azionisti, ma la crescita dell’impresa. L’obiettivo del management è quello di aumentare le vendite e di mantenere il controllo dell’azienda evitando cambi dell’azionariato che possano portare a cambi del management. Le teorie manageriali spiegano il rapporto tra obiettivi degli azionisti e obiettivi dei proprietari.

Teorie psicologiche e comportamentistiche: l’oggetto di questa teoria è come si assumono decisioni in contesti di variabilità ed incertezza. Questi autori non ipotizzano la razionalità e l’informazione perfetta e tengono conto di come le persone rispondono agli stimoli e all’ambiente. Si applica il concetto di omeostasi all’impresa per cercare di capire come risponda agli stimoli.

Teorie istituzionaliste: l’impresa è un’istituzione, un operatore economico che fa funzionare il mercato. L’impresa però non è il mercato, è ad esso alternativo in quanto un mercato si può realizzare all’interno dell’impresa stessa. Perché l’istituzione essenziale per il mercato è ad esso alternativo? Nelle teorie neoclassiche per spiegare il mercato si ipotizza che non esistano imprese, almeno per come le conosciamo noi. Invece l’impresa nasce come istituzione che cerca di sottrarre una rete di interazioni al mercato.

Coase e Williamson cercano di spiegare come nell’economia di mercato nasca l’impresa. La complessità e l’ampiezza delle relazioni che avvengono sul mercato fa nascere delle istituzioni che si pongono fuori di esso. I costi di gestione di un mercato e di analisi dei costi e benefici sono così alti che nasce l’impresa, un’organizzazione per ridurre al massimo i costi, aumentare i benefici e far circolare liberamente le informazioni. Le istituzioni non sono create in opposizione al mercato, ma è il mercato stesso che le crea.

Il progresso tecnico si genera perché l’impresa è l’organismo che produce, gestisce e riproduce la conoscenza in un contesto caratterizzato da incertezza e forte cambiamento. I due concetti chiave di questa teoria sono routine e competenza.

Routine: l’impresa si forma incorporando la conoscenza in routine, cioè in comportamenti ripetitivi che costituiscono l’essenza dell’impresa. La rete di interazioni che costituisce l’impresa si consolida dando luogo alla routine. Le routine sono conoscenza coagulata.

Competenze: capacità delle imprese di affrontare e risolvere problemi. Le competenze possono essere esplicite o informali: le competenze esplicite sono codificate, quelle informali no, sono competenze tacite che non si incorporano in qualcosa di tangibile. Le conoscenze esplicite ad esempio danno luogo ai brevetti, che garantiscono all’impresa lo sfruttamento delle proprie scoperte. Le conoscenze implicite sono tipiche delle piccole e medie imprese.

L’impresa genera conoscenza creando routine e sviluppando la capacità di cambiamento per reagire a nuovi stimoli.

 

I vantaggi dei modelli evoluzionistici:

1) I modelli evoluzionistici ci consentono di capire perché l’impresa si organizza in un modo e non in un altro. L’organizzazione dell’impresa non è un fatto esogeno, ma ha una spiegazione economica. I fattori legati alla gestione della conoscenza determinano l’organizzazione dell’impresa. I legami all’interno di un’impresa derivano dal modo in cui vengono gestite le informazioni. Se le conoscenze sono compresse, ma costanti, l’organizzazione sarà centralizzata e gerarchica. Se le informazioni sono molto variabili e differenziate l’organizzazione sarà decentrata e poco gerarchica.

2) Perché in un mercato ci sono industrie nuove che riescono ad inserirsi? Questo si spiega con il ciclo delle conoscenze. Le imprese possono legarsi a traiettorie del ciclo del progresso tecnico e in questo modo possono affermarsi sul mercato. Perciò è importante non solo consolidarsi su una tecnologia che prima o poi inizierà ad essere sorpassata, ma anche saper passare da una traiettoria all’altra. Se ci si consolida su una traiettoria diventa poi difficile rinnovarsi.

 


                Mainframe                    PC                      Palmari

CICLI DEL PROGRESSO

                                                                                                                      TECNICO

 

 

3) L’ambiente in cui operano le imprese diventa un elemento importante nello sviluppo del progresso tecnico. La tassazione, le regolamentazioni, gli incentivi e la preparazione scolastica sono fattori importanti per capire le cause del progresso tecnico. A questo proposito si parla di regime tecnologico, cioè egli aspetti istituzionali legati al progresso tecnico. Il regime tecnologico definisce i dati d’ambiente in cui operano le imprese. Inoltre occorre che ci sia un sistema razionale o locale di innovazione, in quanto l’innovazione si genera anche perché le imprese costituiscono un sistema che consente loro di competere efficientemente.

4) Criteri per spiegare l’integrazione di impresa: perché l’impresa decide di integrare o espellere da se stessa altri settori produttivi a valle o a monte del settore produttivo primario? (Esempio: un’impresa che produce motori a monte si può espandere acquisendo acciaierie, a valle può integrare la produzione di automobili). Tempo fa il modello predominante era quello dell’integrazione verticale (cioè acquisire settori a monte e a valle della produzione principale). Oggi questo modello è entrato in crisi e si parla di disintegrazione verticale: le fasi del processo produttivo vengono divise tra di loro ed alcune di queste fasi vengono esternate (processo di outsourcing). In questo modo l’impresa si specializza in una fase per diventare più efficiente. L’integrazione verticale dà un maggior controllo del processo produttivo, mentre l’outsourcing consente una maggiore efficienza. Decidere per l’integrazione o per la disintegrazione dipende dalla struttura dei processi di conoscenza.

5) Reti di impresa. Il concetto di produttività era legato o ad una singola o ad un sistema. Le reti di impresa sono un concetto di dimensione intermedia tra impresa e sistema: è un gruppo di imprese legate tra di loro che diventano competitive se le relazioni sono efficienti. Sul concetto di rete di imprese si fonda l’analisi dei distretti industriali e la spiegazione di come le piccole e medie imprese possano produrre innovazione pur senza ricerca di brevetti. Le reti di impresa inoltre sopperiscono alla mancanza di infrastrutture.

 

Gli anni ’90: la new economy.

 

Formalmente questo concetto nasce nel dicembre ’94 quando il governatore della Federal Riserve Alan Greenspan lo inserisce in un discorso sullo stato dell’economia americana. La crescita economica che stava avendo luogo negli USA era dovuta non alla domanda, ma al progresso tecnico. Questa nuova economica rende possibili tassi di crescita elevati senza generare inflazione perché avvengono due fenomeni nuovi: l’aumento continuo della produttività e la globalizzazione, che permette di superare i limiti di un mercato rivolgendosi ad un altro mercato. In questa fase di espansione veniva a mancare il trade-off tra occupazione e inflazione, in quanto si creavano posti di lavoro, ma non aumentava il livello dei prezzi. Questo tipo di economia era reso possibile dalla politica monetaria americana basata su bassi tassi di interesse, che si può fondare appunto solo su aspettative di una crescita senza inflazione.

 

Le politiche monetarie adottate negli anni ’90 non sono state adottate prima in quanto non si era verificato lo scenario descritto dalla new economy e i bassi tassi implicavano generalmente un aumento di inflazione. In questo momento manca l’inflazione perché non ci sono rivendicazioni salariali che hanno un effetto inflativo. Questo fenomeno si verifica in quanto c’è una riserva di lavoro flessibile a cui attingere e perché il progresso tecnico permette di risparmiare lavoro, evitando il surriscaldamento dei salari. Si parla a questo proposito di “jobloss recovering”, cioè di crescita economica tirata dalla produttività e senza produzione di maggiore occupazione. Inoltre la crescita americana di questi anni è basata sull’outsourcing di fasi produttive all’esterno, con un’ulteriore perdita di occupazione.

 

Il fenomeno dell’outsourcing si verificano anche in Italia negli  anni ’70 ed era detto “decentramento produttivo”: le industrie esternavano alcune fasi secondarie della produzione. Questo fenomeno dava luogo ad una diminuzione dell’occupazione nel settore secondario e ad un aumento della stessa nel settore terziario, che forniva alle imprese i servizi esternalizzati. Negli anni ’90 questo fenomeno di decentramento produttivo si è associato all’internazionalizzazione, dando luogo ad outsourcing anche all’estero.

 

Questa teoria non è unanimemente accettata perché il progresso tecnico non sempre genera crescita economica. In questo caso si parla di paradosso del progresso tecnico: gli anni ’80 sono stati un decennio contrassegnato da un grande sviluppo tecnico, ma la produttività non era aumentata e l’economia era stata in recessione.

Per spiegare questo fenomeno Paul David propone di adottare una prospettiva di medio lungo periodo: il progresso tecnico ha luogo in un certo momento, ma l’impatto sull’economia va valutato dopo un certo lasso di tempo. Inoltre l’innovazione capace di generare sviluppo è un’innovazione aspecifica, che può essere incorporata in tutti i processi produttivi. L’innovazione procede a salti grazie ad invenzioni aspecifiche che solo in un secondo momento vengono applicate ai processi produttivi generando sviluppo. Perciò il paradosso del progresso tecnico non è un vero paradosso.

 

La new economy permette nuove politiche monetarie, fiscali ed un tasso interesse più elevato del passato a parità di inflazione. Tre grandi questioni:

  • Queste politiche sono possibili fondate? Lo scenario descritto si è verificato o no? E dove? Per quali cause?
  • Come si misura il progresso tecnico? La new economy esiste o deriva solo dal fatto che non riusciamo a misurare il progresso tecnico?
  • Perché il progresso tecnico non ha luogo uniformemente in tutto il mondo?

 

1) Dal punto di vista macroeconomico esistono studi che cercano di dimostrare che la crescita economica negli anni ’90 c’è stata e che questo aumento ha avuto luogo proprio per il progresso tecnico per capire se si è veramente verificato lo scenario descritto dalla teoria della new economy. I fattori della crescita sono effetti di produzione, di utilizzazione e di produttività totale dei fattori di produzione.

    • Effetti di produzione. Si è osservato che la produttività nelle industrie di produzione è aumentata ed è molto alta in alcuni settori ad alta tecnologia (biotecnologie, tecnologie per l’informazione, nanotecnologie), quindi quei paesi che si sviluppano in questi settori godono di un’alta crescita economica.
    • Effetti di utilizzazione. L’utilizzo delle nuove tecnologie genera crescita anche nello stato che non le produce. Ciò che conta per la crescita economica è l’effetto di utilizzazione, ma perché si verifichi questo effetto occorre che l’innovazione superi una certa soglia: solo quando l’innovazione viene applicata ad un numero importante di proci produttivi si ha un “salto in avanti” della produttività, altrimenti c’è progresso tecnico ma non c’è tecnica (esempio: 1 telefono è inutile, 2 telefoni sono poco utili, se tutte le aziende hanno il telefono è molto utile)
    • Produttività totale dei fattori di produzione. Un altro fattore della crescita è presente dove i diversi settori di produzione riescono ad organizzarsi tra loro in maniera efficiente.

Per alcuni autori questi effetti determinati dal progresso tecnico si applicano solo ai settori ad alta tecnologia, mentre hanno poca influenza sugli altri settori, che non ne risentono. Poiché questi settori sono di poco peso nell’economia di uno stato, negano l’esistenza della new economy o si limitano ad affermare che questo scenario sia valido solo per pochi e poco importanti settori dell’economia.

Ciò che conta per la crescita economica è l’effetto di utilizzazione, ma perché si verifichi questo effetto occorre che l’innovazione superi una certa soglia: solo quando l’innovazione viene applicata ad un numero importante di proci produttivi si ha un “salto in avanti” della produttività, altrimenti c’è progresso tecnico ma non c’è tecnica (esempio: 1 telefono è inutile, 2 telefoni sono poco utili, se tutte le aziende hanno il telefono è molto utile)

 

2) E’ difficile misurare la produttività di un bene intangibile ed è difficile separare l’effetto del prezzo dall’aumento della produttività. Inoltre è difficile computare anche l’aumento della qualità nella produttività (esempio: se un anno produco lo stesso numero di computer dell’anno prima, ma con una potenza doppia, la produttività della mia azienda è rimasta la stessa, anche se in effetti dovrebbe essere aumentata perché è aumentata la qualità). Non cogliendo gli aspetti qualitativi si sottostima la produttività.

 

3) Il gap tra Europa e Stati Uniti esiste non perché l’Europa abbia una minore produttività né perché sia meno all’avanguardia nei settori ad alta tecnologia, ma perché ha minore capacità di utilizzo dell’innovazione. La causa del differenziale di crescita sta nella capacità del sistema economico statunitense di estendere l’alta tecnologia a settori che non la producono, come i servizi: la produttività dei servizi (tra cui: commercio, trasporti, utilities pubbliche, logistica) negli USA è maggiore che in Europa. Nei servizi in Europa prevale un modello pubblicistico, basato sul ruolo dello stato e sulle regolamentazioni che lo stato produce. In America ci sono molte meno regole e una maggiore iniziativa privata. L’iperregolamentazione in Europa influisce anche sull’accesso al business, per garantire la tenuta dei prezzi. Gli USA sono all’avanguardia anche per quanto riguarda la grande distribuzione, la liberalizzazione dei servizi e il settore finanziario.

 

IL CASO DELLA GRAN BRETAGNA

L’Inghilterra fino agli anni ’70 era uno dei paesi con maggior numero di premi Nobel e di scoperte scientifiche procapite, ma anche un paese molto rigido per quanto riguarda il settore produttivo. Negli anni ’80 è fortemente cambiato l’ambiente produttivo inglese con la deregolamentazione e la liberalizzazione di molti settori. L’economia inglese è diventata maggiormente flessibile e maggiormente produttiva.

 

Linee di sviluppo del pensiero economico dopo la teoria della new economy

  • Studi macroeconomici per contabilizzare il progresso tecnico e trovarne le cause
  • Studi microeconomici sul progresso tecnico: organizzazione delle imprese, flusso degli investimenti.
  • Misura della qualità
  • Analisi comparativa del progresso tecnico tra diversi sta

 

Proposte di politica economica legate al progresso tecnico: la strategia di Lisbona.

Durante il Consiglio Europeo svoltosi a Lisbona nel 2000 l’UE ha decis di occorre investire nel progresso tecnico per rendere l’economia europea una knowledge-based economy e per renderla l’economia più dinamica del mondo. Ci si è dato un lasso di tempo di 10 anni e sei punti fondamentali

    • E-Europe: il progresso tecnico va fondato sulle tecnologie digitali e delle telecomunicazioni. Queste nuove tecnologie devono entrare i tutti i settori e diffondersi tra tutta la popolazione. Occorre anche prestare attenzione al fatto che nuove tecnologie creano nuove disparità tra chi può accedervi e chi non può: la componente tecnologica deve entrare nelle politiche di redistribuzione del reddito.
    • Il mercato interno: occorre avanzare nella creazione del mercato unico che va esteso anche ai servizi, alla circolazione della manodopera, al riconoscimento delle qualificazioni a livello unitario.
    • Unificazione dei mercati finanziari: va favorita la creazione di grandi anche europee e di grandi società di servizi finanziari
    • Spazio europeo della ricerca: occorre investire nella ricerca e creare per essa uno spazio europeo unico
    • Spirito imprenditoriale: il capitale imprenditoriale è essenziale per produrre e diffondere le nuove tecnologie. Occorre che ci siano capacità di impresa per trasformare le scoperte in progresso
    • Strumenti finanziaria adeguati a queste politiche, per favorire la ricerca, il recupero dei dislivelli tra le regioni più o meno sviluppate. Occorre dare luogo a politiche che sostengano queste priorità.

Per incentivare questi obiettivi si usa la strategia del benchmarking, che consiste nell’identificazione di alcuni specifici obiettivi rilevabili in maniera quantitativa e nell’identificare alcuni parametri precisi che consentano la misura e il confronto del raggiungimento degli obiettivi.

I parametri più importanti sono:

  • tasso di occupazione, che deve arrivare al 70%
  • tasso di disoccupazione, che deve scendere fino al 4%
  • tasso di occupazione femminile, che deve arrivare al 60%
  • tutte le scuole europee devono essere connesse ad internet
  • aumento del 50% degli investimenti in risorse umane in percentuale sul PIL
  • dimezzare la percentuale dei giovani con basso livello di istruzione
  • ridurre i tassi di incidenza della povertà dal 18% al 10%

Il benchmarking è uno strumento molto potente, perché una volta che si fissa un obiettivo in maniera quantitativa, è molto più facile misurarne il raggiungimento e si innesca un processo di emulazione tra paesi. Inoltre questo sistema di coordinamento, detto “coordinamento aperto”, è compatibile con la sovranità degli stati nazionali, che hanno di libertà nello scegliere le politiche per giungere agli obiettivi fissati.

 

Il vertice mondiale delle nazioni unite sulla società dell’informazione – WSIU

    • si svolge in due tappe
    • si focalizza sugli aspetti tecnici: il progresso tecnico
    • alla partecipazione è ammessa la società civile, in quanto su questi temi gli stati non possono essere gli unici interlocutori. Le discussioni nascono da problemi tecnici, ma comportano decisioni a livello politico.

IL MERCATO E LE FORME DI MERCATO

 

Esistono due meccanismi di allocazione delle risorse scarse: 

Lo stato: lo stato alloca le risorse scarse attraverso l’economia pubblica, o economia del comando. Le risorse vengono allocate in base ad alcuni criteri definiti dall’autorità di politica economica: si ha un’economia pianificata.

Il mercato. L’istituzione del mercato è alla base dell’economia di mercato, capitalistica. Questo meccanismo è caratterizzato dalla proprietà privata, dalla libertà d’iniziativa, dalle decisioni decentrate prese dagli individui, dalla piena e perfetta informazione per ciò che riguarda le scelte da compiere, dalla razionalità perfetta delle scelte, dalla garanzia del rispetto dei contratti.

 

Tesi dell’economia del benessere.

Il mercato è il meccanismo per l’allocazione efficiente delle risorse, tanto nella produzione che nello scambio.

Questa tesi si basa sulla teoria dell’efficienza paretiana, secondo la quale nel mercato si raggiunge un massimo, l’ottimo paretiano, in cui non si può migliorare nulla senza danneggiare qualcos’altro. L’efficienza massimizza il benessere degli operatori economici. Questa teoria non è pienamente soddisfacente se si assume un’ottica distributiva e si fanno considerazioni di giustizia sociale: si può decidere di rinunciare alla massima efficienza in cambio della giustizia. Comunque dal punto di vista economico bisogna puntare all’ottimo paretiano e per giungere a questo obiettivo bisogna utilizzare il mercato.

In un mercato in cui c’è concorrenza perfetta c’è equilibrio. L’equilibrio è una soluzione ottimale per l’allocazione di risorse scarse perché massimizza i benefici degli operatori economici.

Inoltre l’equilibrio è una condizione che tende a mantenersi nel tempo, mentre lo squilibrio è una situazione instabile. Inoltre all’equilibrio si ha il market clearing, cioè non ci sono né eccessi di domanda né di offerta. L’equilibrio economico è generale perché i vari settori di produzione e di scambio sono interdipendenti tra di loro, per cui l’equilibrio tende a stabilirsi in tutti i settori dell’economia. In un mercato a concorrenza perfetta i prezzi non li fanno gli operatori economici, ma il fa il mercato. Il fattori che stanno alla base dell’equilibrio (come la tecnologia o le preferenze) sono indipendenti dagli operatori, sono dati, per cui le scelte dell’imprenditore sono quasi automatiche.

 

Nella realtà siamo lontani dall’ottimo paretiano (d’altro canto è stato anche dimostrato come l’economia pianificata sia profondamente inefficiente). La rappresentazione della realtà della microeconomia classica è molto diversa dalla realtà.

  • Le imprese non sono price-takers, ma fanno il prezzo in quanto sono di dimensioni sufficientemente grandi per influenzarlo
  • Le imprese non riescono a fare il market clearing
  • Le scelte degli operatori non sono neutre né automatiche, ma incidono sulla tecnologia e sui costi.
  • Le scelte delle famiglie possono influenzare le preferenze ed essere influenzate (per esempio dalla pubblicità o da meccanismi di imitazione)
  • Le informazioni non sono date e perfette, ma sono imperfette e frutto di un’attività economica
  • Non è vero che nell’economia di mercato i venditori sopportano i costi di portare sul mercato i beni mentre i consumatori ne godono i benefici
  • Non esistono tutti i mercati necessari à non esiste la completezza dei mercati
  • Esistono disoccupati involontari, cioè avviene il market clearing sul mercato del lavoro
  • Il mercato concorrenziale garantisce un’allocazione efficiente delle risorse, ma non soddisfa criteri di giustizia
  • Esiste lo stato, non previsto dai modelli microeconomici, che gioca un ruolo fondamentale.

 

Linee di studio per capire le cause della discrepanza tra teoria e realtà

  • Analisi delle forme di mercato esistenti. Il mercato in concorrenza perfetta non esiste, è solo un’astrazione. Occorre perciò studiare le forme di mercato che troviamo nei vari settori economici
  • Modelli economici di disequilibrio. L’economia non è fatta solo di stati di equilibrio, ma anche di squilibri. L’analisi economica deve studiare come si verificano e come si mantengano nel tempo
  • Analisi dell’informazione imperfetta.

 

Le forme di mercato

Ci sono diverse forme di mercato studiate dall’analisi economica. Quali sono le cause che danno luogo alle differenze tra i modelli teorici e quelli reali?

    • Progresso tecnico. Se il progresso tecnico è considerato un fattore esogeno, possiamo avere un modello di mercato a concorrenza perfetta. Poiché però il progresso tecnico è un elemento endogeno all’economia, i modelli si allontanano dalla concorrenza perfetta. L’impresa che riesce a creare un prodotto prima delle altre grazie ad un’innovazione, non è, per definizione, in concorrenza.
    • Il cambiamento della struttura dei consumi. Le preferenze possono essere considerate come date, ma è una semplificazione eccessiva della realtà. L’evoluzione delle preferenze può essere spiegata attraverso sistemi economici.
    • I monopoli naturali impediscono la formazione di mercati concorrenziali, anche se vanno via via sparendo grazie all’innovazione tecnologica.
    • Barriere all’entrata. Nel modello di concorrenza perfetta si ipotizza che non ci siano barriere all’entrata, che invece esistono: barriere legali, legate ai costi di ingresso irrecuperabili (sunk costs), legate ai costi dell’informazione.
    • Strategie di mercato. L’impresa non cerca la concorrenza, ma la protezione. Spesso ci si allontana dalla concorrenza perfetta non per cause naturali o legali, ma per strategie di politica economica

Per migliorare il funzionamento dei mercati esistono accordi internazionali o autorità nazionali, come l’antitrust.

 

I diversi settori economici hanno diverse forme di mercato; per ogni mercato occorre studiare le condizioni specifiche che si verificano in esso, capire come si organizza e perché. L’analisi economica si sposta sempre più dall’analisi del mercato in generale all’analisi economica settoriale.

    • Il mercato delle materie prime. Le materie prime sono input non prodotti commerciati a livello mondiale. I loro costi di produzione sono molto bassi, mentre sono più rilevanti i costi di trasporto e distribuzione. Questi mercati sono spesso in condizioni di monopolio (pubblico o privato) o di oligopolio, mentre c’è una maggiore concorrenza nel momento della distribuzione. In alcuni settori industriali il mercato sta sempre più assomigliando a quello delle materie prime: si parla in questi casi di commoditization (per esempio il settore dei microchip).
    • Il mercato dei prodotti agricoli. I prodotti agricoli sono prodotti omogenei, l’attività agricola è caratterizzata da rendimenti crescenti e costi decrescenti ed è difficile porre barriere all’entrata. L’agricoltura può causare diseconomie esterne, ad esempio riguardo alle scorte (carestie) o all’ambiente (sfruttamento eccessivo), per questo è fortemente regolamentata. Il settore agricolo fornisce beni essenziali alla società, per cui è un settore strategico, oggetto di un forte protezionismo. Inoltre, come il settore delle materie prime, il mercato dei beni agricoli è un mercato dove gli investitori possono spostare i loro soldi, per cui soggetto a sbalzi anche bruschi dei prezzi. Anche per stabilizzare i prezzi e prevenire effetti speculativi che avrebbero conseguenze sui consumi della popolazione e sulla produzione industriale, lo stato interviene pesantemente nel settore agricolo. Il protezionismo, praticato per lo più dai paesi industrializzati, che possono permettersi aiuti ingenti ai propri agricoltori, è criticato dai paesi in via di sviluppo in quanto concorrenza sleale.
    • Mercato dei prodotti industriali. Per quanto riguarda i prodotti industriali prevalgono mercati oligopolistici o di concorrenza monopolistica. Il settore industriale è caratterizzato da rendimenti di scala crescenti, quindi da imprese grandi e forti barriere all’entrata. Questi mercati hanno la tendenza a diventare sempre più oligopolistici, per cui si è sentita l’esigenza di applicare regolamentazioni antitrust.
    • Mercato dei beni meritevoli (merit goods). I beni meritevoli sono prodotti industriali o più spesso servizi che toccano interessi pubblici essenziali. Sono beni il cui consumo dev’essere controllato o incentivato, come ad esempio la sanità e l’istruzione. In questi settori c’è l’esigenza di un controllo e di una regolamentazione pubblica che protegga gli utenti. Occorre cercare il giusto mezzo tra un eccessivo strapotere del mercato e una regolamentazione eccessiva.
    • Mercato dei servizi. I servizi non possono essere stoccati e sono molto legati al produttore, sono di natura intangibile, fatto che ne rende difficile la misurazione. Il mercato dei servizi è oggi il primo per dimensioni e la sua liberalizzazione è un argomento molto complesso. In questo mercato è molto facile imporre barriere all’entrata (per esempio gli ordini professionali).

 

L’analisi di disequilibrio

La nozione di disequilibrio è stata introdotta dall’analisi keynesiana riguardo al mercato del lavoro. L’analisi è frutto della grande crisi del ’29, quando ci si è accorti che in quella realtà la teoria neoclassica non funzionava, anzi era dannosa. La riflessione keynesiana nasce per dare una risposta al problema. Di fronte agli squilibri l’unica risposta non può essere la flessibilità di prezzi, salari e tassi di interesse, perché oltre un certo limite la flessibilità di questi elementi aggrava il problema invece di risolverlo. Salari, tassi di interesse e prezzi hanno un limite inferiore di flessibilità, oltre il quale un’ulteriore riduzione è inefficace o dannosa per la soluzione del problema. Non potendo agire sui prezzi, occorre agire sulle quantità, che per la teoria neoclassica erano date. Per Keynes le quantità possono essere variate attraverso la spesa pubblica e questa variazione delle quantità riporta il sistema in equilibrio. Lo stato deve avere un ruolo attivo nel riequilibrare l’economia.

 


IL MERCATO DEL LAVORO

 

Secondo la teoria neoclassica, la disoccupazione è solo un fenomeno transitorio, poi il mercato riassorbe l’eccesso d’offerta. Poiché la realtà contrasta coi modelli, Keynes cerca di trovare le cause di questi fenomeni spiegando come un sistema economico può vivere in equilibrio in presenza di disoccupazione.

 

La disoccupazione si può spiegare come un malfunzionamento dei meccanismi neoclassici che garantiscono gli equilibri, cioè la flessibilità dei prezzi. Keynes afferma che i meccanismi neoclassici non funzionano perché non funziona la flessibilità dei prezzi, cioè la flessibilità del salario. Keynes spiega la rigidità del salario attraverso varie cause:

    • L’incertezza rende i lavoratori avversi al rischio e alla riduzione dei propri salari in un momento negativo per l’economia.
    • I differenziali salariali , cioè i rapporti tra i salari di diverse categorie, sono alla base del tenore di vita dei lavoratori e della negoziazione salariale. Una categoria di lavoratori non può accettare una riduzione del salario se non ha la garanzia che sarà ridotto anche agli altri.

influenzano il mercato del lavoro, in quanto la domanda di lavoro è una domanda di secondo grado, derivata, che dipende dalla domanda di prodotto: se ho bisogno di produrre l’azienda assume altri lavoratori, altrimenti non ne assume indipendentemente dal loro costo. E’ la domanda effettiva di prodotti che genera lavoro, non il livello dei salari. La curva di offerta del lavoro è elastica e parallela all’asse X, finchè non si arriva a livelli di quantità molto alti. Per questo ad un certo livello salariale le aziende possono attingere ad una riserva di lavoratori quasi infinita. Il fatto che la curva di domanda sia piatta vuol dire che non c’è un unico punto di equilibrio per il sistema, ma più punti equilibrio e ad ogni punto corrisponde un certo livello di disoccupazione. Poiché non c’è un unico equilibrio non può essere il mercato l’unico meccanismo che stabilisce le condizioni del mercato lavoro, ma può intervenire la politica economica.

 

Philips costruisce la curva di Philips dove lega inflzione e disoccupazione. Poiché non c’è una disoccupazione data, ma attraverso la curva di Lewis abbiamo visto che non c’è un unico equilibrio possibile, le decisioni di politica economica possono scegliere tra diverse combinazioni di inflazione e disoccupazione  quale sia il punto desiderato.

Questa teoria entra in crisi negli anni ’70, quando ad un’alta inflazione si accompagna un’alta disoccupazione: si verifica il fenomeno della stagflazione. Per Friedman la curva di Philips è un’illusione monetaria o una curva di breve periodo. La curva di Philips di lungo periodo è verticale. La politica monetaria può cercare di forzare il rapporto tra inflazione e disoccupazione, ma è un effetto di breve periodo. Inoltre una curva di Philips verticale l’inflazione può variare, ma la disoccupazione è un fenomeno strutturale che non può essere risolto nel breve periodo.

 

I fattori dell’offerta e della domanda di lavoro.

Chi presta lavoro. I lavoratori non coincidono con tutta la popolazione, ma sono la popolazione in grado di prestare lavoro. Il tasso di attività è il rapporto tra forze di lavoro e popolazione totale. La popolazione è una componente essenziale dell’offerta di lavoro. Le differenze economiche tra USA ed Europa si spiegano anche perché gli USA sono un paese giovane e con un alto grado di fertilità.

I tassi di partecipazione variano al variare della popolazione: sono molto alti per la classi centrali di età maschili e sono più bassi per le altre categorie. Il tasso di occupazione giovanile tende a ridursi eprchè aumenta l’istruzione. L’età di entrata nel mercato del lavoro è aumentata. Anche il tasso di occupazione della classe 50-65 tende a ridursi e ciò è dovuto alle politiche di ristrutturazione delle imprese (licenziamenti e prepensionamenti) e all’effetto dei sistemi pensionistici.

I tassi dipendono anche dal settore di occupazione considerato e variano con il tempo. La partecipazione femminile è un elemento importante perché la popolazione femminile è una riserva di forza lavoro a cui si può attingere a patto di creare le condizioni per farlo. L’andamento del tasso di occupazione femminile è caratterizzato da una doppia gobba in corrispondenza della fase di maternità. Nel tempo questa doppia gobba viene eliminata con la creazione di meccanismi che consentono alle donne con figli di lavorare o di tornare sul mercato del lavoro. In molti casi però l’uscita dal lavoro per maternità determina l’impossibilità di rientrare. Nei paesi a demografia bloccata il tasso di occupazione femminile è ancora più importante perché costituisce una riserva di forza lavoro a cui attingere in mancanza di una grande crescita demografica.

L’orario di lavoro. E’ il tempo che i lavoratori impiegano per il lavoro. L’orario del lavoratore dipende dal contratto, per cui è importante disporre di tipologie di contratto flessibili. Le ore di lavoro variano all’interno della stessa tipologia di contratto e da settore  a settore. Le assenze dal lavoro sono una variabile economica: l’assenteismo incide sulla produttività ed è un indice di quanto il lavoratore sia coinvolto nell’attività che svolge.

      • Qualità del lavoro. La produttività del lavoro è una componente essenziale del mercato del lavoro. Il grado di qualità del lavoro dipende anche dall’investimento in capitale umano che è stato profuso.
      • Grado di sfruttamento della capacità lavorativa del sistema. E’ il grado che misura quanto vengano sfruttate effettivamente le possibilità lavorative di un sistema economico. L’organizzazione del sistema lavorativo è essenziale per migliorare la produttività. La disoccupazione temporanea può essere un modo per aumentare le capacità di sfruttamento in tempi di crisi ed una riserva di lavoro da sfruttare nei momenti di crescita.

 

Teorie sulla disoccupazione.

    • Disoccupazione da ricerca di lavoro. La disoccupazione e la sua durata nel tempo dipendono dalla maggiore o minore efficienza dei sistemi di ricerca di un lavoro.
    • Disoccupazione da ristrutturazione. La disoccupazione nasce dal fatto che quando un lavoratore perde il lavoro tende a cercarlo nello stesso settore. Invece la disoccupazione è anche un modo per postare lavoratori da un settore in declino ad un settore in disoccupazione.
    • Distinzione tra disoccupazione e ricerca di prima occupazione. Le difficoltà nel trovare una prima occupazione sono maggiori perché il mercato è rigido e per la mancanza di strumenti adeguati per i giovani di ricerca di lavoro.
    • Insiders – outsiders. Il mercato del lavoro è fortemente segmentato tra chi sta dentro e chi sta fuori. Chi ha già un lavoro cerca protezioni e garanzie, chi sta fuori per questi motivi non riesce ad entrare.
    • Isteresi e path dependance. Il mercato del lavoro secondo queste teorie non va visto come istante, ma come un flusso. Il problema non è la disoccupazione, ma l’uscita dallo stato di disoccupato. L’ingresso nella disoccupazione può creare circoli viziosi che impediscono la fuoriuscita da essa. C’è un legame tra la condizione in cui si trova un lavoratore attualmente e la sua condizione futura (path dependance). Cercare un’occupazione trovandosi già all’interno del mercato del lavoro è una condizione di vantaggio. Inoltre rimanere fuori dal mercato del lavoro crea un circolo vizioso per cui è più difficile rientrare in seguito.
    • Disoccupazione indotta dai sussidi. L’esistenza di sussidi di disoccupazione, tali per cui chi non lavora beneficia di un sussidio pubblico, altera il mercato del lavoro. Se i sussidi sono relativamente alti o di lunga durata, il disoccupato può scegliere di non lavorare continuare a godere del sussidio.
    • Rapporto disoccupazione – povertà. Il rapporto tra disoccupazione e povertà non può essere banalizzato: disoccupazione non vuol dire per forza morire di fame. Alcune situazioni di disoccupazione sono legate a rischi di povertà e di emarginazione, in altri casi no. Il rischio di povertà è legato soprattutto alla posizione del disoccupato: la disoccupazione del capofamiglia è molto grave, la disoccupazione relativa ad un secondo o ad un terzo reddito ha minore influsso sul tenore di vita delle famiglia. In ITALIA c’è un alto tasso strutturale di disoccupazione, ma un basso tasso di disoccupazione per i capifamiglia. Il grosso della disoccupazione è femminile e giovanile. Questo significa che ha disoccupazione ha un rischio di povertà minore. Poiché il sistema di sussidi è regolato su questa ipotesi, quando è il capofamiglia che è disoccupato, la situazione è molto più grave e i rimedi insufficienti. La disoccupazione non va studiato soltanto in riferimento agli individui, ma anche alla famiglia.
    • I salari di efficienza. I salari, fatto imprevisto dalla teoria neoclassica, si fissano a livelli a cui è garantito un market clearing, ma si fissano ad un livello più alto che causa un’eccedenza di manodopera (la disoccupazione). Inoltre è difficile che, anche in presenza di forte disoccupazione, i salari scendono. La rigidità del mercato del lavoro è stata spiegata attraverso fattori esterni, mentre questa teoria cerca di spiegarla attraverso caratteristiche intrinseche di questo mercato. Il mercato del lavoro è caratterizzato da un’informazione imperfetta, in cui i lavoratori non conoscono le condizioni del mercato e i  datori di lavoro non conoscono le caratteristiche del lavoratore. Il mercato del lavoro offre strumenti per migliorare l’informazione, ma anche questi non sono sufficienti per superare l’asimmetria, che è una condizione naturale del mercato del lavoro. Il salario acquisisce un ruolo decisivo in questo processo: il salario di efficienza non è solo l’effetto della produttività marginale del lavoro, ma anche un mezzo attraverso cui datori e lavoratori si scambiano informazioni. Un salario più alto indica che il datore di lavoro cerca lavoratori qualificati e mette i lavoratori in competizione per quel posto di lavoro. Gli autori che si rifanno a questa teoria ribaltano il rapporto salario/produttività: non è abbassando i salari che aumenta al produttività, ma alzandoli. L’aumento sei salari serve a cercare di superare l’asimmetria informativa e provoca questi effetti positivi:
  • vengono attratti i lavoratori più qualificati
  • viene ridotto il turnover dei lavoratori migliori (se il salario li soddisfa, i lavoratori migliori non vanno a lavorare per altre compagnie che offrono salari più alti)
  • i lavoratori vengono maggiormente selezionati, in quanto la competizione è più accesa per un salario migliore.

I salari d’efficienza, poiché sono più alti del salario di equilibrio, sono un fattore di disoccupazione, ma sono una scelta razionale per le imprese.

    • Teoria dei contratti impliciti. C’è una parte di contratto che rimane implicita, attraverso cui ci si scambiano assicurazioni contro il pericolo della disoccupazione. Il datore di lavoro assicura al lavoratore il mantenimento del posto e del salario anche in presenza di variazioni del ciclo economico. L’esistenza di un’assicurazione implica che ci sia un corrispettivo da parte del lavoratore, una parte del salario che possa coprire il “premio” assicurativo: un contratto a tempo indeterminato “costa” una parte dello stipendio. Poiché il lavoratore ha queste garanzie, può non essere interessato alle sorti dell’impresa e non impegnarsi al fondo per evitare questo fenomeno. Per evitare questi rischi, esistono meccanismi che tengono il lavoratore legato all’impresa, spingendo verso l’alto il salario. Esistono anche assicurazioni pubbliche nei confronti del datore di lavoro, come la cassa integrazione o i sussidi di disoccupazione. Anche qui sono previsti meccanismi di corresponsabilizzazione: meno un datore di lavoro usa questi meccanismi, meno paga per costituire il fondo che finanzia questi meccanismi.
    • Teoria dell’eccesso di lavoro (labour-hoarding). C’è un eccesso permanente di manodopera all’interno e all’esterno del sistema delle imprese. Esistono delle riserve di forza lavoro necessarie, ma inutilizzate, in quanto esistono dei costi di aggiustamento delle forze lavoro: costi di assunzione, di riqualificazione, di separazione. Questi costi fanno sì che sia più conveniente tenere dentro l’impresa riserve di forza lavoro poco o per nulla utilizzate piuttosto che variare la manodopera al variare del mercato. Infatti alcune variazioni della necessità di lavoro sono stagionali, per cui prevedibili, ma altre sono legate al mercato, per cui imprevedibili. I sistema produttivo ha anche bisogno della disoccupazione, cioè di un eccesso di forza di lavoro esterna per affrontare le variazioni del mercato e le ristrutturazioni.

 

Le politiche del lavoro.

Secondo le teorie neoclassiche, bisogna far sì che i salari siano compatibili con le condizioni della domanda e dell’offerta. Questo non basta, perché la disoccupazione non è spiegata solo dalle teorie neoclassiche. Le politiche del lavoro devono preoccuparsi anche

    • delle politiche di intermediazione tra domanda e offerta, che possono dar luogo a sistemi di intermediazione pubblici o privati che facciano incontrare lavoratori e datori di lavoro
    • delle politiche pubbliche di sostegno a chi si trova ad essere disoccupato
    • delle politiche pubbliche che migliorino l’efficienza del mercato del lavoro, sia all’interno che all’esterno delle imprese

Le politiche del lavoro tendono a diventare da passive ad attive. Le politiche passive tendono solo alla redistribuzione del reddito attraverso i sussidi, le politiche attive tendono a favorire l’incontro tra domanda ed offerta in vari modi: attraverso la formazione, attraverso l’efficienza degli uffici del lavoro, attraverso la creazione diretta di posti di lavoro per utilizzare i disoccupati.

 

I sistemi di relazione industriali.

Le relazioni industriali sono tenute dalle organizzazioni dei lavoratori da una parte e quelle dei datori di lavoro dall’altra. Una delle spiegazioni classiche per spiegare la disoccupazione è l’esistenza dei sindacati, che da alcuni sono visti come un impedimento alla flessibilità del mercato del lavoro. Anche i sindacati invece possono svolgere ruoli di efficienza. I sistemi di relazione industriali che funzionano molto bene sono o sistemi fortemente accentrati, che consentono un forte intervento dall’alto, o sistemi fortemente decentrati in cui la contrattazione è fatta a livello aziendale. I sistemi di relazione aziendale che sono una via di mezzo tra questi estremi sono meno efficienti.

 

Il contratto di lavoro è sempre individuale, ma parte dei contenuti vengono fissati dai contratti collettivi. Gli aspetti regolati dalla contrattazione collettiva sono di solito la durata della prestazione lavorativa, le condizioni di lavoro, il salario minimo. I salari reali sono di solito, per varie meccaniche, maggiori dei salari minimi (fenomeno del wage drift, il cui andamento segue il ciclo economico). I contratti regolano anche aspetti che vanno al di là dei semplici rapporti di lavoro: l’uso dello straordinario, le strategie di sviluppo dell’impresa. La contrattazione collettiva si estende a diversi ambiti dell’economia, con pesi diversi a diversi dei settori: è molto estesa nell’industria, mentre si ha poca contrattazione nel settore dei servizi.

 

Le organizzazioni rappresentative possono essere più o meno accentrate e più o meno regolamentate. Sono molto regolamentate ed accentrate negli stati scandinavi e germanici. In altri sistemi le rappresentative sono più decentrate: possono esistere diverse organizzazioni negli ambiti territoriali, diverse organizzazioni settoriali o organizzazioni di diverso orientamento politico. I sistemi di relazione industriale più decentrati si trovano nei sistemi anglosassoni. L’economia cerca di capire quali sistemi funzionino meglio: i sistemi molto accentrati o molto decentrati.

Nei sistemi molto decentrati gli accordi si fanno all’interno di ogni fabbrica o di settori ristretti ed omogenei. In questi casi c’è una maggiore flessibilità e le organizzazioni riescono a rappresentare puntualmente le esigenze dei loro affiliati.

Nei sistemi molto accentrati c’è un unico soggetto che rappresenta i datori o i lavoratori e questo riesce a mediare al suo interno le esigenze dei proprio componenti. Poiché l’organizzazione non è settoriale, ma globale, le uniche organizzazioni rappresentative riescono a perseguire l’interesse generale, a controllare bene i salari e i differenziali salariali.

 

Nei sistemi corporativi o pianificati, le organizzazioni rappresentative sono strettamente regolamentate. Nei sistemi liberali le organizzazioni sono libere di costituirsi come vogliono. In Italia sindacati ed organizzazioni padronali sono considerate libere società, ma nella Costituzione (art. 39) sono previsti meccanismi di controllo e di regolamentazione delle rappresentanze. Questa parte della Costituzione non è mai stata attuata. La legge interviene comunque per regolare forme di relazione come lo sciopero o le politiche industriali e di sostegno.

 

Tendenze della relazione industriale:

    • Tendenza al decentramento delle organizzazioni aziendali e della contrattazione, effettuata maggiormente a livello aziendale
    • Tendenza della contrattazione collettiva a ridurre la portata della sua applicazione. Questo fenomeno è anche legato alla diminuzione di importanza del settore dove la contrattazione è più diffusa, quella industriale, nei confronti dei servizi. Nei servizi anche le tipologie di contratto a cui si ricorre maggiormente (contratti a termine, co.co.co.) non sono assoggettabili alla contrattazione collettiva. Ciò causa anche una riduzione del tasso di sindacalizzazione, più alto nel settore industriale.
    • Spostare l’attenzione delle organizzazioni di rappresentanza dai rapporti di lavoro che si riflettono nel contratto collettivo a materie più ampie: fisco, ambiente riforme.
    • Problema della rappresentanza: i sindacati rappresentano non solo i lavoratori, ma anche chi si è ritirato dal lavoro, cioè i pensionati. Le aree a più forte sindacalizzazione rimangono comunque i settori pubblici o quelli monopolistici, dove c’è più spazio per la negoziazione.

 

Questioni aperte:

    • La fine del lavoro: la commoditization in molti settori sta portando alla fine del lavoro per come lo conosciamo noi.
    • Dal lavoro ai lavori: non più un unico lavoro di un’unica tipologia, a tempo indeterminato, ma nuove forme di rapporto di lavoro.
    • L’uso del tempo: si analizza ciò che sta di fuori dal rapporto di lavoro in senso stretto.
    • Flessibilità e sicurezza: c’è un trade-off tra questi due fenomeni. Occorre capire come coniugare flessibilità e sicurezza e quale sia il giusto equilibrio.
    • Rapporto lavoro – conoscenza. Nelle società evolute la produzione richiede sempre più conoscenza e produce sempre più conoscenza. Occorre capire sempre pi+ come funzionano i meccanismi di produzione e trasmissione di conoscenza. Le forme classiche come istruzione e formazione non bastano più.
    • Il lavoro non è più a compartimenti stagni, ma è un settore mobile anche tra gli stati. Le emigrazioni non riguardano più solo i lavoratori non qualificati, ma anche lavoratori di alta fascia. Occorre capire come funziona un mercato del lavoro più mobile.

 

 

Il modello del mercato del lavoro in Italia

    • C’è un ampia diffusione di imprenditorialità, di lavoro in proprio. C’è una grande capacità di creare nuove imprese e questo meccanismo è usato per creare lavoro. Non si crea lavoro ingrandendo le imprese esistenti, ma creandone di nuove
    • Esiste un quadro di politiche pubbliche relativamente deboli: ad esempio non esiste un’assicurazione generale per la disoccupazione o per chi ricerca un primo impiego. I pochi meccanismi sono inoltre burocratizzati e costosi per la collettività.
    • Sono molto importanti le funzioni svolte dalle reti famigliari e sociali. L’Italia ha un bassissimo tasso di disoccupazione per le persone di riferimento all’interno di una famiglia: la gran parte dei disoccupati sono giovani e donne. Il sostegno alla disoccupazione è svolto più dalla famiglia che dallo stato. Anche la ricerca di lavoro avviene all’interno delle reti informali o del mercato privato.
    • La concertazione: nel nostro sistema di relazioni industriali gli accordi centralizzati hanno svolto un ruolo fondamentale.

 


MONETA, FINANZA E POLITICHE MONETARIE

 

Teoria keynesiana: la politica  monetaria ha grande influenza sull’economia reale.

Teoria monetaria: la moneta è solo un velo, la politica monetaria non cambia l’andamento dell’economia

 

Le funzioni della moneta

  • La moneta è un mezzo di scambio e di pagamento. Senza moneta non esiste lo scambio, ma solo il baratto. La moneta serve per introdurre mezzi di pagamento accettati da tutti. Questo implica che dietro la moneta ci sia un sistema istituzionale che consente l’accettazione della moneta e per far sì che ciò avvenga sono necessarie due condizioni:
    • Un quadro legale. La moneta ha corso legale in quanto esistono leggi che impongono la moneta come mezzo di scambio. Si parla a questo proposito anche di corso forzoso. Quando la moneta era aurea, cioè aveva un valore intrinseco, il corso forzoso non era necessario, ma lo diventa con l’introduzione del denaro cartaceo
    • La fiducia. Se viene a mancare la fiducia nei mezzi di pagamenti e nell’autorità monetaria, il sistema collassa
  • La moneta è una riserva di valore. C’è bisogno di poter accumulare valore per avere una riserva da cui attingere per le attività economiche
  • La moneta è un’unità di conto. E’ necessaria un’unità di conto per poter scambiare beni che hanno diverso valore. La moneta è l’unità numeraria in rapporto alla quale si determina il valore delle merci

Ogni strumento che può assolvere queste tre funzioni può essere una moneta.

 

Definizioni della moneta

M1 (definizione ristretta): la moneta è il circolante e i depositi in conto corrente. Questa definizione comprende la moneta di uso immediato e coglie la massima liquidità possibile della massa monetaria.

M2: la moneta è, oltre a ciò che è compreso in M1, i depositi di risparmio e i certificati di deposito. M2 ha una liquidità minore di M1

M3: la moneta è, oltre a ciò che è compreso in M2, i certificati di deposito a lungo termine e i titoli di debito pubblico o privati. Questi strumenti possono essere usati come moneta, ma hanno una liquidità minore.

 

Moneta e credito

Nel sistema finanziario il pagamento può anche non essere istantaneo, ma dilatato nel tempo attraverso una promessa di pagamento. Questo è il modo normale di pagamento per la maggior parte delle transazioni. Questa possibilità introduce nello scambio il concetto di credito, che si differenzia dalla moneta per il fattore tempo.

 

La moneta e il credito rappresentano gli strumenti del sistema finanziario. Il sistema finanziario deve garantire l’esistenza di mezzi di pagamento e di mezzi di riserva ed ha la funzione di gestire lo scambio di moneta. Il settore finanziario è composto da una serie di operatori, per lo più le banche. Le banche sono intermediari finanziari che operano per il credito a breve termine. Il sistema bancario si fonda sulla fiducia e s u un complesso di regole. Nel sistema bancario c’è una banca diversa dalle altre, con funzioni di prestatore di ultima istanza: la banca centrale. La banca centrale ha una funzione di stabilità, in quanto garantisce la soddisfazione delle richieste di denaro attraverso la creazione di moneta. La banca centrale ha inoltre una funzione di vigilanza nei confronti delle altre istituzioni.

 

Il sistema finanziario può creare moneta: lo strumento fondamentale per creare moneta non è la stampa, ma è il funzionamento stesso del sistema creditizio. Il credito crea strumenti di finanziamento aggiuntivi, moltiplica le risorse finanziare disponibili. Il sistema creditizio si fonda sulla fiducia negli intermediari e sulla loro capacità di fare fronti agli impegni che assumono. Per garantire la copertura degli impegni assunti, ogni banca ha una riserva a cui attingere costituita da una parte dei depositi. A garanzia della fiducia vengono posti delle soglie minime di riserva, dette obblighi di riserva.

 

La politica monetaria

La politica monetaria è il governo del sistema finanziario. Governarlo significa regolare la creazione di moneta, che dev’essere quella necessaria e sufficiente a far funzionare il sistema economico. Alla testa del governo del sistema c’è la banca centrale, che ha principalmente tre strumenti:

gli obblighi di riserva

  • il tasso di sconto. Tutti i prestiti sono ad interesse. Il tasso di sconto è l’interesse che la banca centrale impone alle altre banche nel prestito di ultima istanza. Il tasso di sconto viene fissato in maniera indipendente dalla banca centrale e dal tasso di sconto dipendono tutti gli altri tassi di interesse.
  • Operazioni a mercato aperto. La banca centrale interviene sul mercato acquistando o vendendo titoli di debito pubblico. Attraverso questa operazione la banca immette o preleva risorse finanziarie nel sistema. Attraverso le operazioni di mercato aperto è possibile effettuare il fine tuning, cioè una regolazione precisa, del sistema finanziario. I primi due strumenti sono invece molto più energici.

 

L’influenza della creazione di moneta sull’attività economica – le teorie della moneta.

Approccio monetaristico: la moneta e la politica monetaria hanno un’influenza solo sulle variabili nominali, ma non su quelle reali. La moneta incide solo sul livello dei prezzi.

Approccio keynesiano: la variazione di moneta incide sulle variabili reali.

 

 V = Velocità di circolazione della moneta; M = quantità di moneta

                P = Prezzi; Y = Prodotto in termini reali

La moneta può circolare più o meno rapidamente all’interno di un sistema. La velocità di circolazione determina l’intensità dell’attività economica. Dove la velocità è alta, il sistema è dinamico.

 

Secondo le teorie keynesiane la velocità è una variabile che dipende dalla domanda di moneta. Si domanda moneta per due ragioni: finalità di transazione o scelta di portafoglio. Ogni operatore economico ha un portafoglio di strumenti finanziari diversi per grado di liquidità. L’operatore finanziario usa anche strumenti a minore liquidità in quanto gli garantiscono un rendimento maggiore, anche se non sono subito disponibili. Sono strumenti a basso grado di liquidi, ad esempio gli immobili; sono strumenti con grado di liquidità minore della moneta circolante le azioni. Quando l’operatore domanda moneta, questa ha per lui il costo del mancato guadagno a cui sarebbe andato incontro usando strumenti meno liquidi. Se il tasso di interesse è basso, c’è una maggiore percentuale di strumenti ad alta liquidità, per cui il tasso di interesse incide sulla liquidità della massa monetaria e sulla sua velocità di circolazione. Per questo motivo il tasso di interesse può essere utilizzato per influenzare la domanda di moneta e mantenerla in equilibrio con l’offerta.

Secondo le teorie keynesiane, nell’equazione precedente, poiché Keynes considera fissi i prezzi in quando dipendono dai costi, e considerata V una costante del sistema, variando la massa monetaria si varia Y, cioè il prodotto in termini reali. Quindi se il tasso di inteeresse si riduce, la maggiore quantità di moneta disponibile aumenta il prodotto di un sistema generando maggiori investimenti e maggiori attività economiche. L’aumento della liquidità non genera inflazione se viene usata per aumentare lo sfruttamento delle capacità produttive del sistema. Se un sistema funziona già a pieno regime, allora una maggiore quantità di moneta genera inflazione. Poiché per Keynes il sistema economico non è sfruttato al massimo delle sue capacità, come si vede ad esempio dall’esistenza della disoccupazione, l’aumento della massa monetaria non è generatore di inflazione.

 

Secondo le teorie monetaristiche i pressi non sono fissi, ma flessibili. La velocità di circolazione è fissa, non dipende da fattori di breve periodo, ma da fattori di lungo periodo, come la fiducia e il sistema istituzionale. Y dipende da fattori strutturali, perciò è data nel lungo periodo. Per questo motivo le politiche monetarie non influiscono su Y, ma sono sui prezzi: un aumento della massa monetaria ha come unico effetto quello di generare inflazione. Questa è la teoria quantitativa della moneta. La moneta secondo queste teorie è solo un velo, che regola i prezzi, ma non le grandezze reali dell’economia. La politica monetaria, fissato il tasso di inflazione desiderato, si limita a regolare proporzionalmente l’offerta di moneta.


I MERCATI FINANZIARI

 

I mercati finanziari sono i luoghi di intermediazione tra risparmio e investimento. I due mercati finanziari principali sono il mercato obbligazionario e quello azionario.

 

Mercato obbligazionario

Le obbligazioni sono titoli di debito, con le quali l’ente emettitore si impegna a restituire una certa somma ad una certa scadenza. Le obbligazioni strumenti di investimento per grandi imprese o enti pubblici.

 

Le componenti dell’obbligazione sono due: la data di maturazione, in cui il titolo verrà rimborsato, e il tasso di interesse.

 

Le caratteristiche:

    • la durata: le obbligazioni possono essere a brevissimo, breve, medio o lungo termine. La durata è importante perché influisce sul rendimento: minore è la durata, minore il rendimento. Ad una durata maggiore corrisponde un rendimento maggiore per ripagare il lungo immobilizzazione dei capitali.
    • il rischio di debito: alle obbligazioni è associato il rischio che alla scadenza il debitore non sia in grado di pagare il debito Se il tasso di interesse è variabile, c’è anche il rischio che questa diminuisca. Dalla valutazione del rischio di debito dipende il tasso di interesse: minore è il rischio, minore è il tasso. Se l’impresa emettitrice è uno stato o un ente pubblico, il rischio di default è minore e minori sono i tassi. Default è i termine che esprime l’impossibilità di restituire la somma pattuita. Ad ogni impresa è associato un rischio di default, che varia a seconda della situazione finanziaria dell’impresa e della sua redditività. Esistono operatori specializzati che misurano questo rischio: le società di rating. Avere un buon rating è molto importante per un azienda, perché permette di indebitarsi con facilità e a basso costo. Il rating non è obbligatorio, ma l’assenza di rating è un grosso ostacolo per il collocamento di bond sul mercato (i bond di aziende senza rating sono detti junk bond).
    • il trattamento fiscale: le obbligazioni sono soggette, o meno, ad imposta e il trattamento fiscale condiziona il mercato.

 

A differenza delle azioni, l’indebitamento non mette in discussione gli assetti proprietari, ma occorre pagare il costo dell’indebitamento, cioè il tasso di interesse. Il rapporto tra debito e capitale di un impresa è il leverage: un alto leverage è un indice di rischio.

 

Mercati azionari

Le azioni sono frazioni di proprietà dell’impresa. L’impresa può finanziarsi emettendo azioni, cioè aprendo il proprio capitale ad altri soggetti. Un titolare di azioni è titolare di una parte del capitale di impresa, quindi partecipa del rischio, dei profitti, del controllo dell’impresa. I profitti realizzati dall’impresa in parte vengono investiti, in parte distribuiti agli azionisti sotto forma di dividendi. In una spa le scelte devono essere condivise dagli azionisti ce detengono la maggioranza dell’impresa.

 

Il mercato dove si scambiano azioni e obbligazioni è la Borsa, un’istituzione necessaria per un’economia moderna. Le quotazioni delle azioni dipendono dalla domanda e dall’offerta; le quotazioni riflettono le aspettative del mercato sull’andamento dell’impresa. Il rapporto tra quotazioni e utili è una spia delle aspettative del mercato.

 

 

 

 

Le istituzioni dei mercati finanziari

    • Le banche. Sono i principali intermediari finanziari. Sono istituzioni di credito a breve e medio termine e hanno una funzione monetaria, di regolazione dell’offerta di moneta. Non tutte le imprese possono finanziarsi con azioni e obbligazioni, per cui ottengono il credito dalle banche.
    • Compagnie di assicurazione
    • Istituti previdenziali
    • Banche d’investimento o d’affari: sono banche con il ruolo di intermediario per facilitare gli investimenti, si rivolgono ai grandi operatori e non al piccolo investimento.
    • Società di intermediazione mobiliare: sono società che scambiano azioni e obbligazioni (i cosiddetti brokers).
    • Società di leasing e factoring
    • Securitisation (o cartolarizzazione): trasformazione di crediti e debiti in titoli negoziabili.
    • Fondi comuni di investimento: operatori intermediari non bancari, che vendono quote di partecipazione al fondo al pubblico e investono il capitale ottenuto per acquistare e gestire obbligazioni e/o azioni. Se il fondo guadagna, dei guadagni beneficiano in misura proporzionale coloro che partecipano al fondo. Il fondo comune permette anche al piccolo investitore di operare sul mercato attraverso un investimento differenziato per ripartire il rischio.

 

Le istituzioni finanziarie svolgono funzioni molto delicate e vanno gestite con oculatezza e con etica. L’etica non è solo un fatto morale, ma genera la fiducia necessaria al sistema. E’ importante che esistano regole e organi che vigilino sul funzionamento del mercato finanziario.

 

Lo sviluppo dei mercati finanziari

C’è stata una forte interazione tra progresso tecnico e mercati finanziari, sia perché gli strumenti della nuova economia vengono applicati ai mercati finanziari, sia perché i mercati finanziari consentono di sostenere lo sviluppo delle nuove tecnologie. Il punto centrale delle innovazioni è stato il sistema americano e questi sono stati i punti di maggiore innovazione

à rapporto tra capitalizzazione  (quantità di risorse finanziarie intermediata nei sistemi borsistici) e Pil è triplicata. C’è stata una corsa alla borsa da parte delle imprese e degli investitori; ad accedere al mercato non sono solo grandi gruppi, ma anche una massa di piccoli risparmiatori. Il rapporto tra emissioni azionarie e investimenti è ugualmente aumentato. Questo ha accasato un’espansione dei mercati esistenti e la nascita di nuovi mercati (per esempio il Nasdaq, dedicato alle nuove tecnologie).

à crescita delle emissioni di obbligazioni, quindi dell’indebitamento delle imprese presso i risparmiatori. Le imprese sono state capaci di rastrellare risparmio direttamente dal mercato e non attraverso le banche.

à aumento delle cartolarizzazioni.

 

Il mercato si è sempre più sostituito alle banche come fonte di finanziamento. Questo ha determinato un forte aumento della trasparenza perché un’impresa quotata o emettitrice di bond deve rendere conto agli investitori della sua situazione. Questa trasparenza è stata in parte indotta dal mercato e in parte dalla concorrenza tra le imprese. Infatti maggiore trasparenza vuol dire maggiori possibilità di attirare capitale ad un costo minore.

 

Per garantire trasparenza le regole del governo societario diventano vincolanti per tutte le imprese. Di particolare rilevanza sono le regole che riguardano

  • la protezione degli azionisti di minoranza, che incentivano l’investimento da parte dei piccoli azionisti e l’azionariato diffuso
  • il divieto di insider trading, cioè l’uso scorretto delle informazioni che riguardano la vita dell’azienda
  • il venture capital: è uno strumento di finanziamento dell’innovazione e di finanziamento per le piccole e medie imprese o per le nuove imprese. Sono strumenti ad alto rischio e ad elevato rendimento.

 

In Europa (NB: per Europa si intende l’Europa continentale, in quanto la Gran Bretagna ha un mercato finanziario simile agli USA) la situazione è diversa: si è avuto un grande sviluppo dei mercati finanziari, ma resta un gap rispetto ai paesi anglosassoni. Il rapporto tra capitalizzazione e PIL è del 60% minore anche se il divario si va riducendo.

 

Le differenze non sono solo di quantità, ma ci sono due diversi modelli di capitalismo finanziario. In Europa è prevalente il modello renano, o franco-tedesco, che è caratterizzato da relazioni di conoscenza diretta, da relazioni di lungo periodo e da un sistema basato sulle banche e sulla loro capacità di intermediare tra risparmi e imprese. Il sistema bancario, essendo molto regolato, è un sistema a bassa concorrenza. In questo modello i depositi bancari rappresentano una quota più alta dei risparmi in quanto sono il modo usuale di accumulare ricchezza, mentre nel modello anglosassone i depositi rappresentano una quota minore della quantità di moneta e hanno maggior peso i titoli di debito, specialmente privati, e le azioni.

Il modello renano comporta uno sviluppo minore dei mercati e minori fonti di finanziamento per le piccole e medie imprese, che si finanziano attraverso le banche e non attraverso il mercato. Inoltre c’è un minor numero di emissioni, sia di azioni che di obbligazioni, e le imprese sono più riluttanti a quotarsi in borsa, in quanto comporta oneri di governance e difficoltà di continuare a mantenere una visione di lungo periodo.

C’è una minor diffusione dell’azionariato pubblico; la proprietà delle azioni è concentrata in grandi gruppi.

C’è maggior ingerenza del settore pubblico, attraverso la regolamentazione del sistema finanziario, attraverso la proprietà pubblica, attraverso prestiti a tassi agevolati o sussidi.

 

Oggi si va verso una convergenza dei due modelli e anche in Europa c’è una grossa spinta verso una finanza di mercato di stampo anglosassone.

 


Il mercato finanziario in Italia.

I sistema finanziario italiano è un punto debole del nostro sistema economico e la sua debolezza è una delle cause della limitata crescita. Questo è dovuto ha

àFrammentazione delle istituzioni finanziarie. Sul mercato operano molti piccoli operatori finanziari, così come ci sono molte imprese di piccole dimensioni. La frammentazione ha origine storiche, in quanto il sistema finanziario italiano deriva dall’aggregazioni dei diversi istituti finanziari appartenenti agli stati preunitari.

à Crisi finanziarie: ci sono state numerose crisi finanziarie nel nostro paese.

à Dualismo tra banche ed altre istituzioni finanziarie di tipo associativo, come casse di risparmio e banche popolari, che operano a livello locale.

à Assenza di regole: le prime leggi sulla finanza risalgono solo al 1926. la legge del ’26 regolamenta le banche, dà alla Banca d’Italia il compito esclusivo di emissione e vigilanza e crea l’IRI (istituto per la ricostruzione industriale), uno strumento di intervento dello stato nell’economia attraverso l’acquisizione di quote azionarie.

à Le banche miste. Sono istituti di credito a breve termine e istituti finanziari a lungo termine. Uniscono le funzioni della merchant bank finanziando direttamente le imprese, si a le funzioni di un intermediatore de risparmio. L’esistenza delle banche miste consente la nascita e il finanziamento delle grandi imprese e così è avvenuto nei primi decenni del XX secolo, ma sono un fattore di instabilità perché creano una forte dipendenza dell’industria dal capitale delle banche ed una partecipazione delle industrie nel capitale delle banche. A causa di questo conflitto di i interessi c’è uno scarso controllo e un maggior rischio di crisi finanziarie. La legge del ’26 divide le banche che operano sul mercato di credito ordinario dalle banche che operano sul mercato mobiliare, per impedire il conflitto di interessi causato dalle banche miste. In realtà la separazione delle funzioni bancarie rimarrà soltanto sulla carta, mentre vengono attuate la centralizzazione e la burocratizzazione del sistema finanziario.

Nel dopoguerra questi tratti si accentuano e viene introdotto lo strumento del credito speciale, che consente un ancora maggior intervento dello stato nei confronti delle imprese. Aumenta l’ingerenza dello stato nel mercato finanziario e dopo le crisi degli anni ’70 il mercato finanziario italiano diventa un’appendice del sistema politico, che lo usa a proprio piacimento. Negli anni ’80, anche grazie alle direttive della comunità europea, si inizia a risanare e liberare dai vincoli il mercato finanziario, attraverso alcuni provvedimenti: divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, legge del ’93 sul sistema bancario che consente la creazione delle fondazioni e la privatizzazione del sistema finanziario, il testo unico bancario del ’98, il consolidamento del settore bancario e dei processi di fusione.

 

Riforme necessarie:

  • riforma del risparmio
  • riforma del diritto fallimentare
  • riforma della pubblica amministrazione

IL COMMERCIO INTERNAZIONALE

 

Commercio internazionale:    à movimento di beni

                                               à movimento di flussi finanziari

 

Per spiegare il commercio internazionale di beni l’economia si basa su un approccio classico, ricardiano. L’analisi classica fonda la spiegazione del commercio internazionale sui costi relativi, in particolare del lavoro. I costi vanno però riportati alla produttività, cioè va considerato il CLUP (costi del lavoro per unità prodotta), che è un rapporto tra costi e produttività. Per Ricardo alla base del commercio ci sono differenze di CLUP relativi. La differenza di CLUP viene spiegata dai neoclassici con le diverse dotazioni di risorse di produzione.

 

False idee sul commercio internazionale:

  • La convenienza del commercio internazionale è per tutti, non solo per i paesi più competitivi, perché il commercio si basa sulle differenze di costo comparato e non sulle differenze di costi assoluti.
  • Non è vero che un commercio basato sulla compressione dei salari, come avviene nei paesi in via di sviluppo, non sia conveniente per il paese né che lo condanna a bassi salari e ad un basso salario di vita. Invece il commercio internazionale mette in moto meccanismi di aumento salariale e riduce i differenziali salariali mondiali.
  • Il commercio internazionale non impoverisce i paesi poveri ma dà loro una possibilità di crescere.

 

Integrazione economica

L’integrazione economica si fonda sullo scambio e sull’integrazione sopranazionale dei sistemi di produzione. L’integrazione e la liberalizzazione dei sistemi nazionali non è stata solo frutto di processi economici, ma anche della regolazione politica sopranazionale. Il culmine di questo processo è stata la creazione del WTO, ente sopranazionale deputato alla gestione degli scambi sulla base di regole condivise. Sempre più paesi partecipano al processo di liberalizzazione, anche quelli in via di sviluppo. Dopo Seattle, in cui il modello di liberalizzazione ha subito un ripensamento, con la riunione di Doha si è lanciato l’obbiettivo della “liberalizzazione finalizzata allo sviluppo”. Le maggior resistenze protezionistiche in questi anni provengono dai paesi sviluppati, per quanto riguarda soprattutto l’agricoltura. La contrapposizione tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo è stata la causa del fallimento del vertice di Cancun nel 2003.

 

Integrazione regionale

Negli ultimi decenni sono nate diverse unioni regionali, come la CEE - UE in Europa, il NAFTA in Nord American, il Mercosur in Sud America, l’APEC nell’area del Pacifico. All’inizio le arre di integrazione regionale erano viste come un fattore negativo, in quanto capaci di distorcere i flussi commerciali (fenomeno della trade diversion). Queste unioni sono anche capaci di dare luogo alla trade creation, cioè alla creazione di nuovi flussi commerciali. Oggi le unioni regionali si moltiplicano e sono viste come un fattore di sviluppo del commercio internazionale. Le unioni esistenti inoltre tendono ad allargarsi, come è accaduto per l’UE e per il NAFTA che gli USA vorrebbero estendere a entrambe le Americhe.

 

Anche per le difficoltà incontrate nelle sedi multilaterali, come il WTO, USA e UE stanno stringendo numerosi accordi bilaterali con paesi terzi. Questi accordi sono distorsivi perché la parte più forte può imporre le sue condizioni.

 

 

 

Flussi finanziari

Il sistema di Bretton Woods prevedeva forti vincoli per il movimento di capitali. Quando questa sistema è caduto, nel 1971, la circolazione dei capitali è stata liberalizzata. Per alcuni economisti la libera circolazione dei capitali è un fattore destabilizzante, perché in momenti di crisi i flussi finanziari non portano ad una soluzione dei problemi, ma ad un aggravamento e ad una diffusione della crisi in più paesi.

 

Migrazioni internazionali

Dalla teoria economica le migrazioni sono considerate uno strumento importante per spostare lavoratori dove c’è bisogno da dove c’è un eccesso. Dal punto di vista pratico però ci sono forti resistenze: i paesi più sviluppati si sentono minacciati dalle migrazioni internazionali e tendono a proteggere i propri mercati del lavoro.

 

Area monetaria ottimale.

Il concetto di area monetaria ottimale serve per tentare di rispondere alla domanda su quando dal punto di vista economico, conviene avere una moneta comune. Avere una moneta comune porta vantaggi, in quanto le transazioni economiche sono facilitate ed incentivate, e svantaggi, perché non si può più utilizzare il cambio per compensare le differenze di produttività. Occorre fare riferimento alla mobilità e alla flessibilità dei fattori di produzione per determinare l’area monetaria ottimale. Se c’è flessibilità e mobilità il fatto di perdere la possibilità di svalutazione ha poco peso, per cui conviene creare una grande area monetaria. Il fatto che nei mercati europei non ci sia un’elevata mobilità e flessibilità ha fatto sì che la moneta unica costasse in termini di crescita.



IL MERCATO E LA DOMANDA

 

Il mercato è il luogo dove si svolgono le transazioni, dove avviene l’incontro tra domanda ed offerta e si realizza l’equilibrio.

L’equilibrio è quella situazione che una volta raggiunta può essere stabilmente mantenuta perché coincidono domanda ed offerta.

 

La domanda segue una legge, la legge di domanda, rappresentabile attraverso la curva di domanda.

Fattori della domanda. La curva di domanda dipende da fattori soggettivi e oggettivi. I fattori soggettivi sono i gusti e le preferenze (g). I fattori oggettivi sono il reddito (R), il prezzo monetario (px), i prezzi assoluti (P), e altre variabili (a), come il prezzo di beni succedanei e complementari.

La legge della domanda in maniera analitica su può esprimere come:

 

Qx/ut = f(g, R, px, P, a)

 

Qx/ut è la quantità domandata nell’unità di tempo. Quest’analisi infatti è statica, non tiene conto del tempo.

 

Se poniamo la condizione ceteris paribus, cioè considerando isolatamente ogni fattore della legge di domada, possiamo isolare l’influenza di ogni fattore considerando dati gli altri. Ora studieremo solo l’influenza del prezzo monetario sulla quantità domandata, quindi

 

Qx/ut = f(px)

 

Proprietà della curva di domanda. Qx e Px sono tra di loro inversamente proporzionali. La curva di domanda è inclinata negativamente perché ha pendenza negativa. La pendenza è il rapporto tra la variazione del prezzo e la variazione della quantità di bene domandato. (Dx/Dy) o il rapporto tra la variazione sull’asse verticale e la variazione sull’asse orizzontale dovuti a movimenti che avvengono lungo la curva.

 

Definizione 1) La curva di domanda è una serie di prezzi unitari massimi che gli acquirenti sono disposti a pagare in corrispondenza delle varie quantità.

Definizione 2) La curva di domanda è una frontiera che separa le coppie di valori prezzi/domanda compatibili con le condizioni della domanda dalle coppie di valori prezzi/quantità non compatibili. Sono compatibili sono le coppie di valori che giacciono sulla curva di domanda.

Definizione 3) La curva di domanda è una serie di quantità massime che gli acquirenti sono disposti a pagare ai vari prezzi.

La curva di domanda descrive la domanda, cioè il comportamento del consumatore.


LA CURVA DI OFFERTA.

 

Fattori. La curva di offerta è in funzione di fattori soggettivi e oggettivi. Posta la condizione ceteris paribus possiamo considerare l’offerta in funzione del prezzo. La legge di offerta apparirà quindi come

 

Sx/ut = f(px)

 

Proprietà. Secondo la curva di offerta, prezzo e quantità di bene offerto sono direttamente proporzionali: all’aumentare del prezzo segue un aumento dell’offerta. La curva di domanda è orientata positivamente

 

Definizione 1) La curva di offerta è la serie di quantità massime che i venditori sono disposti a vendere ai vari prezzi (concetto di massimo).

Definizione 2) La curva di offerta è la serie di prezzi unitari minimi ai quali i venditori sono disposti ad offrire le varie quantità (concetto di minimo).

Definizione 3) La curva di offerta è una frontiera che separa le coppie di valori prezzi – quantità di bene compatibili con le condizioni dell’offerta dalle coppie di valore prezzi – quantità di bene non compatibili.

 

IL PREZZO

 

Il prezzo indica la scarsità del bene: quando il bene è scarso il prezzo aumenta.

Il prezzo raziona la domanda: se il prezzo aumenta la domanda si riduce.

Il prezzo orienta l’offerta: quando il prezzo aumenta l’impresa è orientata ad aumentare la produzione.

 

 

Riportando le curve di domanda e di offerta su uno stesso piano cartesiano, queste si intersecano in E. Nel punto E, il punto di equilibrio o break-even point, la domanda eguaglia l’offerta, le condizioni del venditore e del consumatore coincidono.

 

Squilibrio. Se l’offerta aumenta e diviene maggiore della domanda, abbiamo un eccesso di offerta rispetto alla domanda, quindi il produttore dovrà ridurre il prezzo e la produzione per non ritrovarsi con merce invenduta. Poiché il prezzo diminuisce aumenta la domanda e l’equilibrio viene ristabilito.

Se la domanda aumenta ed è maggiore dell’offerta, il produttore aumenta la produzione per soddisfare la domanda e il prezzo perché la merce “tira”, perciò la domanda diminuisce e l’equilibrio viene ristabilito.

 

TRASPOSIZIONE O TRASLAZIONE DELLA CURVA DI DOMANDA

 

Eliminando la condizione ceteris paribus, possiamo considerare come le altre variabili g, R, px, P, a influiscano sulla curva di domanda. Se varia una delle variabili, che non sia px, abbiamo una variazione concorde del prezzo e della domanda e la traslazione della curva di domanda. Lo spostamento non è più lungo la curva. Esempio: se i gusti relativi ad un certo prodotto migliorano, aumenterà sia la domanda di quel prodotto sia il suo prezzo, in quanto è di moda.

 

Se P e Q aumentano la traslazione avviene in avanti, se P e Q diminuiscono, la traslazione avviene all’indietro.

 


ESERCITAZIONI SULLA CURVA DI DOMANDA

 

La curva di domanda può essere rettilinea, in questo caso l’equazione della retta è Q = a – bP dove a e b sono valori.

 

Analizzare cosa succede al mercato quando aumenta il prezzo di un bene complementare.

Rimuovendo la condizione ceterisi paribus, se aumenta il prezzo di un bene complementare, diminuisce la quantità domandata del bene. Per questo la curva di domanda viene traslata verso il basso, cioè diminuisce la quantità domandata.

 

Analizzare cosa succede al mercato quando aumenta il prezzo di un bene succedaneo. Il bene succedaneo è un perfetto sostituto del bene principale. Il bene succedaneo causa al bene principale una variazione della curva nella stessa direzione (se diminuisce il prezzo del succedaneo deve anche diminuire il prezzo del bene principale).

 

Analizzare cosa succede al mercato del caffè quando la siccità danneggia le piantagioni in brasile.

Questo è un fenomeno di carenza di offerta. Poiché la quantità offerta diminuisce, la curva di offerta viene traslata verso l’alto, cioè una stessa quantità ha un prezzo maggiore. L’equazione della curva di offerta quando questa è rettilinea è: S = c + d con c e d numeri.


IL COMPORTAMENTO DEL CONSUMATORE

 

La curva di domanda riflette il comportamento del consumatore. Il consumatore è portato al conseguimento della massima utilità, cioè la soddisfazione, il produttore invece tende a massimizzare il profitto. Il consumatore massimizza la propria soddisfazione e per fare ciò deve intraprendere lo scambio (moneta contro bene). Attraverso lo scambio l’individuo sceglie come utilizzare il proprio reddito per acquistare beni. Il consumatore ha un reddito e lo utilizza per la scelta che massimizzi la soddisfazione attraverso lo scambio. Si può misurare la soddisfazione (o grado di utilità)? L’utilità non si può misurare in maniera cardinale, ma è possibile confrontare le utilità tramite le curve di indifferenza.

 

Il consumatore ha a sua disposizione un paniere di beni. Nel nostro esempio il paniere è costituito da 2 beni: x e y, disponibili in diverse combinazioni.

A= 3x e 2y                 B= 2x e 1y                  C= 3x e 1y

Possiamo decidere quale combinazione soddisferà maggiormente il consumatore: A > C > B.

Introduciamo la combinazione D= 2x e 2y. In questo caso A > B e D > B. Il problema è il confronto con C, in quanto D contiene una maggior quantità di bene y e una minore quantità di bene x. Come possiamo determinare le scelte del consumatore? Traccio un piano cartesiano sulla cui ascissa metto la quantità di bene X e sull’ordinata la quantità di bene Y. Ogni punto del piano ora mi rappresenta il flusso di consumo di bene X combinato con il flusso di consumo del bene Y.

 

Prendo un punto P generico di coordinate (Xo; Yo) che userò per confrontare le utilità degli altri punti rispetto a P. Tutti i punti che appartengono al primo quadrante hanno un’utilità maggiore rispetto a P, in quanto hanno una X e una Y maggiore. Tutti i punti che appartengono al III quadrante rappresentano le combinazioni che hanno un’utilità minore rispetto a P in quanto hanno una X e una Y minore.

 

Nel II e nel IV quadrante le condizioni non sono altrettanto chiare ed è qui che si pone il problema della scelta. Per capire le scelte del consumatore occorre tracciare la curva di indifferenza. La curva di indifferenza indica le diverse combinazioni tra i due beni che assicurano al consumatore lo stesso livello di utilità o soddisfazione.


 

 

L’utilità è maggiore man mano che la curva di indifferenza è più distante dall’origine. HO quindi un fascio di curve e ogni curva rappresenta un certo livello di soddisfazione.

 

Proprietà della curva di indifferenza.

    • La curva di indifferenza è inclinata negativamente. La pendenza delle curve di indifferenza è negativa ed è data dal rapporto tra i prezzi di y e i prezzi di y.
    • Postulato di convessità. Le curve di domande hanno la convessità rivolta verso l’origine. Questa proprietà si spiega attraverso il saggio marginale di sostituzione. Il saggio di sostituzione marginale è la quantità del bene y a cui devo rinunciare per aumentare la quantità del bene x e mantenere lo stesso livello di utilità. E’ quindi il rapporto tra la variazione del bene y e la variazione del bene x: Dx/Dy. Il saggio marginale di sostituzione spiega anche la prima proprietà perché all’aumento di un bene corrisponde la diminuzione dell’altro.
    • Principio di non contraddittorietà delle preferenze. Le diverse curve di domanda non possono intersecarsi tra di loro. Non ci può essere una combinazione delle quantità dei due beni che appartenga a due curve di indifferenza, in quanto le diverse curve indicano diversi livelli di utilità: ogni punto appartiene ad una ed una sola curva di indifferenza. Dimostrazione:

 

 

O appartiene a I1 e I2. A appartiene a I1 quindi O = A. B appartiene a I2 quindi O = B. Per cui A = B. Ma ciò non è possibile perché A ha una x e una y maggiore di B, quindi la sua utilità è senz’altro maggiore. Quindi le curve di indifferenza non si possono intersecare.

 

Il saggio marginale di profitto. Il rapporto Dx/Dy andando da sinistra a destra tende a diminuire, in quanto il segmento Dy tende a diminuire e il segmento Dx tende ad aumentare o a rimanere costante. Il saggio marginale è perciò decrescente andando da sinistra a destra. Questo spiega perché la curva di indifferenza ha la concavità rivolta verso l’alto.


L’UTILITA’ MARGINALE

 

Secondo l’approccio marginalistico l’utilità è misurabile perché è un concetto oggettivo. L’utilità è la soddisfazione che io ottengo dall’utilizzo di un bene. Occorre distinguere tra utilità dosale, utilità totale e utilità marginale. L’utilità dosale è quella che ottengo in media da una dose del bene, l’utilità totale è la somma delle utilità dosali, cioè l’utilità che ottengo da tutto il bene, l’utilità marginale è l’utilità che ottengo dall’utilizzo dell’ultima dose. L’utilità marginale e l’utilità totale possono essere rappresentate graficamente da una funzione.

  • UT = f(Qx) (UT e Qx sono direttamente proporzionali)
  • UM = f(Qx) (UT e Qx sono inversamente proporzionali)

UT                                                                        UM

 

L’utilità marginale è una funzione decrescente. Questo spiega la pendenza negativa della curva di domanda, in quanto l’utilità marginale incide sul valore del bene, sull’equilibrio del consumatore e sulla curva di domanda. L’equilibrio del consumatore si realizza quando abbiamo il livellamento delle utilità marginali ponderate con il prezzo del bene. La condizione di equilibrio è:

 

UMx/Px = UMy/Py

Se questa condizione non è rispettata l’equilibrio va ricercato.

Per misurare l’utilità marginale il consumatore costruisce la scala di urgenza dei bisogni.

 

IL VINCOLO DEL BILANCIO (o spesa costante, o isospesa).

 

Si parla di vincolo del bilancio in quanto il reddito a disposizione del consumatore ha a disposizione influisce sulle sue scelte. La formula del reddito è: R = Qx × Px + Qy × Py.

Da questa equazione devo calcolare la quantità massima del bene X, cioè l’intercetta con l’asse delle x. Per fare ciò pongo Qy  = 0 e ottengo R = Qx × Px à Qx = R / Px. Questa formula sta a significare che utilizzo tutto il reddito per acquistare il bene X. Ottengo quindi il punto N di coordinate (Qxmax, 0). Poi devo calcolare la quantità massima del bene Y, cioè l’intercetta con l’asse delle y. Per fare ciò pongo Qx = 0 e ottengo R = Qy × Py à Qy = R / Py. Questa formula sta ad indicare che utilizzo tutto il reddito per acquistare il bene Y. In questo modo ottengo il punto M di coordinate (0, Qymax). La retta che passa per M e per N indica il vincolo del bilancio, cioè l’isospesa o curva della spesa costante perché le diverse combinazioni di beni che giacciono sulla curva richiedono l’uso dello stesso reddito.

                                  

 

 

Definizione 1) L’isospesa è l’insieme di tutte le combinazioni quantitativamente diverse dei due beni che comportano lo stesso esborso pecuniario.

Definizione 2)  L’isospesa è una frontiera che separa le combinazioni dei due beni che comportano un esborso pecuniario maggiore dalle combinazioni di beni che comportano un esborso pecuniario minore rispetto a quelle poste sull’isospesa.

 

L’isospesa ha una pendenza costante perché è una retta, inoltre la pendenza è negativa.

Pendenza = OM / ON à Qymax / Qxmax à (R/Py) / (R/Px) à Px/Py

La pendenza dell’isospesa perciò è data dal rapporto tra il prezzo dei due beni, è il prezzo relativo tra i due beni.

 

L’isospesa mi definisce le quantità di bene y al quale il consumatore deve rinunciare se vuole accrescere la quantità di bene x.

 

L’EQUILIBRIO DEL CONSUMATORE

 

Per ottenere l’equilibrio del consumatore devo sovrapporre curva di indifferenza ed isospesa: l’equilibrio si ha nel punto di tangenza tra isospesa e curva di indifferenza. Nell’equilibrio si verifica l’eguaglianza tra il saggio marginale di profitto e il rapporto tra prezzi. Nell’equilibrio tende anche ad equilibrarsi l’utilità marginale, cioè l’utilità che posso ottenere dall’ultima unità di bene o di reddito.

 

L’ELASTICITA’ DELLA DOMANDA

 

L’elasticità è la variazione percentuale della domanda in rapporto alla variazione percentuale del prezzo. Cioè DQ/Q / DP/P. DQ è la variazione che subisce la quantità domandata quando il bene si sposta di un certo DP (di solito pari ad uno). Q è la quantità di bene domandata prima della variazione e P il prezzo prima della variazione. L’elasticità puntuale si può anche calcolare come DQ/DP · P/Q.

Se l’elasticità è > 1 la quantità domandata varia più che proporzionalmente rispetto al prezzo (curva elastica).

Se l’elasticità è = 1 la quantità domandata varia proporzionalmente al prezzo (curva unitaria)

Se l’elasticità è < 1 la quantità domandata varia meno che proporzionalmente rispetto al prezzo (curva anelastica)

Dall’elasticità della domanda dipende anche il rapporto tra prezzi e ricavo.

Se e>1 il ricavo marginale è positivo e il ricavo aumenta al diminuire del prezzo.

Se e<1 il ricavo marginale è negativo e il ricavo aumenta all’aumentare del prezzo

Se e=1 il ricavo marginale è 0 e il ricavo totale non risente delle variazioni di prezzo.


L’OFFERTA

 

La teoria del comportamento del produttore studia come l’impresa effettua le sue decisioni minimizzando i costi, massimizzando i profitti, e come il costo di produzione varia al variare della produzione. Studia cioè le caratteristiche dell’offerta sul mercato.

 

Tecnologia della produzione: relazione fisica in base alla quale l’impresa trasforma i fattori della produzione in beni finali. I fattori della produzione sono il lavoro, le materie prime e il capitale. Il lavoro è composto da tutta la manodopera dell’impresa e comprende lo sforzo della componente manageriale. Le materie prime sono tutti quei beni che l’impresa acquista e trasforma in prodotti finali. Il capitale comprende tutti gli edifici e le attrezzature di cui l’impresa si avvale; il capitale include anche le scorte, cioè i beni prodotti che l’impresa non mette immediatamente sul mercato.

 

La funzione di produzione.

Si definisce funzione di produzione la più alta quantità di beni che un’impresa è in grado di produrre per ogni specifica combinazione di lavoro e capitale. La funzione di produzione è

Q = f( K, L)

- L, K e Q sono grandezze di flusso e non di stock. L’intervallo di tempo su cui si calcolano di solito è di un anno.

 - La funzione di produzione ci fa vedere come il prodotto può essere ottenuto attraverso diverse combinazioni dei fattori.

- La funzione di produzione è valida per una data tecnologia, cioè per un dato stato della conoscenza riguardo ai metodi per trasformare i fattori in prodotti. La tecnologia con il tempo vaia e trasla la funzione di produzione

- Si suppone per ipotesi che l’impresa sia tecnicamente efficiente.

- Data la quantità di un fattore, all’aumentare dell’altro fattore la quantità prodotta aumenta.

 

La funzione di produzione individua gli ISOQUANTI, cioè le curve che rappresentano tutte le possibili combinazioni di fattori di produzione che generano lo stesso livello di produzione.

 

Per ogni isoquanto c’è una produzione data e più ci spostiamo verso l’alto, più la produzione aumenta. Se si fissa un certo fattore e si varia l’altro, ci si sposta da un isoquanto all’altro, perciò la produzione varia. L’isoquanto ci fa vedere come diverse combinazioni di lavoro e capitale ci danno la stessa quantità prodotta.

La rappresentazione di più isoquanti in un unico diagramma è un altro modo per descrivere la funzione di produzione. Gli isoquanti ci mostrano la flessibilità dei livelli di produzione: diverse combinazioni dei fattori di produzione danno stesse produzioni e l’impresa sceglie quella combinazione che minimizza i costi.

 

Nel breve periodo non possono variare sia il capitale che il lavoro ed almeno un fattore rimane fisso. Nel lungo periodo è invece possibile variare entrambi i fattori. Il lungo periodo è definito appunto come l’intervallo di tempo necessario per rendere tutti i fattori della produzione variabili.

 

Analisi nel breve periodo: produzione con capitale fisso e lavoro variabile.

In queste condizioni l’impresa può aumentare la produzione solamente aumentando il lavoro. Per decidere se aumentare il lavoro occorre sapere quanto il lavoro influisce sulla quantità di bene prodotto. Il contributo del lavoro al processo produttivo può essere valutato su base media o su base marginale.

Su base media abbiamo il prodotto medio del lavoro (PML): ci dice qual è il prodotto di ciascun lavoratore in media nell’impresa e ci dà una misura della produttività delle forze lavoro nell’impresa. PML = QTOT/LTOT.

Su base marginale abbiamo il prodotto marginale del lavoro (P’L): ci dice qual è la quantità di prodotto addizionale che produce un’impresa quando aumenta di un’unità il lavoro impiegato.

 

All’aumentare del lavoro, con capitale costante, la produzione aumenta fino ad un certo punto, in

cui rimane costante e poi diminuisce. Il PML aumenta all’aumentare della quantità di lavoro fino ad una certa quota; da quel punto in poi diminuisce pur rimanendo positivo. Il P’L aumenta fino ad un punto e poi diminuisce diventando anche negativo. Il punto in cui P’L diminuisce è situato più a sinistra del punto in cui inizia a diminuire il PML e del punto in cui inizia a diminuire il livello di produzione.

Q diminuisce perché quando ci sono troppi lavoratori il lavoro diventa inefficiente. In particolare inizia a diminuire quando P’L diventa negativo. Precisamente Q diminuisce quando P’L diventa negativo.

Fin quando P’L > PML, PML cresce. Quando P’L > PML, PML diminuisce. Poiché P’L cresce e poi decresce, esiste un punto E dove P’L = PML; in E il PML è massimo.

In termini geometrici PML in un punto coincide con la pendenza della semiretta che parte dall’origine e arriva al punto sulla curva. Il P’L coincide con la pendenza della curva di produzione in quel punto, cioè con la pendenza della sua tangente.

Il PML è un fattore macroeconomico molto importante, in quanto indica la produttività del lavoro. Maggiore è la produttività delle imprese, maggiore è il tenore di vita dei cittadini. La produttività aumenta per l’aumento del capitale o per l’aumento della sua efficienza o per il miglioramento tecnologico.

 

Rendimenti marginali decrescenti.

La maggior parte dei processi produttivi hanno un prodotto marginale del lavoro decrescente. Questo accade perché quando i lavoratori sono troppi diventano inefficienti e la maggior quantità di produzione dovuta all’assunzione di nuovi lavoratori diminuisce. La legge dei rendimenti marginali decrescenti afferma che incrementi uguali di un fattore produttivo mantenendo l’altro fisso generano aumenti di produzione via via minori. Questa legge è sempre valida nel breve periodo  e in alcuni casi del lungo periodo. Questa legge non deriva da una riduzione della qualità del lavoro, in quanto nelle nostre analisi si usa l’ipotesi che il lavoro sia omogeneo. La legge dei rendimenti marginali decrescenti non implica che il prodotto marginale sia negativo (anche se può esserlo), ma che diminuisca all’aumentare del fattore di produzione.


La legge dei rendimenti marginali decrescenti è valida per una certa tecnologia; con il tempo il progresso tecnologico può far spostare la funzione di produzione verso l’alto, andando contro la legge dei rendimenti marginali decrescenti. Se c’è un miglioramento della tecnologia infatti i rendimenti marginali posso anche crescenti perché il miglioramento compensa gli effetti negativi della legge.

 

Analisi di lungo periodo.

Nel lungo periodo entrambi i fattori produttivi sono variabili e per descrivere la curva di produzione occorre considerare gli isoquanti. Gli isoquanti hanno pendenza negativa perché i prodotti marginali del lavoro del capitale sono positivi, quindi per mantenere costante la quantità di produzione, se un fattore aumenta l’altro deve diminuire.

Quando abbiamo due fattori variabili l’impresa può voler sostituire un fattore all’altro. Ciò che ci dice come avviene la sostituzione è la pendenza dell’isoquanto che, tralasciando il segno negativo, è data dal saggio marginale di sostituzione tecnica del lavoro al capitale. Il saggio marginale di sostituzione tecnica ci dice di quanto dobbiamo ridurre il capitale quando si impiega un’unità di lavoro addizionale in modo da mantenere costante la quantità prodotta. Ciò significa che ci si muove lungo l’isoquanto. SMST = DK/DL fissato Q. Il saggio marginale di sostituzione tecnica è per convenzione positivo. All’aumentare del lavoro, il SMST diventa sempre minore, in quanto il lavoro diventa meno produttivo e il capitale più produttivo, perciò per mantenere costante la produzione, bisogna ridurre il capitale di una quantità minore. Questo accade perché il prodotto marginale del lavoro è minore quando il lavoro aumenta e il prodotto marginale del capitale è maggiore quando questo diminuisce.

 

SMST – P’L e P’K

L’aumento di Q legato ad L à DQ = P’L · DL

L’aumento di Q legato a K à DQ = P’K · DK

La variazione totale di Q à DQ = P’L · DL + P’K · DK

Poiché ci siamo muovendo sull’isoquanto, DQ = 0 à P’L · DL + P’K · DK = 0

Quindi P’L/P’K = - DK/DL

Il saggio marginale di sostituzione tecnica perciò è uguale al rapporto tra i prodotti marginali dei due fattori in valore assoluto.

 

Casi estremi di sostituzione.

  • I fattori produttivi sono perfetti sostituti l’uno dell’altro. In tal caso il SMST è costante lungo tutto l’isoquanto e l’isoquanto è una retta. Questo ci dice che in questa situazione per l’impresa è indifferente usare più lavoro o più capitale.
  • Fattori di produzione a coefficienti fissi. Non è possibile nessuna sostituzione tra i fattori produttivi, perciò ogni livello di produzione richiede una combinazione specifica di lavoro o capitale. Per aumentare la produzione occorre aumentare sia lavoro che capitale. In questo caso la curva degli isoquanti assume una forma ad “L”.

 

I rendimenti di scala.

Nel lungo periodo l’impresa è interessata a migliorare la produzione e per farlo cerca di usare la sua scala operativa facendo variare nella stessa proporzione i fattori produttivi. In questo caso si hanno i rendimenti di scala, che rappresentano il tasso a cui aumenta la produzione in rapporto all’aumento dei fattori produttivi. Si possono avere tre casi:

  • Rendimenti di scala crescenti: la produzione aumenta di un fattore maggiore rispetto all’aumento dei fattori della comunicazione.
  • Rendimenti di scala costanti: il livello di produzione aumenta dello stesso fattore con cui aumentano i fattori di produzione
  • Rendimenti di scala decrescenti: il livello di produzione aumenta di un fattore minore rispetto a quello con cui aumentano i fattori di produzione.

L’IMPRESA

 

L’impresa massimizza il profitto e può farlo nel punto in cui ricavo totale – costo totale è massimo.

 

Il costo totale è dato dalla somma dei costi fissi e dei costi variabili. Ct=Cf+Cv. Il costo totale è il costo che l’impresa incontra per produrre una certa quantità di prodotto nell’unità di tempo. Il costo totale è in funzione della quantità di bene prodotta. Ct = f(Qx). Ct e Qx sono direttamente proporzionali tra di loro. La funzione dei costi totali è speculare alla funzione di produzione.

      

 

Nel primo tratto il costo totale cresce velocemente perchè I costi fissi hanno un peso preponderante e la produzione non è a pieno regime. Nel tratto centrale il costo totale è decrescente perché l’impresa si trova in una fase di piena efficienza produttiva in cui non ci sono sprechi. Dopo questo tratto i costi totali crescono velocemente perché i fattori produttivi vengono usati in maniera peggiore e i costi variabili sono preponderanti.

 

Nel costo totale, oltre alle spese necessarie per produrre, vanno conteggiati anche i costi opportunità, cioè i mancati guadagni che si otterrebbero se il capitale fosse investito in altre attività, come nell’acquisto di obbligazioni.

 

I costi marginali sono la variazione dei costi quando aumento la quantità di un’unità, cioè è il costo incontrato dall’impresa per ottenere un ulteriore unità di prodotto. Cmg = DCt / DQ. I costi marginali non risentono dei costi fissi, ma solo di quelli variabili. Questo determina l’andamento della funzione dei costi marginali, che scendono fino ad un minimo per poi aumentare di nuovo. Il costo marginale geometricamente è la pendenza della tangente alla curva dei costi totali, cioè la tangente goniometrica dell’angolo che la tangente forma con l’asse delle x. Il costo medio invece è il costo totale incontrato dall’impresa diviso per il numero di unità prodotte del bene. Cm = Ct/Q. All’inizio il costo medio è lato perché i costi fissi si ripartiscono su poche unità del bene e quindi incidono molto sul costo medio. Il costo medio diminuisce fino al punto in cui è minimo e da lì risale per il maggior peso che assumono i costi produttivi. Cmg e Cm si incontrano nel punto di minimo del costo medio.

                                                                                                                             


L’oligopolio (Pyndick, capitolo 12)

 

Nell’oligopolio ogni impresa deve tenere conto delle altre imprese: ogni impresa può influire sul prezzo e sulla quantità e sul prezzo del  bene e subisce l’influsso delle decisioni delle altre imprese. Nell’oligopolio ogni impresa fa il massimo che può dato ciò che fanno le altre imprese.

 

Le imprese in regime di monopolio possono tenere tre comportamenti: collusione, cooperazione e competizione. La collusione si ha quando le due aziende si comportano sulla base di un accordo come un’azienda sola, cioè come in condizioni di monopolio. Questo comportamento è illegale perché nocivo per la società, in quanto implica alti prezzi e quantità basse. La collusione è sanzionata dall’autorità antitrust, istituita in Italia nel ’90. L’autorità garante della concorrenza del mercato è formata da cinque membri politicamente indipendenti, che possono istruire un processo contro le aziende ritenute colpevoli di violare la disciplina in materia di concorrenza. La cooperazione è una sorta di collusione implicita, è desiderata dalle imprese, ma è difficile da raggiungere, in quanto è difficile che le imprese si accordino senza un obbligo reciproco. Quando le due imprese sono in competizione il mercato è in concorrenza e questa rappresenta la soluzione migliore per il consumatore.

 

Nella realtà le imprese si avvalgono della cooperazione e della competizione. Lo studio della teoria dei giochi spiega come le imprese prendano le decisioni e cerca di prevedere quale situazione si verificherà in futuro. Normalmente le imprese finiscono per competere, essendo difficile cooperare senza un accordo.

 

La ragione per cui esistono i monopoli sta soprattutto nell’esistenza di barriere all’entrata, che sono principalmente barriere di scala, cioè costi fissi molto alti.

 

 

 

 P1

 

 

                                              

                                            D1(0)

                                              

                                            D1(50)

                                           D1(75)                                  

  O                                        Q1                                                           

 L’equilibrio del monopolista è diverso a seconda che le decisioni siano simultanee (modello di Cournot) o sequenziali (modello di Stackelberg). Il modello di Stackelberg prevede che l’impresa leader possa prendere le decisioni prima delle altre imprese: in questo modo l’impresa che decide per prima produce di più e ha profitti molto alti (vantaggio della prima mossa).

MODELLO DI COURNOT

Il numero indica l’azienda, il numero tra parentesi la produzione dell’azienda concorrente. Per semplicità supponiamo che l’oligopolio sia un duopolio (cioè ci siano due aziende sul mercato)

 

 

 Se le altre imprese producono 0, la curva di domanda dell’impresa coincide con la curva di domanda di mercato, invece man mano che la produzione delle altre imprese aumenta D1 viene traslata verso il basso. La posizione della curva di domanda di un’impresa dipende quindi dalle decisioni delle altre imprese. Anche in un oligopolio l’impresa cerca di massimizzare il profitto, posto ciò che fanno le altre imprese. Per massimizzare il profitto deve scegliere il livello di produzione in cui C’ = R’. Date D1, R’1 e C’1 l’azienda vorrebbe produrre Q* e venderlo a P*, ma non è detto che P* sia il prezzo di equilibrio perché dipende dalle decisioni di una sola impresa. Q* infatti è in funzione anche della quantità prodotta dall’altra impresa: maggiore è Q2, minore è Q*. All’aumentare di Q1, diminuisce Q2. La curva che si ottiene mettendo sugli assi Q1 e Q2 si chiama curva di reazione. L’equilibrio del mercato si ha nel punto in cui si intersecano le due curve di reazione. In E c’è il massimo profitto per entrambe le aziende e le due imprese non sono incentivate a variare la produzione.

Nel monopolio e nell’oligopolio siamo lontani dalla concorrenza, per cui lo stato interviene per aumentare i vantaggi dei cittadini.

à ANTITRUST

    • impedire fusioni
    • imporre vendite
    • impedire la collusione

à REGOLAMENTAZIONE DEL PREZZO

    • tariffe, fissate da autorità che hanno il potere di regolare il prezzo, a cui le imprese monopoliste ed oligopoliste vendono beni e servizi.

à PROPRIETA’ PUBBLICA

    • lo stato possiede le aziende che detengono il monopolio. La proprietà pubblica porta ad un aumento dei costi.

à NON AGIRE

    • poiché i tre metodi di intervento non sono perfetti, per ovviar al fallimento del mercato la cosa migliore è non fare nulla.

Concorrenza monopolistica.

La concorrenza monopolistica è una forma di mercato ibrida tra concorrenza perfetta e monopolio.

à molte imprese e di piccole dimensioni

à beni simili, ma differenti, per cui ogni impresa ha un certo potere di monopolio in quanto è l’unica a produrre un certo bene specifico

à barriere di entrata e di uscita trascurabili (perciò bassi o nulli costi fissi).

 

Lungo periodo – breve periodo. Nella concorrenza monopolistica il lungo periodo è quando le imprese hanno concluso i processi di entrata ed uscita nel mercato, per cui sul mercato ci sono solo le imprese che hanno i requisiti per rimanerci. Il breve periodo è quel periodo in cui le imprese che vogliono uscire non sono ancora uscite e quelle che vogliono entrare non sono ancora entrate.

 

Nel breve periodo ci sono due tipi di imprese: il tipo A che realizza profitti positivi e vuole rimanere sul mercato, il tipo B che realizza solo perdite per cui esce.

 

Le imprese di tipo A realizzano un profitto pari all’area del rettangolo verde perché P* e Cm* per il punto in cui R’ = C’ . L’impresa di tipo A vuole quindi ritornare sul mercato. L’impresa di tipo B invece realizza una perdita perché nel punto in cui R’ = C’ Cm* > P*. L’impresa di tipo B è gestita comunque in maniera razionale, ma può solo ottenere la perdita minore possibile. In queste condizioni l’impresa vuole uscire dal mercato.

 

Nel lungo periodo le imprese in perdita possono uscire dal mercato. Per le imprese che rimangono nel mercato la curva di domanda si sposta verso destra, per cui si sposta anche la curva del ricavo marginale che è legata alla curva di domanda. Per questo motivo a parità di prezzo l’impresa vende una maggior quantità di prodotto. Però ci sono anche imprese nuove che vogliono entrare sul mercato e che spostano la curva di domanda e la curva di ricavo marginale a sinistra. Questo fenomeno si blocca quando la curva di domanda diventa tangente al ricavo marginale. In questa situazione P* = Cm* e le imprese non incorrono profitto ne perdita.

à come nella concorrenza perfetta non c’è ne profitto di perdita

à come nel monopolio P > C’ e Q* è minore della quantità di prodotto che si otterrebbe in un mercato a concorrenza perfetta. La maggior parte dei mercati è in queste condizioni, per cui lo stato non interviene. Se dovesse usare la proprietà pubblica lo stato dovrebbe diventare proprietario dell’intera economia. I costi della regolamentazione inoltre sarebbero maggiore della perdita secca.

 



IL COMMERCIO INTERNAZIONALE

 

Bilancia dei pagamenti: documento tecnico-contabile che registra in maniera sistematica le transazioni di una nazione col resto del mondo. Se le esportazioni eccedono le importazioni c’è un surplus della bilancia dei pagamenti.

 

Per i mercantilisti la ricchezza di una nazione si misura dalla quantità di oro e di argento posseduta, perciò è importante avere una bilancia dei pagamenti in surplus

 

Per Smith lo scambio internazionale è possibile e conveniente se c’è un divario tra i costi assoluti dei beni. La teoria dei costi assoluti viene criticata da Ricardo, perché ciò che conta è il divario tra i costi comparati. I costi comparati sono il rapporto tra i costi dei due beni. Ricardo vede i costi come ore di lavoro necessaire per la produzione del bene

 

 

A

B

Bene X

1

3

Bene Y

2

9

 

 Nel paese A il rapporto tra i costi di x e di y è pari ad 1/2, mentre in B x costa 1/3 di y. Ciò vuol dire che un’unità di bene x costa mezza unità di bene y nel paese A o che per produrre un’unità del bene A è necessario affrontare un terzo dei

costi necessari per produrre un’unità del bene B. In base a questi rapporti il costo comparato di x è maggiore in A che in B, mentre il costo comparto di y è maggiore in B che in A. In base a queti rapporti ci sono le condizioni per attivare uno scambio vantaggioso. Il consumatore del paese A può comprare il bene X ad un prezzo di 0,5 unità del bene Y, mentre il produttore del bene X nel paese B può venderlo ad un prezzo pari a 0,33 unità del bene Y. Uno scambio con un valore compreso tra 0,33 e 0,5 risulterà vantaggioso per entrambi.

 

Il limite di questa teoria sta nel fatto che Ricardo considera i costi sotto forma di ore di lavoro, che non sono una misura omogenea, e che parla di costi e non di prezzi. Questa teoria viene corretta da Haberler nel 1933, che introduce le curve di trasformazione. Se noi consideriamo due beni, c’è convenienza allo scambio se le combinazioni dei due beni si trovano lungo la curva di trasformazione, o frontiera delle possibilità produttive. Haberler considera dati i fattori produttivi (capitale e lavoro) e lo stato ella tecnica. Il paese può impiegare i fattori della tecnica per produrre diverse quantità di beni.

A è la quantità massima di bene Y quando tutti i fattori sono impiegati nella sua produzione. B è la quantità massima di bene X che si può produrre impiegando tutti i fattori nella sua produzione. Unendo A e B si ha la curva di trasformazione, o frontiera delle possibilità produttive.

Definizione 1) La curva di trasformazione è l’insieme di tute le combinazioni di flussi di produzione di x e di y che un paese, date le risorse produttive di cui dispone, può produrre se impegna per intero ed al meglio le sue imprese.

Definizione 2) La curva di trasformazione è una frontiera che separa le combinazioni di flussi di produzione di x e di y che il paese date le risorse di produzione può produrre dalle combinazioni di x e di y che il paese non può produrre.

La curva di trasformazione ha pendenza negativa e crescente, concavità rivolta verso il asso. La pendenza negativa è definita come il tasso marginale di trasformazione. TMT = DY / DX. Il tasso marginale di trasformazione è la quantità di bene y alla cui produzione il paese deve rinunciare se vuole accrescere la produzione del bene X fermo restando l’impiego delle risorse di produzione. Il tasso marginale di trasformazione è il rapporto al quale è possibile sostituire la produzione di un bene alla produzione di un altro bene: è un costo alternativo. Il Tasso marginale di trasformazion è crescente perché opera la legge dei rendimenti marginali decrescenti.

 

Per decidere se lo scambio è conveniente bisogno introdurre anche la retta dei prezzi, la cui pendenza è data dal rapporto tra Px e Py. Si ha un fascio di rette dei prezzi è quella tangente alla curva di traformazione che indica la condizione ottimale di scambio. Nel punto in cui la retta dei prezzi è tangente alla curva di trasformazione  DY / DX = Px / Py. Se introduciamo lo scambio le combinazioni possibili non sono più solo quelle tra A e B, ma quelle tra gli estremi della retta dei prezzi. In questo modo lo scambio permette di andare oltre la curva di trasformazione, quindi oltre i vincoli imposti dallo stock di produzione di un paese. Perciò se attivo lo scambio posso andare oltre l’ottimo produttivo.

 

I costi non sono misurati in ore di lavoro, ma dal tasso marginale di trasformazione, cioè sono misurati come costi alternativi. Questa analisi coinvolge anche i prezzi, per cui viene considerata anche la domanda. I costi sono crescenti, per cui la curva di trasformazione è una curva. Con questa analisi si prevede che il paese tenderà a specializzarsi nel bene che esporta, ma non completamente, continuando a produrre anche una piccola quantità del bene che importa tramite lo scambio internazionale.

 

Ohlin: specializzazione completa. Il teorema di Ohlin cerca di spiegare perché i paesi hanno differenti curve di trasformazione e perché esistono delle diversità tra i costi comparati. Ogni paee ha una sua ricchezza di lavoro e di capitale, per cui ogni paese dovrà specializzarsi nella produzione di quei bene compatibili con la sua ricchezza. Un paese ricco di capitale ha una produttività marginale del lavoro alta, perciò salari più alti per cui ha convenienza a specializzarsi nelle produzioni che richiedono poco lavoro e molto capitale (e viceversa).


I FALLIMENTI DEL MERCATO

 

I fallimenti del mercato hanno quattro possibili cause:

  • Potere di mercato
  • Informazione asimmetrica
  • Esternalità
  • Beni pubblici

 

Potere di mercato.

Quando produttori hanno un certo potere di mercato (come nelle condizioni di oligopolio o monopolio) viene prodotta una quantità minore di bene ad un prezzo più alto, perchè si ha che C’=R’ e non C’=P. Non rispettando questa condizione il mercato non opera in maniera efficiente

 

Informazione asimmetrica

Ci sono casi in cui i consumatori non hanno un’informazione sufficiente sui prezzi o sulle qualità dei beni, per cui i produttori fissano un livello di produzione troppo alto o troppo basso. Ci sono casi in cui il produttore ha una mancanza di informazioni riguardo al consumatore e in questo caso c’è il rischio che un mercato non si sviluppi.

 

Lo studio di Akerlof sul mercato delle macchine usate.

Akerlof ipotizza che in un mercato di macchine usate ci sia l’informazione perfetta riguardo alla qualità delle macchine e ipotizza che esistano macchine di due qualità diverse: alta qualità e bassa qualità. Perciò si avranno due equilibri:

     

 

Supponiamo ora che una frazione di compratori non disponga più di un’informazione completa, ma creda che tutte le macchine abbiano la stessa qualità. Nel mercato della auto di alta qualità la curva di domanda si sposta verso sinistra, il prezzo diminuisce, perciò l’offerta è minore. Aumentando la frazione di compratori non perfettamente informati, i consumatori saranno sempre più portati a comprare macchina di qualità inferiore e a pagarle meno per evitare “bidoni”, che si avrebbero se l’acquirente acquistasse una macchina di bassa qualità spacciata per una macchina di alta qualità. In questa situazione i venditori di macchine di alta qualità non vorranno vendere le proprie macchine, perché il loro prezzo è troppo basso, così scompare il mercato delle macchine usate di alta qualità.

 

Per risolvere il problema dell’informazione asimmetrica si possono seguire due strade:

  • la reputazione: i produttori di beni di alta qualità possono eliminare l’informazione asimettrica creando una buona reputazione del proprio prodotto
  • i segnali al mercato: i produtttori di beni di alta qualità possono inviare segnali al mercato ad esempio ottenendo delle certificazioni di qualità

 

Esternalità.

Le esternalità sono tutti quegli effetti esterni al mercato provocati dall’attività di produzione e consumo degli individui sull’attività di produzione e consumo di altri individui. Le esternalità non si riflettono sul sistema dei prezzi, i quali per questo motivo non sono in grado di veicolare le informazioni corrette. Infatti in un mercato a concorrenza perfetta il sistema dei prezzi è un meccanismo efficiente di scambio di informazioni, ma esistono casi in cui questo sistema non è in grado di scambiare informazioni corrette perché non riesce a riflettere le esternalità.

 

Le esternalità possono produrre benefici o costi alle attività di produzione e consumo degli altri individui Quando aumentano i costi si chiamano esternalità negative o diseconomie  e comportano un fallimento del mercato perché i prezzi non riescono a trasmettere le informazioni corrette, per cui il livello di produzione sarà inefficiente (troppo alto in caso di esternalità negative o troppo basso nel caso di esternalità positive). Le esternalità dipendono dalle interazioni tra produttori e consumatori, per cui possono esserci

  • esternalità da produttore a produttore
  • esternalità da produttore a consumatore
  • esternalità da individuo ad individuo

 

CE: Costi esterni all’attività di produzione dell’impresa.

CS: Costi comprendenti il costi esterni (costi sociali)

QS* e PS*: quantità e prezzo comprendenti i costi esterni

 

In corrispondenza di Q* viene prodotto un danno pari ad M, anche se esistono difficoltà oggettive nel misurare questi costi. Dal punto di vista sociale Q* non è un livello di produzione efficiente se si considera anche il danno prodotto dall’attività di produzione dell’impresa. Se l’impresa tenesse in considerazione anche i costi esterni causati dalla sua produzione otterrebbe una nuova curva dei costi: CS, o costo sociale, dato dalla somma dei Costi con i Costi Esterni (in questo grafico sono riportate le curve dei costi marginali, che si ottengono nello stesso modo).Se l’impresa internalizza i costi si ha un nuovo livello di produzione QS* che è minore di Q*, a cui corrisponde PS* che è maggiore di P*. La perdita secca è data dall’area in rosso, cioè dalla differenza tra la curva dei ricavi marginali e dei costi marginali in corrispondenza di QS*. Il livello di produzione QS* causerà però un aumento di benessere per la collettività pari all’area in blu sottesa alla curva dei Costi Esterni.

 

L’azienda non internalizzerà i costi esterni volontariamente, per cui occorre mettere in atto alcuni provvedimenti.

 

 

1) Metodi pubblici: imposta Pigouviana

L’imposta è un tributo che lo stato impone di pagare. L’imposta è specifica per un determinato livello di produzione e per far sì che l’impresa internalizzi il danno dev’essere uguale al Costo Esterno associato al livello di produzione QS*. La nuova curva dei Costi è C’2 ed è parallela a C’, ma traslata di una quantità pari ad L-QS*. 

Il problema connesso all’imposta Pigouviana è che se non c’è un’esatta misurazione del danno, l’aliquota può risultare troppo alta o troppo bassa.

 

2) Metodi pubblici: regolamentazione

Lo stato definisce un livello massimo di emissioni producibile dalla collettività e una serie di sanzioni per chi supera questo limite. Questo è uno strumento detto di “command and control”. Questo strumento dà certezza riguardo al livello di emissioni. Il punto debole è che il controllo è un’attività costosa e che impone un comportamento uguale per tutti. Ciò fa sì che non sia una soluzione efficiente, in quanto ogni impresa ha condizioni di produzione diverse e diversi costi esterni.

 

3) Metodi privati: teorema di Coase

Il teorema di Coase afferma che il mercato può correggere l’esternalità senza ricorrere necessariamente all’intervento pubblico. Il problema delle esternalità è l’assenza di diritti di proprietà, per cui la attraverso dei diritti di proprietà è un modo efficiente per correggerlo. Attraverso i diritti di proprietà le parti coinvolte possono raggiungere un accordo tale che chi danneggia un bene paghi un danno corrispondente al suo possessore. In tal modo il mercato può correggere le esternalità, ipotizzando che siano nulli i costi di transazione. Il problema sono proprio i costi di transazione, in quanto le esternalità coinvolgono una moltitudine di soggetti da risarcire.

 

4) Metodi privati: il mercato delle emissioni.

Lo stato definisce un livello massimo di emissioni, perciò un ammontare massimo dei diritti ad inquinare. Successivamente, attraverso meccanismi di mercato, viene definito il prezzo dei diritti stessi. A seconda della domanda dei diritti ad inquinare, si stabilisce il prezzo di quei diritti. Poi si creerà il mercato delle emissioni, per cui le imprese che inquinano meno venderanno i loro diritti, in modo che la loro distribuzione sia funzionale all’economia, mentre il totale sia funzionale alla collettività. La difficoltà principale di questo metodo sta nella distribuzione iniziale dei diritti.

 

 

 

 


Beni pubblici

 

Esistono beni prodotti in quantità insufficiente dal mercato, a causa delle caratteristiche di non rivalità e di non escludibilità nel consumo.

 

Il consumo dei beni pubblici da parte di individuo è non rivale, cioè compatibile con il consumo di altri individui. Questo fatto comporta che l’aggiunta di uno o più consumatori non aumenta il costo di produzione né causa una riduzione del consumo per gli altri individui. Un bene privato è rivale, quindi non è compatibile con il consumo di uno più altri individui. L’aggiunta di uno o più consumatori aumenta i costi di produzione e comporta una riduzione del consumo per gli altri individui. Nel caso di beni non rivali, indicando con xi la quantità di bene consumata dall’individuo e i-esimo e con X la quantità di bene totale, si ha che X = x1  = x2  = x3  = … = xn. Ciò vuol dire che la quantità di bene consumata da un individuo è uguale alla quantità che consuma ogni altro individuo e aggiungere un individuo non diminuisce la quota che spetta ad ognuno. Nel caso di beni rivali si ha che X = x1  + x2  + x3  + … + xn , cioè la quantità che ognuno consuma è sottratta a consumo di altri.

In realtà le categorie di rivalità e non rivalità sono categorie estreme: in generale ogni bene ha un certo grado di rivalità. Si ha quindi che X = x1  + ax2 , con 0 £ a £ 1. Se a = 1 i beni sono rivali, se a = 0 i beni sono non rivali.

 

La non escludibilità indica l’impossibilità o la difficoltà di escludere qualcuno dal beneficiare di un certo bene. La non escludibilità può essere tecnica o economia: è tecnica quando è dovuta alle caratteristiche del bene (per esempio le trasmissioni televisive), è economica quando è legata ai costi troppo elevati che l’escludibilità comporta.

 

Tutti i beni non rivali e non escludibili sono definiti beni pubblici puri. I beni pubblici producono esternalità positive che il produttore privato non sarebbe in grado di ripagarsi attraverso il meccanismo dei prezzi, per cui non c’è convenienza nella produzione privata di beni pubblici. Per questo la fornitura dei beni pubblici viene effettuata dallo stato, che può attraverso il suo potere di coazione imporre alla collettività di contribuire al costo di produzione e di distribuzione dei beni pubblici attraverso prelievi fiscali.

 

I beni pubblici puri sono molto pochi, nella maggior parte dei casi si tratta di beni pubblici misti, con un certo grado di rivalità o escludibilità o di entrambe. Lo stato fornisce anche beni pubblici misti, perché la collettività ne domanda la fornitura allo stato e perché lo stato riesce a garantire il controllo sulla qualità dei beni. Ci sono poi beni misti che sono “merit goods”, beni che la collettività merita, ma che l’industria privata non fornirebbe in toto.

 

La domanda aggregata dei beni pubblici è diversa dalla domanda aggregata dei beni privati per l’aggregazione delle domande invidiali e per la ripartizione dei costi. Per i beni privati l’aggregazione della domanda è fatta attraverso una somma orizzontale delle singole domande. Per i beni pubblici la quantità è disponibile per tutti i membri della collettività, quindi quello che è importante è stabilire in che misura ogni individuo debba contribuire al costo di fornitura del bene. Per ogni Q si definisce il contributo che ogni individuo è disposto a pagare, quindi il processo di aggregazione non sarà a somma orizzontale, ma a somma verticale.

 


 

 La domanda aggregata dei beni pubblici è diversa dalla domanda aggregata dei beni privati per l’aggregazione delle domande invidiali e per la ripartizione dei costi. Per i beni privati l’aggregazione della domanda è fatta attraverso una somma orizzontale delle singole domande. Per i beni pubblici la quantità è disponibile per tutti i membri della collettività, quindi quello che è importante è stabilire in che misura ogni individuo debba contribuire al costo di fornitura del bene. Per ogni Q si definisce il contributo che ogni individuo è disposto a pagare, quindi il processo di aggregazione non sarà a somma orizzontale, ma a somma verticale. Questo significa che occorre sommare i prezzi e non le quantità.

P = 10 – Q + 15 – Q = 25 – Q per la parte in cui le curve si sommano, cioè per 0 < Q < 10. Dove le due curve non si sommano, P = P2.

Supponendo che i costi marginali siano costanti, l’offerta è costante, per cui la soluzione ottimale è data dall’incontro tra domanda e offerta, punto detto di “first best”. Questa condizione è difficilmente ottenibile perché presupporrebbe che ogni individuo rivelasse le prore preferenze. Inoltre poiché ogni individuo sa che anche se non contribuisse al servizio, il servizio verrebbe fornito, alcuni consumatori si comportano da free riders, cioè non pagato il contributo dovuto. La non rivelazione delle preferenza e l’esistenza dei free riders comporta impossibile il raggiungimento del first best.

Per questo motivo è lo stato che stabilisce quanto servizio fornire e quanto ognuno deve contribuire, determinando un punto di second best.

 

Tra le tre funzioni che svolge lo stato (distributiva, di stabilizzazione macroeconomia e allocativa), attraverso il sistema dei beni pubblici il sistema assolve alla funzione allocativa.

 

Fonte: http://www.aula28.altervista.org/appunti/economia_politica_1.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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