Immanuel Kant

 

 

 

Immanuel Kant

 

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1.KANT:LA VITA

Kant nacque da una famiglia di origine scozzese, a Konigsberg che era il capoluogo della Prussica orientale. Egli condusse lo studio della matematica, di filosofia e della filosofia newtoniana. Dopo gli studi fece da precettore in alcune case patrizie e insegnò all’Università nella sua città. Nel 1770 fu nominato professore di logica e metafisica e mantenne quest’occupazione sino alla morte.

 

La vita di Kant fu priva di eventi drammatici e passione, egli aveva pochi amici in quanto la sua vita fosse basata su rigide abitudini (come compiere ogni giorno le stesse cose alla stessa ora). Kant però prese parte agli avvenimenti politici del suo tempo. Nella guerra d’indipendenza  si dimostrò a favore degli americani e dei francesi e dei loro ideali nella rivoluzione.Il suo ideale politico era una repubblica basata sul diritto di libertà e sul principio di intendenza e sul diritto di uguaglianza. Con l’ascesa al potere di Federico Guglielmo la libertà di stampa fu ripristinato e Kent poteva rivendicare i suoi principi contro il dispotismo .Kant mori nel 1804 dicendo “Sta bene”.

 

2.Il Criticismo come “filovia del limite” e l’orizzonte storico del pensiero kantiano”:
Il pensiero di Kant è detto criticismo e  si contrappone al dogmatismo; il dogmatismo consiste nell’accettare opinioni e dottrine senza prima accertarsi della loro veridicità. Mentre il criticismo di  Kant significa “valutare”e interrogarsi , chiarendo le possibilità (ovvero le condizioni che determinano l’esistenza di una cosa), la validità (la possibile accettazione di una determinata cosa) e i limiti entro cui una cosa può essere considerata valida.

 

  • Il criticismo si configura come una filosofia del limite e può venir definito come un'interpretazione dell'esistenza volta a stabilire, nei vari campi dell’esperienza il carattere finito delle possibilità esistenziali, che non potranno mai garantire l’onnipotenza dell’individuo. Questa filosofia del finito non equivale tuttavia ad una forma di scetticismo, poiché tracciare il limite di un'esperienza significa nello stesso tempo garantire, entro il limite stesso, la sua validità. . Esiste quindi un legame che unisce, e al tempo stesso divide Kant e Hume(empirismo). Kant si propone di rinunciare ad andare oltre i limiti dell'uomo e, come egli stesso dice deve questa rinuncia a Hume, che ha rotto suo sonno dogmatico. Il criticismo non è solo un’innovazione di Kant, ma anche l'esito di determinate condizioni intellettuali che derivano dal contesto storico del filosofo e dal corso del pensiero precedente. Il kantismo si inserisce tra la Rivoluzione scientifica da un lato e la crisi progressiva delle metafisiche tradizionali dall'altro.
  • Il criticismo appare evidente nelle tre più famose opere di Kant: Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica e Critica del Giudizio. Per questo motivo il kantismo può essere considerato il prosecutore dell’empirismo inglese di Locke ma tuttavia, esso  si distingue dall'empirismo sia per il rifiuto dei suoi atteggiamenti scettici, sia per via di un metodo di filosofare che non si sofferma sulla descrizione dei meccanismi conoscitivi etici e sentimentali ma è più interessato a fissare i limiti di validità.
  • Vi è poi un rapporto di somiglianza e differenza anche con l’Illuminismo. La principale differenza è che l'Illuminismo aveva portato dinanzi al tribunale della ragione l’intero mondo dell'uomo (ogniverità prima di essere accetata doveva passare prima attraverso la ragione), mentre Kant si propone di portare dinanzi al tribunale della ragione la ragione stessa, per chiarirne le strutture e possibilità. Tuttavia Kant e comunque figlio dell'Illuminismo, in quanto pensa che i confini della ragione possano essere tracciati soltanto dalla ragione stessa. Per Kant i limiti della ragione tendono a coincidere con i limiti dell'uomo: per cui, volerli varcare in nome di presunte capacità superiori alla ragione significa soltanto avventurarsi in sogni fantastici e peccare di superbia.

 

3. Il Problema Generale della Critica della ragion Pura:
La critica della ragion pura di Kant è essenzialmente un’ analisi accurata riguardo al fondamento del sapere. Il sapere all’epoca di Kant era diviso tra scienza e metafisica. Però Kant e anche alcuni suoi contemporanei concepiva la scienza e la metafisica in modo diverso. Infatti la scienza costituiva un sapere fondato e in continuo sviluppo grazie all’opera e ai successi degli scienziati, mentre la metafisica che si proponeva di scoprire la vera essenza delle cose trascendendo (andando oltre) l’esperienza non sembra aver trovato il cammino sicuro della scienza.
Hume aveva precedentemente messo in discussione sia in fondamenti principali della metafisica che quelli della scienza, per questo motivo Kant proponeva una revisione totale della struttura e della validità della scienza .Secondo Hume il rapporto tra causa ed effetto era necessario e non si può quindi dimostrare ne con l’esperienza, ne con il ragionamento; secondo Hume noi possiamo possedere solo una conoscenza empirica.Anche sotto questo aspetto Kant e Hume presentano affinità ma anche contrasti. Kantrifiuta lo scetticismo scientifico di Hume, perché considera la scienza uno strumento per ottenere una conoscenza vera. Mentre accetta lo scetticismo metafisico di Hume. Quindi si può dire che lo scopo della ricerca di Kant , sia quello di stabilire come siano possibili la matematica e la fisica in quanto scienze, e dall'altro come sia possibile la metafisica in quanto disposizione naturale e in quanto scienza. Da ciò derivano le quattro domande più importanti: “Com'è possibile la matematica pura?”, “Come possibile la fisica pura?”, “Come è possibile la metafisica in quanto disposizione naturale?", “Com'è possibile la metafisica come scienza?". Però come dice il filosofo mentre nel caso della  matematica e della fisica si tratta solo di giustificare solo come siano possibili determinate situazioni (perché sono già dimostrate dalla realtà), nel caso della metafisica si tratta di scoprire se esistano davvero condizioni i che possano legittimare le sue pretese di porsi come scienza, oppure se essa sia inevitabilmente condannata alla non-scientificita.


4. I giudizi sintetici a priori
Kant inizia la sua celebra opera “La critica della ragion pura “dicendo che nonostante ogni nostra conoscenza derivi inizialmente dall’'esperienzanon vuol dire che essa derivi interamente dall'esperienza. Questo perché potrebbe anche accadere che la nostra stessa conoscenza sia un composto di ciò che riceviamo dalle impressioni e di ciò che la nostra facoltà conoscitiva vi aggiunge da sé sola. Kant dice che questa teoria può essere convalidata dai giudizi sintetici a priori.
Kant ritiene che la conoscenza umana e soprattutto  la scienza  offra principi assoluti, ovvero verità universali e necessarie, che sono valide sempre e allo stesso modo. Sono sempre assolute e valide le proposizioni: “Tutto ciò che accade ha una causa”, “tutti i fenomeni in generale cadono nel tempo e stanno necessariamente fra di loro: in rapporti di tempo". Kant chiama queste proposizioni sempre valide , giudizi sintetici a priori. Giudizi perché consistono nell’associare un predicato ad un soggetto. Sintetici  perché il predicato dice qualche cosa di più riguardo al soggetto;e a priori perché questi giudizi essendo universali e necessari non possono derivare dall'esperienza. Secondo  Kant, quindi i giudizi fondamentali della scienza non sono né giudizi analitici a priori né giudizi sintetici a posteriori. I giudizi analitici a priori sono giudizi che vengono enunciati a priori, senza bisogno di ricorrere all'esperienza, in quanto in essi il predicato, non fa che esplicitare, quanto è già contenuto nel soggetto: ad esempio “i corpi sono estesi”. I giudizi sintetici a posteriori sono giudizi in cui il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto, aggiungendosi a quest'ultimo in virtù dell'esperienza, ovvero a posteriori: ad esempio “i corpi sono pesanti”. Questi giudizi, pur essendo sintetici, sono privi di universalità e necessità perché poggiano esclusivamente sull'esperienza.
La teoria kantiana dei giudizi opera un confronto storico con le scuole filosofiche precedenti. I giudizi analitici a priori rimandano  alla concezione razionalistica della scienza, che pretendeva di partire dalle idee innate per arrivare al modello di un sapere universale e necessario, ma sterile. I giudizi sintetici a posteriori rimandano all'interpretazione empiristica della scienza, che voleva fondare la stessa scienza sull'esperienza, delineando in tal modo il modello di un sapere sintetico ma privo di universalità e necessità.
Quindi riassumendo,i  giudizi sintetici a priori rappresentano i pilastri della scienza, ovvero 1'elemento che le conferisce stabilità ed universalità, ed in mancanza del quale essa sarebbe costretta a muoversi nell'incertezza.
5. La “Rivoluzione Copernicana”:
Dopo aver proposto un sapere che si fonda su giudizi sintetici a priori Kant dovette anche spiegare l’esistenza di questi ultimi. Per risolvere questo problema egli elaborò una teoria di conoscenza fondata su una sintesi di materia e forma. Per materia della conoscenza Kant intende la molteplicità caotica e mutevole delle impressioni sensibili che derivano dall'esperienza (= elemento empirico o a posteriori). Per forma invece si intende 1'insieme delle modalità fisse attraverso cui la mente umana ordina, secondo determinati rapporti, tali impressioni (= elemento razionale o a priori).
Kant pensa infatti che la mente filtri attivamente i dati empirici attraverso forme che le sono innate e che risultano comuni ad ogni soggetto pensante. Come tali, queste forme sono a priori rispetto all'esperienza e sono fornite di validità universale e necessaria, in quanto tutti le possiedono e le applicano allo stesso modo. Questa nuova impostazione del problema della conoscenza implica immediatamente alcune importanti conseguenze. Innanzittutto, essa comporta quella “rivoluzione copernicana” che Kant si vantò di aver operato in filosofia. Come Copernico, per spiegare i moti celesti, aveva ribaltato i rapporti fra lo spettatore e le stelle, e quindi fra la terra e il sole, cosi Kant, per spiegare la scienza, ribalta i rapporti fra soggetto ed oggetto, affermando che non è la mente che si modella passivamente sulla realtà. Ma è la realtà che si modella sulle forme a priori attraverso cui la percepiamo. Inoltre, la nuova ipotesi gnoseologica comporta la distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé. Il fenomeno è la realtà che ci appare tramite le forme a priori che sono proprie della nostra struttura conoscitiva. Il fenomeno non è un’apparenza illusoria, poiché è un oggetto, ed un oggetto reale, ma reale soltanto nel rapporto con il soggetto conoscente. La cosa in sé. é la realtà considerata indipendentemente da noi e dalle forme a priori mediante cui la conosciamo. Come tale, la cosa in sé costituisce un incognita che rappresenta tuttavia il necessario correlato dell' oggetto per noi o fenomeno.

6. La facoltà della Conoscenza e la partizione della "Critica della radon pura”
Kant divide la conoscenza in tre facoltà principali: la conoscenza deriva dai sensi, poi passa all’intelletto e in seguito alla ragione.
Per sensibilità si intende la facoltà con cui gli oggetti ci sono dati intuitivamente attraverso i sensi e tramite le forme a priori di spazio e tempo.
L' intelletto (in senso stretto) è definito come la facoltà attraverso cui pensiamo i dati sensibili tramite i concetti puri o categorie.
La ragione (in senso stretto) e la facoltà attraverso cui, andando oltre l'esperienza, cerchiamo di spiegare globalmente la realtà attraverso le tre idee di anima, mondo e Dio.
In base a questa divisione della conoscenza in tre facoltà diverse, anche la critica della ragion pura si può dividere in due diversi “filoni”:

  • la dottrina degli elementi, che vuole scoprire, quegli elementi formali della conoscenza che Kant chiama puri o a priori
  • la dottrina del metodo, che consiste nel determinare 1'uso possibile degli elementi a priori della conoscenza, cioè il metodo della conoscenza medesima.

La dottrina degli elementi è la parte più vasta della Critica della ragion pura e si divide in Estetica trascendentale e Logica trascendentale.

  • l’Estetica trascendentale (intesa nel senso etimologico greco di “dottrina della sensibilità”) studia la sensibilità e le sue forme a priori di spazio e di tempo, mostrando come su di essa si fondi la matematica.
  • La Logica trascendentale si divide a sua volta in:
    • Analitica trascendentale, che studia 1'intelletto e le sue forme a priori – le 12 categorie – mostrando come su di esse si fondi la fisica;
    • Dialettica trascendentale, che studia la ragione e le sue tre idee di anima, mondo e Dio, mostrando come su di esse si fondi la metafisica.

Con trascendentale  Kant intende qualcosa che deriva dell'esperienza ma qualcosa che la precede cioè è a priori, però si applica alle nostre esperienze. Per esempio, il concetto di "causa" è un concetto trascendentale, infatti non lo deriviamo dall'esperienza, ma fa parte della struttura a priori del nostro intelletto, però lo applichiamo all'esperienza allo scopo di ordinare i fenomeni. Trascendentale, poi, ha anche un altro senso per Kant, significa quel tipo di studio delle nostre facoltà conoscitive che ha lo scopo di scoprire se noi abbiamo delle conoscenze pure, cioé a priori e che cerca anche di determinare il modo in cui noi usiamo queste consocenze.
La Critica rappresenta un'analisi delle possibilità conoscitive dell'uomo e costituisce  una specie di mappa filosofica della potenza e dell'impotenza della ragione (dei suoi limiti). Ovviamente, davanti al “tribunale" (come lo chiama Kant) della critica, la ragione appare come giudice e giudicato al tempo stesso, infatti, la critica è “della” ragione sia nel senso che la ragione è ciò che viene reso argomento di critica, sia nel senso che essa è ciò che mette in atto la critica.

7. L’Estetica trascendentale
7.1. La teoria dello Spazio e del tempo
Kant nell’estetica studia la sensibilità e le sue forme a priori. Kant dice che la sensibilità è recettiva e anche attiva. E’recettiva perché essa non produce  i propri contenuti ma li prende, per intuizione, dalla realtà esterna o dall'esperienza. E’anche attiva perchè organizza il materiale delle sensazioni (= le intuizioni empiriche) tramite lo spazio ed il tempo, che costituiscono le forme a priori (= le intuizioni pure) della sensibilità.
Lo spazio è definito come la forma del senso esterno, cioè quella “rappresentazione a priori, necessaria, che sta a fondamento di tutte le intuizioni esterne” e del disporsi delle cose “l'una accanto all'altra”.
Invece  Il tempo è definito come la forma del senso interno, ovvero una “rappresentazione a priori che sta a fondamento dei nostri stati interni e del loro disporsi l'uno dopo l'altro”, seguendo un ordine di successione. Però siccome i dati del senso esterno ci giungono attraverso il senso interno, il tempo può anche essere considerato, indirettamente, come la forma del senso esterno, cioè come la maniera universale attraverso la quale noi percepiamo tutti gli oggetti.Per cui, se non ogni cosa é nello spazio, ad esempio i sentimenti, ogni cosa e però nel tempo, in quanto tutti i fenomeni in generale, ossia tutti gli oggetti dei sensi, cadono nel tempo.Kant per giustificare la priorità dello spazio e del tempo usa sia argomenti teorici generali (nella cosiddetta, esposizione metafisica) sia argomenti che derivano dalla considerazione delle scienze matematiche (nella cosiddetta “esposizione trascendentale”).
Nella esposizione metafisica, il punto di vista di Kant emrge attraverso una confutazione che riguarda sia la visione empiristica(che considerava spazio e tempo come nozioni tratte esperienza), sia la visione oggettivistica(che considerava spazio e tempo come entità a se stanti o recipienti vuoti ), sia la visione concettualistica,( che considerava spazio e tempo come concetti esprimenti i rapporti fra le cose ).

  • Kant rifiuta la concezione empiristica dicendo che spazio e tempo non possono derivare dall'esperienza perchè per fare un’esperienza qualsiasi dobbiamo già presupporre le rappresentazioni originarie di spazio e di tempo.
  • Egli rifiuta anche la concezione oggettivistica dicendo che qualora spazio e tempo fossero davvero dei recipienti vuoti, ossia degli assoluti a sé stanti, essi dovrebbero continuare ad esistere anche se in essi non vi fossero oggetti. Ma come fare a concepire ,qualcosa che, senza un oggetto reale, sarebbe tuttavia reale”? A questo proposito  Kant, spiega che spazio e tempo non sono dei contenitori in cui si trovano gli oggetti, poiché in tal caso, come si è appena visto, sarebbe difficile concepire la loro esistenza autonoma, bensì sono solamente dei quadri mentali a priori entro cui colleghiamo i dati fenomenici. Questi fenomeni sono soggettivi rispetto alle cose in se stesse ma sono anche  reali e oggettivi, rispetto all’esperienza.Per questo motivo kant parla di “idealità trascendentale”, e di “realtà empirica” dello spazio e del tempo.
  • Kant rifiuta anche 1'interpretazione concettualistica affermando che spazio e tempo non possono essere trattati come concetti perchè essi hanno una natura intuitiva e non discorsiva, perché noi, ad es., non astraiamo il concetto di spazio dalla constatazione dei vari spazi (come il concetto di cavallo dai vari cavalli), ma intuiamo i vari spazi come parti di un unico spazio, presupponendo in tal modo la rappresentazione originaria di spazio, che risulta quindi una intuizione pura o a priori.
  • Dell’oggettivismo di Newton Kant rifiuta la sua concezione dello spazio e del tempo intese come realtà (ontologiche) a se stanti, però Kant si avvicina a Newton per la sua dottrina dello spazio e del tempo intese come coordinate assolute dei fenomeni.

7.2. La fondazione kantiana della matematica
Nella “esposizione trascendentale” Kant giustifica ulteriormente la priorità dello spazio e del tempo attraverso delle considerazioni sulla matematica, volte ad una fondazione filosofica della stessa matematica. Kant considera la geometria e l'aritmetica delle scienze sintetiche a priori per eccellenza. Sintetiche (e non analitiche) perchè ampliano le nostre conoscenze attraverso costruzioni mentali che vanno oltre il già noto. Per esempio, la proposizione 7 + 5 = 12 è sintetica perché noi otteniamo il risultato 12 tramite 1'operazione del sommare e non può quindi esser ricavato per via puramente analitica (ciò risulta evidente se si prendono in esame cifre più alte: ad esempio la semplice analisi mentale dei concetti aritmetici 62.525 + 48.734 non può affatto suggerirci il loro risultato, che occorre invece far scaturire sinteticamente mediante un calcolo, il quale soltanto ci fa scoprire che la somma dei suoi addendi é il 111.259). Inoltre, le matematiche sono a priori (e non a posteriori) perchè i teoremi geometrici ed aritmetici valgono indipendentemente dall'esperienza.
Kant  quindi usa intuitivamente l’aritmetica per spiegare le proprietà delle serie numeriche mentre usa intuitivamente la geometria per spiegare i teoremi geometrici e le figure; tutto questo senza ricorrere all’esperienza esterna. Di conseguenza essendo aritmetica e geometria basati su spazio e tempo, così come la sensibilità umana, allora possono essere applicate al mondo fenomenico.

 

http://anki.altervista.org/appunti/riassunti/criticismo_estetica_kant.doc
Autore: Sara Scasseddu

 


 

Immanuel Kant

L'Analitica Trascendentale

  • Le categorie:

La seconda parte della Dottrina degli elementi è costituita dalla Logica trascendentale che ha come oggetto di indagine l'origine, l'estensione e la validità oggettiva delle conoscenze a priori che sono proprie dell'intelletto (che è l’oggetto di studio dell’Analitica trascendentale) e della ragione (che è oggetto di studio della Dialettica trascendentale).
Secondo Kant sensibilità e intelletto sono entrambi indispensabili alla conoscenza, perché senza sensibilità, nessun oggetto ci verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato.
La prima parte dell'Analitica trascendentale è costituita dall’ Analitica dei concetti, in cui Kant afferma che le intuizioni sono qualche cosa di passivo, mentre i concetti sono delle operazioni attive, che consistono nell' ordinare o nell' unificare diverse rappresentazioni “sotto una rappresentazione comune".
Questi concetti si dividono in due categorie:

  • i concetti empirici, che sono costruiti  con materiali ricavati dall'esperienza,
  • i concetti puri, che sono quelli contenuti a priori nell'intelletto. I concetti puri si identificano con le categorie, cioè con quei concetti basilari della mente che rappresentano le supreme funzioni unificatrici dell'intelletto. E siccome ogni concetto è predicato di un giudizio possibile. le categorie coincidono con i predicati primi, cioè con quelle grandi caselle all’interno delle quali rientrano tutti i predicati possibili. Però a  differenza delle categorie aristoteliche che sono simultaneamente forme dell'essere e del pensiero, le categorie kantiane rappresentano i diversi modi di funzionamento dell'intelletto, che non valgono per la cosa in se, ma solo per il fenomeno.

Kant, che critica Aristotele, il quale raggruppò le categorie in modo casuale e frammentario, ossia senza seguire un principio sistematico comune. Kant formula il suo inventario sulla base del seguente principio: poiché pensare è giudicare [e giudicare, come si è visto, significa attribuire un predicato ad un soggetto], ci saranno tante categorie [cioè tanti predicati primi], quante sono le modalità di giudizio [ovvero quante sono le maniere fondamentali tramite cui si attribuisce un predicato ad un soggetto]. E siccome secondo Kant la logica generale, raggruppa i giudizi secondo la quantità, la qualità, la relazione e la modalità, egli fa corrispondere ad ogni tipo di giudizio un tipo di categoria, secondo uno schema preciso:


 

Tavola delle Categorie

 

Quantità

Qualità

Relazione

Modalità

 

Unità

Realtà

Inerenza/sussistenza (accidente/ sostanza)

Possibilità
Impossibilità

 

Pluralità

Negazione

Causalità/dipendenza (causa/effetto)

Esistenza
Inesistenza

 

Totalità

Limitazione

Comunanza (azione reciproca)

Necessità
Contingenza

Tavola dei Giudizi

Quantità

Qualità

Relazione

Modalità

Universali

Affermativi

Categorici

Problematici

Particolari

Negativi

Ipotetici

Assertori

Singolari

Infiniti

Disgiuntivi

Apodittici

Nella tabella si può vedere che si parla sempre di una totalità di cose o di più cose o di una cosa (categorie della quantità). Si afferma che una cosa è reale oppure che non lo è oppure che non e quella tale realtà (categorie della qualità). Nella categoria di relazione si afferma che una certa proprietà appartiene a una certa sostanza o che un certo fatto e causa di un altro fatto, o che due cose agiscono e reagiscono l'una sull'altra .Infine nella categoria di modalità si afferma che una cosa e possibile o impossibile, che esiste o non esiste, che deve necessariamente esistere o e puramente accidentale .

  • La deduzione trascendentale

La giustificazione della validità e dell’uso delle categorie è un problema che Kant considera più difficile della Critica e che chiama “deduzione trascendentale”.
Kant impiega il termine “deduzione”in senso giuridico, alludendo alla dimostrazione della legittimità di diritto di una pretesa di fatto. La “deduzione” delle categorie non consiste nella semplice prova che esse sono utilizzate in linea di fatto, nella conoscenza scientifica; ma nella giustificazione che quest'uso è legittimo e quindi anche nella determinazione dei limiti di quest'uso, cioè del diritto della ragione ad impiegarle. Questo problema non riguarda alle forme del tempo e dello spazio. Infatti, un oggetto non può essere percepito dall’uomo, se non attraverso queste forme. Quindi l’uso di queste forme è garantito dalla loro necessità; infatti un oggetto che non è dato nello spazio e nel tempo non è un oggetto per noi, perché non è intuito.
Per quanto riguarda le categorie, non è per nulla evidente che gli oggetti debbano sottostare ad esse. Quindi dire che la realtà obbedisce, oltre che alle forme delle nostre intuizioni, anche ai nostri pensieri, è un paradosso deve essere giustificato da una valida motivazione.
La soluzione kantiana può venir articolata nei punti seguenti:
1) L'unificazione del molteplice non deriva dalla molteplicità stessa, che è sempre qualcosa di passivo, ma da un’attività sintetica che ha la sua sede nell'intelletto.
2) Facendo una distinzione tra l'unificazione (= il processo tramite cui si attua la sintesi del molteplice) e l’unità stessa (= principio in base a cui si realizza l'unificazione), Kant identifica la suprema unità fondatrice della conoscenza, con quel centro mentale unificatore che Kant denomina impersonalmente con il termine “io penso”, oppure con quelli affini di appercezione o autocoscienza (questo per evidenziare come “l’io penso” non si identifichi con la psiche di ciascuna persona, ma con l'identica struttura mentale che accomuna gli uomini. “L' io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni; in caso contrario si darebbe in me la rappresentazione di qualcosa che non potrebbe esser pensata; il che equivale a dire che la rappresentazione o sarebbe impossibile o, per me almeno, sarebbe nulla.
3) L'attività dell'io penso si attua tramite i giudizi, i quali, sono i modi concreti con cui il molteplice dell'intuizione viene pensato.
4) I giudizi si basano sulle categorie, che sono le diverse maniere di agire dell'io penso, ovvero le dodici funzioni unificatrici in cui la sua attività sintetica si concretizza.
5) Gli oggetti non possono assolutamente venir pensati senza venir categorizzati.
Riassumendo si può dire che il ragionamento kantiano consiste quindi nel mostrare che:
a) poiché tutti i pensieri presuppongono l’io penso, e
b) poiché l’io penso, pensa tramite le categorie, ne segue
c) che tutti gli oggetti pensati presuppongono le categorie.
L'io penso costituisce il principio supremo della conoscenza umana., ovvero un principio a  cui deve sottostare ogni realtà per poter entrare nel campo dell'esperienza e per divenire un oggetto-per-noi. Nello stesso tempo, l’io rappresenta ciò che rende possibile l’oggettività (= l'universalità e la necessità) del sapere; infatti, senza l'io penso e le categorie tramite cui esso opera, noi saremmo chiusi nel cerchio della soggettività individuale e potremmo stabilire soltanto delle connessioni particolari. Ad esempio noi non potremmo dire che i corpi sono pesanti, fissando, in virtù della categoria di sostanza, un rapporto universale e necessario fra soggetto e predicato, ma soltanto “ogni volta che porto un corpo, sento un'impressione di peso”.
Infatti l'io di Kant, a differenza di quello di Fichte, non è affatto un io creatore. Infatti Kant da molta importanza al carattere formale, e quindi finito, dell'io penso, il quale si limita semplicemente ad ordinare una realtà che gli preesiste e senza di cui la sua stessa conoscenza non avrebbe senso. Per questo motivo  la seconda edizione della Critica contiene anche una “Confutazione dell'idealismo”, diretta sia contro l'idealismo problematico di Cartesio, che dichiara indubitabile solo l'io sono, sia contro l'idealismo dogmatico di Berkeley, che riduce le cose nello spazio a semplici idee. La sostanza di questa confutazione risiede nella tesi secondo cui l’interiorità non può venir concepita senza esteriorità, in quanto l'esperienza interna dipende da qualcosa di permanente che si trova al di fuori di essa.

3. I principi dell'intelletto puro e l'io legislatore della natura
Del discorso kantiano fa parte anche la sezione dedicata ai “principi dell'intelletto puro”, che sono le regole attraverso le quali avviene l'applicazione delle categorie agli oggetti. Regole che si identificano quindi con le leggi supreme dell'esperienza e con le proposizioni di fondo del sapere scientifico. Kant formula un elenco di queste regole corrispondente ai quattro gruppi di categorie:
1) Gli assiomi dell'intuizione (corrispondenti alle categorie della quantità) affermano a priori che tutti i fenomeni intuiti costituiscono delle “quantità estensive”, ossia qualcosa che può essere conosciuto solo attraverso la sintesi successiva delle sue parti (ad es. una linea o una durata può essere percepita solo percependone successivamente le parti). Tali "assiomi" giustificano l'applicazione della matematica all'intero mondo dell'esperienza.
2) Le anticipazioni della percezione (corrispondenti alle categorie della qualità) affermano a priori che ogni fenomeno percepito ha una “quantità intensiva”, ossia un certo grado di intensità che può essere indefinitamente suddiviso. Il termine "anticipazione" indica che tutte le sensazioni sono date come tali soltanto a posteriori, tuttavia la proprietà di avere un grado si può conoscere a priori.
3) Le analogie dell'esperienza (corrispondenti alle categorie di relazione) affermano a priori che l'esperienza costituisce una trama necessaria di rapporti basata su quattro principi :
a) della permanenza della sostanza (“In ogni cambiamento dei fenomeni la sostanza permane e la sua quantità nella natura non viene né accresciuto né diminuito”)
b) della causalità (Tutti i cambiamenti avvengono secondo la legge della connessione di causa ed effetto”);
c) dell' azione reciproca (Tutte le sostanze, in quanto percepibili nello spazio come           simultanee, si trovano fra loro in un'azione reciproca universale).
4) I postulati del pensiero empirico in generale (corrispondenti alle categorie di modalità ed si identificano con le regole dell'uso empirico dell'intelletto) stabiliscono che:
a) “Ciò che è in accordo con le condizioni formali dell'esperienza [...] è possibile;
b) “Ciò che è connesso con le condizioni materiali dell'esperienza (della sensazione) è reale;        
c)“Ciò la cui connessione col reale è determinata in base alle condizioni universali           dell'esperienza è (esiste) necessariamente.
Questa dottrina dei principi coincide con quella teoria dell'io come legislatore della natura., che si configura come la massima espressione della rivoluzione copernicana attuata da Kant in filosofia. Infatti, se per natura in generale intendiamo la “conformità a leggi dei fenomeni”; cioè quell'ordine necessario e universale (= natura in senso formale) che sta alla base dell'insieme di tutti i fenomeni (= natura in senso materiale), risulta evidente che tale ordine non deriva dall'esperienza, bensì dall'io penso e dalle sue forme a priori. L'io penso e le categorie non possono tuttavia rivelare se non quello che è la natura in generale, cioè la regolarità dei fenomeni nello spazio e nel tempo. Le leggi particolari, nelle quali questa regolarità si esprime, non possono essere desunte dalle categorie (pur sottostando in ogni caso ad esse) ma soltanto dall'esperienza.
Essendo il fondamento della natura, l'io è anche il fondamento della scienza che la studia. Hume però riteneva che l'esperienza, da un momento all'altro, potesse smentire la verità su cui si regge la scienza. Invece Kant sostiene che questa possibilità non esiste, perchè l'esperienza, essendo condizionata dalle categorie dell'intelletto e dall'io penso, non può mai smentire i principi che ne derivano. Quindi le leggi della natura sono pienamente giustificate perché l'esperienza che le rivela non potrà mai smentirle.

4. Ambiti d'uso delle categorie e il concetto di noumeno
L'originalità della rivoluzione copernicana filosofica di Kant, appare cosi in tutta la sua forza ed evidenza. Ma l’originalità della rivoluzione copernicana del criticismo consiste semplicemente nel fondare sul soggetto, anziché sull'oggetto, la validità del sapere. L'originalità della soluzione kantiana consiste soprattutto nell'intendere il fondamento del sapere in termini di possibilità e di limiti, cioè conformemente al modo d'essere di quell'ente pensante finito che è l'uomo. Le idee di Kant a questo proposito sono nette ed inequivocabili: le categorie, essendo la facoltà logica di unificare il molteplice della sensibilità, funzionano solo in rapporto al materiale che esse organizzano. Considerate senza essere riempite di dati provenienti dal senso esterno o interno, sono “vuote”. Questo fa si che esse risultino operanti solo in relazione al fenomeno., intendendo per quest'ultimo l'oggetto proprio della conoscenza umana, che è sempre sintesi di un elemento materiale e di uno formale. Di conseguenza, il conoscere, per Kant, non può trascendere l’esperienza, poichè una conoscenza che non si riferisca ad un'esperienza possibile non è conoscenza, ma un pensiero vuoto. La delimitazione della conoscenza al fenomeno rimanda alla nozione di cosa in sé, che, pur essendo un incognita, si staglia sullo sfondo di tutta la gnoseologia criticistica. Infatti Kant non ha mai pensato di “ridurre» la realtà al fenomeno, in quanto egli afferma che se c'è un per-noi, deve per forza esserci un in-sé. In questo senso, la cosa in sé costituisce il presupposto o il postulato del discorso gnoseologico di Kant, che nel momento stesso in cui afferma che l'essere si dà a noi attraverso delle forme a priori, è costretto a fare una distinzione tra fenomeno e cosa in sé.  Nello stesso tempo, Kant ha sempre sostenuto che l'ambito della conoscenza umana è limitato al fenomeno, poiché la cosa in sé  non può diventare, per definizione, oggetto di un'esperienza possibile. Kant ha espresso tutto ciò nel proprio linguaggio tecnico, usando la parola neumeno che ha due significati. In senso positivo, il noumeno è “l'oggetto di un'intuizione non sensibile, cioè di una conoscenza extra-fenomenica che a noi è preclusa e che, invece, potrebbe essere propria di un ipotetico intelletto divino dotato di una, “intuizione intellettuale” delle cose. In senso negativo, il noumeno è invece il concetto di una cosa in sé come di una X che non può mai entrare in rapporto conoscitivo con noi ed essere quindi “oggetto della nostra intuizione sensibile”.
L'idea di cosa in sé o noumeno costituisce una specie di promemoria critico che da un lato circoscrive le pretese della sensibilità, ricordandoci che ciò che ci viene dato nell'intuizione spazio-temporale non è la realtà in assoluto; e dall'altro circoscrive le arroganze dell'intelletto, ricordandoci che esso non può conoscere le cose in sé, ma soltanto pensarle nella loro possibilità, sotto forma di incognite.
Kant paragona la conoscenza scientifica alla terraferma di un'isola, mentre assimila il desiderio di varcare le soglie dell'esperienza alle smanie di un navigante attratto dalla scoperta di nuove terre, ma destinato a vagare inutilmente per i flutti: “questo territorio è un'isola che la natura ha racchiuso in confini immutabili. E il territorio della verità (nome seducente), circondata da un ampio e tempestoso oceano, in cui ha la sua sede più propria la Parvenza [= l'illusione metafisica], dove innumerevoli banchi di nebbia e ghiacci creano ad ogni istante l'illusione di nuove terre e, generando sempre nuove ingannevoli speranze nel navigante che si aggira avido di nuove scoperte, lo sviano in avventurose imprese che non potrà né condurre a buon fine né abbandonare una volta per sempre”.

5. Approfondimento: il concetto kantiano di «esperienza»
Kant impiega il concetto di esperienza in due accezioni distinte. In una prima accezione, indica l'intuizione sensibile, ovvero il materiale e la fonte della conoscenza sensibile. In questo senso, Kant afferma ad es. che ogni nostra conoscenza “comincia” con l'esperienza. In una seconda accezione Kant indica la totalità della conoscenza fenomenica, ovvero l'ordine unitario dei dati sensibili secondo le leggi a priori della mente. Quindi in questo senso, l'esperienza è l'organizzazione complessiva della conoscenza. Quest’organizzazione non esclude, ma sottintende, le forme a priori che la rendono possibile. Per cui, quando Kant discorre dell'a priori come di ciò che è “indipendente dall'esperienza”, si riferisce, ovviamente, alla prima accezione, Viceversa, quando Kant parla di “esperienza in generale” o di “esperienza possibile”, e afferma che l'esperienza rappresenta il criterio di legittimità di ogni conoscenza possibile, si riferisce alla seconda accezione, ossia al concetto dell'esperienza come sistema organizzato di forma e materia. Ed è proprio nell'ambito di questo significato che Kant, come si è visto, giunge a identificare l'esperienza in generale con la natura in generale.

Autore: Sara Scasseddu
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Kant – Critica della ragion Pura
Dialettica Trascendentale
1. Genesi della Metafisica e delle sue Idee
La Dialettica trascendentale costituisce la seconda parte della logica trascendentale, in cui Kant cerca di stabilire se la Metafisica possa essere considerata una scienza. Il termine dialettica nella storia della filosofia è stato usato sia in senso positivo che negativo; per Platone essa è la scienza delle idee. Per gli Stoici, come in parte per i medioevali, si identifica con la logica. Con Aristotele la dialettica assume invece un significato negativo, in quanto indica sia il procedimento dimostrativo fondato su premesse probabili, sia l’arte “sofistica” di costruire ragionamenti basati su premesse che sembrano probabili, ma in realtà non lo sono. Anche Kant utilizza il termine dialettica in questo senso ,lasciando intuire che la metafisica non può essere considerata una scienza.
Infatti con  “Dialettica trascendentale”, Kant intende l'analisi e lo smascheramento dei ragionamenti fallaci della metafisica. La metafisica infatti, nonostante la sua infondatezza rappresenta “un'esigenza naturale e inevitabile della mente umana”, di cui la filosofia intende chiarire l’origine. La metafisica nasce dalla ragione; questa, a sua volta, in partenza, non è altro che l'intelletto stesso, il quale essendo la facoltà logica di unificare i dati sensibili tramite le categorie, e portato a voler pensare, anche senza dati.
Kant ritiene che questo voler procedere oltre i limiti dell’esperienza derivi dalla nostra innata tendenza all' incondizionato. Ovvero la nostra ragione, mai soddisfatta del mondo fenomenico è attratta verso il regno dell'assoluto e quindi verso una spiegazione globale di ciò che esiste. Questa spiegazione di Kant si basa sulle tre idee trascendentali che sono proprie della ragione (anima , mondo e Dio). La ragione tende ad unificare i dati del senso interno tramite l'idea di anima, che e l'idea della totalità assoluta dei fenomeni interni, ad unificare i dati del senso esterno attraverso l'idea di mondo, che e l'idea della totalità assoluta dei fenomeni esterni; infine, ad unificare i dati interni ed esterni mediante l'idea di Dio, inteso come totalità di tutte le totalità e fondamento di tutto ciò che esiste.
L'errore che compie la metafisica è quello di trasformare queste tre esigenze (mentali) di unificazione dell'esperienza in altrettante realtà, dimenticando che noi non abbiamo mai a che fare con la cosa in se, ma solo con il fenomeno. Quindi La “Dialettica trascendentale" vuol essere lo studio critico e la denuncia delle peripezie e dei naufragi (strade sbagliate)della metafisica, ovvero delle avventure e dei fallimenti del pensiero quando procede oltre i limiti dell'esperienza possibile. Per dimostrare l'infondatezza della metafisica, Kant prende in considerazione le tre pretese scienze su cui si basa la metafisica: la psicologia razionale, che studia l'anima, la cosmologia razionale, che indaga sul mondo, la teologia razionale o naturale, che specula su Dio.

 

2. Critica della psicologia razionale e della cosmologia razionale
Kant ritiene che la metafisica sia fondata su di un “paralogisma”, cioè su un ragionamento sbagliato, che consiste nell'applicare la categoria di sostanza all'io penso, trasformandolo in una “realtà permanente” chiamata anima.
In realtà., osserva Kant, l'io penso non è un oggetto empirico, ma soltanto un'unità formale e per di più sconosciuta, a cui non possiamo applicare alcuna categoria. Anche la cosmologia razionale, che pretende di far uso della nozione di mondo, inteso come la totalità assoluta dei fenomeni cosmici, è destinata, secondo Kant, a fallire. Infatti, poiché la totalità dell'esperienza non è mai un'esperienza, in quanto noi possiamo sperimentare diversi fenomeni ma non la serie completa dei fenomeni. Infatti quando i metafisici, , pretendono di fare un discorso intorno al mondo nella sua totalità, cadono inevitabilmente nei reticolati logici delle cosiddette antinomie, veri “conflitti della ragione con se stessa”, che si concretizzano in coppie di affermazioni opposte, dove l'una (la tesi) afferma e l'altra (l'antitesi) nega, ma tra le quali, in assenza di un'esperienza corrispondente, non è possibile decidere. Ecco un prospetto completo delle antinomie kantiane:


Prima Antinomia - Matematica

Tesi

Antitesi

“Il mondo ha un suo inizio nel tempo e, rispetto allo spazio, è chiuso dentro limiti”

“Il mondo non ha inizio né limiti nello spazio, ma è infinito così rispetto al tempo come rispetto allo spazio”

“Il mondo ha un limite secondo il tempo e secondo lo spazio”

“Il mondo è infinito secondo il tempo e secondo lo spazio”

Seconda Antinomia - Matematica

Tesi

Antitesi

“Nel mondo ogni sostanza consta di parti semplici e in nessun luogo esiste qualcosa che non sia o il semplice o ciò che risulta da esso composto”

“Nel mondo, nessuna cosa comporta consta di parti semplici; e in nessuna parte del mondo esiste alcunché di semplice”

“Tutto nel mondo consta del semplice”

“Non vi è niente di semplice, tutto è invece composto”

terza Antinomia - Dinamica

Tesi

Antitesi

“La causalità delle leggi naturali non può da sola spiegare tutti i fenomeni del mondo. Per la loro spiegazione si rende necessaria anche l’ammissione di una causalità mediante libertà”

“Non c’è libertà alcuna, ma tutto nel mondo accade esclusivamente in base a leggi di natura”

“Vi sono nel mondo delle cause con libertà”

“non vi è libertà, tutto invece è natura”

Quarta Antinomia - Dinamica

Tesi

Antitesi

“del mondo fa parte qualcosa che – come suo elemento o sua causa – costituisce un essere assolutamente necessario”

“Né nel mondo, né fuori del mondo esiste un essere assolutamente necessario che ne sia la causa”

“Nella serie delle cause cosmiche vi è un essere necessario”

“nella serie delle cause non vi è niente di necessario, tutto è contingente”

Kant divide queste tesi e antitesi in matematiche (le prime due) e dinamiche (le altre due); tra queste tesi e antitesi però è impossibile decidersi, perché entrambe possono essere dimostrate razionalmente. Il difetto è nella stessa idea del mondo, la quale, essendo al di là di ogni esperienza possibile, non può fornire alcun criterio volto a decidere per l'una o per l'altra delle tesi in conflitto. Le antinomie dimostrano quindi l'illegittimità dell'idea del mondo.
Questa illegittimità risulta evidente anche, se si osserva che le tesi di queste antinomie presentano un concetto troppo piccolo per l'intelletto (come l'idea di un universo finito) e le antitesi un concetto troppo grande per l'intelletto stesso (come l'idea di un universo infinito). A tutto ciò Kant aggiunge anche due altre importanti osservazioni:
1) egli nota che le tesi sono proprie del pensiero metafisico e del razionalismo, mentre le antitesi sono tipiche dell'empirismo e della scienza.
2) puntualizza che per quanto riguarda la terza e la quarta antinomia, le antitesi valgono per il fenomeno (nel cui ambito non si incontra mai ne Dio ne la libertà) mentre le tesi potrebbero valere per la cosa in se (nel cui regno sconosciuto potrebbe esserci posto per la libertà e per Dio).

3. La critica alle prove dell'esistenza di Dio
Secondo Kant Dio rappresenta l’ideale della ragion pura, cioé quel supremo "modello" di ogni realtà o perfezione che i filosofi chiamano Ens realissimum, considerandolo l'Essere da cui derivano e dipendono tutti gli altri esseri. La tradizione ha elaborato tutta una serie di “prove dell'esistenza di Dio”, che Kant raggruppa in tre classi: prova ontologica, cosmologica e fisico-teologica.
a) La prova ontologica, che risale a S. Anselmo, ma che Kant assume nella forma cartesiana, cerca di ricavare l'esistenza di Dio dal semplice concetto di Dio come essere perfettissimo, dicendo che, in quanto tale, deve necessariamente esistere. Kant opera una distinzione fra piano mentale e piano reale, dicendo che non risulta possibile “saltare” dal piano della possibilità logica a quello della realtà ontologica, in quanto l'esistenza è qualcosa che possiamo constatare solo per via empirica, e non dedurre solamente per via puramente intellettiva.
Kant sostiene infatti che l'esistenza non è un predicato ma è un fatto esistenziale concepibile solo attraverso l'esperienza. Infatti quando si è ben descritta la natura di una realtà qualsiasi in tutti i suoi caratteri, ci si può ancora chiedere se esista o meno. Riassumendo si può dire che “Qualunque sia l'estensione e la natura del contenuto del nostro concetto di un oggetto, dovremo sempre uscir fuori dal concetto se vogliamo attribuire l'esistenza all'oggetto.
Di conseguenza, la prova ontologica o è impossibile o è contraddittoria. Impossibile se vuol derivare da un' idea una realtà. Contraddittoria se nell'idea del perfettissimo assume già, quell'esistenza che vorrebbe dimostrare. In tutti e due i casi, la prova risulta fallace.
b) La prova cosmologica, che costituisce il centro delle vie tomistiche e che Kant riprende dalla filosofia del suo tempo, si basa sulla distinzione fra contingente e necessario, affermando che “se qualcosa esiste, deve anche esistere un essere assolutamente necessario; poiché io stesso, almeno, esisto, deve quindi esistere un essere assolutamente necessario. Secondo Kant, il primo limite di questo argomento consiste in un uso illegittimo del principio di causa, in quanto esso, partendo dall'esperienza della catena degli enti contingenti, pretende di trascendere l'esperienza, verso il Necessario. Ma il principio di causa, puntualizza Kant, è una regola con cui colleghiamo i fenomeni tra di loro e che quindi non può affatto servire a connettere i fenomeni con qualcosa di trans-fenomenico.
Il secondo limite dell'argomento risiede nel suo fondarsi su di una serie di forzature logiche e nel suo inevitabile ricadere nella prova ontologica. Infatti, dopo essersi elevato all' idea del Necessario  esso, con un gioco di concetti, arriva a sostenere che il Necessario coincide con 1' idea del perfettissimo.
c) La prova fisico-teologica Delle tre, questa è la prova più intimamente accettabile, poiché afferma l'esistenza di una realtà ordinata e strutturata, deve esserci una mente ordinatrice, che viene associata con Dio. Per spiegare l'ordine della natura, bastano le sole leggi scientifiche e non un essere metafisico. Da questo punto di vista, basterebbe soltanto un dio ordinatore e non creatore, quindi il Demiurgo platonico e non il Dio creatore cristiano. Perciò si ricade nella prova cosmologica, in quanto questo essere sarebbe la causa della natura. Kant non assume una posizione atea, in quanto non nega l'esistenza di Dio, ma semplicemente nega la possibilità di dimostrarla: egli è pertanto agnostico. La figura di Dio viene ripresa all'interno della Critica della Ragion Pratica.
Inoltre, la prova fisico-teleologica pretende di stabilire, sulla base dell'ordine cosmico, l'esistenza di una, causa infinita e perfetta, ritenuta proporzionata ad esso. Ma, cosi facendo, non si accorge che gli attributi che essa dà al mondo (“saggiamente conformato”, “mirabile” ecc.) sono indeterminati e relativi a noi e quindi non autorizzano affatto a passare dal finito all'infinito, sostenendo che causa di tutto è una Causa infinita e perfetta. In altre parole, noi sappiamo che in questo universo c'è una qualche misura o gradazione di ordine, ma relativa ai nostri parametri mentali e, in ogni caso, non certo infinita e priva di imperfezioni. Di conseguenza, non possiamo arrogarci il diritto di affermare che la Causa del mondo è infinitamente perfetta, saggia, buona ecc. E se ciò avviene è perché noi, saltando l'abisso che separa il finito dall'infinito, identifichiamo, sottobanco, l'ipotetica Causa ordinante con l'idea della Realtà perfettissima di cui parla l'argomento ontologico. Di conseguenza, anche questa prova, secondo Kant, non fa che partire dall'esperienza per saltarne fuori, giocando con delle idee, forzatamente manipolate, che solo il ricorso “camuffato” all'argomento cosmologico ed ontologico può fare illusoriamente scambiare per delle realtà.
E importante osservare che :
1) come queste critiche, pur essendo connesse, di fatto, alla gnoseologia della Ragion pura, siano anche, in parte, indipendenti da essa). Ciò spiega la loro vasta fortuna ed utilizzazione nell'ambito del pensiero moderno; 2) come Kant, con esse, non abbia inteso negare Dio (ateismo) ma piuttosto mettere in discussione la sua dimostrabilità razionale e metafisica. In sede teorica, Kant non e ateo, ma agnostico, in quanto ritiene che la ragione umana non possa dimostrare né l'esistenza di Dio ne la sua non-esistenza.

 

4. La funzione regolativa delle idee
Le idee della ragion pura, anche se non possono avere un uso costitutivo perché non servono a conoscere alcun oggetto possibile, possono e debbono avere, secondo Kant, un uso regolativo, indirizzando la ricerca intellettuale verso quella unità totale che rappresentano. Infatti ogni idea è, per la ragione, una regola che la spinge a dare al suo campo d'indagine, che è l'esperienza, non solo la massima estensione, ma anche la massima unità sistematica. Cosi l'idea psicologica spinge a cercare i legami fra tutti i fenomeni del senso interno e a individuare in essi una sempre maggiore unità proprio come se fossero manifestazioni di un'unica sostanza semplice. L'idea cosmologica tende a passare incessantemente da un fenomeno naturale all'altro, dall'effetto alla causa e alla causa di questa causa e via all'infinito, proprio come se la totalità dei fenomeni costituisse un unico mondo. L'idea teologica infine addita all'intera esperienza un ideale di perfetta organizzazione sistematica, che essa non raggiungerà mai, ma che perseguirà sempre, proprio come se tutto dipendesse da un unico creatore. Le idee, cessando di valere dogmaticamente come realtà, varranno in questo caso problematicamente, come condizioni che impegnano l'uomo nella ricerca naturale.

6. Il nuovo concetto di “metafisica” in Kant
Dall'opera di Kant emerge quindi un verdetto inappellabile contro la metafisica tradizionale: “La metafisica, come disposizione naturale della ragione, è reale, ma per sé sola è anche dialettica e ingannatrice. Se, adunque, vogliamo da essa prendere i principi [...] non possiamo mai trarne fuori una scienza, ma soltanto una vana arte dialettica, in cui una scuola può sorpassare l'altra, ma niuna può mai procacciarsi un legittimo e durevole consentimento”. Alla vecchia metafisica “dogmatica” o “iperfisica”, Kant contrappone quindi una nuova metafisica “scientifica” o “critica”, concepita come scienza dei “concetti puri”, ovvero come una scienza che abbraccia le conoscenze che possono essere ottenute indipendentemente dall'esperienza, sul fondamento delle strutture razionali della mente umana. Di questa metafisica di nuovo tipo fanno parte, secondo Kant, sia una metafisica della natura (che studia i principi a priori della conoscenza della natura) sia una metafisica dei costumi (che studia i principi a priori dell'azione morale). In sintesi, respinta nella sua forma classica, la metafisica è accettata da Kant nella forma di una scienza dei principi a priori del conoscere o dell'agire. Questo spiega perché egli abbia concepito la stessa critica della ragion pura come una “propedeutica” (o esercizio preliminare) al sistema della metafisica.

 

Autore: Sara Scasseddu

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IMMANUEL KANT (1724 – 1804)
LA «CRITICA DELLA RAGION PRATICA»

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            Immanuel Kant nacque, da famiglia di origine scozzese, a Königsberg, allora capoluogo della Prussia orientale, nel 1724. Fu educato, nello spirito religioso del pietismo, in un collegio in cui era direttore Franz Albert Schultz, la più notevole personalità del pietismo di quel periodo. Successivamente, Kant proseguì la sua formazione con lo studio della filosofia, matematica e teologia presso l’Università di Königsberg, dove divenne professore ordinario di logica e metafisica nel 1770.
La vita di Kant non è segnata da eventi drammatici, né fu dominata dalle passioni; fu caratterizzata, piuttosto, dalla presenza di pochi affetti ed amicizie, e interamente dedicata allo studio unito ad uno stile di vita basato su rigide abitudini (emblematica la sua passeggiata pomeridiana, compiuta sempre alla stessa ora, al punto che si dice che gli abitanti di Königsberg regolassero il loro orologio in base ad essa). L’esistenza di Kant, interamente rivolta all’insegnamento universitario, è dunque diventata quasi proverbiale per i pochi avvenimenti che la caratterizzano; tuttavia, egli si sentiva molto coinvolto dagli eventi storico-politici del suo tempo (rivoluzione americana e francese, soprattutto).
E’ possibile individuare due tappe fondamentali che segnano la vita del filosofo. La prima risale a quando Kant rivendicò apertamente la libertà di pensiero, in opposizione con la censura che aveva avuto da dire sulla seconda edizione del suo scritto La religione nei limiti della semplice ragione (prima edizione 1793; seconda ed. 1974). In Kant la libertà di pensiero è un tema centrale, che trova la sua massima trattazione nello scritto Risposta alla domanda: che cosa è l'illuminismo? (1784). In questo trattato – che è il vero e proprio testamento spirituale dell’illuminismo – Kant definisce «l’illuminismo come l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso», quasi come se l’uomo non fosse precedentemente del tutto maggiorenne sul piano intellettuale, vale a dire capace di usare la propria ragione. Kant, riprendendo le tematiche tipicamente illuministiche della lotta ai pregiudizi, spiega che gli esseri umani, fino a quel momento, non hanno dovuto fare lo sforzo di pensare da soli perchè c’era chi lo faceva per loro: essi si sono limitati ad accettare le opinioni elaborate dagli altri senza vagliarle con la propria ragione. La minorità che ha caratterizzato fino ad allora l’essere umano è interamente imputabile all’uomo stesso, che non ha avuto il coraggio né la voglia di sapere. L’illuminismo, quindi, è un fatto di volontà e il suo motto è «abbi il coraggio di servirti della tua propria ragione». A questo punto, però, Kant distingue tra uso pubblico e uso privato della ragione: l’uso pubblico è quello condotto in qualità di libero cittadino, quello privato è invece quello svolto nell’esercizio specifico di determinate funzioni. Un soldato impegnato in guerra, ad esempio, dovrà limitarsi ad obbedire, senza esprimere la sua disapprovazione (uso privato della ragione); quando, però, ci si trova nelle vesti di cittadino, parte di una comunità politica, si ha la libertà di esprimere la propria disapprovazione e tutte le obiezioni che si desiderano (uso pubblico della ragione).
L’altra tappa fondamentale che caratterizza la vita di Kant è legata all’atteggiamento assunto dal filosofo nei confronti della Rivoluzione francese: non rinunciò mai a considerare la Rivoluzione come positiva per la storia dell’umanità e il popolo francese come il primo popolo che si era finalmente dato un regime del tutto degno del genere umano. Tutto questo si collega, ancora, ad un altro opuscolo kantiano – massima espressione del suo pensiero politico – intitolato Per la pace perpetua (1795). In esso, Kant ipotizza la possibilità di realizzare una pace duratura, cioè di trovare un sistema di equilibrio internazionale che garantisca una volta per tutte la fine delle guerre. Kant non immagina un unico stato mondiale; piuttosto, egli propone di partire dalla creazione di una sorta di federazione degli Stati, a cominciare dall’Europa, per poi coinvolgere l’intero mondo. In questo senso, Kant può essere considerato il primo teorico dell’Europa Unita. L’ideale politico kantiano, così come viene espresso in questo scritto, rimanda all’idea di una costituzione repubblicana «fondata in primo luogo sul principio di libertà dei membri di una società, come uomini; in secondo luogo sul principio d’indipendenza di tutti, come sudditi; in terzo luogo sulla legge dell’uguaglianza, come cittadini».

 

Il criticismo kantiano
Il pensiero di Kant è detto «Criticismo» perché si contrappone, fondamentalmente, all’atteggiamento mentale del «Dogmatismo» – che consiste nell’accettare convincimenti o insegnamenti senza informarsi preliminarmente sulla loro effettiva consistenza – e quindi fa della «critica» lo strumento per eccellenza della filosofia. «Criticare», nel linguaggio tecnico di Kant, significa – conformemente all’etimologia greca kríno = giudico, distinguo, valuto – «giudicare», «distinguere», «valutare», ecc…, ossia interrogarsi programmaticamente circa il fondamento di determinate esperienze umane, filtrandone le possibilità ( = le condizioni che ne permettono l’esistenza), la validità ( = i titoli di legittimità o non-legittimità che le caratterizzano) e i limiti ( = i confini di validità). La «critica» in senso kantiano non avrebbe ragion d’essere se non ci fossero, in ogni campo, dei termini di validità da fissare. Per questa ragione il «Criticismo» si definisce come una filosofia del limite, ossia come un’interpretazione dell’esistenza volta a stabilire, nelle varie aree esperenziali, le “colonne d’Ercole dell’umano”, e quindi il carattere finito o condizionato delle possibilità esistenziali, che non sono mai tali da garantire l’onniscienza e l’onnipotenza dell’individuo.
E’ rilevante sottolineare come questa filosofia del finito non equivalga, secondo Kant, ad una forma di scetticismo, poiché indicare il limite di un’esperienza significa allo stesso tempo dar garanzia, entro il limite stesso, della sua validità. Così, l’identificazione e l’ammissione del limite diventa la norma che legittima e fonda le varie facoltà proprie della natura umana, in quanto «l’assunto fondamentale della filosofia critica è di reperire nel limite della validità la validità del limite». L’incapacità della conoscenza di superare i limiti dell’esperienza diventa quindi la base dell’effettiva validità della conoscenza; l’impossibilità dell’attività pratica di giungere alla santità diventa la norma della moralità che è propria della persona. C’è uno stretto legame tra il pensiero di Hume e quello di Kant, e al tempo stesso una forte divergenza: Kant si propone di rinunciare ad ogni evasione dai limiti dell’uomo e deve questo al filosofo scozzese David Hume, che ha affermato che l’esperienza non è in grado di fondare la piena validità della conoscenza, la quale, ricondotta ai suoi limiti, non è mai certa. Questa rinuncia non investe, tuttavia, per Kant, anche l’intenzione di fondare la validità delle varie attività umane e non si conclude, quindi, nello scetticismo.
Il criticismo kantiano è il risultato di due situazioni: la Rivoluzione scientifica da un lato, e la crisi progressiva delle metafisiche tradizionali, dall’altro. Kant è debitore all’empirismo perché quest’ultimo si era finalmente concentrato sui limiti della ragione dell’essere umano, ma ne rifiuta, allo stesso tempo, gli esiti scettici.

 

CRITICA DELLA RAGION PRATICA

 

Critica della ragion pura e Critica della ragion pratica
La Critica della ragion pura (1781) è un’analisi critica dei fondamenti del sapere, suddiviso in scienza e metafisica. La scienza, per Kant, si rivela come un sapere fondato ed in continuo progresso. La metafisica, al contrario, con il suo voler procedere oltre l’esperienza, con il suo fornire soluzioni antitetiche ai medesimi problemi, con le sue contese senza fine, non sembra affatto aver trovato la via sicura della scienza. Kant si interroga sui motivi che distinguono scienza e metafisica. Gli oggetti della metafisica rientrano nell’ambito dell’incondizionato, delle cose in sé e non nell’ambito dei fenomeni. Questo spiega come essa non sia riuscita a prendere la via sicura della scienza. La scienza, infatti, è tale solo e nella misura in cui rimane nell’ambito della possibile esperienza, e quindi del fenomenico. La metafisica, in quanto si occupa del metafenomenico, non può configurarsi come scienza. Questo non implica, però che essa sia una mera assurdità; infatti, una metafisica c’è sempre stata e sempre ci sarà, ma solo in quanto strutturale bisogno dell’uomo, non in quanto scienza (fenomenica). Ciò che la ragione speculativa perde da un punto di vista, lo guadagna dall’altro. Se perde la convinzione di poter conoscere scientificamente le cose in sé, guadagna nello sconfiggere le varie forme dogmatiche che pretendono di parlare delle cose in sé nella maniera più varia. Inoltre, secondo Kant, anche se non possiamo conoscere le cose in sé, le possiamo, però, correttamente pensare.
La conoscenza scientifica, secondo Kant, si basa su giudizi universali e necessari, i quali amplificano il nostro conoscere. Esistono tre forme di giudizi: 1) giudizi analitici; 2) giudizi sintetici empirici o a posteriori; 3) giudizi sintetici a priori. La prima forma di giudizio (per esempio: ogni corpo è esteso) è una mera esplicitazione e spiegazione di ciò che è già contenuto nel soggetto, pertanto è sì universale e necessaria, ma infeconda, ossia non è amplificativa del conoscere (ripete, in forma più esplicita e più chiara, ciò che già si sa). La seconda forma di giudizio (per esempio: questo corpo pesa 100 grammi) amplifica il mio conoscere, ma non ha carattere universale e necessario, perché è semplicemente empirico, ossia basato sull’esperienza. Il terzo tipo di giudizio (giudizi matematici, fisici o geometrici) è sia universale e necessario (valgono sempre e ovunque allo stesso modo) sia amplificativo del conoscere. Solo questo tipo di giudizio è fondativo del sapere. Infatti, pur derivando in parte dall’esperienza, e pur nutrendosi continuamente di essa, la scienza ammette anche, alla propria base, taluni principi immutabili che ne fungono da pilastri. Questo significa che i principi sintetici a priori non rappresentano tutta la scienza, ma solo la base di essa. Il problema della Critica della ragion pura è capire come sono possibili i giudizi sintetici a priori, infatti, essa rappresenta un’analisi delle effettive possibilità conoscitive dell’essere umano e rappresenta una sorta di mappa filosofica della potenza e dell’impotenza della ragione, in quanto depositaria di principi a priori.
La ragione non serve solo a dirigere la conoscenza, ma anche l’azione. Accanto alla ragione teoretica, per Kant, si ha quindi anche una ragione pratica. Kant distingue, tuttavia, fra una ragione pura pratica (cioè che opera indipendentemente dall’esperienza e dalla sensibilità) ed una ragione empirica pratica (cioè che opera sulla base dell’esperienza e della sensibilità). Per Kant la ragione pura pratica coincide con la morale stessa, concepita come un’attività razionale o a priori che risulta da sola sufficiente a determinare la volontà. Ad essa si contrappone la ragion pratica empiricamente o patologicamente condizionata, cioè quel tipo di ragione extra-morale che

«si limita semplicemente a dirigere l’interesse delle inclinazioni sotto il principio sensibile della felicità» (CRPr, A 217).

Dato che la dimensione della moralità si identifica con la dimensione della ragion pura pratica, il filosofo dovrà distinguere in quali casi la ragione è pratica e, nello stesso tempo, pura (ovvero morale) e in quali casi essa è pratica senza essere pura (ovvero senza essere morale). La critica della ragion pratica serve proprio a questo e la Critica della ragion pratica (1787) è il testo sistematico fondamentale dedicato da Kant alla filosofia pratica. L’obiettivo dell’opera è dimostrare che la ragione, grazie a principi formulati da se stessa, può definire cosa sia il bene e produrre azioni buone, senza rivelazioni o speciali intuizioni del bene.

 

Perché «Critica della ragion pratica» e non «Critica della ragion pura pratica»?
Il problema di Kant è se vi siano azioni che abbiano come fondamento, come vera causa, come motivo primario, la ragione in quanto tale, oppure se ogni azione, anche razionalmente progettata, abbia infine come motivo determinate una spinta, un impulso naturale, un desiderio, insomma uno stimolo immediato, non veramente fondato sulla ragione come tale, sulla ragione pura. L’alternativa è chiara: se non si dà una ragione pura pratica, ma solo una ragione pratica in generale, essa non farà che regolare – per quel che può – istinti, desideri, pulsioni, e gli uomini saranno infine animali che sanno calcolare meglio degli altri; e, si badi bene, Kant ritiene che resterebbero tali anche se fossero in grado di pensare un essere infinito che fosse il vero autore delle loro azioni. Se, invece, si dà una ragione pura pratica, allora gli esseri umani sono effettivamente liberi, integralmente responsabili delle loro azioni. In nessun caso, però, questa libertà implica il controllo sulla natura e la creazione ex nihilo di qualcosa. Il problema è, dunque, quello di comprendere se la ragione operi semplicemente per affinare o giustificare a posteriori un fondamento che resta, nella sua radice, irriflesso e naturale, oppure se la ragione possa costituire come tale (come ragione pura) il vero fondamento delle azioni dell’essere che le possiede, l’«essere razionale».
Questa seconda Critica non sarà una “critica della ragione pura pratica” come la prima Critica era una “critica della ragione pura teoretica”, perché, mentre la ragione teoretica ha bisogno di essere criticata, cioè sottoposta ad analisi, anche nella sua parte pura, in quanto tende a comportarsi in modo illegittimo (valicando i limiti dell’esperienza), la ragione pratica non ha bisogno di essere criticata nella sua parte pura, perché in questa essa si comporta in modo del tutto legittimo, obbedendo ad una legge universale. Invece, nella sua parte non pura, cioè legata all’esperienza, la ragione pratica può darsi della massime, cioè delle forme di azione dipendenti proprio dall’esperienza, e perciò non legittime dal punto di vista morale. Per questo essa deve essere sottoposta a critica. In altre parole, mentre nella prima Critica Kant ha analizzato le pretese della ragione teoretica di andare al di là dell’esperienza, nella Critica della ragion pratica ha valutato la pretesa opposta della ragion pratica, ossia quella di restar legata sempre e solo all’esperienza. Per questo motivo il titolo è Critica della ragion pratica e non Critica della ragion pura pratica. Come ci spiega lo stesso Kant

«non dovremmo produrre una critica della ragion pura pratica, ma esclusivamente della ragion pratica in generale. Infatti la ragion pura, quando se ne sia provata l’esistenza, non richiede alcuna critica. Essa contiene in se stessa la regola per la critica di tutto il suo uso. La critica della ragion pratica in generale ha dunque l’obbligo di contestare alla ragione condizionata empiricamente la pretesa di costituire essa sola il motivo determinante della volontà» (CRPr, A 30).

Mostrare la realtà della ragione pura pratica è il compito positivo della critica della ragione pratica. Una volta dimostrato che vi è una ragione pura pratica, sarà essa stessa a dare dei criteri del suo uso (attraverso i suoi principi), e dunque a definire i suoi compiti e i suoi limiti. Il compito negativo della critica della ragion pratica in generale consiste, infatti, nel togliere fondamento alla pretesa che la ragione operi solo come strumento della sensibilità.

Realtà e assolutezza della legge morale
Il motivo che sta alla base della Critica della ragion pratica è la persuasione che esista, scolpita nell’uomo, una legge morale a priori valida per tutti e per sempre. In altri termini, come nella Critica della ragion pura Kant muoveva dall’idea dell’esistenza di conoscenze scientifiche universali e necessarie, nella Critica della ragion pratica muove dall’analoga certezza dell’esistenza di una legge morale assoluta, legge che la filosofia non ha il compito di “dedurre”, né tanto meno di “inventare”, ma unicamente di “constatare” il fatto della sua esistenza:

«La coscienza di questa legge fondamentale può esser detta un fatto [Factum] della ragione perché non la si può ricavare da precedenti dati della ragione stessa, per esempio dalla coscienza della libertà (perché questa coscienza non ci è data prima), ma ci si impone da se stessa come proposizione sintetica a priori» (CRPr, A 56).

E ancora,

«la ragion pura può essere pratica, cioè può determinare da sé la volontà, indipendentemente da ogni elemento empirico, – e prova ciò per mezzo di un fatto [Factum] in cui la ragion pura si dimostra in noi realmente pratica, cioè l’autonomia del principio fondamentale della moralità, per mezzo del quale essa determina la volontà dell’azione» (CRPr, A 72).

Kant insiste sulla realtà e oggettività della legge morale:

«la legge morale è data in certo modo come un fatto della ragion pura, di cui abbiamo consapevolezza a priori e di cui siamo apoditticamente certi, anche nell’ipotesi che l’esperienza non possa fornirci alcun esempio della osservanza rigorosa di questa legge. Di conseguenza, nessuna deduzione può dimostrare la realtà oggettiva della legge morale, a dispetto di ogni sforzo della ragione teoretica, sia essa speculativa o aiutata dall’esperienza; pertanto, anche se si volesse rinunciare alla certezza apodittica, tale realtà non potrebbe trovar conferma nell’esperienza ed essere così dimostrata a posteriori; tuttavia, essa è salda per se stessa» (CRPr, A 81-82).

            Da questi passi si comprende come per Kant non ci siano dubbi sull’esistenza di qualcosa come una legge morale assoluta o incondizionata. Infatti, dal suo punto di vista, o la morale è un’illusione, in quanto l’essere umano agisce in virtù delle sole inclinazioni naturali, oppure, se esiste, risulta per forza incondizionata, presupponendo una ragion pratica «pura», cioè capace di liberarsi dalle inclinazioni sensibili e di guidare la condotta in modo stabile. Di conseguenza la tesi dell’assolutezza o incondizionatezza della morale implica, per Kant, due concetti di fondo strettamente legati fra loro: la libertà dell’agire e la validità universale e necessaria della legge. Infatti, essendo incondizionata, la morale comporta la capacità umana di autodeterminarsi al di là delle sollecitazioni istintuali, facendo sì che la libertà si configuri come il primo presupposto della vita morale:

«la libertà e la legge pratica incondizionata risultano dunque reciprocamente connesse» (CRPr, A 52).

La legge morale è, quindi, indipendente dagli impulsi del momento e da ogni condizione particolare. Per questo motivo essa è, per definizione, universale e necessaria, ossia immutabilmente uguale a se stessa in ogni tempo e luogo, in breve, a priori.

 

Morale e finitudine dell’uomo
Il fatto che la ragion pura pratica sia incondizionata e assoluta – e quindi non abbia bisogno di essere criticata, ma solo illustrata nelle sue strutture e funzioni – non significa, tuttavia, che essa sia priva di limiti; infatti, come vedremo, la morale, secondo Kant, risulta profondamente segnata dalla finitudine dell’uomo e necessita di essere salvaguardata dal fanatismo, ossia dalla presunzione di identificarsi con l’attività di un essere infinito. La ragione morale conviene sempre ad un essere pensante finito e quindi condizionato dall’esperienza. La natura sensibile dell’uomo, anche nel caso della ragione morale, non cesserà mai di fare la sua parte e obbliga la legge morale ad assumere la forma del dovere. Del resto, se la volontà dell’uomo fosse già in se stessa necessariamente d’accordo con la legge della ragione, questa legge non varrebbe per lui come un comando e non gli imporrebbe la costrizione del dovere. Il principio stesso della morale implica un limite pratico, costituito dalle inclinazioni sensibili, e perciò la finitudine di chi deve realizzarla:

«in un essere per il quale il motivo determinante della volontà non è esclusivamente la ragione, questa regola è un imperativo, cioè una regola caratterizzata da un dover essere [Sollen] esprimente la necessità oggettiva dell’azione; questa sta a significare che, se la ragione determinasse interamente la volontà, l’azione avrebbe luogo infallibilmente secondo questa regola» (CRPr, A 36-37).

Tutto ciò significa che la moralità non è la razionalità necessaria di un essere infinito che si identifica con la ragione, ma la razionalità possibile di un essere che può assumere, e non assumere, la ragione come guida della sua condotta. Kant presume, in questa impostazione, una tensione bipolare fra ragione e sensibilità. Infatti, se l’essere umano fosse solo sensibilità, ossia animale le cui azioni sono guidate solo dall’istinto, la morale non avrebbe ragion d’essere. Viceversa, se fosse solo pura razionalità e agisse solo in base alla sua ragione, si troverebbe in quello stato di «santità» etica, ovvero in una situazione di perfetta adeguazione alla legge, che però è irraggiungibile in questa vita terrena. Anche in questo caso, quindi, la morale non potrebbe esistere.

           
Ragione e sensibilità. Il fanatismo morale e l’illusione della santità
Abbiamo già accennato che, essendo indipendente dagli impulsi del momento e da ogni condizione particolare, la legge morale risulterà anche, per definizione, universale e necessaria, ossia immutabilmente uguale a se stessa in ogni tempo e luogo. Va precisato, tuttavia, come per Kant la morale sia assoluta, cioè sciolta da condizionamenti istintuali, non nel senso che possa da essi prescindere, ma perché è in grado di de-condizionarsi rispetto ad essi. Per Kant, la bidimensionalità dell’essere umano (ragione e istinto) fa sì che l’agire morale prenda la forma severa del «dovere» e si concretizzi in una «lotta» permanente fra la ragione e gli impulsi egoistici. Da ciò la natura finita, ossia limitata e imperfetta, dell’uomo, che può agire secondo la legge, ma anche contro la legge. Per cui, come nella prima Critica il tema dominante era rappresentato dalla polemica contro l’arroganza della ragione che pretende di oltrepassare i limiti della conoscenza umana, nella Critica della ragion pratica il tema dominante è la polemica contro il fanatismo morale, che è la velleità di trasgredire i limiti della condotta umana, sostituendo alla virtù, che è l’intenzione morale in lotta, la santità di un creduto possesso della perfezione etica. Il fanatismo morale, per citare le parole di Kant stesso, è

«quella trasgressione dei limiti che la ragion pura pratica prescrive all’umanità, vietandoci di far consistere il motivo determinante soggettivo delle azioni conformi al dovere, cioè il loro movente morale, in qualcosa di diverso dalla legge intenzione morale in lotta stessa; di far consistere l’intenzione, che è riposta nelle massime, in ciò che non è il rispetto per questa legge; e orinandoci di assumere il principio del dovere, che abbatte ogni presunzione non meno di ogni vacuo amor di sé, quale principio di vita supremo di ogni moralità nell’uomo» (CRPr, A 153).

Il fanatismo morale, per Kant, non è altro che la pretesa di fare il bene di buon grado, per ispirazione, per entusiasmo, per un impulso naturalmente benefico della propria natura, tramite una disposizione naturale e spontanea, e perciò consiste nel sostituire alla virtù, che è, la presunzione della santità. Come spiega, infatti, Kant:

«la conformità perfetta della volontà alla legge morale è la santità, una perfezione cui non può giungere nessun essere razionale in nessun momento della propria esistenza» (CRPr, A 220).

Nell’essere umano, in effetti, in quanto essere razionale finito

«si può, sì, supporre una volontà pura, ma, in quanto soggetto a bisogni e a motivi sensibili, non si può supporre una volontà santa, cioè tale da escludere qualsiasi massima contraddittoria con la legge morale» (CRPr, A 57).

 

Massime e imperativi
Abbiamo visto affacciarsi il concetto di volontà, che in Kant è fondamentale. La volontà è la facoltà che caratterizza gli esseri razionali e rappresenta la capacità di agire secondo la rappresentazione delle leggi, ovvero secondo dei principi:

«Soltanto l’essere ragionevole può agire secondo la rappresentazione delle leggi, ossia secondo principi, cioè può avere una volontà. Ma poiché la determinazione delle azioni in base a leggi richiede la ragione, la volontà è null’altro che la ragion pratica» (FMC, BA 36).

            I principi pratici, a loro volta, sono regole generali che disciplinano la nostra volontà. Kant afferma:

«i principi pratici sono proposizioni che contengono una determinazione universale della volontà, la quale ha sotto di sé parecchie regole pratiche» (CRPr, A 35).

Un principio pratico è una regola generale che sottintende una serie di azioni possibili, dunque di regole subordinate. Un principio pratico potrebbe essere “conservare la propria vita”, e alcune delle molte regole pratiche che conseguirebbero da esso potrebbero essere “nutrirsi regolarmente”, “non compiere azioni pericolose” o “curarsi quando si è malati”. I principi pratici in generale non sono principi morali, sono solo la forma generale della regola con cui una ragione pratica agisce in quanto facoltà.
Kant distingue i principi pratici in massime e imperativi. La massima è una prescrizione di valore puramente soggettivo, cioè valida esclusivamente per l’individuo che la fa propria. Questo significa che tutti i principi pratici, tutti i principi che enunciano una regola dell’agire, qualunque contenuto abbiano, immorale o morale (ad esempio, vendicarsi di un torto subito, non impicciarsi degli affari degli altri, fare sempre il bene del prossimo o alzarsi di buon ora per fare ginnastica ecc.) in quanto vengono assunti dal soggetto come sue regole di comportamento, sono massime. Si tratta di una definizione molto importante, anche sul piano storico, perché in questo modo viene indicata una sfera, almeno potenziale, di piena autonomia del soggetto, una soggettività in senso forte: le massime sono regole con cui il soggetto in ogni caso agisce, perché essere un «soggetto» significa in primo luogo avere motivazioni pratiche che sono esclusivamente proprie.
I principi oggettivi sono invece «leggi», cioè principi la cui condizione venga considerata valida per tutti gli esseri razionali, ossia per tutti gli esseri dotati di ragione. Kant definisce nella Critica questa differenza:

«I principi pratici sono proposizioni che racchiudono una determinazione universale della volontà che ha sotto di sé varie regole pratiche. Essi sono soggettivi, o massime, se il soggetto considera la condizione come valida soltanto per la sua volontà; ma sono oggettivi, o leggi pratiche, se la condizione è ritenuta oggettiva, ossia valida per la volontà di ogni essere razionale» (CRPr, A 35).

            «Imperativi», in generale, sono le regole pratiche oggettive, che contrastano con le inclinazioni; essi hanno perciò validità solo per quegli esseri la cui volontà non sia «assolutamente buona» (FMC, BA 37), quegli esseri razionali finiti, la cui volontà può avere (e anzi di preferenza ha) come fondamento di determinazione stimoli sensibili. Nella Fondazione leggiamo:

«la rappresentazione di un principio oggettivo, in quanto è costrittivo per la volontà, prende il nome di comando (della ragione) e la formula del comando si chiama imperativo» (CRPr, A 35).

            La distinzione dei principi pratici in soggettivi e oggettivi è di fondamentale importanza e va compresa correttamente. Le massime sono, per Kant, il principio generale in cui si esprime la regola dell’azione adottata dal soggetto. I soggetti agiscono sempre e comunque adottando una massima, perché, ovviamente, agiscono sempre in quanto soggetti (per questo l’imperativo categorico ha la forma di una massima). Se però tutte le regole pratiche fossero solo massime, non si potrebbe in alcun caso parlare di dovere, perché la massima ha appunto come sua caratteristica quella di esprimere la motivazione propria del soggetto, e in questo non vi è possibile costrizione. Tutti gli imperativi, invece, contenendo un nesso oggettivo, costringono il soggetto a confrontare la sua massima con questo nesso. Lo costringono, in altre parole, a distinguere tra soggettivo e oggettivo, e dunque ad adeguare la sua personale motivazione (negandola o correggendola) a una connessione oggettiva.

 

Imperativi ipotetici e imperativi categorici
Gli imperativi affermano, in generale, la necessità di un’azione, senza tenere conto delle inclinazioni del soggetto. Lo fanno, però, in due modi fondamentali, e, in virtù di tale differenza, si dividono in ipotetici e categorici. Gli imperativi ipotetici affermano la necessità oggettiva del loro comando in modo subordinato a una certa condizione, e cioè un fine ulteriore rispetto all’azione. La loro forma generale è: se voglio A, devo fare B, dove allora B è necessario sotto la condizione che A sia il fine. Gli imperativi ipotetici sono regole pratiche oggettive (ossia la connessione che esprimono è necessaria, ed eventualmente costrittiva), ma non hanno nulla di intrinsecamente morale, seppure possano anche essere rivolti a un fine morale. Ad esempio, posso fare del bene a una persona, e costringermi perciò a un’azione contraria ai miei impulsi, con il fine della mia convenienza; ma posso anche farlo con il fine della santità.
L’imperativo categorico, al contrario,

«presenta l’azione come oggettivamente necessaria per se stessa, a prescindere da qualsiasi scopo, cioè anche per mancanza di qualsiasi altro fine, vale come principio apodittico (pratico)» (FMC, BA 40).

L’imperativo categorico ordina il dovere in modo incondizionato, ossia a prescindere da qualsiasi scopo, ed ha la forma del «devi» puro e semplice. Esso è l’espressione del concetto di un dovere assoluto e l’azione che rappresenta è buona in sé.

«Gli imperativi hanno dunque validità oggettiva e differiscono nettamente dalle massime che sono principi soggettivi. Ma gli imperativi o determinano le condizioni della causalità dell’essere razionale, in quanto causa efficiente e semplicemente in relazione all’effetto e ai mezzi sufficienti per raggiungerlo, o determinano semplicemente la volontà, sia essa sufficiente o no rispetto all’effetto. Nel primo caso sarebbero imperativi ipotetici e conterrebbero semplici precetti dell’abilità; nel secondo caso sarebbero invece imperativi categorici e semplicemente leggi pratiche. Le massime sono quindi anch’esse principi, non imperativi. Ma gli imperativi stessi, se sono condizionati, cioè se non determinano la volontà semplicemente in quanto volontà, ma solo in vista dell’effetto desiderato, cioè se sono imperativi ipotetici, saranno, sì, precetti pratici, ma non leggi. Le leggi debbono determinare sufficientemente la volontà in quanto volontà, prima ancora che io mi chieda se ho la capacità richiesta per produrre l’effetto desiderato o ciò che occorre per produrlo. Perciò esse debbono essere categoriche; in caso diverso non sono leggi, facendo loro difetto la necessità che, in quanto pratica, deve risultare indipendente da ogni condizione patologica, perciò da ogni condizione connessa incidentalmente alla volontà» (CRPr, A 37).

            Ora, poiché la morale è strutturalmente incondizionata – cioè indipendente dagli impulsi sensibili e dalle mutevoli circostanze – risulta evidente che essa non potrà consistere negli imperativi ipotetici, che sono, per definizione, condizionati e variabili. Infatti, solo l’imperativo categorico, in quanto incondizionato, ha i connotati della legge, ovvero è un comando che vale in modo perentorio per tutte le persone e in tutte le circostanze. In conclusione, solo l’imperativo categorico, che ordina un «devi» assoluto – e quindi universale e necessario – ha in se stesso i contrassegni della moralità.
L’imperativo categorico ha un carattere sintetico che sta proprio nell’apoditticità del suo comando. Esso non è altro che l’obbligazione assoluta in quanto tale, dell’obbligazione in sé e per sé. L’imperativo categorico è l’unico modo per esprimere il concetto del dovere come tale, che è incondizionato. Nel caso degli imperativi ipotetici, infatti, il concetto del dovere è comprensibile grazie alla condizione (analiticamente, dunque), ma nel caso che esso non abbia alcuna condizione, nel caso che sia il dovere come tale, l’imperativo non ha nulla da cui derivare il suo significato. La domanda di Kant potrebbe allora essere espressa così: come è possibile concepire una proposizione che obblighi assolutamente, senza alcuna considerazione per le finalità del volere? L’incondizionatezza dell’imperativo non sta nella universalità e necessità della legge, ma nel fatto che la volontà possa essere determinata dalla ragione come tale, dunque in quella che potrebbe essere definita l’assoluta spontaneità della ragione nell’istituire un fondamento di determinazione pratico.

 

L’imperativo categorico
Posto che la legge etica assuma la forma di un imperativo categorico, che cosa comanda quest’ultimo? Kant risponde che esso, in quanto incondizionato – ossia non richiedente altro che il rispetto della legge in generale – consiste nell’elevare a legge l’esigenza stessa di una legge. E poiché dire legge è dire universalità, esso si concretizza nella prescrizione di agire secondo una massima che può valere per tutti. Da ciò la formula base dell’imperativo categorico:

«Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale» (CRPr, A 54).

            In altri termini, l’imperativo categorico – il quale si identifica con la ragione stessa, ossia con la sua universalità elevata a legge – è quel comando che prescrive di tener sempre presenti gli altri e che ci ricorda che un comportamento risulta morale solo se, e nella misura in cui, supera il test della “generalizzabilità” (o “universalizzabilità”), ovvero se la sua massima appare universalizzabile. Ad esempio, chi mente compie un atto chiaramente immorale, poiché qualora venisse universalizzata la massima dell’inganno i rapporti umani diventerebbero impossibili.

 

Le formule dell’imperativo categorico nella Fondazione
Questa sopra espressa è l’unica formula che Kant presenta nella sua Critica della ragion pratica. Ne La Fondazione della Metafisica dei costumi (1785) invece – che precede di tre anni la Critica della ragion pratica, e rispetto alla quale presenta sì differenze sul piano metodologico, ma una sostanziale somiglianza sul piano dei contenuti – troviamo espresse tre formule dell’imperativo categorico. La prima afferma

«agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale» (FMC, BA 52).

Essa è molto simile alla formula unica contenuta nella Critica e suggerisce che per sapere se un’azione è morale bisogna chiedersi se la sua massima potrebbe dar luogo ad un ordine universale nel quale gli uomini possano vivere senza contraddizione. Agire in base all’imperativo categorico significa universalizzare, pensare come legge, la propria massima particolare e provare a capire, con una sorta di esperimento mentale, se questa universalizzazione è possibile o no. Se una massima non può diventare una legge, allora essa sarà contraria alla moralità.
La seconda formula afferma

«agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo» (FMC, BA 67).

In altri termini, prescrive di rispettare la dignità umana che è in te e negli altri, evitando di ridurre il prossimo o te medesimo a semplice mezzo del tuo egoismo e delle tue passioni. In questo contesto la parola “fine” indica quella caratteristica fondamentale della persona umana che risiede nell’essere scopo a se stessa, facendo sì che ad essa venga riconosciuta la prerogativa di essere soggetto e non oggetto. Tant’è vero che Kant sostiene che la morale istituisce un regno dei fini, ossia una comunità ideale di persone, degli esseri ragionevoli che vivono secondo le leggi della morale e si riconoscono dignità a vicenda. Questa seconda formula dell’imperativo categorico, secondo Kant, non fa altro che rendere esplicito ciò che era implicito nella prima formula, in quanto quest’ultima, prescrivendo di subordinare la massima soggettiva ad una legislazione universale, cioè valida per ogni essere razionale, sottintende il riconoscimento dell’umanità secondo il valore assoluto. Negli scritti giovanili, ispirati anche dalla lettura dei moralisti inglesi e di Rousseau, Kant aveva già fatto risaltare proprio il principio del rispetto della dignità umana. Si noti che per Kant non è immorale di per sé impiegare una persona come mezzo per i propri fini, utilizzando ad es. le prestazioni di un autista oppure di un domestico. Ciò diventa immorale se la persona viene usata unicamente come mezzo, negando i suoi diritti.
Se la prima formula dell’imperativo categorico sottolinea la forma della legge morale, ovvero l’universalità, e la seconda ne sottolinea la materia, ovvero il fine, che è l’umanità, la terza formula sottolinea l’autonomia della volontà, la quale mediante la sua massima può considerare se stessa come universalmente legislatrice. L’autonomia come requisito fondamentale della moralità è spesso richiamata da Kant anche nella Critica della ragion pratica, ed è alla base della rivoluzione copernicana nell’ambito morale. Questa idea dell’auto-normatività morale dell’uomo grazie alla ragion pura pratica non va comunque interpretata nel senso convenzionalistico-contrattualistico: ricordiamoci che la legge morale, per Kant, è un fatto della ragione e non a caso egli considera l’essere umano allo stesso tempo legislatore, ma anche suddito della legge morale. La terza formula, quindi, prescrive di agire in modo tale che

«la volontà, in base alla massima, possa considerare contemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice» (FMC, BA 76).

Questa formula ripete, in parte, la prima. Tuttavia, a differenza di essa, che puntualizza soprattutto la legge, quest’ultima sottolinea in modo particolare l’autonomia della volontà, chiarendo come il comando morale non sia un imperativo esterno e schiavizzante, ma il frutto spontaneo della volontà razionale, la quale, essendo una legge a se medesima, fa sì che noi, sottomettendoci ad essa, non facciamo che obbedire a noi stessi. Compare qui anche il riferimento al «regno dei fini», ovvero alla comunità ideale degli esseri ragionevoli capaci di vivere secondo le leggi della morale:

«dal che deriva un’unione sistematica di esseri ragionevoli, mediante leggi oggettive comuni, ossia un regno che, per il fatto che queste leggi hanno per scopo il rapporto reciproco di questi esseri come fini e mezzi, può essere detto regno dei fini (il quale, in verità, è null’altro che un ideale)» (FMC, BA 75).

Tant’è vero che nel regno dei fini, precisa Kant, ogni membro è, nello stesso tempo, legislatore e suddito di se stesso. In altre parole:

«la volontà non è semplicemente sottoposta alla legge, ma lo è in modo da dover essere considerata autolegislatrice, e solo a questo patto sarà sottoposta a legge (della quale è autrice essa stessa)» (FMC, BA 70-71).

L’essere legislatore in tale regno, però, non può essere confuso con l’essere sovrano perché per essere sovrano l’uomo dovrebbe essere, sostanzialmente, pura ragione.

 

Il carattere formale della legge etica
Un’altra caratteristica strutturale dell’etica kantiana, che emerge chiaramente da quanto detto sino ad ora circa l’imperativo categorico, è la formalità, in quanto la legge non ci dice che cosa dobbiamo fare, ma come dobbiamo fare ciò che facciamo. Anche ciò discende dalla riconosciuta incondizionatezza e libertà della norma etica. Infatti, se quest’ultima non fosse formale, bensì “materiale” e ordinasse quindi dei contenuti concreti, sarebbe «vincolata» ad essi, perdendo inevitabilmente in termini di libertà da un lato e di universalità dall’altro, non potendo, qualsiasi contenuto o precetto particolare, possedere l’universale portata della legge.  La legge morale è formale e universale in quanto prescrive unicamente di operare tenendo presente gli altri e rispettando la dignità umana di se stessi e degli altri. Naturalmente, secondo Kant, sta poi ad ognuno di noi «tradurre» in concreto, nell’ambito delle varie situazioni esistenziali, sociali e storiche, la parola della legge. L’importante è non dimenticare che le norme etiche reali in cui si incarna di volta in volta l’imperativo categorico risultano sempre fondate e mai fondanti nei suoi confronti, sussistendo solo in funzione di esso, che è ciò che le fa sorgere e le giustifica.
Carattere anti-utilitaristico della legge morale: il dovere per il dovere
Il carattere formale e incondizionato della legge morale si unisce al carattere anti-utilitaristico dell’imperativo categorico. Infatti, se la legge ordinasse di agire in vista di un fine o di un utile, si ridurrebbe ad una serie di imperativi ipotetici e pregiudicherebbe, in primo luogo, la propria libertà, in quanto non sarebbe più la volontà a dare la legge a se stessa, ma gli oggetti a dare la legge alla volontà. Inoltre, essa metterebbe in forse la propria universalità, poiché l’area degli scopi e degli interessi coincide con il campo della soggettività e della particolarità. Il cuore della moralità kantiana risiede invece nel dovere per il dovere, ossia nell’impegno e nel sacrificio di realizzare la legge della ragione solo per riverenza ad essa, e non sotto la spinta di personali inclinazioni o in vista di risultati che possono scaturirne. Di conseguenza noi non dobbiamo agire per la felicità, ma solo per il dovere:

«Dovere! Nome sublime e grande, che non porti con te nulla di piacevole che importi lusinga, ma esigi la sottomissione; che tuttavia non minacci nulla che susciti nell’animo ripugnanza naturale o spavento che metta in moto la volontà, ma presenti semplicemente una legge che penetra da sé sola nell’animo e si procura venerazione» (CRPr, A 154).

 

Il rigorismo
Da ciò, il cosiddetto rigorismo kantiano, che esclude, dal recinto dell’etica, emozioni e sentimenti, che allontanano la morale, oppure, quando collaborano con essa, ne contaminano la severa purezza. Nel pensiero di Kant, che polemizza con ogni tipo di morale sentimentalistica, si riconosce il diritto di partecipazione ad un unico sentimento: il rispetto per la legge. Il rispetto è a propri ed è dotato di una forza tale da far tacere tutti gli altri sentimenti egoistici e da disporre l’individuo all’accoglimento della legge. Il rispetto, secondo Kant, implica la condizione propria dell’uomo come essere razionale finito:

«siccome il rispetto è un’azione sul sentimento e perciò sulla sensibilità di un essere razionale, esso suppone questa sensibilità, quindi anche la finitezza di quegli esseri a cui a legge morale impone il rispetto» (CRPr, A 134-135).

 

Moralità e legalità
Le uniche condizioni affinché vi siano moralità e virtù sono il dovere per il dovere nel rispetto della legge; queste condizioni fanno anche sì che non si confondano moralità e legalità. Infatti, secondo Kant, non basta che un’azione sia fatta esteriormente secondo la legge, ovvero in modo conforme ad essa. La morale implica una partecipazione interiore, nel caso contrario rischia di scadere in atti di legalità ipocrita oppure in forme più o meno mascherate di autocompiacimento (come accade, ad esempio, quando ci si comporta bene per avere il consenso degli altri). Kant sostiene, dunque, che non è morale ciò che si fa, ma l’intenzione con cui lo si fa essendo la «volontà buona», ovvero la convinta adesione della volontà alla legge, l’unica cosa incondizionatamente buona al mondo. Dunque, il requisito fondamentale e imprescindibile dell’azione morale è la partecipazione interiore, ovvero l’intenzione sincera di compiere il bene. E’ per questo motivo che l’etica kantiana è detta anche etica dell’intenzione.
Il dovere e la volontà buona, secondo Kant, elevano l’uomo al di sopra del mondo sensibile (= fenomenico), dove vige il meccanismo delle leggi naturali, e lo fanno partecipare al mondo intelligibile (= noumenico), dove vige la libertà. In altri termini, la vita morale è la costituzione di una natura soprasensibile nella quale la legislazione morale prende il sopravvento sulla legislazione naturale.
Questa noumenicità del soggetto morale non significa, tuttavia, l’abbandono della sensibilità e la soppressione di ogni legame con il mondo sensibile. In realtà, proprio perché l’uomo è parte strutturale dei due mondi, egli non può affermare il secondo (quello nuomenico) se non nel primo e in virtù del primo (quello sensibile). Al contrario, la noumenicità dell’uomo esiste solo in relazione alla sua fenomenicità, in quanto il mondo soprasensibile, per lui, esiste solo come forma del mondo sensibile.

 

L’autonomia della legge e rivoluzione copernicana della morale
Il senso profondo dell’etica kantiana, e della sua sorta di «rivoluzione copernicana morale» consiste nell’aver posto nell’uomo e nella sua ragione il presupposto fondamentale dell’etica, al fine di custodirne la piena libertà e purezza. Le varie caratteristiche della legge morale si dirigono in quella dell’autonomia, che tutte le racchiude e sintetizza. L’autonomia è il carattere proprio della ragione pura pratica: una ragione che dà leggi a se stessa. Con essa Kant esprime il concetto positivo della libertà: «l’indipendenza da ogni materia della legge» è il suo «concetto negativo», mentre

«questa legislazione propria della ragion pura e, come tale, pratica, è la libertà nel senso positivo. La legge morale non esprime dunque altro che l’autonomia della ragion pura pratica, ossia della libertà; e questa è essa stessa la condizione formale di tutte le massime, sotto la quale soltanto esse possono accordarsi con la legge pratica suprema» (CRPr, A 59).

La libertà, in senso positivo, quindi, si identifica con la capacità della volontà di autodeterminarsi, ossia nella sua prerogativa autolegislatrice, la quale fa sì che l’uomo sia norma a se stesso. Di conseguenza, Kant polemizza aspramente contro tutte le morali eteronome, cioè contro tutti quei sistemi che pongono il fondamento del dovere in forze esterne all’uomo o alla sua ragione, facendo scaturire la morale, anziché dalla pura forma dell’imperativo categorico, da principi materiali. Se i motivi della morale avessero sede nell’educazione, nella società, nel piacere fisico o nel sentimento della benevolenza, l’azione non sarebbe più libera ed universale, in quanto tali realtà sarebbero fattori determinanti e mutevoli, ossia forze necessitanti e soggette a trasformazione. Se i motivi stessero, invece, in un indefinito ideale di perfezione o in Dio cadremmo negli stessi problemi.
Il modello etico di Kant, rigorosamente deontologico, si distingue decisamente dai precedenti sistemi morali del razionalismo e dell’empirismo. Il razionalismo, pur fondando la morale sulla ragione, l’aveva fatta dipendere dalla metafisica, fondandola ad esempio sull’ordine del mondo, su Dio ecc… L’empirismo, pur liberando la morale dalla metafisica, l’aveva legata al sentimento. Contro il razionalismo, Kant afferma che la morale si basa solo sull’uomo e sulla sua dignità di essere razionale finito e non dipendente da antecedenti conoscenze metafisiche. Contro l’empirismo e le varie morali sentimentalistiche, Kant sostiene, invece, che la morale si basa unicamente sulla ragione, in quanto il sentimento, anche inteso nel senso più alto, risulta troppo fragile e soggettivo per ricoprire il ruolo di supporto per un robusto edificio etico.
Il tema dell’autonomia morale, escludendo qualsiasi causa determinante esterna al comportamento, scioglie anche quell’apparente paradosso della ragion pratica, secondo cui non sono i concetti di bene e di male a fondare la legge etica bensì, al contrario, la legge etica fondare e a dare un senso alle nozioni di bene e di male. La rivoluzione copernicana morale di Kant, che fa dell’uomo l’unico legislatore del suo comportamento, trova in tal modo il suo ultimo e significativo compimento.

 

LA TEORIA DEI POSTULATI

 

Il «sommo bene»
Come abbiamo visto, la felicità non può mai erigersi a motivo del dovere, perché in tal caso metterebbe in forse l’incondizionatezza della legge morale – e quindi la sua categoricità, formalità, purezza ed autonomia. Tuttavia la virtù, intesa come

«l’intenzione morale in lotta, non la santità nel presunto possesso di una perfetta purezza delle intenzioni della volontà» (CRPr, A 151),

pur essendo il «bene supremo» non è ancora, secondo Kant, quel «bene sommo», ovvero

«bene intero e perfetto» (CRPr, A 198)

cui tende irresistibilmente la nostra natura, che consiste nell’addizione di virtù e felicità. Si noti come Kant, introducendo il concetto di sommo bene, non contraddica il carattere disinteressato ed autonomo della morale, in quanto egli, senza fare della felicità motivo dell’azione, asserisce unicamente che c’è in noi il bisogno di pensare che l’essere umano, pur agendo per dovere, possa anche essere degno di felicità.

«Nel sommo bene, pratico per noi, cioè tale da dover essere realizzato mediante la nostra volontà, la virtù e la felicità sono pensate come congiunte, sicché l’una non può essere ammessa dalla ragion pura pratica senza che anche l’altra ne faccia parte» (CRPr, A 204).

 

L’antinomia della ragion pratica
In questo modo, però, virtù e felicità non sono mai congiunte, in quanto la difficoltà di essere virtuosi e la ricerca della felicità sono due azioni distinte e per lo più opposte, in quanto l’imperativo etico implica la sottomissione delle tendenze e l’umiliazione dell’egoismo. La condizione morale dell’essere umano è chiara: come creatura non può adempiere alla legge morale volentieri, ma solo provando rispetto per essa, e dunque negando le sue inclinazioni sensibili. La morale di Kant è una morale del dovere come costrizione e come sforzo, e non del dovere piacevole; è una morale del faticoso rispetto per la legge che

«impedisce al nostro futile amor di sé di gingillarsi con impulsi patologici» (CRPr, A 152)

non una morale che ipotizza una possibile adesione naturale alla santità. Di conseguenza, virtù e felicità costituiscono l’antinomia della ragion pratica. Kant rileva come i filosofi greci abbiano inutilmente tentato di scioglierla, per quanto riguarda questa vita, o risolvendo la felicità nella virtù (Stoicismo) o la virtù nella felicità (Epicureismo).

«Fra le scuole greche antiche ve ne furono propriamente due che, nella determinazione del concetto del sommo bene, seguirono uno stesso metodo, non considerando la virtù e la felicità come due elementi diversi del sommo bene e cercando quindi l’unità del principio in base alla regola dell’identità; ma a questo proposito si separano a loro volta perché stabilirono in modo diverso il concetto fondamentale. L’epicureo diceva: aver coscienza della propria massima che conduce alla felicità, è la virtù; lo stoico: aver coscienza della propria virtù, è la felicità. Per il primo la prudenza equivale alla moralità; per il secondo, che sceglieva una denominazione più alta per la virtù, la vera saggezza consiste soltanto nella moralità» (CRPr, A 200).

Kant puntualizza che questo tipo di soluzione è sbagliata, in primo luogo perché virtù e felicità sono due situazioni completamente distinte:

«l’Analitica ha chiarito che le massime della virtù e quelle della felicità personale differiscono completamente quanto al loro principio pratico supremo, che sono tutt’altro che concordi, è che benché rientrino entrambe nel sommo bene rendendolo possibile, si limitano e si contrastano in uno stesso soggetto. Di conseguenza, il problema intorno alla possibilità pratica del sommo bene continua a restare insoluto, nonostante tutti i tentativi di composizione finora escogitati» (CRPr, A 197).

Kant afferma che l’essere umano è sensibile e razionale (ossia razionale ma finito) privo della possibilità di essere interamente santo anche solo per un istante, ma insieme capace di esercitare concretamente la virtù sforzandosi di operare secondo la legge della ragione pura pratica. La domanda a cui l’antinomia della ragione pura pratica deve rispondere potrebbe essere posta in questi termini: come è possibile una connessione necessaria tra virtù e felicità? Kant afferma che l’unico modo per risolvere tale antinomia – che rischia di rendere impossibile il sommo bene e di ridurre la morale che lo prescrive ad un’impresa senza senso – è di «postulare» un mondo dell’aldilà in cui possa realizzarsi ciò che nell’aldiquà risulta impossibile: ovvero l’equazione virtù = felicità.

 

I postulati etici
Kant trae il termine «postulato» dal linguaggio della matematica classica. In quest’ultima, mentre si dicono assiomi le verità fornite di auto-evidenza, si chiamano postulati quei principi che, pur essendo indimostrabili, vengono accolti per rendere possibili determinate entità o verità geometriche. Analogamente, i postulati di Kant sono quelle proposizioni teoretiche non dimostrabili che ineriscono alla legge morale come condizione della sua stessa esistenza e pensabilità, ovvero quelle esigenze interne della morale che vengono ammesse per rendere possibile la realtà della morale stessa, ma che di per se stesse non possono essere dimostrate. Kant definisce un postulato della ragion pratica

«una proposizione teoretica, che non può essere dimostrata come tale, perchè inerente inseparabilmente a una legge pratica che ha valore a priori incondizionato» (CRPr, A 220).

I postulati secondo Kant sono tre. Il primo postulato concerne l’immortalità dell’anima. Nella prima Critica Kant aveva contestato la pretesa di dimostrare scientificamente l’esistenza dell’anima. Nella Critica della ragion pratica mantiene ferma quella posizione, tuttavia afferma che la ragione nel suo uso pratico deve postulare l’esigenza dell’anima immortale per dare senso all’esigenza radicata in ogni essere umano che alla virtù corrisponda la felicità. Kant afferma che: a) poiché solo la santità, cioè la conformità completa della volontà alla legge morale, rende degni del sommo bene e b) poiché la santità non è mai realizzabile nel nostro mondo, c) si deve per forza ammettere che l’essere umano, oltre il tempo finito dell’esistenza, possa disporre, in un’altra zona del reale, di un tempo infinito grazie a cui progredire all’infinito verso la santità (irraggiungibile nella vita terrena) e rendersi degno della felicità. Non c’è dunque contraddizione nel pensiero kantiano, perché la certezza sull’esistenza dell’anima immortale non è di tipo teoretico, bensì morale, cioè scaturisce dall’esperienza morale dell’uomo.

«La realizzazione del sommo bene nel mondo è l’oggetto necessario di una volontà determinabile per mezzo della legge morale. Ma in questa volontà la conformità perfetta delle intenzioni con la legge morale è la condizione suprema del sommo bene. Tale condizione deve pertanto esser possibile quanto il suo oggetto, perché è inclusa nello stesso precetto di promuoverlo. Ma la conformità perfetta della volontà alla legge morale è la santità, una perfezione cui non può giungere nessun essere razionale in nessun momento della propria esistenza. E siccome, pur essendo richiesta come praticamente necessaria, può essere incontrata soltanto in un progresso all’infinito verso tale conformità perfetta e seguendo i principi della ragion pura pratica, un simile progresso pratico diviene necessario come oggetto reale della nostra volontà. Ma questo progresso all’infinito è possibile solo sul presupposto di un’esistenza e di una personalità dell’essere razionale che durino all’infinito (il che prende il nome di immortalità dell’anima). Dunque il sommo bene non è praticamente possibile che sul presupposto dell’immortalità dell’anima; immortalità che, risultando inseparabilmente congiunta con la legge morale, è un postulato della ragion pura pratica (col che intendo una proposizione teoretica, che non può essere dimostrata come tale, perché inerente inseparabilmente a una legge pratica che ha un valore a priori incondizionato)» (CRPr, A 220).

            Se la realizzazione della prima condizione del sommo bene, ossia la santità, implica il postulato dell’immortalità dell’anima, la realizzazione del secondo elemento del sommo bene, cioè la felicità proporzionata alla virtù, comporta il postulato dell’esistenza di Dio, ossia la credenza in una volontà santa e onnipotente che sia in grado di far corrispondere sicuramente la felicità al merito. Il sommo bene risulta possibile solo se

«si postula anche l’esistenza di una causa dell’intera natura, diversa dalla natura stessa, tale da contenere il principio di questa connessione, cioè della concordanza esatta di felicità e moralità» (CRPr, A 225).

                  Accanto ai due postulati religiosi dell’immortalità dell’anima e dell’esistenza di Dio, Kant pone un altro postulato che ci è ben noto: la libertà. Quest’ultima è infatti la condizione stessa della morale, che nel momento stesso in cui prescrive il dovere presuppone anche che si possa agire o meno in conformità ad esso e che quindi si sia sostanzialmente liberi. Kant crede che l’uomo è un essere complesso ed ambiguo, e proprio per questo non si può prevedere il suo comportamento, sebbene a livello fenomenico tutto (uomo compreso) sia deterministico. Se lascio cadere un sasso, esso non può che cadere, ma se dico qualcosa ad una persona non posso sapere come si comporterà, proprio in virtù della sua complessità: dentro di noi c’è una legge, dettata dall’imperativo categorico, e l’esistenza di tale legge implica l’esistenza della libertà di ottemperarla. Kant sintetizza la deduzione della libertà in un’espressione famosa: devo, dunque posso. Se c’è la morale, deve per forza esserci la libertà. La libertà rappresenta anch’essa un postulato poiché non è conoscibile teoreticamente, e non a caso Kant la definisce come una facoltà imperscrutabile.

 

Il primato della ragion pratica e la razionalizzazione del cristianesimo
Il primato della ragion pratica rispetto alla ragione speculativa non significa che essa ci può dare ciò che questa ci nega, ma semplicemente che le sue condizioni di validità comportano la ragionevole speranza dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima. Se questa ragionevole speranza fosse intesa come certezza razionale, non solo il mondo morale non ne uscirebbe rafforzato ma, al contrario, totalmente distrutto. Se i postulati fossero delle verità dimostrate o delle certezze, la morale scivolerebbe immediatamente verso l’eteronomia e sarebbe nuovamente la religione o la metafisica a fondarla, con tutti gli inconvenienti già esaminati. Rovesciando il modo tradizionale di intendere il rapporto tra morale e religione, Kant sostiene, invece, che non sono le verità religiose a fondare la morale, ma il contrario. Dio, per Kant, non sta all’inizio della vita morale, ma eventualmente alla fine, come suo possibile completamento. Con la teoria dei postulati Kant non ha annullato l’autonomia della morale, l’ha solo integrata con una sorta di «fede razionale». La fede razionale non è un comandamento, non è una superstizione, non è un convincimento in senso generico, un volere che qualcosa sia vero anche se non si è in grado di dimostrarlo. Essa è una libera scelta a cui il giudizio dà la sua adesione, sulla base dell’interesse pratico. La lettura che Kant dà del cristianesimo è indicativa dello spirito illuministico che caratterizza il suo pensiero:

«il principio cristiano della morale non è teologico (quindi eteronomo), ma basato sulla autonomia della ragion pura per se stessa pratica, perché tale morale fa della conoscenza di Dio e della sua volontà la base non di queste leggi, ma solo della speranza di pervenire al sommo bene alla condizione di osservare tali leggi; e non pone il movente dell’osservanza delle leggi nelle conseguenze sperate, ma soltanto nella rappresentazione del dovere nel cui fedele adempimento soltanto consiste il merito che rende degni della felicità» (CRPr, A 232).

 

 

Abbreviazioni

CRPr = Critica della ragion pratica
FMC = Fondazione della metafisica dei costumi

 


Il pietismo è un movimento sorto nel Seicento in seno al protestantesimo. Ne fu iniziatore il teologo alsaziano Philip Jacob Spener (1635-1705), organizzatore dei Collegia pietatis, che erano case di ritrovo per incontri spirituali e letture della Bibbia. Il pietismo si caratterizza per un intenso senso della spiritualità e per un rigorismo morale molto marcato. Sia il rigorismo sia l’interiorità spirituale sono due connotazioni fortissime nella filosofia di Kant. La Critica della ragion pratica è dedicata, infatti, all’etica ed è evidentemente ispirata al pietismo.

Questa idea risulta ancora oggi particolarmente attuale, in relazione alle polemiche sullo sviluppo e il dominio dei mezzi di comunicazione di massa.

P. Chiodi, Introduzione, in I. Kant, Critica della ragion pratica e altri scritti morali, (a cura di P. Chiodi), Utet, Torino 2006, p. 13.

Si noti che il termine «patologico» in Kant non si contrappone a «sano», ma significa (conformemente all’etimologia greca pathos) «passionale». In altre parole, per volontà «affetta patologicamente» Kant intende un tipo di volontà determinata dalla sensibilità, ovvero dalle inclinazioni o dalle passioni. Infatti per lui tutti i sentimenti, eccetto quello del «rispetto» della legge, sono patologici.

In questa concezione vi è un probabile influsso della teoria del contratto sociale di Rousseau, che fa dell’uomo il suddito e il sovrano di se stesso. Kant, tuttavia, si concentra a sottolineare l’autorità e la maestà della legge morale.

Si noti che per Kant il concetto di felicità non è del tutto assente dalla sua teoria morale, semplicemente non può rappresentare la spinta delle azioni degli esseri umani. In realtà, Kant non esclude che si possa essere felici, ma questo non può venire prima del rispetto per il dovere.

La volontà buona è diversa, precisa Kant, dalla buona volontà. La prima è, infatti, convinta adesione della volontà alla legge, ovvero quella condizione suprema di ogni bene che rappresenta l’unico bene in senso assoluto, cioè l’unica cosa incondizionatamente buona. Infatti, tutti gli altri beni, come il coraggio o l’intelligenza, possono essere usati male e non sono quindi beni assoluti. La buona volontà riguarda proprio questo secondo caso: si può avere buona volontà anche nel mettere a frutto azioni moralmente sbagliate. La volontà buona, invece, riguarda esclusivamente il comportamento morale.

 

Autore: L’elaborato è stato redatto a cura della Dottoressa Chiara Panetta.
Fonte: http://www.comunicazione.uniroma3.it/UserFiles/File/Files/218_immanuel_kant_dispense.doc

 

KANT
Immanuel Kant (1724-1804), nacque, visse e morì a Königsberg nella Prussia orientale, in un periodo di fermenti politici a livello internazionale (quali la guerra di indipendenza in America e la rivoluzione francese in Europa) i quali, da un punto di vista ideologico, si inquadrano in quel momento della storia della cultura che va sotto il nome di Illuminismo.


Il suo pensiero s’inserisce, in maniera del tutto originale, all’interno dello specifico orizzonte moderno, sintetizzabile in due coordinate di base: la rivoluzione scientifica (Copernico-Galileiana) da un lato e la progressiva crisi della metafisica dall’altro.
Spesso interpretato, in maniera riduttiva, quale risultante di due grandi correnti filosofiche, il Razionalismo e l’Empirismo, il Criticismo di Kant (questo il nome con cui è nota la sua filosofia), si arricchisce del patrimonio caratteristico dell’Illuminismo e getta le fondamenta per il futuro Idealismo.
Poiché il pensiero scettico di Hume aveva indebolito alla base non solo i fondamenti ultimi della metafisica ma anche quelli della scienza, là dove, invece, i razionalisti riponevano cieca fiducia nelle illimitate pretese della ragione umana, Kant  ritiene sia arrivato il momento, per la filosofia, di definire, una volta per tutte, i Limiti e le Possibilitàdella ragione e, stabiliti questi, precisare quali siano i principi che, se esistono, possono garantire un sapere valido universalmente e necessariamente. Contro lo scetticismo di Hume (al quale peraltro manifesta riconoscenza per averlo “svegliato dal sonno dogmatico”) Kant contrappone un metodo in grado di restituire valore, alla scienza come alla filosofia, delineando l’ambito entro il quale esse possano operare senza essere più messe in discussione.
L’Illuminismo è definito da Kant l’uscita per l’uomo dallo stato di minorità; un’emancipazione, acquisita grazie alla capacità di valersi della propria ragione senza la guida di altri. Per questo motivo, egli affida alla filosofia (come disciplina che ha come oggetto suo proprio la ragione umana nei suoi diversi aspetti) l’incarico di dare una risposta definitiva al problema della validità di questa ragione, sia in campo Gnoseologicosia in quello Etico-religioso.


Innanzi tutto, per Kant, la filosofia, per essere considerata alla stregua di una scienza, deve saper rispondere a quattro domande fondamentali: “che cosa posso sapere”; “che cosa devo fare”; “in cosa mi è lecito sperare”; “che cos’è l’uomo”.
La prima di queste domande è quella alla quale Kant cerca di rispondere nel suo maggiore scritto, il più complesso ed argomentato, che è la “Critica della Ragion Pura, pubblicato la prima volta nel 1781. In quest’opera Kant si chiede se sia possibile, per la mente umana,giungere a conoscenze “certe e indubitabili” (quali quelle della scienza, in cui egli crede) che mettano a tacere una volta per tutte gli scettici come Hume.  La prima domanda di Kant, “che cosa posso sapere?” può esser formulata così: “Quali sono i fondamenti di un sapere certo? E soprattutto: Esistono tali fondamenti?”.
Per poter condurre la sua analisi Kant parte dal presupposto, ipotetico, che tali fondamenti esistano e che, per essere validi, debbano essere Universali, Soggettivi e Necessari.


Universali e validi soggettivamente, perché devono essere identici e valere per tutti gli individui(validi per tutti e per ciascuno). Necessari, perché devono essere tali che senza di essi la mente non possa operare (tali cioè che la mente debba essere costretta dalla propria natura ad usarli, se vuole ottenere conoscenza).
Si tratta allora di sottoporre ad inchiesta, a critica, la ragione per verificare se essa sia veramente dotata di simili principi, fondanti la legittimità del sapere umano.
Il problema che si affaccia subito, però, è il fatto che, secondo i principi illuministi da cui Kant parte, l’uomo non possiede strumenti di indagine più alti della ragione; per questo motivo, per esaminare la validità della ragione, Kant non può far altro che condurla dinnanzi al “tribunale di se stessa”, al fine di stabilire la validità delle scienze.

La rivoluzione copernicana di Kant
Razionalisti ed Empiristi, nelle loro indagini gnoseologiche, partivano dall’analisi delle idee che sono “già fatte”, sono già prodotto della ragione; e si chiedevano: “Quando un’idea è vera?, quando è falsa?”, “qual è il suo fondamento?” “come posso essere certo che un’idea prodotta dalla mia mente corrisponda alle cose realmente esistenti?”, “come posso essere certo che la rosa che io percepisco sia, nella realtà, così come la vedo e la odoro?” Essi si ponevano insomma domande intorno alla validità delle idee.
Kant, osservato che per questa via la filosofia non è pervenuta ad alcun risultato, anzi è caduta in contraddizioni, propone di accantonare il problema sulla validità delle idee e di concentrarsi invece sul funzionamento della mente, come “macchina” che le produce (= in altre parole, invece di sottoporre ad analisi le idee, già prodotto della ragione, Kant parte da un’analisi della mente come strumento di produzione delle idee, l’unico che l’uomo ha a disposizione per conoscere = infatti, anche l’esperienza deve essere sintetizzata dalla ragione). Il cambio di prospettiva è evidente.
Se la macchina che produce idee “funziona correttamente” (= in ottemperanza a determinate leggi necessarie universali e soggettive), allora, potremo dire che le idee prodotte sono valide.


Compito della filosofia sarà scoprire queste leggi. Questo è il concetto di indagine critica da cui muove Kant: scoprire quali siano le strutture della mente adatte a produrre le idee vere e certe (quali sono i principi che mettono la mente umana in grado di raggiungere conoscenze certe).
E questo è anche il cosiddetto ribaltamento del rapporto classico tra soggetto e oggetto, i due classici poli della conoscenza, il quale può essere chiarito con qualche esempio:

 

  • Kant è un ingegnere incaricato di controllare il funzionamento di un computer che deve eseguire in poco tempo calcoli complicatissimi. L’ingegnere non può controllare empiricamente l’esattezza dei calcoli, impiegherebbe troppo tempo, però deve verificare in ogni caso il corretto funzionamento della macchina. Se non ha tempo di verificare l’esattezza dei calcoli cosa può fare in alternativa? Può controllare che tutte le parti della macchina funzionino e che i principi tecnologici, scientifici e costruttivi di essa siano tutti rispettati. In questo modo è in grado di desumere (senza riprova empirica) che il risultato prodotto dalla macchina è esatto, perché la macchina funziona bene!
  • Kant è un produttore di sardine in scatola. Egli possiede una macchina che produce scatole contenenti 150 grammi di sardine e 50 grammi di olio. Come gli è possibile verificare la correttezza del contenuto senza aprire una ad una le scatolette? Ovviamente non gli resta che controllare la correttezza dei passaggi produttivi secondo lo standard stabilito dalla macchina inscatolatrice. In altre parole, che la macchina compia correttamente le seguenti funzioni: a) posizionamento della scatola al punto giusto del tappeto rotante, sotto il braccio erogatore; b) pesatura dei prodotti; c) corretta chiusura della scatola stessa.

 In questo modo è il buon funzionamento della macchina che fonda l’esattezza del calcolo, non l’esattezza del calcolo a dimostrare il buon funzionamento del calcolatore; è il buon funzionamento della macchina che mi garantisce la qualità certa delle mie sardine in scatola, e non il perfetto inscatolamento, che dimostra il buon funzionamento della macchina.


Dunque, riportando l’esempio al piano della conoscenza potremmo affermare che le idee sono corrette perché la mente umana funziona correttamente, ossia secondo leggi che devono essere universali, soggettive e necessarie. Compito della filosofia è quello di individuare queste leggi.
Questa è la rivoluzione operata in filosofia da Kant che egli paragona alla rivoluzione copernicana, perché prevede un’inversione prospettica in seno al rapporto oggetto-soggetto della conoscenza. Non le cose (e le idee delle cose) sono oggetto di conoscenza ma la ragione stessa lo è; in modo da capire come essa conosce e, per tale via, comprendere se è in grado di pervenire a una certezza. Soltanto indagando la perfezione degli strumenti che la mente possiede, universali – soggettivi e necessari, posso permettermi di affermare che le conoscenze della mente sono altrettanto perfette; soltanto nel caso in cui siano gli oggetti a doversi modellare sul soggetto, solo allora posso affermare che alla conoscenza è garantito il carattere dell’universalità! (Il concetto viene ripreso e ampliato a pag. 7 ).

 

La Rivoluzione Copernicana di Kant.
È il mutamento di prospettiva con cui Kant opera un ribaltamento del tradizionale rapporto soggetto-oggetto della conoscenza umana ed invece di supporre siano le Strutture mentali dell’uomo (= soggetto) a modellarsi sulla Natura (= oggetto), ipotizza che sia l’ordine della natura a modellarsi sulle strutture mentali. In altre parole: invece di pensare che la mente sia in grado di investigare la realtà perché ad essa esattamente corrisponde, suppone che l’uomo sia in grado di capire il mondo esterno perché, in un certo grado, esso è un suo prodotto. Come Copernico, incontrando grosse difficoltà nello spiegare i movimenti celesti partendo dall’ipotesi aristotelica che siano gli astri a ruotare intorno allo spettatore, suppose che fosse lo spettatore a ruotare intorno agli astri, così Kant, incontrando difficoltà nello spiegare la conoscenza a partire dall’ipotesi che siano gli oggetti a “ruotare intorno” (= a “condizionare”) il soggetto, suppone che sia il soggetto a “ruotare intorno” (= a “condizionare”) l’oggetto. “Finora si è creduto che fosse ogni nostra conoscenza a doversi regolare sugli oggetti […]. È venuto il momento di tentare una buona volta, anche nel campo della metafisica, il cammino inverso, muovendo dall’ipotesi che sino gli oggetti a doversi regolare sulla nostra conoscenza; ciò si accorda meglio con l’auspicata possibilità di una conoscenza a priori degli oggetti, che affermi qualcosa nei loro riguardi prima che ci siano dati.” (Lettura pag di Filosophica 2B.) Per dirla con Karl Popper: dobbiamo abbandonare l’opinione secondo cui noi siamo degli spettatori passivi sui quali la natura imprime la propria regolarità, e adottare l’opinione secondo cui, nell’assimilare i dati sensibili (= nel conoscere), imprimiamo attivamente ad essi l’ordine e le leggi del nostro intelletto. Il cosmo reca l’impronta della nostra mente. Secondo Kant l’universo ha una struttura razionale, che la nostra mente può investigare, in quanto in qualche misura il cosmo è un prodotto dell’attività della mente stessa. La ragione è di casa nel cosmo perché il cosmo è in certa misura il prodotto dell’attività ordinatrice dell’intelletto. Questo non vuol dire che ci creiamo una realtà a capriccio nostro o che la realtà esterna a noi non esista. Anzi, scopo della filosofia sarà quello di esaminare tale attività di costituzione del mondo da parte della mente per spiegare come siano possibili la matematica e la fisica in quanto scienze e come disposizioni naturali ed inoltre come sia possibile la metafisica in quanto disposizione naturale e come scienza.

 

La Critica della ragion pura
Nella Prefazione alla prima edizione, Kant mette in scena un dramma: il dramma di una ragione assediata da questioni che non può respingere, poiché le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, ma alle quali essa non può neppure dar risposta perché oltrepassano ogni potere della ragione umana. L’interruzione di questo dramma può esser decisa solamente dal Tribunale della ragione, chiamato al “rischiaramento” delle possibilità conoscitive della ragione stessa. Questo tribunale è la con-cre-tiz-za-zio-ne della filosofia kantiana che egli chiama Critica Trascendentale.
“Critica” in quanto sottopone la mente ad analisi di se stessa, “Trascendentale” perché si appunta sui principi che, se esistono, consentono di dichiarare “certa” una conoscenza.


Io chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non di un oggetto,ma del nostro modo di conoscere gli oggetti. (= La conoscenza trascendentale è quella che prende per oggetto se stessa, che indaga il processo conoscitivo stesso). Quindi, la sua filosofia è “critico-trascendentale” perché analizza la ragione per stabilirne validità e limiti sulla base dei principi trascendentali che la costituiscono, ossia quegli elementi formali della conoscenza umana che egli chiama “puri” o Forme a priori (= “ciò che è prima”; indipendente dall’esperienza). Nella CRP Kant si propone di scoprire, isolandoli, quegli elementi formali, gli “a priori”, dei quali tratta sia nell’estetica sia nell’analitica; una volta scoperti si propone di determinare il metodo, cioè il modo, con cui tali elementi a priori vengono usati dall’Intelletto, che per Kant è la facoltà conoscitiva per eccellenza; tale metodo è preso in considerazione nella analitica. Kant stesso dopo la prefazione alla prima edizione inserisce uno schema dal quale si può evincere l’andamento dicotomico del trattato.


La necessità di dimostrare la validità della ragione umana e con essa l’indiscutibilità della scienza newtoniana aggredita da Hume, è all’origine della Critica della Ragion Pura, che è un’analisi critica dei fondamenti del sapere; e poiché ai tempi di Kant l’universo del sapere si articolava in scienza e metafisica, l’opera prende la forma di un’indagine valutativa circa queste due attività conoscitive. Per quanto riguarda la scienza, ritenendone il valore un fatto indiscutibile (dati i risultati cui è pervenuta) Kant ritiene che si tratti semplicemente di giustificare una situazione di fatto, chiarendo le condizioni che la rendono possibile, mentre nel caso della metafisica si tratta di scoprire se esistano davvero le condizioni che possano legittimare le sue pretese di porsi come scienza oppure se essa sia inevitabilmente condannata alla non scientificità.

Per comodità abbiamo diviso la CRP in due parti: la prima in “Estetica Trascendentale”, la seconda in “Logica Trascendentale”, e quest’ultima ulteriormente diviso in “Analitica e “Dialettica.

 

 

 

12 Categorie

 

 

 

Dio

 

Cosmo

 

 

Fenomeno e Noumeno
Kant apre il suo capolavoro con un’ipotesi gnoseologica: “Non c’è dubbio che ogni nostra conoscenza incominci dall’esperienza, da che mai la nostra facoltà conoscitiva sarebbe messa in moto se non da parte di oggetti che colpiscono i nostri sensi? […]. Ma benché ogni conoscenza cominci con l’esperienza, da ciò non segue che essa derivi interamente dall’esperienza. Potrebbe, infatti, avvenire che la nostra conoscenza empirica sia un composto di ciò che riceviamo mediante le impressioni e di ciò che la nostra facoltà conoscitiva vi aggiunge da sé sola (semplicemente stimolata dalle impressioni sensibili).
Abbiamo affermato che, per spiegare la conoscenza, Kant attua il ribaltamento copernicano: egli indirizza l’indagine sul soggetto conoscente piuttosto che sull’oggetto conosciuto, allo scopo di cogliere e studiare i modi e i principi che consentono ad un oggetto di essere percepito e conosciuto dal soggetto. Da questo deciso mutamento di prospettiva deriva che:

 

  • È l’oggetto che, per essere conosciuto, deve adeguarsi alle forme(i modi) con cui il soggetto lo conosce. L’oggetto, è quel che mi appare dopoche si è unito alle forme soggettive, è l’oggetto per me, ossia il Fenomeno; mentre l’oggetto in sé, esistente indipendentemente da noi, è ciò che Kant chiama Noumeno, il pensabile ma non conoscibile.  
  • Ogni atto conoscitivo è una sintesi tra la materia della conoscenza (= l’elemento oggettivo, empirico; le impressioni che derivano dall’esperienza) e una forma (l’elemento soggettivo, ossia l’insieme delle modalità fisse attraverso cui la mente umana ordina tali impressioni). L’elemento soggettivo non deriva dall’esperienza, dunque è a priori ed è ciò che conferisce l’universalità e la necessità ai dati empirici (che sono sempre particolari e contingenti). Tale ribaltamento quindi comporta che non sia la mente a modellarsi passivamente sulla realtà, ma sia la realtà a modellarsi sulle forme a priori attraverso cui la percepiamo. L’esito di tale ribaltamento è l’affermazione del fatto che se sono gli oggetti a doversi conformare al soggetto che li conosce, allora è garantito alla conoscenza il carattere dell’universalità

La Teoria dei giudizi
Questa “ipotesi” risulta in realtà immediatamente convalidata dall’esistenza innegabile di alcuni tipi di “Giudizio” (come li chiama Kant) che offrono il tipico esempio di verità universali e necessarie e che sono i principi immutabili che fungono da pilastri della scienza, dei quali Kant non dubita mai.  Per precisare la natura di tali principi presupposti dalla scienza, dopo aver esposto lo schema della sua CRP, Kant passa ad illustrare la sua teoria dei Giudizi.
Cos’è un giudizio? Un giudizio è una proposizione che stabilisce un rapporto tra due concetti, uno espresso dal soggetto, l’altro dal predicato.
Per Kant esprimere un giudizio significa attribuire una certa proprietà (= concetto) ad un dato individuo (= soggetto): “il gatto è morbido” (= attribuisco al gatto la proprietà della morbidezza ).


Kant attua una doppia distinzione tra i giudizi, i quali possono essere considerati da due punti di vista:
a) Logico (= riguarda il rapporto tra la proprietà ed il suo soggetto);
b) Epistemologico (= riguarda il modo in cui noi riconosciamo la verità o falsità del giudizio).

  • In senso Logico, i giudizi possono essere: Analitici o Sintetici.

Analitici = sono i giudizi nei quali la proprietà attribuita al soggetto si limita ad analizzare quanto già contenuto nel soggetto stesso, in altre parole, quando la proprietà attribuita al soggetto non aggiunge nulla alla definizione del soggetto stesso. “Un uomo calvo è un uomo”;“4 = 2 + 2”; “i corpi sono estesi”. Queste sono tautologie, perché l’estensione, ad esempio, è una qualità già contenuta nel concetto di corpo: se non fosse esteso, il corpo non esisterebbe.

Sintetici = sono i giudizi nei quali la proprietà attribuita al soggetto dice qualcosa di più rispetto a quanto in esso contenuto. I giudizi sintetici permettono di ampliare la nostra conoscenza riguardo al soggetto, aggiungendovi un’informazione nuova. “Mario è calvo”; “Questo barattolo è pesante”. La calvizie di Mario, la pesantezza del barattolo sono informazioni utili ad una migliore definizione dei soggetti “Mario” e “Questo barattolo”.

b) In senso Epistemologico, i giudizi possono essere A-priori o A-posteriori .
A-priori = sono i giudizi che non hanno bisogno del ricorso all’esperienza per essere considerati veri. Essi sono, in altre parole, Universali (validi universalmente), soggettivi (validi per ogni uomo) e necessari (tali che senza di essi la mente non potrebbe operare): “tutti i corpi sono estesi”; “un uomo calvo è un uomo”; “4 = 2 + 2”, sono giudizi che non ampliano la nostra conoscenza dal punto di vista logico, ma da quello epistemologico sono universalmente validi e necessari.

A-posteriori = sono i giudizi che non sono validi universalmente e non sono necessari ma per essere confermati hanno bisogno dell’esperienza: “Ci sono 7 persone in questa stanza”. È un giudizio non valido universalmente e neppure è necessario, però amplia la nostra conoscenza.

 

  • È chiaro allora che i giudizi analitici (in senso logico), saranno anche a-priori (da un punto di vista epistemologico).
  • I giudizi sintetici, (in senso logico) saranno a-posteriori (dal punto di vista epistemologico).

Esistono, però, dei giudizi che assommano i vantaggi dei quattro tipi di giudizio analizzati, questi sono i giudizi propri della Scienza. Essi sono sempre sintetici e a-priori. Sono sintetici, perché sono estensivi della nostra conoscenza, non si limitano ad analizzarla, a priori perché al contempo sono universali e necessari

I giudizi sintetici a priori sono i “pilastri” della scienza di cui parlavamo (pag. 8.) che le fungono da spina dorsale; essi sono l’elemento che ad essa conferisce la stabilità e l’universalità; sono quei “principi immutabili”su cui basano la loro validità i vari giudizi scientifici. Ad esempio la proposizione “tutto ciò che accade ha una causa”, oppure “tutti i fenomeni stanno tra loro in rapporti di tempo”, sono giudizi sintetici a priori senza i quali la scienza non potrebbe procedere.

 

La validità delle scienze
Riconosciuto che esistono giudizi sintetici a priori e che la scienza poggia su di essi (le proposizioni matematiche e fisiche si fondano su “giudizi sintetici a priori”), alla filosofia resta il compito di comprendere come siano possibili, ossia spiegare la provenienza di questi ultimi.
Tali giudizi, per Kant sono possibili perché l’uomo possiede i principi trascendentali della sintesi a priori ossia le modalità fisse, che Kant chiama forme a priori, attraverso cui la mente umana ordina, secondo determinati rapporti, le impressioni che provengono dall’esperienza . Su tali forme l’uomo costruisce la sua scienza, ovvero la conoscenza universale e necessaria. In omaggio alla sua “rivoluzione copernicana”, Kant ritiene che questi rapporti fissi non siano contenutinelle proprietà matematiche o fisiche, ma che l’uomo è in grado di leggerli in base ai principi che già possiede. Un esempio ci aiuterà. Possiamo paragonare la mente ad un computer che elabora la molteplicità di dati che gli vengono forniti dall’esterno, mediante la serie di programmi fissi di cui è dotato. Pur mutando le informazioni, non mutano mai gli schemi di recezione. Esistono, insomma,  determinate forme attraverso cui incapsuliamo i dati della realtà, grazie alle quali possiamo formulare giudizi “sintetici a priori” intorno ad essa senza timore di poter essere smentiti dall’esperienza: se sapessimo di dover portare per sempre delle lenti azzurre, potremmo dire, in tutta sicurezza, che il mondo, anche in futuro, per noi sarà sempre azzurro!


Kant distingue nell’uomo tre facoltà preposte alla conoscenza (Sensibilità, Intelletto e Ragione), dunque occorrerà distinguere tre livelli di indagine o di critica:

  • La critica dei principi a priori della Sensibilità (Estetica trascendentale)
  • La critica dei principi a priori dell’Intelletto (Analitica Trascendentale)
  • La critica riguardo alle possibilità di conoscenza della Ragione a partire dai puri concetti dell’Intelletto (Dialettica Trascendentale).

 

Estetica Trascendentale
La scienza che studia i principi a priori della Sensibilità è detta Esteticatrascendentale.
La sensibilitàè la facoltà passiva di ricevere le rappresentazioni del mondo esterno. Le rappresentazioni del mondo esterno costituiscono la materia della conoscenza; perché si abbia la conoscenza sensibile per Kant occorre che la molteplicità dei dati empirici, procurati dalla sensazione, sia unificata e ordinata dalle forme a priori dell’Intuizione sensibile: che sono lo Spazio e il Tempo.
Lo spazio è la forma del senso esterno, attraverso cui ci rappresentiamo gli oggetti fuori di noi;
Il tempo è la forma del senso interno, attraverso cui intuiamo gli stati d’animo interiori.
Essi non derivano dall’esperienza; perché, per poter cogliere gli oggetti nello spazio o vivere gli stati d’animo nel tempo dobbiamo possedere a priori dentro di noi lo spazio e il tempo.  Spazio e Tempo sono quel che Kant chiama intuizioni pure.
In tal modo possiamo affermare che:

  • La geometria è una scienza perché la forma a priori (universale e necessaria) dello Spazio rende possibili i suoi giudizi sintetici.
  • L’aritmetica è una scienza perché la forma a priori del Tempo rende universali e necessari i suoi giudizi sintetici.

Spazio e tempo sono quadri mentali a priori, non sono contenitori (prospettiva oggettivistica di Newton) non sono derivati da esperienze (prospettiva empiristica di Locke e Hume) né concetti (interpretazione concettualistica di Leibniz).  

 

Analitica Trascendentale
La scienza che studia i principi a priori dell’Intelletto è detta Analiticatrascendentale.
L’intelletto è la facoltà attiva attraverso la quale l’uomo può formulare giudizi vale a dire Pensare.Attraverso l’intuizione sensibile, un oggetto ci è dato, attraverso l’intelletto esso viene pensato . . . l’intelletto non può intuire nulla e i sensi nulla pensare. Solo dalla loro unione può scaturire la conoscenza.
L’intelletto allora pensa.

  • Cosa pensa? Pensa le Intuizioni che gli vengono dalla sensibilità e le unifica. Unificando più rappresentazioni sensibili formula i concetti empirici = l’intelletto dunque pensa i concetti!
  • Come l’intelletto pensa? Per mezzo di cosa? L’intelletto pensa per mezzo di principi a priori specifici che conferiscono universalità e necessità alla conoscenza intellettiva. Kant li chiama concetti puri, già esistenti nella mente, a priori, basilari. Questi sono le categorie.

L’intelletto, unificando le rappresentazioni sensibili, pensa i concetti attraverso le categorie.

Dottrina delle Categorie e Deduzione trascendentale
Per Kant pensare significa “formulare giudizi”, in altre parole giudicare (attribuire un predicato ad un soggetto). Le categorie sono i modiattraverso i quali l’intelletto giudica (= pensa). Esse saranno tante quante sono le modalità di giudizio (ovvero quante sono le maniere tramite cui si attribuisce un predicato ad un soggetto). Kant le chiama anche concetti Puri (= contenuti a priori nell’Intelletto)
In Logica i tipi di giudizio sono 12. Se i giudizi sono 12, saranno 12 anche le categorie perché ad ogni tipo di giudizio Kant fa corrispondere, non senza qualche forzatura, un tipo di categoria (ovvero il principio generale che ha reso possibile la formulazione di quel tipo di giudizio).
In pratica le categorie sono Forme, grandi caselle vuote dentro di noi a priori entro cui è possibile inserire tutti i tipi di giudizio. Diciamo che sono “la forma generalissima con cui possiamo predicare l’essere”.


Nota:
1) le categorie, anche se “a priori” non sono “idee innate”, ma modelli operativi. Non sono ciò che si conosce, ma ciò attraverso cui si conosce.
2) La differenza fondamentale con le 10 categorie Aristoteliche, oltre al fatto che Kant rimprovera Aristotele di averle rinvenute in modo casuale e frammentario, è che quelle di Aristotele sono forme dell’Essere, in altri termini, modi di essere propri della realtà, mentre quelle di Kant rappresentano i modi di funzionamento dell’intelletto.

Le Categorie si distinguono per:
Quantità (totalità, pluralità, unità)
Qualità (realtà, negazione, limitazione)
Relazione (sostanza –accidente, causalità, comunanza)
Modalità (possibilità-impossibilità, esistenza-inesistenza, necessità-contingenza).

 

Formulata la teoria ed esposta la tavola delle categorie  resta il problema più difficile: quello della giustificazione della loro validità.
Domanda: Se le categorie sono i modi a priori con cui l’intelletto pensa (le grandi caselle entro cui rientrano tutti i predicati possibili) e gli oggetti sono qualcosa di esterno all’intelletto (materialmente non li crea l’intelletto), come pretendono le categorie di valere anche per  gli oggetti esterni? per giustificare la sua “tavola delle categorie”, da buon illuminista Kant non si appella al principio di autorità ma ad una giustificazione che prende il nome di  Deduzione Trascendentale. Il termine non è adoperato in senso logico-matematico ma in quello “giuridico”, è la giustificazione di diritto di una pretesa di fatto. La pretesa validità delle categorie non si basa sulla constatazione che esse sono adoperate, di fatto, nella conoscenza scientifica, ma nella dimostrazione che quest’uso è legittimo. Operare la deduzione trascendentale di una categoria significa dimostrare che quest’ultima risulta essenziale perché sia possibile un certo tipo di esperienza.
Nei confronti delle forme a priori della sensibilità (lo spazio e il tempo) questo problema non si pone perché è evidente il loro diritto: un oggetto che non è dato nello spazio o nel tempo non è un oggetto- per- noi, perché non è intuito.
Per quanto riguarda le categorie, invece, non è così evidente che gli oggetti debbano sottostare ad esse. Affermare che la realtà obbedisce, oltre che alle forme delle nostre intuizioni, anche alle forme dei nostri pensieri è un paradosso che esige una giustificazione.
Risposta: La giustificazione è data dall’individuazione di un elemento unificatore. Gli oggetti della natura non sarebbero tali per noi se non fossero da noi pensati (= unificati tramite l’attribuzione di un predicato ad un soggetto). Questo presuppone che all’origine della pretesa validità dei giudizi ci sia un’attività mentale, un’identica struttura comune a tutti gli uomini che Kant chiama Io Penso o Appercezione trascendentale. Questo è un elemento di congiunzione di tutte le mie rappresentazioni: (= tutte le mie esperienze, per poter essere date, devono avere un elemento in comune e questo elemento comune è che sono mie!!!). L’io penso è allora questo centro unificante dell’attività del pensiero di ogni soggetto ed è una funzione uguale per tutti i soggetti. L’attività dell’Io penso si attua tramite i giudizi (= i pensieri, i modi concreti con cui il molteplice è pensato); ma i giudizi si fondano sulle categorie. Allora, poiché tutti i pensieri presuppongono l’io penso, e l’io penso pensa tramite le categorie, ne consegue che tutti gli oggetti pensati presuppongono le categorie. Questo significa che l’insieme degli oggetti della natura non può essere pensato se non tramite le categorie.


Questo equivale ad affermare che la natura, come insieme di fenomeni sottoposti a leggi universali, obbedisce alle categorie del nostro intelletto; ovvero obbedisce a leggi che non sono proprie della natura stessa, ma del soggetto. L’elemento che è in grado di dimostrare la legittimità delle categorie, è l’Io Penso. La natura è, allora, un insieme di fenomeni sottoposti alle leggi universali dell’intelletto, alle quali “deve” obbedire perché senza di esse non potrebbe essere da noi compresa. È il soggetto allora che produce, sotto l’aspetto formale, l’0ggetto conferendo ordine e regolarità ai dati sensibili che, di per sé, sono privi di ordine e connessione. Ad esempio: Senza la categoria di causalità noi non potremmo mai sperimentare un cosmo ordinato, ma solo un caos di sensazioni prive di connessione tra loro (ricadremmo nello scetticismo di Hume, insomma).

 

Lo schema trascendentale
Domanda: Appurato che le categorie hanno una validità necessaria rispetto all’oggetto fenomenico, in che modo avviene la loro applicazione ai dati dell’esperienza?
Risposta: Non potendo agire l’intelletto direttamente sugli oggetti della sensibilità (non avendoli creati), agisce indirettamente su di essi tramite la mediazione di un terzo elemento, che deve essere puro (senza nulla di empirico, per legarsi all’intelletto) e al contempo sensibile (per potersi adeguare alla natura degli oggetti). Questo medium è rappresentato dallo schema trascendentale.Gli schemi sono indispensabili alla conoscenza in quanto omogenei da un lato con le categorie dell’intelletto e dall’altro con i fenomeni proprio per rendere possibile l’applicazione della prime ai secondi. Essi esprimono la loro attività mediatrice applicando all’oggetto la forma più importante della sensibilità: il Tempo, il medium universale attraverso cui tutti gli oggetti vengono percepiti. L’oggetto viene “schematizzato” dall’intelletto attraverso il tempo.
Gli schemi trascendentali sono le categorie tradotte in linguaggio temporale; sono le categorie calate nel tempo (= Gli schemi, traducono la realtà al nostro intelletto e sono il corrispettivo, in chiave temporale, delle categorie).
Alcuni esempi: lo schema della categoria di sostanza è la “permanenza nel tempo”(= sostanza è qualcosa che permane nonostante il variare degli accidenti); lo schema della categoria di esistenza è la “presenza di qualcosa in un determinato tempo”; lo schema della categoria di necessità  è la “presenza di qualcosa in ogni tempo”; lo schema della categoria di possibilità è la “esistenza di qualcosa in un tempo qualsiasi”.
La rivoluzione copernicana che K ha attuato in filosofia vede il suo culmine nella teoria dell’io come legislatore della natura.
Essendo anche il fondamento della natura, l’io penso, con le sue categorie, è anche il fondamento della scienza che la studia. I pilastri ultimi della Fisica poggiano, infatti, su giudizi sintetici a priori della mente, che a loro volta derivano dalle intuizioni pure di spazio e tempo e dalle 12 categorie.
Contro lo scetticismo di Hume, il quale sosteneva che da un momento all’altro l’esperienza potesse smentire le verità su cui si regge la scienza, K sostiene, e ritiene di aver dimostrato, che tale possibilità non sussiste, in quanto l’esperienza, essendo condizionata dalle categorie dell’intelletto e dall’ “io penso”, non potrebbe mai smentire i principi che ne derivano. L’esperienza, che rivela le leggi della natura, non potrà mai smentire queste ultime, giacché dette leggi rappresentano le condizioni stesse di ogni esperienza possibile.


L’originalità della soluzione kantiana consiste nell’aver fondato le istanze della oggettività nel cuore stesso della soggettività. La sua singolarità però è consistita anche nell’aver inteso il sapere umano in termini di possibilità e di limiti.

 

Ambiti di applicazione delle categorie e concetto di Noumeno.
“Pensare”, per Kant, significa applicare le categorie dell’Intelletto agli oggetti dell’esperienza, al fine di produrre la conoscenza. È chiaro che le categorie, essendo la facoltà logica di unificare il molteplice della sensibilità, funzionano soltanto in relazione con essa. Considerate di per sé, senza essere riempite con i dati provenienti dal senso interno o esterno, esse appaiono ciò che sono, contenitori vuoti. Questo significa che esse sono operative solamente riguardo al fenomeno (l’oggetto proprio della conoscenza umana). La delimitazione della conoscenza al fenomeno, ovvero l’oggetto-per-me comporta però un implicito rimando alla nozione contrapposta di oggetto-in-, che pur essendo in-conoscibile, si staglia sullo sfondo di tutta la filosofia kantiana. Kant non ha mai pensato, neppure per un momento, di ridurre la realtà al puro fenomeno, in quanto afferma che se c’è un “per-me” ci deve pur essere un “in-sé”, ossia una X, meta-fenomenica. La cosa in sé, che Kant chiama Noumeno, costituisce il presupposto della gnoseologia di Kant. Il noumeno non è conoscibile, perché travalica i limiti dell’esperienza e sappiamo che per Kant ogni conoscenza per essere tale deve partire dall’esperienza. Non essendo conoscibile il noumeno costituisce un concetto limite, una X che non può entrare in contatto con noi e che serve ad arginare le nostre pretese conoscitive.


La Dialettica Trascendentale
Nella “Estetica Trascendentale” Kant ha indagato i principi a priori della sensibilità, nell’“Analitica Trascendentale” i principi a priori dell’intelletto, nella “Dialettica Trascendentale” (o Logica dell’apparenza)Kant indaga sulle pretese della ragione (in senso negativo) di conoscere oggetti fuori dal campo dell’esperienza. Nella dialettica Kant prende in esame le “illusioni” generate dalla mente umana quando tenta di applicare le categorie al di là dei confini dell’esperienza, di andare oltre il mondo dei fenomeni ed avventurarsi negli spazi della metafisica.
La ragione, infatti, è la terza facoltà conoscitiva dell’uomo, accanto all’intelletto ed alla sensibilità, completamente sganciata però dagli oggetti sensibili. Dato che ogni conoscenza scaturisce dai sensi, la pretesa di conoscenza della ragione, che non ha agganci con il mondo empirico, è illusoria. I “concetti della ragione”, che trascendono ogni possibile esperienza, sono da Kant indicati col termine di  idee. L’idea per Kant èun prodotto della mente umana. Non dell’Intelletto ma della Ragione. Se l’Intelletto tende ad unificare i dati della Natura per produrre concetti, la Ragione aspira ad unificare i concetti generati dall’intelletto, producendo idee, avulse da ogni esperienza. Queste si riferiscono a quell’in-sé (che sfugge alla nostra esperienza perché non cade sotto i nostri sensi). L’ in-sé che Kant chiama Noumeno, quella “realtà” che possiamo pensare ma mai conoscere.


Kant, pur respingendo lo scetticismo scientifico di Hume, ritenendo il valore della scienza un fatto ormai stabilito, ne condivide invece lo scetticismo metafisico. Per il rispetto dell’importanza storica ed della nobiltà della metafisica, della quale si dichiara “innamorato deluso”, dichiara che la dialettica trascendentale ha il compito di indagare la natura di quel “perenne anelito” che porta l’uomo a  trascendere l’orizzonte del verificabile per avventurarsi in “spazi sconosciuti”. È noto il suggestivo paragone kantiano dell’isola (= la scienza) e dell’oceano tempestoso (= la metafisica):
Questo territorio (= il mondo fenomenico conoscibile) è un’isola che la natura ha racchiuso in confini immutabili. È il territorio della verità, nome seducente, circondata da un ampio e tempestoso oceano, in cui ha la sua sede più propria la parvenza (= l’illusione metafisica), dove innumerevoli banchi di nebbia e ghiacci creano ad ogni istante l’illusione di nuove terre e, generando sempre nuove ingannevoli speranze, al navigante che si aggira avido di nuove scoperte, lo sviano in avventurose imprese che non potrà né condurre a buon fine né abbandonare una volta per sempre.

 

La tendenza alla conoscenza, senza tener conto dei limiti fenomenici, è un bisogno insopprimibile, un impulso connaturato della mente umana di andare oltre il mondo dei fenomeni, applicando le categorie di là dei confini della possibile esperienza e corrisponde ad un’esigenza di “superamento del margine consentito”. Sarebbe giusto parlare di aspirazione alla globalità della conoscenza.  La nostra ragione, in altre parole, non paga del mondo fenomenico, che è conoscibile solo in porzioni, è irresistibilmente attratta verso una spiegazione onnicomprensiva di ciò che esiste. Questa attrazione per secoli si è espressa nella formulazione, e nella discussione metafisica, di tre idee fondamentali che si presentano come “l’incondizionato”. Nella dialettica Kant prende in esame le illusioni generate dalla ragione quando tenta di esaminare queste tre idee o concetti generalissimi, la cui natura consiste nel riferirsi non al mondo dei fenomeni ma alle cose in sé.

  1. L’idea di Anima = ovvero della totalità degli atti dell’intelletto umano.
  2. L’idea di mondo = ovvero la totalità di fenomeni (di tutto ciò che esiste).
  3. L’idea di Dio = ovvero l’idea di totalità per eccellenza che racchiude in se il mistero stesso dell’esistenza, le condizioni di possibilità dell’esistenza stessa.

All’indagine di queste tre idee si sono rivolti per secoli gli sforzi vani di intere generazioni di filosofi, nel tentativo di rispondere a domande nobili ma “illegittime”, per usare la terminologia giuridica di Kant. L’errore primo della metafisica tradizionale è stato quello di voler trasformare queste tre “esigenze” in altrettante “realtà indagabili”, dimenticando che come esseri finiti non abbiamo mai a che fare con l’idea- in -sé ma soltanto con il fenomeno, ed il prodotto di tale errore è consistito nella formulazione di giudizi contraddittori, ossia Antinomie.


Per dimostrare criticamente l’infondatezza della metafisica Kant prende in considerazione le tre pretese scienze che ne costituiscono i cardini.

  • La psicologia razionale, che si rivolge all’anima con la presunzione di coglierla nella sua globalità.
  • La cosmologia razionale, che si rivolge al mondo inteso come Universo.
  • La teologia razionale, che indaga su Dio.
  • La pretesa della psicologia razionale di conoscere l’anima affermando che essa è “immateriale”, “semplice”, “immortale” è basata su un Paralogismo (= un sillogismo errato) che si fonda sull’errata attribuzione di sostanza spirituale o pensante ad una realtà che è soltanto una pura forma, la condizione formale del costituirsi dell’esperienza e della conoscenza, il presupposto che accompagna tutti i concetti, l’io penso.
  • L’idea di “mondo” (= la totalità di ciò che esiste), cade per definizione al di fuori di ogni esperienza possibile. Quando la ragione pretende di trovare una spiegazione del mondo, nella sua totalità ed interezza, fallisce, poiché non è possibile per noi averne un’esperienza. La totalità dell’esperienza infatti non è un’esperienza a noi consentita, in quanto noi possiamo sperimentare questo o quel fenomeno, ma mai la serie completa dei fenomeni. Quando la metafisica ha preteso di applicare alla globalità del mondo, che è una pura idea,  il concetto categorico di Causa (che è una categoria dell’intelletto applicabile ai fenomeni) è rimasta inevitabilmente imprigionata nei reticolati logici delle cosiddette antinomie (= contraddizioni, conflitti della ragione con se stessa) dalle quali è impossibile uscire. Esse si concretizzano in coppie di affermazioni opposte, dove una afferma (la tesi) e l’altra nega (l’antitesi) tra cui, in mancanza di prove certe  (e con l’uso della sola ragione, avulsa dall’esperienza) è impossibile decidere, soprattutto perché sul piano logico possono essere entrambe dimostrate. Le antinomie osservate da Kant sono quattro e derivano tutte dall’assumere il mondo come realtà in sé, globale ed unica, invece di riconoscergli una realtà fenomenica che si costruisce progressivamente mano a mano che lo esperimentiamo e scopriamo.

Prendiamo la prima a titolo di esempio:
Tesi: il mondo ha avuto un inizio nel tempo ed è limitato nello spazio;
Antitesi: il mondo non ha limiti, non ha avuto inizio nel tempo e neppure è limitato nello spazio.

  • La critica alla Teologia razionale, la parte più nota della Dialettica, consiste nella confutazione, da parte di Kant, delle cosiddette prove razionali dell’esistenza di DioEssendo quest’idea, totalmente priva di dimostrazione, i filosofi hanno escogitato una serie di “prove” riguardo all’esistenza di Dio. Kant le raggruppa in tre, appartenenti a due ordini. La prova ontologica(= è una prova di ordine mentale che parte dall’idea per dimostrarne necessariamente l’esistenza), quella cosmologica e quella fisico-teleologica (= sono prove che partono dall’esperienza per arrivare all’incondizionato).

La prima, la più controversa in filosofia, è la cosiddetta prova ontologica che risale a S. Anselmo d’Aosta, il quale, nell’XI secolo intese dedurre l’esistenza di Dio dal suo stesso concetto, affermando che Dio, in quanto essere perfettissimo (ciò di cui non si può pensare nulla di più perfetto), non può mancare proprio dell’attributo dell’Esistenza.
Kant distinguendo criticamente tra piano mentale e piano ontologico, obbietta che non sia lecito “saltare” dal piano della possibilità- logica a quello della realtà-ontologica, in quanto l’esistenza non è una cosa che si può dedurre per via intellettiva, ma solo constatare per via empirica (per dirla con parole di Kant: “mai l’esistenza è contenuta analiticamente in un concetto, ma può solo essere dimostrata, provata sinteticamente con l’esperienza”). La confutazione di tale prova ontologica ruota intorno alla categoria di “esistenza”. Il predicato esiste non può essere considerato alla stregua di un attributo che entra a far parte della definizione di un concetto generalissimo. L’esistere o il non esistere non tolgono e non aggiungono nulla alla perfezione del concetto. “cento talleri reali non contengono nella loro definizione niente di più che cento talleri possibili […]” Infatti se i talleri reali (l’oggetto reale) contenessero qualcosa di più del loro semplice concetto, quest’ultimo non potrebbe dirsi legittimamente il concetto adeguato del primo.


La prova ontologica è dunque:
1) impossibile, in quanto pretende di derivare da un’idea una realtà;
2) tautologica, perché nell’idea stessa di “perfezione” presuppone gia quell’esistenza che vorrebbe dimostrare.
È come se io volessi dimostrare l’esistenza di un’isola al centro dell’oceano, talmente perfetta che non può, tra le sue perfezioni varie, non comprendere anche il coronamento dell’esistenza. Non si può, come abbiamo detto, da puri concetti far scaturire presuntuosamente delle esistenze. È questo che intendono fare anche la prova cosmologica e quella teleologica. La prima, che costituisce il fulcro delle “vie tomistiche”, fa leva sul principio di causalità per risalire a Dio. La seconda si serve dei principi di ordine, finalità e bellezza del mondo, per dedurre che deve esistere una Mente ordinatrice di tanta perfezione, identificata con il Creatore. Questa è la prova più antica, la più chiara e più adatta alla comune ragione dice Kant, tant’è che ha trovato fortuna anche presso gli illuministi (= se c’è un orologio deve per forza esserci un orologiaio). In realtà entrambe queste “presunte” prove falliscono, dato che utilizzano anch’esse, dandola per presupposta la prova ontologica, già confutata in precedenza. Infatti identificando la causa “incausata” e la causa  “ordinante”  con un Dio  trascendente, necessario e perfetto si ricade nella medesima tautologia della prova ontologica.
Avventurandosi in territori inesplorati e metaempirici (= cioè non fondati sull’esperienza), conclude Kant, la ragione non può conoscere alcunché.
La metafisica non ha nessuna validità come scienza dunque; ma le sue esigenze sono reali, connaturate all’uomo che cerca di sopperire ai suoi limiti attraverso il “salto” nel mondo dell’incommensurabile e della totalità. Ecco l’esempio dell’isola circondata dai flutti che la mente è tentata di esplorare, cercando di oltrepassare le “Colonne d’Ercole” dell’intelletto.
Tale disposizione anche se non serve a conoscere nulla ha in ogni modo un grande valore per l’uomo, perché  se da un lato è uno sprone continuo per l’intelletto a cercare i legami tra tutti i fenomeni e passare da un fenomeno all’altro con la sistematicità dovuta, dall’altro è il sintomo, il riflesso di quella realtà in sé che in Kant, ignorata come possibile oggetto di conoscenza, ritornerà, sotto la veste dell’Etica, nella Critica della Ragion Pratica.

La Critica della Ragion Pratica (1788)
Non meno evidenti degli interessi gnoseologici (relativi ala conoscenza) sono in Kant gli interessi pratico-politico-religiosi.
Nella sua CRPratica  Kant  cerca di rispondere alla seconda ed alla terza della 4 domande di cui abbiamo detto all’inizio del nostro percorso kantiano: “che cosa devo fare? “in cosa posso sperare?”ma anche al “che cos’è l’uomo?”.
La ragione, oltre alla funzione teoretica, che permette all’uomo di conoscere il mondo fenomenico scientificamente, ha anche un valore “pratico”, vale a dire morale. Nella sua seconda ma non meno importante Critica, Kant, spalanca le finestre ad un mondo che aveva scacciato dalla porta della riflessione sulle scienze..
Kant definisce la “morale” come quella facoltà umana che consiste nel determinare la volontà secondo principi.
E la “Volontà” è  la facoltà di scegliere sol o ciò che la ragione ritiene praticamente necessario, quindi come buono, indipendentemente dall’inclinazione.
Secondo Kant l’azione morale è retta da principi che egli chiama gli Imperativi. Questi sono principi oggettivi della ragione stessa, che “costringono” (il virgolettato qui è d’obbligo) la volontà e che si esprimono con il verbo “dovere”. Questi possono esser di due tipi, Ipotetici e Categorici.
1) Gli imperativi “Ipotetici” sono retti dalla forma condizionale “se vuoi questo, allora fai quello”; “se vuoi passare l’esame, allora devi studiare”. Di questa forma sono gli imperativi collegati ad una morale di tipo utilitaristico o eudemonistico, volti insomma alla ricerca dell’utile o della felicità individuale o collettiva. Questi principi Ipotetici non possiedono i caratteri dell’universalità, non sono soltanto “regole di prudenza” finalizzate all’ottenere uno scopo.
Per Kant questi imperativi non colgono la vera essenza della morale.
2) Gli imperativi “Categorici” invece  non contengono “se”. Sono incondizionati. Solo essi hanno la forma del puro “tu devi…” senza altre condizioni. Soltanto questi colgono la vera essenza della morale. Questa è costituita dal principio del “dovere per il dovere” indipendentemente dai miei desideri e dalle mie inclinazioni. Se così non fosse non potremmo neppure chiamarla morale.
 Partendo da un principio di stampo illuminista, è un fatto per Kant che esista in ognuno (forte l’influenza di Rousseau in ciò) una concezione del dovere come qualcosa di “incondizionato” e assoluto. Questo fatto perché abbia valore, presuppone l’esistenza per l’uomo della libertà. Non esiste vera moralità (= ottemperanza al senso del dovere) senza libertà di scegliere. Questa autonomia del soggetto etico costituisce una precondizione necessaria al manifestarsi dell’azione morale. L’azione morale è certamente costrittiva, impedisce che il soggetto agisca in conformità ad impulsi, però perché sia davvero valida deve basarsi sul principio della “libera adesione” alle norme che costituiscono il patrimonio morale di un popolo. In altri termini, l’azione davvero morale è l’azione fatta per il semplice dovere di farla, senza pensare alle conseguenze di questa azione, né alle punizioni né ai premi che ne derivano, altrimenti non la chiameremmo “morale”.
La morale Kantiana in cosa differisce dalla normale morale comune?
La morale tradizionale è una morale contenutistica: in altri termini, in essa vale il criterio secondo cui io devo compiere una certa azione perché questa è buona. E’ il contenuto buono dell’azione a determinare il dovere di compierla.
Nella sua morale kant, compie il ribaltamento gia visto nella Critica della Ragion Pura. Per Kant  io non devo compiere un’azione perché questa è buona, ma una azione è buona, perché la devo fare. In tal modo la morale di Kant si evidenzia come una morale formale, ossia essa non prescrive nulla se non l’obbedienza alla legge morale stessa.


Non spetta alla ragione determinare il contenuto particolare di singole norme comportamentali, che sono mutevoli nello spazio e nel tempo; ciò che l’indagine kantiana mostra è il carattere comune che esse devono condividere. Esse devono rispondere, per essere morali, a dei principi di carattere universale, a priori dunque, validi per tutti gli uomini.
Le formule più importanti della morale kantiana del Dovere sono:

  • “Agisci sempre in modo che la massima della tua azione possa valere come principio di una legislazione universale”.
  • Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona che in quella degli altri, sempre come fine mai come mezzo”.

Agisci in pratica in modo che il principio, cui si ispira la tua intenzione, possa contribuire alla realizzazione di un ordine morale universale. Il fine dell’agire umano deve, in altre parole, tendere ad un mondo pacifico e pacificato nel quale vale come norma generalissima il vecchio adagio “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”. Ognuno deve aspirare alla realizzazione di un mondo in cui tutti si comportano in base a norme razionali, rette dal principio del dovere puro, le quali a loro volta  poggiano su di un imprescindibile principio di Libertà. Libertà, sia dalla semplice osservanza di norme civili ( quali necessarie condizioni di ordine sociale), sia dalla schiavitù degli appetiti del mondo sensibile. Un mondo utopistico insomma basato su di un sogno e fondato sul principio di autonomia della volontà
Tale autonomia urta ovviamente contro il determinismo del mondo fisico, dato che Kant, lo abbiamo visto, accetta il principio di causa proprio della scienza newtoniana, nella quale esistono solo ferrei legami che non lasciano spazio ad alcun tipo di libertà.
Sappiamo anche, però, che Kant ha distinto molto chiaramente tra un mondo dei fenomeni ed un mondo dei noumeni. Nel mondo dei fenomeni non esiste la libertà, perché tutto è regolato da leggi inderogabili (che la nostra mente costruisce in base ai principi a priori dell’intelletto). E’ possibile allora cogliere questa libertà nello spazio di pertinenza della realtà soprasensibile, in-conoscibile all’uomo, che si cela al-di-là delle apparenze sensibili.
L’uomo infatti, in quanto essere fisico ma anche soggetto morale, abita entrambe i mondi. Il corpo in quello sensibile e la volontà in quello noumenico o soprasensibile.  Quindi se la natura è il luogo della necessità, la sfera morale umana è il luogo della libertà. Tale luogo appartiene a quella sfera assoluta, che non ci è consentito conoscere scientificamente né, tantomeno, dimostrare, la quale però si ripresenta  come condizione necessaria del principio del dovere, sul quale si dovrebbe fondare la  moralità umana.  È possibile perciò dedurre questa realtà assumendo in via ipotetica dei postulati  della ragion pratica,delle proposizioni non dimostrate come quelle della geometria (come Kant aveva fatto con i principi universali, soggettivi e necessari della conoscenza) che giustifichino la nostra adesione all’ Imperativo categorico.
Essi sono:

      • La “Libertà della volontà”;
      • L’immortalità dell’anima;
      • L’esistenza di Dio.

La libertà della volontà, come primo postulato, è la più importante, perché che in qualche modo vanifica la presenza degli altri due. Essa parte dal presupposto che gli uomini per compiere un’azione morale debbano essere liberi di farlo, indipendentemente da costrizioni di tipo legale o sociale, psicologico, religioso e nonostante alcune conseguenze. Per Kant è morale un’azione, volta ad un buon fine, che sia compiuta indipendentemente da costrizioni: siano esse rappresentate da un uomo che ti ricatta con una pistola oppure la legge che ti impone di farlo perché sennò sarai punito oppure qualcuno che ti convince con la promessa di un premio. Uno studente che studia perché se è promosso gli comprano il motorino compie un’azione morale? Per Kant no. Un uomo che decide di donare tutto ai poveri perché pensa alla ricompensa che gliene verrà in paradiso o al risalto della notizia sui giornali compie un’azione morale? Per Kant no.
Il postulato della libertà è allora quello fondamentale. Gli altri due sono una specie di esigenza che deriva dalla nozione di “sommo bene”, inteso come unione di felicità e virtù. L’uomo virtuoso merita di essere felice? Senz’altro si. Accade però che in questo mondo, spesso, un uomo che si attiene ai dettami della propria coscienza non sempre venga premiato. Allora, se in questa vita terrena non è possibile adeguare la felicità al merito, occorre “postulare” due condizioni che rendano possibile l’equazione virtù = felicità: l’immortalità dell’anima, perché la perfezione ultima dell’azione morale non può essere completata in questo mondo sensibile, che ci devia continuamente; quindi occorre che possa essere completata in un altro mondo; l’esistenza di Dio, in quanto essere che commina premi adeguati al grado di virtù, sanando le ingiustizie. Dio allora come esigenza morale.


Questi postulati offrono all’uomo risposte riguardo agli interrogativi parsi irrisolvibili nell’ambito della ragion teoretica. È chiaro che gli ultimi due sono solo postulati e non certezze comprovate dall’esperienza, guai se lo fossero! Allora anche il primo postulato si annullerebbe, perché, come abbiamo detto, la certezza del premio nell’aldilà sarebbe la molla della mia azione morale e non la spontanea adesione a questa per puro principio del dovere!
Se l’imperativo categorico risponde alla domanda “che cosa devo fare?”la risposta a quel “in cosa posso sperare?” è la fede razionale nel raggiungimento di una comunità universale, libera, fondata sulla legge morale e sulla consapevolezza che solo l’obbedienza ad essa ci renda graditi a Dio. Un dio che però non vuole chiese, né  dogmi  né riti religiosi, ma soltanto uomini puri e giusti disposti al sacrificio per il bene di tutti, per una comunità pacifica e pacificata nella quale l’obbedienza spontanea alla legge morale (adesione totale e libera), che l’uomo ha dentro di sé,  sia l’unica costrizione cui l’uomo debba essere soggetto.
Kant parla di primato della Ragione pratica perché questa giustifica l’esigenza di una realtà incondizionata che la ragione teoretica aveva invece sconfessato, accettandola sotto forma di postulati necessari per rafforzare la moralità.

 

La Critica del Giudizio
Pubblicata a Berlino nel 1790 l’opera nasce dal desiderio di Kant di conciliare la necessità, cui è sottoposta la natura, con la libertà possibile solo nella sfera morale umana.  
Nella sua ultima Critica Kant intende studiare una terza facoltà, rispetto all’Intelletto ed alla Ragione, il Sentimento. Il giudizio di cui si parla qui non ha nulla a che vedere con il pensiero di tipo intellettivo e scientifico, visto nella prima critica, che qui Kant chiama determinante.
Nella sua terza Critica, Kant intende esaminare il sentimento del gusto attraverso il giudizio riflettente, quel tipo di giudizio che, ad esempio, mi fa osservare un quadro o un paesaggio ed affermare che è “bello”. La bellezza in questo caso non è una proprietà del quadro, ma il risultato di una relazione che s’instaura tra l’oggetto quadro e il soggetto che lo osserva esteticamente. Esso può essere di due tipi: Estetico e teleologico.
a) Il giudizio estetico.
Consiste nella capacità di cogliere il rapporto tra l’oggetto ed il sentimento di piacere o dispiacere che esso provoca nel soggetto.
Due sono i giudizi estetici: il bello e il sublime.
Il Bello. Possiamo dire che un oggetto è bello, quando esso corrisponde al mio modello ideale e soddisfa alcune proporzioni.
Tale ideale deve però soddisfare un’esigenza di tipo universale e soprattutto “disinteressata”; se vedo un vestito in vetrina, e dico che mi piace, perché è alla moda, costa poco e mi serviva proprio, in questo momento io non sto contemplando disinteressatamente un oggetto, perché alla base di tale osservazione c’è un pensiero pratico, quello dell’acquisto o del desiderio di acquistare. Tale abito dunque non è bello universalmente. Per Kant “Il bello”, allora, non è ciò che piace in quel momento “particolare” e che si desidera avere per possederlo; ma è ciò che produce piacere disinteressato, come quello che provoca la contemplazione di un opera d’arte o della natura. Quindi, un vero giudizio di tipo estetico si ha quando il soggetto stabilisce una relazione fra l’oggetto sensibile, particolare, ed una esigenza universale.
Per Kant, Bello è ciò che è oggetto di piacere universale e riguarda la contemplazione disinteressata di un rapporto armonico (rapporto che intercorre tra noi e l’oggetto e quello tra le parti che compongono l’oggetto stesso, ad esempio le armoniche proporzioni di una statua greca).

Il sublime. Al contrario, il sublime ha a che fare con ciò che è smisurato e con il sentimento dell’infinito. È quel tipo di giudizio che si prova di fronte a grandi spettacoli della natura, ad esempio, o dell’arte.  Lo possiamo provare di fronte ad un oggetto sensibile che, o per la sua grandezza o per la sua forza e incontenibilità, fa sentire l’uomo infinitamente piccolo e impotente. Kant distingue tra un sublime matematico (quando contempliamo qualcosa di immensamente grande) ed un sublime dinamico (che riguarda la presenza di forze di immensa potenza si pensi alle tempeste, ai tifoni, così cari all’immaginazione romantica, nella pittura di Constable e Turner ad esempio e nella musica di Beethoven, di Berlioz o Wagner).
Il sublime si manifesta con la pura intuizione della presenza di questo essere, finito per definizione, al cospetto di una natura immensa, che lo sovrasta con la sua forza. Un piccolo essere è l’uomo, soggiogato dalla potenza della natura, ma che ha invece la capacità di pensarla. Dallo squilibrio di rapporto tra la magnifica grandezza della natura e la infinita piccolezza dell’essere umano, il quale ha però la superiore capacità di averne consapevolezza, nasce il sentimento del sublime tanto caro alla concezione romantica.

 

b) Il giudizio teleologico.
Concerne la capacità di cogliere nella natura (dal filo d’erba all’uomo) una finalità interna. La natura è considerata come se perseguisse un fine o come se fosse il prodotto di una volontà intelligente. È questa la facoltà di attribuire alla natura le stesse motivazioni che fan parte della vita umana. L’interpretazione romantica della natura come un grande organismo vivente, che realizza un processo di sviluppo e che tende verso il meglio, è un’interpretazione teleologica.
Il modello organico, che riprende la tradizione neoplatonica dell’anima mundi, ed è riconsiderato da Kant nella sua Critica del Giudizio, fa da tramite tra l’illuminismo declinante e il romanticismo nascente. Esso sarà ripreso dalla filosofia romantica con intenti contestativi del modello meccanicistico.  In questo senso possiamo affermare che la filosofia di Kant è l’ultima propaggine della grande età illuministica che lascia il posto alla dimensione romantica. In questa ripresa della C. del Giudizio kantiano, i romantici, alla necessità nella natura sostituiranno il finalismo.

 

Periodizzazione della produzione Kantiana

  • Il periodo naturalistico: che va fino al 1760, in cui i suoi interessi sono di natura prettamente scientifica, fisica e matematica. Del 1755 è Storia universale della natura e teoria dei cieli dove, in conformità alle leggi della fisica di Newton, viene descritta la formazione dell’intero sistema cosmico a partire da una nebulosa primitiva (teoria che sarà ripresa nel 1796 da Laplace). Scritti sui terremoti, sui venti confermano gli interessi naturalistici del primo Kant.
  • Il secondo periodo, il periodo pre-critico descrive il prevalere degli interessi prettamente filosofici e in esso si delineano i temi che confluiranno nel criticismo. Nello scritto Dell’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio (1763) la metafisica è detta “un abisso senza fondo” e “un oceano tenebroso senza sponde e senza fari”. È questo il periodo del suo distacco dal dogmatismo dei razionalisti della scuola di Christian Wolff ,di cui ha fatto parte e dell’adesione allo spirito di ricerca degli empiristi inglesi come Hume (al quale ascrive il merito di averlo svegliato dal sonno dogmatico). Lo scritto più rilevante di questo periodo è del 1765, Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica in cui compaiono i capisaldi dell’indirizzo critico.
  • La vera svolta nella vita di Kant è rappresentata, significativamente per un uomo la cui esistenza si è interamente risolta nel suo pensiero, dal passaggio alla fase critica, con la pubblicazione del suo prodotto più importante: la Critica della ragion pura, del 1871(del 1789 la seconda). Prima di allora Kant era stato un pensatore tra virgolette “normale”, che si muoveva bene nel contesto della cultura  illuministica del suo tempo, brillante sì ma non così notevole. Improvvisamente, a 50 anni suonati, con questo scritto Kant produce qualcosa di nuovo quanto raro in filosofia: l’emergere di un punto prospettico nuovo, un ribaltamento paragonabile a quello copernicano nelle scienze. In un decennio di lavoro forsennato produce un sistema filosofico paragonabile quanto a coerenza a quello di Aristotele che affronta dopo il problema della conoscenza, argomento della prima critica, quello della morale con la Critica della Ragion pratica (del 1788) e quello relativo all’estetica ed al finalismo  nella natura con la Critica del giudizio (1790).
  • Uno scritto minore, suggestivo per le implicazioni politiche e giuridiche sarà un saggio del 1793  Per la pace perpetuanel quale Kant prefigura un organismo super partes atto a dirimere le questioni tra gli stati evitando il ricorso alla guerra, che diventerà molto importante per gli sviluppi politici futuri, ad esempio per la costituzione di organi internazionali come la società delle Nazioni. Gli ultimi anni di questo gigante del pensiero, paradossalmente trascorsero in una malinconica demenza senile con un’inesorabile e progressiva perdita delle facoltà intellettuali.

Dal greco Krino, “io separo”, “io scelgo”, “io giudico”; il verbo implica una valutazione dopo accurata analisi.

Immanuel Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l'illuminismo? 1784.

La gnoseologia, dal greco gnòsis (= conoscenza), è la teoria della conoscenza.

  Il solo fatto di chiedersi criticamente che cosa l’uomo può conoscere, differenzia Kant sia dai Dogmatici (Razionalisti), per i quali la ragione ha una capacità conoscitiva incondizionata, che dagli Scettici (Empiristi inglesi) che negano la possibilità di una certezza per qualsiasi scienza. Negare in assoluto la validità ai fondamenti delle scienze, significa per Kant negare anche l’evidenza degli incontrovertibili traguardi da esse raggiunti.

È il problema sollevato da Platone per primo, con il “mito della caverna”, e, in età moderna, da Cartesio, con l’ipotesi dubitativa del “genio maligno”, il cosiddetto dubbio iperbolico (universale e irresolubile), lo stesso sollevato da film come Matrix, (Warner Bros, 1999) o Nirvana (1997, Italia).

Il che sarà poi il contrario di quanto affermato dagli idealisti.

Kant, Critica della Ragion Pura, Introduzione; il termine è ricavato dalla filosofia scolastica medievale.

In quanto analisi delle autentiche possibilità conoscitive dell’uomo, la C.R.P. si configura come una mappa filosofica della potenza e della impotenza della ragione, in quanto depositaria di principi puri, o a-priori.

In sintesi, nella C.R.P. Kant si pone la domanda su che cosa si fondino le pretese validità della matematica, come scienza e come disposizione naturale, della fisica, come scienza e come disposizione naturale, e della metafisica, come scienza e come disposizione naturale.

Kant, Critica della Ragion Pura, B1. 

In logica, una tautologia è un’affermazione vera per definizione, quindi fondamentalmente priva di valore informativo: “la bellezza è ciò che è bello”.

I. Kant, CRP, B 13.

I. Kant, CRP, B 51.

Dal greco aisthetikós, “che concerne la sensazione”.

Sia chiaro che non l’Io trascendentale, o Io penso, non è un io individuale ed empirico ma un io universale; esso inoltre non è l’Io cogito cartesiano. Quest’ultimo è l’attestazione dell’esistenza dell’io, mentre l’io penso di Kant è una pura funzione priva di sostanzialità.

Lo schema in senso generale corrisponde ad una regola intuitiva. Lo schema di “automobile” ad esempio, non corrisponde all’immagine sensibile e particolare di questa o quell’auto ma coincide ad una regola in base alla quale la mia Immaginazione è posta in grado di rappresentare, in generale, la figura di un’auto e di riconoscerla quando ne vedo una.

Il tempo è la forma principale della sensibilità perché se posso rappresentarmi degli oggetti nel tempo che non sono nello spazio (gli oggetti interiori, i sentimenti) non posso rappresentarmi degli oggetti dello spazio che non siano anche nel tempo.

6 L’io penso e le sue categorie però, non possono rivelare se non quello che è la natura in senso formale (= la regolarità dei fenomeni nello spazio e nel tempo); la legge particolare, nella quale questa regolarità si esprime, non può che essere desunta dall’esperienza

La semplice coscienza, empiricamente determinata della mia esistenza prova la presenza di oggetti nello spaziio fuori di me. Questo l’argomento che Kant contrappone all’idealismo dogmatico di Berkeley (: “le cose nello spazio sono semplici immaginazioni”).

Il termine idea fu usato, com’è noto, da Platone il quale separò  l’idea dalla mente fino a farne qualche cosa di esistente a parte, un modello della cosa sensibile dotato di realtà ontologica indipendente.

Immanuel Kant, C.R.P., B, 294-295.

Essa si esprime in vario modo, e con varia intensità, in ciascuno. “In tutti gli uomini, una qualche metafisica è sempre esistita e sempre esisterà, appena che la ragione si innalzi alla speculazione” (C.R.P., B 21.)

Il termine “metafisica” (coniato da un catalogatore di  Aristotele per individuare la raccolta di scritti che erano stati considerati redatti dopo i libri di “Fisica”), ha in Kant tutto il sapore polemico di un amante deluso, come egli stesso si definisce (in quanto egli stesso reduce da esperienze di ricerca in questo “terreno fragile”) e riguarda quella pretesa della filosofia di porsi come scienza di cose in realtà indimostrabili.

Qui il senso del termine psicologia è quello etimologico di scienza dei fenomeni che riguardano la realtà immateriale dell’uomo.

Il sillogismo è un ragionamento costituito da: due premesse (maggiore e minore) unite da un termine medio (= che compare in entrambe) e una conclusione. Se il termine medio ha significati differenti nelle due premesse, allora la conclusione è errata.

Dio per Kant rappresenta l’ideale della ragion pura, il supremo modello personificato di ogni perfezione che i filosofi scolastici hanno designato con il nome di “Ens Realissimus”, concependolo come l’ “Essere”, originario e perfettissimo da cui derivano e dipendono tutti gli esseri.

Il termine “teleologico” deriva dal greco e significa studio degli scopi ed è sinonimo di finalistico.

le vie di cui Tommaso d’Aquino si giova per dimostrare Dio.

Notiamo che la “costrizione” viene dalla ragione stessa dell’uomo e non da un condizionamento o da un’imposizione esterna, una legge positiva o un altro individuo che non sia il soggetto stesso.

Nella Repubblica, Platone narra la storia di un anello, trovato dal pastore Gige, servo del re di Frigia, che ha il potere di donare l’invisibilità a chi lo indossa. Glaucone, discepolo di Socrate usa il mito di Gige per dimostrare che nessun uomo è così virtuoso da poter resistere alla tentazione di fare azioni anche terribili, se gli altri non lo possono vedere. Partendo da questo, Glaucone, contro il parere di Socrate, afferma che la moralità è solamente una costruzione della società, che l'uomo rispetta per paura delle conseguenze e delle sanzioni. Una volta che queste sono eliminate, quando nessuno può vedere ciò che fai, la morale viene meno, e l'uomo si rivela per quello che è in realtà.

Legalità e moralità sono distinti. L’imperativo categorico non ha niente a che fare con l’obbedienza allo stato.
1. Il tu devi non è pronunciato da un altro, ma dalla mia stessa ragione rivolta a me. La ragione è autonoma, legislatrice di se stessa. 2. Ogni comando politico è eteronomo e come tale contraddice il principio della libertà, salvo che io non aderisca consapevolmente a quello che la legge esterna mi prescrive, perché la riconosco identica alla mia volontà. Il contenuto della legge per essere morale deve essere universale; se la legge dello stato, che non è mai morale  ma sempre legale, mi impone di fare qualche cosa che non risponde al principio di universalità, allora la legge è ingiusta, perché non morale; in questo caso sarà un mio problema decidere se è meglio obbedire ad una legge ingiusta, come aveva fatto Socrate, o è meglio non obbedirvi, come fece Antigone, che pagò con la vita la disobbedienza alla legge del re per aver dato sepoltura al cadavere del fratello fuorilegge.

Con la morale passiamo così dal mondo della natura, regolato da leggi universali e necessarie, a quello umano, fondato sulla libertà e sulla responsabilità. Ogni cosa nella natura opera secondo leggi. Soltanto l’essere ragionevole può operare secondo principi, cioè  può avere una volontà. Senza la volontà, e la libertà che la sottintende, non esisterebbe nessuna morale. Perché se la morale è la facoltà che mi consente di decidere tra due azioni, se fossi costretto a propendere per l’una o per l’altra da altri che non fossi io non ci sarebbe nessuna morale.

Un giudizio che ad esempio mi fa osservare un quadro appeso al muro e dire “è una tela di canapa che misura  80 cm. per 90 cm. con delle macchie di colore sulla sua superficie.

Hegel, afferma che la mela è il frutto più nefasto per l’umanità per due ragioni: perché Eva l’ha mangiata e perché è cascata in testa a Newton. Intendecon ciò sottolineare i due peccati, quello originale e la gravitazione universale, simbolo del modello meccanicistico, aborrito da Hegel che rivaluta invece il modello organico, in cui il finalismo diventa il principio strutturante l’intero processo di sviluppo della realtà.

 

Autore: non indicato chiaramente nel documento di origine
Fonte: http://keynes.scuole.bo.it/~miglioli/kant/KANT_versione_2010-2011.doc

 

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