Voltaire vita e opere

 

 

 

Voltaire vita e opere

 

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Voltaire vita e opere

 

1.Biografia
Nato a Parigi nel 1694 , esponente di quell' agiata borghesia francese che si avviava ad assumere un ruolo di primo piano nella vita economica e culturale del paese ultimo figlio di un ricco notaio del Châtelet, crebbe in un ambiente borghese colto, compiendo gli studi presso i gesuiti del collegio Louis-le-Grand. La sua vita si aprì all'insegna della mondanità nella società elegante e libertina del salotto di Ninon de Lanclos, dove Voltaire si fece notare per la finezza dell'ingegno. Rientrato a Parigi dopo un breve soggiorno in Olanda al seguito dell'ambasciatore di Châteauneuf, suo padrino, compose poesie satiriche che gli crearono qualche guaio e lo costrinsero a un prudente esilio presso Fontainebleau, poi a Sully-sur-Loire. Una satira politica sul regno di Luigi XIV gli costò undici mesi di prigione alla Bastiglia (1717-18). Il successo della rappresentazione della sua prima tragedia, Œdipe (1718), gli aprì l'accesso all'alta società e la pubblicazione del poema La Ligue (1723) gli procurò l'assegnazione di una pensione da parte del re. Ormai celebre, mutò il nome borghese nell'anagramma (tratto da Arouet le Jeune: arouetlj = uoltajre = voltaire) di Voltaire; contemporaneamente l'eredità paterna e alcune felici speculazioni lo posero definitivamente al riparo da preoccupazioni economiche.. Grande estimatore del governo britannico e il più grande propagandista dei lumi Voltaire, dopo un triennale soggiorno in Inghilterra (1726-28), dove aveva scelto di rifugiarsi dopo il noto episodio della bastonatura inflittagli dai bravi del duca di Rohan, scrisse le Lettere filosofiche o Lettere inglesi (1733-34) le quali rappresentano uno straordinario spaccato della cultura, le istituzioni, la civiltà dell’isola, e al contempo il vero manifesto dell’Illuminismo continentale, destinato a immensa fortuna, nonostante l’immediata condanna del Parlamento di Parigi. Solo in Inghilterra vige il regno della libertà, fondato su «un governo saggio dove il Principe, onnipotente per fare il bene, ha le mani legate per fare il male, dove i signori sono nobili senza insolenza e senza vassalli, e dove il popolo partecipa al governo senza confusione». L’intero pamphlet è percorso da un continuo contrappunto tra le istituzioni e i costumi inglesi e quelli imposti in Francia da un’aristocrazia corrotta e parassitaria, preda di un insano orgoglio delle proprie origini feudali. La civiltà inglese è, invece, frutto del lavoro, del commercio, della pacifica concorrenza tra individui non divisi dalla barriera del privilegio giuridico. E lungo questa falsariga si articola la disamina degli aspetti civili e culturali del paese, dalla tradizione empirista baconiana e lockiana alla nuova scienza di Newton, contrapposta all’ormai superato cartesianesimo continentale; dallo statuto del teatro alla funzione delle accademie, al successo della variolizzazione (l’inoculazione di materiale estratto dalle pustole vacciniche a scopo d’immunizzazione). Ma la nota forse più alta delle Lettere risuona nell’elogio della tolleranza e nell’immagine dell’operosa convivenza di fedi diverse entro un contesto finanziario e mercantile. Si è spesso parlato, a proposito delle Lettere filosofiche, di ideologia borghese, identificando in Voltaire il simbolo e addirittura il capo politico della borghesia in ascesa. Alla luce dell’effettiva solidarietà della borghesia dell’epoca con le istituzioni d’antico regime, rilevata dalle indagini dell’ultimo trentennio, appare più opportuno vedere in lui l’emblema del nuovo potere della letteratura, rivolta anche in Inghilterra a élites socioculturali formate da nobili e notabili provenienti dai ranghi superiori del Terzo Stato. Le Lettere filosofiche sono, comunque, percorse da un ottimismo costruttivo, fiducioso nelle capacità dell’uomo quale essere socievole e raziocinante. Nasce da qui la polemica antipascaliana di Voltaire (lett. 25), che di fronte a Pascal, acutamente consapevole della miseria della condizione terrena, intese assumere «le difese dell’umanità». Era questa la via, mediana tra l’ottimismo metafisico di Leibniz e l’amaro pessimismo pascaliano, che avrebbe indotto il protagonista del Candido (1759) a rinunciare agli interrogativi supremi per coltivare, più modestamente, «il proprio giardino». Genio straordinario e versatile, drammaturgo e poeta, divulgatore competente di Newton, temibile quanto arguto polemista (si pensi al Dizionario filosofico, 1764) e agguerrito innovatore della storiografia, Voltaire rappresenta il fondatore della storiografia illuminista, il «patriarca» del partito filosofico francese ed europeo. A Voltaire risale, soprattutto,  la genesi dell’intellettuale moderno, portatore di ideali etici e civili, testimone e giudice del proprio tempo. In decenni d’indefessa attività Voltaire cambiò lo statuto della letteratura, non solo allontanandola dall’erudizione (secondo il modello accolto nell’Enciclopedia e già teorizzato da Dumarsais nel saggio Il filosofo del 1730: ma investendola di un significato politico e trasformandola in strumento di lotta contro l’antico regime. Tutto ciò avvenne attraverso la ridefinizione delle funzioni dell’autore, che non è più figura subalterna al servizio della corte e della nobiltà ma costituisce la guida delle coscienze e l’interprete delle esigenze più profonde della società. Costruita sull’immensa fama letteraria accumulata sin dalla gioventù, 1’auctoritas di Voltaire (e in genere dei philosophes) si rivolge in primo luogo ai potenti e agli stessi sovrani - si ricordi il soggiorno a Potsdam, presso Federico II, 1750-53, pur terminato con una rottura -, ma presuppone anche un pubblico di lettori e ascoltatori, frutto delle nuove forme della socialità e delle potenzialità del mercato editoriale, pronto a ergersi a giudice dell’attualità politica. Non a caso, quando nel 1784 Kant risponderà al celebre quesito «Che cos’è l’Illuminismo?», posto dalla Berliner Monatschrift, egli individuerà nella comunità dei lettori (die lesende Welt) l’organo essenziale dell’opinione pubblica. L’immagine dell’intellettuale voltairiano, amante dei piaceri e del lusso, votato alla politesse e alla sua vocazione antimetafisica (L’uomo di mondo, 1736) appare inscindibile dall’impegno nel dibattito politico e civile. Ne è testimonianza la martellante campagna contro l’infâme (la superstizione e il fanatismo teologico, identificati in particolare con il cattolicesimo) condotta da Voltaire negli anni sessanta, che non mira tanto alla distruzione della religione (obiettivo, semmai, dell’ala materialista e radicale dei lumi), quanto alla correzione degli abusi nati dall’intreccio tra religione e istituzioni. Quanto all’anticristianesimo di Voltaire, esso rappresenta un solo aspetto della battaglia in favore della tolleranza, intesa come valore supremo dell’incivilimento. Il caso del mercante ugonotto Jean Calas, giustiziato a Tolosa nel 1762 con la falsa accusa di aver assassinato il figlio, reo di volersi convertire al cattolicesimo, spinse Voltaire a scrivere il Trattato sulla tolleranza (1763) e a condurre una vigorosa campagna pubblicistica che porterà alla riabilitazione della vittima. La denuncia del fanatismo, l’orrore per il sangue innocente versato nella storia si traducono qui in pagine memorabili, che costituiscono un vibrante atto d’accusa contro la crudeltà umana in ogni tempo e paese. L’interesse di Voltaire per i problemi della giustizia non verrà mai meno, come mostrano il Commento sul trattato «Dei delitti e delle pene» (1765) e, ancora nel 1777, il saggio Premio della giustizia e dell’umanità. Quanto alla riflessione religiosa, essa registra negli anni sessanta e settanta un sostanziale arretramento rispetto al deismo della maturità, motivato da un lato dalle crescenti preoccupazioni per l’ordine sociale, dall’altro dall’esigenza, profondamente avvertita da Voltaire, di contrastare la campagna per il materialismo e l’ateismo di d’Holbach. In risposta al Sistema della natura (1770) e a Il buon senso (1772) di quest’ultimo nascerà, così, la Storia di Jenni, ovvero l’ateo e il savio (1775), in cui Voltaire non solo riconosceva la necessità della religione, ma indicava nell’ateismo la fonte prima del male morale.

A M


« "Nel senso stretto in cui Gibbon e Mommsen sono degli storici, non esiste storico prima del XVII secolo", cioè non esistono autori di uno "studio sia critico sia costruttivo, il cui campo è tutto il passato umano preso nella sua integralità e il cui metodo è di ricostruire il passato partendo da documenti scritti e non scritti, analizzati e interpretati in uno spirito critico" » [citato in Palmade 1968, p. 432].

 

Fonte: estratto / citazione da http://profarmando.files.wordpress.com/2009/01/voltaire-e-la-storia1.doc

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Voltaire vita e opere

Voltaire
Vita e scritti
Francois-Marie Arouet detto Voltaire, nacque a Parigi il 21 novembre 1694, da famiglia borghese. Fu educato in un collegio di Gesuiti e fu introdotto assai giovane nella vita dell’aristocrazia cortigiana francese. Ma una disputa con un nobile, il cavaliere di Rohan, lo portò alla Bastiglia. Negli anni 1726-1729 visse a Londra e assimilò la cultura inglese del tempo.

 


Accettazione serena della condizione umana

 
Nelle Lettere sugli inglesi o Lettere filosofiche (1734), egli illustra i vari aspetti di quella cultura insistendo specialmente sui temi che furono propri della sua attività filosofica, storica, letteraria e politica. Così difende la religiosità puramente interiore e aliena da riti e cerimonie dei Quaccheri, mette in luce la libertà politica ed economica del popolo inglese; analizza la letteratura inglese traducendone poeticamente dei passi, e nella parte centrale esalta la filosofia inglese nelle persone di Bacone, di Locke e di Newton. Paragonando Cartesio con Newton, egli difende i meriti di matematico di Cartesio ma riconosce la superiorità della dottrina di Newton. Cartesio «fece una filosofia come si fa un buon romanzo: tutto parve verosimile e niente era vero».

Il deismo filosofico

 
Nello stesso anno 1734 Voltaire pubblicava il suo Trattato di metafisica nel quale difende i temi filosofici che già aveva messo in luce nelle Lettere sugli inglesi. Criticato e bandito, dal 1734, egli visse a Cirey (Lorena) presso la sua amica Madame de Chàtelet, e furono questi gli anni più fecondi della sua attività di scrittore. Voltaire pubblicò allora numerosissime opere letterarie, filosofiche e fisiche. Nel 1738 apparvero gli Elementi della filosofia di Newton, e nel 1740 la Metafisica di Newton o parallelo tra le opinioni di Newton e Leibniz. Nel 1750 accettò l’ospitalità di Federico di Prussia a Sans-Souci e qui rimase circa tre anni. Dopo la rottura dell’amicizia con Federico e varie altre peregrinazioni, si stabilì presso Ginevra nel castello di Ferney (1760), e lì continuò instancabilmente la sua attività per la quale divenne il capo dell’Illuminismo europeo, il difensore della tolleranza religiosa e dei diritti dell’uomo. Solo a 84 anni ritornò a Parigi per dirigere la rappresentazione della sua ultima tragedia Irene e vi fu accolto con onori trionfali. Morì il 30 maggio 1778.

Dio non interviene nel mondo

 

Voltaire ha scritto poemi, tragedie, opere di storia, romanzi, oltre che opere di filosofia e di fisica. Tra queste ultime, oltre quelle citate, sono importanti il Dizionario filosofico portatile (1764) che nelle successive edizioni divenne una specie di enciclopedia in vari volumi; e II filosofo ignorante (1766), l’ultimo suo scritto filosofico. Ma assai notevole è, per il suo concetto della storia, il Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni (1740) cui premise più tardi una Filosofia della storia (1765), nella quale cerca di caratterizzare i costumi e le credenze dei principali popoli del mondo.

 

La critica all’ottimismo e l’accettazione dei limiti umani

La storia e il progresso

 

Contro l’ottimismo metafisico e religioso

 

Shaftesbury aveva detto che non c’è miglior rimedio del buon umore contro la superstizione e l’intolleranza. Voltaire ha messo in pratica meglio di ogni altro questo principio con tutte le inesauribili risorse di uno spirito geniale. L’umorismo, l’ironia, il sarcasmo, l’irrisione aperta o velata, sono da lui adoperati di volta in volta contro la metafisica scolastica e le credenze religiose tradizionali. Nel romanzo Candido o dell’ottimismo Voltaire narra le incredibili peripezie e disgrazie che mettono a prova l’ottimismo di Candido, il quale trova sempre modo di concludere col suo maestro, il dottor Pangloss, che «tutto va per il meglio nel migliore dei modi possibili». In un altro romanzo, il Micromega, del quale è pro­tagonista un abitante della stella Sirio, deride la credenza della vecchia metafisica che l’uomo sia il centro e il fine dell’universo e, sulle orme di Swift nei Viaggi di Gulliver, mette in luce la relatività dei poteri sensibili, relatività che può essere superata soltanto dal calcolo matematico. In un Poema sul disastro di Lisbona (1755), scritto a proposito del terremoto di Lisbona dello stesso anno, combatte la massima «tutto è bene» considerandola un insulto ai dolori della vita, e le contrappone la speranza di un migliore avvenire dovuto all’opera dell’uomo.
« Tutto un dì sarà bene, ecco la nostra speranza;
Tutto è bene oggidi, l’illusione è codesta».
Voltaire è convinto che il male del mondo è una realtà, non meno che il bene; che sia una realtà impossibile a spiegarsi coi lumi della ragione umana e che Bayle fosse nel giusto affermando l’in­solubilità del problema e criticando spietatamente tutte le possibili soluzioni di esso. Ma dall’altro lato, è anche convinto che l’uomo deve riconoscere la sua condizione nel mondo così come essa è, non già per lamentarsene e per negare il mondo stesso, ma per dedurne una serena accettazione della realtà. In uno scritto giovanile in cui si occupa di Pascal, non contesta la tesi di quest’ultimo sulla condizione umana, ma solo a trarne un insegnamento tutto diverso. Pascal infatti traeva da essa la negazione del mondo e l’esigenza di rifugiarsi nel trascendente. Voltaire riconosce che essa è per l’uomo la sola condizione pos­sibile e che pertanto l’uomo deve accettarla e trarne tutto il meglio possibile. «Se l’uomo fosse perfetto, egli dice, sarebbe Dio; e le pretese contrarietà che voi chiamate contraddizioni sono gli ingredienti necessari che entrano a comporre l’uomo, il quale è, come il resto della natura, ciò che dev’essere». Per Voltaire il mondo va lucidamente e serenamente accettato.

 

Il mondo, Dio e l’uomo
Voltaire desume i tratti fondamentali della sua concezione del mondo dagli empiristi, e dai deisti inglesi. Certamente, Dio esiste come autore del mondo; e sebbene si trovino in questa opinione molte difficoltà, le difficoltà che si oppongono all’opinione contraria sono ancora maggiori. Voltaire ripete a questo proposito l’argomentazione di Locke e dei deisti (che riproduce il vecchio argo­mento cosmologico): «Esiste qualcosa, dunque esiste qualcosa di eterno perché nulla si produce dal nulla. Ogni opera che ci mostra dei mezzi e un fine rivela un artefice: dunque questo universo composto di mezzi, ognuno dei quali ha il suo fine, rivela un artefice potentissimo e intelligentissimo» [Dizionario filosofico, art. Dio).
Voltaire ripudia dunque l’opinione che la materia si sia mossa e organizzata da sé. Ma dall’altro lato si rifiuta di determinare in modo qualsiasi gli attributi di Dio, ritenendo ambiguo anche il concetto di perfezione, che non può certo essere lo stesso per l’uomo e per Dio.
E si rifiuta di ammettere un qualsiasi intervento di Dio nell’uomo nel mondo umano. Dio è soltanto l’autore dell’ordine del mondo fisico. Il bene e il male non sono comandi divini, ma attributi di ciò che è utile o dannoso alla società. L’ac­cettazione del criterio utilitaristico della vita morale mette Voltaire in grado di affermare recisamente che essa non interessa per nulla la divinità. «Dio ha messo gli uomini e gli animali sulla terra, ed essi devono pensare a condursi del loro meglio. È interesse degli uomini condursi in modo da rendere possibile la loro vita associata; né questo richiede il sacrificio delle loro passioni che sono indispensabili, come il sangue che scorre nelle loro vene; e non si può togliere il sangue ad un uomo solo perché può procurargli l’apoplessia (Trattato di Metafisica, 8). […]
Voltaire si occupa anche della storia umana in alcune importanti sue opere. In particolare, tende a mettere in luce la rinascita e il progresso dello spirito umano, vale a dire i tentativi della ragione umana di affrancarsi dai pregiudizi e di porsi come guida della vita associata dell’uomo. Il progresso della storia consiste appunto e soltanto nella sempre migliore riuscita di questi tentativi, dato che la sostanza dello spirito umano rimane immutata e immutabile. Secondo Voltaire, il progresso dunque riguarda il dominio della ragione sulle passioni, nelle quali si radicano gli errori.

 

Fonte: http://bellodie.altervista.org/filo4a_file/Voltaire.doc

Autore del testo: Da N. Abbagnano, G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, vol.B tomo 2, Paravia, Torino, 2000, p. 559-61.

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Voltaire, Montesquieu e Rousseau

Il problema che Voltaire principalmente si pone è l'esistenza di Dio, conoscenza fondamentale per giungere ad una giusta nozione dell'uomo. Egli vede la prova dell'esistenza di Dio nell'ordine superiore dell'universo, infatti così come ogni opera dimostra un artefice, Dio esiste come autore del mondo e, se si vuole dare una causa all'esistenza degli esseri, si deve ammettere che sussiste un essere creatore. Dunque Dio esiste e sebbene si trovino in questa opinione molte difficoltà, le difficoltà che si oppongono all'opinione contraria sono ancora maggiori. Aveva contribuito a queste sue convinzioni lo studio di Newton, la cui scienza pur rimanendo estranea, in quanto filosofia matematica, alla ricerca delle cause, risulta strettamente connessa alla metafisica teistica, implicando una razionale credenza in un essere supremo. Voltaire crede in un Dio che unifica, Dio di tutti gli uomini: universale come la ragione, Dio è di tutti.  Uno dei suoi maggior nemici fu la chiesa cattolica (che lui chiama l'infame), egli infatti tenta di demolire il cattolicesimo per proclamare la validità della religione naturale. La sua fede nei principi della morale naturale mira ad unire spiritualmente gli uomini al di là delle differenze di costumi e di usanze. Proclama quindi la tolleranza contro il fanatismo e la superstizione (che stanno alla religione come l' astrologia alla astronomia) nel Trattato sulla tolleranza (1763). Per liberare le religioni positive da queste piaghe è necessario trasformare tali culti, compreso il cristianesimo, nella religione naturale, lasciando cadere il loro patrimonio dogmatico e facendo ricorso all'azione illuminatrice della ragione. Dal cristianesimo Voltaire accetta l'insegnamento morale, ovvero la semplicità, l'umanità, la carità, e ritiene che voler ridurre questa dottrina alla metafisica significa farne una fonte di errori. Più volte infatti il parigino, elogiando la dottrina cristiana predicata da Cristo e dai suoi discepoli, addebiterà la degenerazione di questa in fanatismo, alla struttura che gli uomini, e non il Redentore, hanno dato alla chiesa. Il cristianesimo vissuto in maniera razionale, infatti, coincide con la legge di natura.
Voltaire porta avanti una doppia polemica, contro l'intolleranza  del cattolicesimo, e contro l'ateismo e il materialismo. Egli dirà che "l'ateismo non si oppone ai delitti ma il fanatismo spinge a commetterli", anche se concluderà poi che essendo l'ateismo quasi sempre fatale alle virtù, in una società è più utile avere una religione, anche se fallace, che non averne nessuna. Voltaire comunque si rifiuta di ammettere qualsiasi intervento di Dio nel mondo umano. Il Supremo ha solo avviato la macchina dell'universo, senza intervenire ulteriormente, dunque l'uomo è libero, ovvero ha il potere di agire, anche se la sua libertà è limitata. Del resto "sarebbe strano che tutta la natura, tutti gli astri obbedissero a delle leggi eterne, e che vi fosse un piccolo animale alto cinque piedi che, a dispetto di queste leggi , potesse agire sempre come gli piace solo secondo il suo capriccio".
Degna di menzione è la polemica che Voltaire porterà avanti contro Blaise Pascal, che diventerà soprattutto polemica contro l'apologetica e il pessimismo cristiano in genere. Voltaire dice di prendere le difese dell'umanità contro quel "misantropo sublime", che insegnava agli uomini ad odiare la loro stessa natura. Più che con l'autore delle "Provinciales", egli dice di scagliarsi contro quello dei "Pensees", in difesa di una diversa concezione dell'uomo, del quale sottolinea piuttosto la complessità dell'animo, la molteplicità del comportamento, affinché l'uomo si riconosca e si accetti per quello che è, e non tenti un assurdo superamento del suo stato. In conclusione si può asserire che entrambi i filosofi riconoscono che l'essere umano per la sua condizione è legato al mondo, ma Pascal pretende che egli se ne liberi e se ne distolga, Voltaire vuole che la riconosca e la accetti: era il mondo nuovo che si scagliava contro il vecchio. Le concezioni filosofiche di Voltaire sono inscindibili dal suo modo di fare storia. Infatti egli vuole trattare questa disciplina da filosofo, cioè cogliendo al di là della congerie dei fatti un ordine progressivo che ne riveli il significato permanente.
Voltaire si interessa ai popoli, ai loro costumi; prima la storia era la storia del mondo cristiano, legata ai confini europei, adesso è la storia universale del progresso umano. Progresso inteso come il dominio che la ragione esercita sulle passioni, nelle quali si radicano i pregiudizi e gli errori, infatti l'Essai presenta sempre come incombente il pericolo del fanatismo.
La filosofia deve essere lo spirito critico che si oppone alla tradizione per discernere il vero dal falso, bisogna scegliere tra i fatti stessi i più importanti e significativi per delineare la storia delle civiltà. Infatti Voltaire non prende in considerazione i periodi oscuri della storia, ovvero tutto ciò che non ha costituito cultura, ed esclude dalla sua storia "universale" i popoli barbari, che non hanno apportato il loro contributo al progresso della civiltà umana. V. vuole ricostruire la legge naturale attraverso la storia, e mettere in luce la rinascita e il progresso dello spirito umano, cioè i tentativi della ragione di affrancarsi dai pregiudizi e di porsi come guida della vita associata dell'uomo; e, giacché la sostanza dello spirito umano rimane immutata ed immutabile, il progresso consiste nella sempre miglior riuscita di questi tentativi.
La storia non è più orientata verso la conoscenza di Dio, non è questo lo scopo dell'uomo, il quale deve invece dedicarsi a capire e a conoscere sé stesso fino a che la scoperta della storia si identifichi con la scoperta dell'uomo. La storia è diventata storia dell'illuminismo, del rischiaramento progressivo che l'uomo fa di sé stesso, della progressiva scoperta del suo principio razionale. Shaftesbury aveva detto che non c'è miglior rimedio del buon umore contro la superstizione e l'intolleranza e nessuno mise in pratica meglio di Voltaire questo principio; infatti "il suo modo di procedere si avvicina a quello di un caricaturista, che è sempre vicino al modello da cui parte, ma attraverso un gioco di prospettive e di proporzioni abilmente falsate, ci dà la sua interpretazione".
L'umorismo, l'ironia, la satira, il sarcasmo, l'irrisione aperta o velata, sono da lui adoperati di volta in volta contro la metafisica, la scolastica o le credenze religiose tradizionali. Ma talvolta, questo semplicizzare ironicamente certe situazioni, lo porta a trascurare o a non cogliere aspetti molto importanti della storia.
In generale Voltaire ha rappresentato l'Illuminismo, con il suo spirito caustico e critico, il desiderio di chiarezza e lucidità, il rifiuto dei pregiudizi e del fanatismo superstizioso, con una ferma fiducia nella ragione, ma senza inclinazioni eccessive all'ottimismo e alla fiducia nella maggior parte degli individui. A questo riguardo è esemplare il romanzo satirico Candide (Candido, 1759), ove Voltaire si fa beffe dell'ottimismo filosofico difeso da Leibniz. Egli infatti accusa violentemente l'ottimismo ipocrita, il "tout est bien" e la teoria dei migliori dei mondi possibili, perché fanno apparire ancora peggiori i mali che sperimentiamo, rappresentandoli come inevitabili ed intrinseci nell'universo.

Montesquieu non è un critico del giusnaturalismo, ma la sua opera, per i principi e per il metodo che vi sono esposti, ne elimina di fatto gli assunti fondamentali, e sarà una delle cause del suo tramonto. La molteplicità delle leggi dei vari popoli, sostiene Montesquieu nello Spirito delle leggi,  non prova la loro deficienza rispetto al modello razionale e universale della legge di natura, ma il loro adattamento alle condizioni di vita di ciascuno. Esaminando le leggi, le istituzioni e le consuetudini di un popolo è dunque possibile mettere in luce lo spirito di quest’ultimo, che riconduce a unità l’insieme dei fattori che governano gli uomini: il clima, la religione, le leggi, le massime del governo, gli esempi delle cose passate, i costumi. Uno dei principali fattori che determinano il tipo di leggi adatte a un popolo è secondo Montesquieu la forma di governo a cui esso è sottoposto, che a sua volta dipende da fattori come la grandezza dello stato e il clima. Ciò che conta, in ogni forma di governo, non è tanto il numero di coloro che detengono la sovranità, ossia la sua "natura", quanto la passione fondamentale su cui si regge, ossia il suo "principio".
Questo principio è la virtù nelle repubbliche (democratiche o aristocratiche), l’onore nelle monarchie e la paura nei governi dispotici. Nella sua teoria delle forme di governo Montesquieu introduce una fondamentale novità: la distinzione fra governo moderato e dispotismo. La nozione di dispotismo risale ad Aristotele, ma è stato Montesquieu a darle la sua veste moderna e a farne una delle categorie fondamentali del pensiero politico.
Il dispotismo è il governo violento di chi (monarca o popolo) non ha leggi né poteri che lo limitino, e in cui tutti sono sottoposti all’arbitrio del despota e sono uguali solo perché non sono nulla davanti a lui.
La passione che vi domina è la paura, e questa paura costringe ogni cosa all’immobilità: tutto deve funzionare in base a due o tre idee e le idee nuove sono represse nella più feroce intolleranza. Il contrario del dispotismo, secondo Montesquieu, è il governo moderato da leggi fondamentali e poteri intermedi. Invece della paura il principio del governo moderato è la sicurezza, e quindi la libertà politica.
La libertà politica è infatti la consapevolezza individuale della propria sicurezza, cioè il "diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono", senza essere costretti a compiere nulla che la legge non ordini. Per Montesquieu condizione della libertà politica è che il potere sia limitato in modo che a nessuno sia possibile abusarne, e questo si ottiene distribuendolo, così che "il potere freni il potere". Nella teoria della distribuzione dei poteri Montesquieu si ispira in larga misura a Locke e al regime inglese della sua epoca, che Montesquieu, più di ogni altro, contribuisce a rendere un paradigma del pensiero politico. Mentre però Locke aveva teorizzato solo la separazione del potere esecutivo da quello legislativo e la subordinazione del primo al secondo, Montesquieu a questi due poteri ne aggiunge un terzo, la magistratura o potere giudiziario. Per Montesquieu nessuno di questi tre poteri è subordinato all’altro, ma tutti si controbilanciano a vicenda.

Già nel Discorso sulle scienze e sulle arti (1750) Rousseau protesta contro la degradazione dei rapporti umani presenti nella modernità, polemizza contro la corruzione degli stati moderni, denunciando il ruolo che le scienze e le arti assumono nella crisi contemporanea: “stendono ghirlande di fiori  sulle ferree catene di cui gli uomini sono gravati, soffocano in loro il sentimento di quella libertà originaria per la quale sembravano nati...La necessità ha creato i troni; le scienze e le arti li hanno consolidati”.
Questo punto di vista critico sulla società  trova pieno dispiegamento nel Discorso sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini (1754), in cui il filosofo cerca di ricostruire la genesi storico-teorica della ineguaglianza: egli risale ad una sorte di grado zero dell’umanità per meglio comprendere la sua natura e le origini della società. Diversamente da Hobbes per Jean Jacques lo stato di natura non ha caratteristiche negative, ma é fondamentalmente buono: gli uomini infatti  sono compassionevoli e socievoli, disponibili alla costruzione di positivi rapporti intersoggettivi. La costruzione di questo modello, ammette il filosofo, é puramente un parametro ideale col quale giudicare la società moderna giudicata invece negativamente. E’ stata la nascita della proprietà privata che ha corrotto lo sviluppo della società!
Il primo che recinse un terreno e dichiarò questo é mio, e trovò persone tanto semplici da prestargli fede, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, assassini, miserie e orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pioli e colmando la fossa, avesse gridato ai suoi simili: non ascoltate quest’impostore; se dimenticate che i frutti sono di tutti, e la terra di nessuno, siete perduti”.
A quest’infamia originaria sono seguite altre ingiustizie: il progressivo prevaricare dei proprietari, l’intrinseca ingiustizia delle leggi positive, la divisione del lavoro. Le istituzioni politiche dunque non correggono gli errori, anzi li aggravano. E’ necessario perciò un nuovo pensiero politico che assuma su di sé il compito della trasformazione in positivo della società; accanto ad esso Rousseau non disdegna la necessità che si possa agire anche sul singolo il quale va tutelato ed educato ad opera di un organismo che lo plasmi (Emilio).
Nel Contratto sociale il filosofo pone questa questione: “Trovate una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune le persone e i beni di ciascun associato, e mediante la quale, ciascuno, obbedendo a tutto, obbedisca tuttavia soltanto a se stesso e resti libero come prima”. Il modello sociale che si vuole costruire, come in Hobbes, istituisce una netta discontinuità con lo stato di natura: é un organismo ex novo, artificiale, che rompe completamente con la tradizione precedente.
C’è però una netta differenza rispetto ad Hobbes: mentre  questo privilegia il patto  di soggezione, Rousseau invece privilegia il momento della partecipazione. Al “Leviatano” si contrappone la Volontà generale che rimanda direttamente al protagonismo dei soggetti umani entro il quadro della vita associata. Come Hobbes tuttavia Jean Jaques vuole raggiungere l’uguaglianza, non si accontenta della libertà personale di Locke, e per raggiungere tale traguardo é necessario ciò: “Ciascuno di noi mette in comune la propria persona e tutto il proprio potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi accogliamo inoltre ciascun membro come parte indivisibile del tutto”. Avviene in questo modo “l’alienazione totale di ciascuno associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la comunità”. I critici di Rousseau hanno messo in evidenza come in questo modo l’individuo si annulli dinanzi a istanze sociali superiori, ma per il filosofo é proprio nello stato che si realizza la più intima natura razionale  e morale dell’uomo, che diviene citoyen. “L’uomo, che fino allora aveva considerato solo se stesso, si vede forzato ad agire secondo altri principi e a consultare la ragione prima di ascoltare le sue tendenze” La comunità assume le caratteristiche di un corpo organico unitario e compatto, di cui i soggetti umani - trasformati da individui in cittadini - sono le indispensabili membra componenti.
Il  corpo morale e collettivo della comunità é il popolo, che possiede la sovranità, che è la sovranità. Tale sovranità é inalienabile e indivisibile, diversamente dal balance of powers di Locke e Montesquieu: data l’importanza che attribuisce al concetto di sovranità, Rousseau non può infatti accogliere interamente la teoria della distribuzione dei poteri di Montesquieu; per lui in uno Stato dev’esserci un solo potere supremo e illimitato, quello sovrano, altrimenti lo Stato cessa di essere uno. Tuttavia, egli ammette una separazione dei poteri: proprio perché la volontà sovrana che stabilisce le leggi deve essere generale, il suo potere legislativo deve essere distinto dal potere esecutivo, vale a dire dal governo, che mette in pratica con atti particolari questa volontà
Rousseau ammette che la gestione degli affari pubblici possa essere affidata ad appositi individui, anche se essi “non sono i padroni del popolo, ma i suo i ufficiali, e il popolo può stabilirli e destituirli quando gli piace”. Sembra qui prefigurata una sorta di democrazia diretta, in cui ogni cittadini è al tempo stesso governante e governato, in cui non si accetta il principio della delega e della rappresentanza, che facilmente può determinare il non rispetto della volontà popolare ad opera di una élite di professionisti della politica.
La libertà per Rousseau perde la sua connotazione individuale per diventare comprensione della razionalità dell’ordine comunitario e come autonoma accettazione della volontà generale e della legge.

Caratteristica delle due grandi rivoluzioni del secolo è l’idea della sovranità popolare, che i rivoluzionari connettono con quella dei diritti innati e inalienabili dell’uomo. La Rivoluzione americana si richiama soprattutto alla riflessione di Montesquieu, del quale applica la teoria della distribuzione dei poteri. La novità principale rappresentata dal dibattito americano è il grandissimo rilievo che vi assume l’idea dello Stato federale (discussa soprattutto sul Federalist) che combina la potenza garantita da un grande Stato con la libertà e la democrazia possibili in uno piccolo. Nella Rivoluzione francese (che subisce in modo determinante l’influenza di Rousseau) l’idea che sta al centro della riflessione e del conflitto ideologico è invece quella di uguaglianza: la libertà è partecipazione al potere legislativo, dunque democrazia e uguaglianza di fronte alla legge. Ma l’ineguale distribuzione delle ricchezze comporta anche un’ineguaglianza di poteri, e questo produce fatalmente un’ineguaglianza nella partecipazione politica. Di fronte a queste due ineguaglianze, l’uguaglianza davanti alla legge può bastare? e non finirà per soccombere insieme a quella economica e a quella politica?

 

Fonte: http://www.liceoumberto.eu/word/illuministi.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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Francois-Marie Arouet, detto Voltaire
TRATTATO SULLA TOLLERANZA
Edizione originale: Ginevra, 1763

La società si definisce civile ma uccide sulla spinta del fanatismo religioso sostenendo di voler fare cosa grata a Dio e di voler sradicare con la forza il male. Tuttavia se si considerano le guerre di religione, i quaranta scismi dei papi, le menzogne, gli odi accesi dalle differenze di opinione ... gli uomini da molto tempo hanno avuto il loro inferno su questa terra”.
… “La tolleranza è una conseguenza necessaria della nostra condizione umana. Siamo tutti figli della fragilità: fallibili e inclini all'errore. Non resta dunque che perdonarci vicendevolmente le nostre follie. È questa la prima legge naturale: il principio a fondamento di tutti i diritti umani. Il diritto all'intolleranza è assurdo e barbaro, è il diritto delle tigri, anzi ben più orrido, perché le tigri si fanno a pezzi per mangiare, noi ci sterminiamo per dei paragrafi.”

Il trattato sulla tolleranza si apre con la vicenda di Jean Calas, un pastore protestante ugonotto, che viveva con la moglie e i quattro figli a Tolosa, in Francia. Il figlio maggiore, Marc Antoine, aveva studiato legge ma a causa della sua religione non riusciva a trovare lavoro. Il giovane decide così di convertirsi. Il padre, anche se non condivide la scelta non lo ostacola. La sera prima del battesimo di Marc Antoine, la famiglia Calas era riunita a cena. In casa erano presenti anche un amico del secondo figlio e la domestica di religione cattolica. Marc Antoine  si ritira presto dalla cena. Quando il fratello e l'amico stanno uscendo per una passeggiata serale trovano Marc Antoine impiccato alla trave della cantina. Jean Calas impedisce ai presenti di rivelare che il ragazzo si era suicidato perché in quegli anni era usanza spogliare i suicidi, metterli a faccia in giù sul graticcio e trascinarli per le strade. Calas volle risparmiare al figlio una tale ingiuria e questo si rivelò fatale per lui. Infatti cominciò a spargersi la voce che Jean Calas aveva ucciso il figlio perché voleva convertirsi. Nonostante non ci fossero prove, il pastore ugonotto venne condannato, torturato e mandato a morte il 19 marzo 1762. Dopo alcuni mesi, Voltaire si interessò del caso: “Un padre potrebbe uccidere il figlio che voglia convertirsi ad una religione diversa dalla sua solo se fosse preda del fanatismo religioso, ma è riconosciuto ed attestato dai testimoni e conoscenti che Jean Calas non era un fanatico. Dunque non può essersi macchiato del crimine. A prova di questo vi è anche il fatto che la famiglia aveva una domestica cattolica.”
Il caso Calas si colloca nella Francia di metà del XVIII  secolo dove sono presenti forti contrasti ideologici-religiosi. Molto in uso la discriminazione sommaria e i processi conclusi senza prove sufficienti e con violente ritorsioni verso gli esponenti della parte avversa.
Il testo continua portando argomentazioni a favore della tolleranza che “non ha mai provocato una guerra civile, mentre l'intolleranza ha coperto la terra di massacri”. Come esempio illustra il caso delle colonie Inglesi nel Nuovo Mondo che grazie alla tolleranza permisero la fondazione di una società pacifica: “In Pennysilvania la disputa teologica e la discordia sono ignorate e il nome solo della loro città di Filadelfia (n.d.r.: in greco antico, Città dell'amore fraterno)è esempio e vergogna per i popoli che non conoscono ancora la tolleranza.”
Inoltre ripercorrendo la storia antica trova che “di tutti i popoli antichi e civili nessuno abbia ostacolato mai la libertà di pensiero”.
I Greci per esempio per quanto religiosi tolleravano che gli Epicurei negassero l'esistenza dell'anima e la provvidenza. L'unico caso d'intolleranza riscontrato è quello di Socrate, che“è il solo uomo che i Greci abbiano fatto morire per le sue opinioni. La cosa non fa onore all'intolleranza poiché egli fu il solo che rendesse gloria a Dio e si onorarono tutti coloro che diffondevano le nozioni più indegne delle divinità”.
Anche Roma era una città molto tollerante: “non troverete un solo uomo perseguitato per le sue idee” e la tolleranza era considerata dai  Romani come la legge più sacra del diritto delle genti (gli Ebrei commerciavano in città sin dalle guerre puniche e c'erano sinagoghe al tempo di Augusto).
Voltaire con una forte polemica nei confronti dei Cattolici (“noi Cristiani, noi siamo stati persecutori, carnefici, assassini! E di chi? Dei nostri fratelli. Noi, col crocifisso o la Bibbia in mano, abbiamo distrutto cento città, e non abbiamo smesso di spargere sangue e di accendere roghi, dal regno di Costantino sino ai furori dei cannibali che abitavano le Cevenne: furori che ora, grazie al cielo, più non sussistono.”) si chiede: “quando cominceremo ad applicare i giusti principi dell'umanità” descrivendo con alcuni passaggi logici l'assurdità dell'intolleranza religiosa:
“Se voi mi diceste che è un delitto non credere alla religione dominante, levereste voi stessi un'accusa contro i primi cristiani vostri padri, e giustifichereste coloro che accusate di averli mandati al supplizio (...) perché la nostra religione è divina, deve essa regnare con l'odio, i furori, gli esili, il furto dei beni, le carceri, le torture, i delitti, e le grazie rese a Dio per questi delitti? (...) Sapete che l'intolleranza non produce che ipocriti o ribelli (...) Se la persecuzione di coloro coi quali disputiamo fosse cosa santa, bisogna riconoscere che colui il quale avesse fatto uccidere più eretici; sarebbe il più gran santo del paradiso.”
In seguito esamina l'assenza d'intolleranza negli Ebrei i quali accettarono, al tempo di Mosè, il culto di tanti dei stranieri.. “So che la maggior parte dei re Ebrei si sterminarono, si assassinarono l'un l'altro” dice Voltaire “ma fu sempre per il loro interesse, e non per la loro fede.” Inoltre, continua, “il castigo di Dio non colpisce né una credenza, né una differenza nel culto, né alcuna idolatria (...) Dio non solo tollerava tutti i popoli, ma ne aveva una cura paterna: e noi osiamo essere intolleranti!”
Ed inoltre, esaminando il vangelo, … le parole di Gesù Cristo predicano dolcezza, pazienza e indulgenza. “Egli stesso giustifica i suoi discepoli che non digiunano; perdona alla peccatrice; si accontenta di raccomandare la fedeltà alla donna adultera, si degna persino di condiscendere alla gioia innocente dei Convitati di Cana che, già scaldati dal vino, ne chiedono dell'altro: egli fa un miracolo in loro favore, cambia per essi l'acqua in vino (...) Se volete assomigliare a Gesù Cristo, siate martiri e non carnefici” questo è l'invito che Voltaire rivolge continuamente.
Più avanti il testo esamina gli unici casi in cui è lecito essere intolleranti portando qualche esempio, ricordando tuttavia che “perché un governo non abbia il diritto di punire gli errori degli uomini, è necessario che questi errori non siano delitti; essi non sono delitti se non quando turbano la società, e turbano la società dal momento che ispirano il fanatismo. Bisogna dunque che gli uomini, per meritare la tolleranza, comincino col non essere fanatici.”
Lo stesso messaggio è contenuto nella disputa teologica, ambientata in Cina, tra un elemosiniere della Compagnia danese, un cappellano di Batavia e un gesuita; rimproverati dal mandarino a cui stavano esponendo il motivo della loro lite per mancanza di “cortesia nel disputare”.
Per concludere riprende il fatto che “non soltanto è molto crudele perseguitare chi non la pensa come noi, né condannarli in eterno “non spetta agli atomi di un momento, come noi siamo, prevenire in questo modo i giudizi del Creatore.”
E nella celebre preghiera che rivolge a Dio si augura che un giorno “possano tutti gli uomini ricordarsi che son fratelli!”
Il proposito dell'opera, dichiarato nel poscritto, era quello di “rendere gli uomini più tolleranti e più miti” e nella conclusione lancia il suo ultimo grido di perdono: “poiché Dio perdona, anche gli uomini devono perdonare a chi ripara le ingiustizie commesse (...). Questo scritto sulla tolleranza è un'istanza che l'umanità presenta molto umilmente al potere e alla prudenza. Semino un grano che un giorno potrà dare una messe.”

 

Fonte: http://digilander.libero.it/umorizmo/78illumin.doc

 

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