Metafisica
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METAFISICA – Lezioni prof. Busiello 2009-2010
Lezione del 18/2/2010
Il termine metafisica è utilizzato nella tradizione Cristiana, più in generale si parla di filosofia  teoretica oppure, nella radice latina, filosofia speculativa. 
  Si  contrappone alla filosofia pratica (o morale) perchè ha il fine di conoscere la verità in sé, non in ordine all’agire. Provocatoriamente si può dire che  non ha utilità. 
  Aristotele la  definiva anche teologia, perchè è in relazione con il divino, o filosofia  prima, perchè di dignità maggiore alle altre. 
Lezione del 25/2/2010
Possiamo  definire anche la metafisica come quel percorso che ci può guidare dall’essere  all’Essere, la ricerca delle ragioni ultime della totalità delle cose. 
  Vediamo la  reazione dei pensatori contemporanei quando affrontano il tema del pensiero  metafisico. 
  Nietsche,  nell’opera Umano troppo umano,  definisce i metafisici una bisaccia, cioè un peso, perché la metafisica è una  disciplina che non ha nulla di scientifico quindi non spiega la realtà. Il  novecento si apre quindi con la negazione della metafisica. 
  Possiamo  considerare i pensatori del 900 divisi in due categorie già utilizzate per lo  studio della filosofia morale: analitici e continentali. 
  I pensatori analitici, il cui riferimento è  Wittgenstein, ritengono che tutti i problemi filosofici si possono affrontare  attraverso l’analisi del linguaggio, come ad esempio Edward Moore. I filosofi  che si riunivano nel circolo di Vienna,  affermano che tutte le proposizioni linguistiche sono proposizioni scientifiche.  Ad Oxford analizzano il linguaggio  ordinario, proposizioni come “Dio esiste” o “l’anima è immortale” non le  definiscono né vere né false, semplicemente prive di senso perche non verificabili. Quindi non entrano  nel merito di ciò che si afferma, si tratta di una posizione neopositivista. Ricordiamo che i  positivisti, nell’800, affermavano che ogni interrogativo avrebbe trovato nel  futuro una risposta all’interno di una disciplina scientifica, i neopositivisti  invece possiamo farli rientrare nella corrente dei filosofi analisti, secondo i  quali le risposte alle questioni attengono all’analisi del linguaggio. 
  Ma, a ben  vedere, possiamo ritenere che anche il principio di verificabilità non è  verificabile, emerge quindi il principio che anche per criticare una metafisica  occorre una metafisica. In questo caso invece ci troviamo di fronte ad un  pensiero scientista riduzionista, che cioè riduce la razionalità alla  razionalità scientifica, invece la razionalità ha almeno due aspetti: quello  produttivo e quello contemplativo. 
  Anche  filosofi di area cattolica esprimono posizioni critiche nei confronti della  metafisica: Antiseri la ritiene utile alla scienza ma dannosa per la fede. In  realtà, però, questo rischia di farci cadere nel principio della doppia  verità, secondo cui esiste una verità metafisica che si fonda su  un’evidenza ed una verità religiosa che si fonda sull’autorità della  rivelazione. 
  I  continentali, il cui riferimento è Heidegger,  non hanno invece aspirazione scientifica, loro tengono a ribadire la vocazione  che Aristotele ha dato alla filosofia prima, questa posizione però arriva ad  esprimere anche un certo settarismo. Per Heidegger la filosofia deve tornare ad  essere un discorso intorno all’essere, e ritiene che questo approccio non si  sia più praticato dopo Platone. Ma l’essere a cui si riferisce Heidegger è  quello che riguarda l’uomo, l’unico in grado di porsi domande intorno  all’essere. Leibniz sintetizza  questi interrogativi nella domanda: perché esiste l’essere e non il nulla? 
Lezione del 11/3/2010
                         
  Heidegger: restituire alla filosofia la  vocazione originaria, lo studio dell’essere. 
  La  filosofia non deve interessarsi allo studio del’ ente (realtà che partecipa  all’essere) ma all’essere. Aristotele afferma che l’oggetto della metafisica è  l’essere in quanto essere. L’essere è la proprietà primaria di ogni cosa, e la  nozione universale di essere la possiamo esprimere con il termine esistenza.  L’esistenza è la maggiore delle perfezioni, per comprendere questo dobbiamo  considerare che non è scontata.  Perché  l’essere e non il nulla?
  Ma  per Heidegger l’essere non va indagato in ogni essere, ma solo in quel  determinato essere che è capace di porsi la domanda intorno all’essere. L’uomo  che Heidegger chiama l’esserci, il dasein. 
  […]
  L’essere  è caratterizzato anzitutto dalla temporalità, l’opera incompiuta di Heidegger  sull’argomento è “Essere e Tempo”. Esserci comporta un’angoscia esistenziale,  perché ‘lessere è abbandonato alla  temporalità. Se dell’essere abbiamo un’evidenza nell’esistente, del nulla non  possiamo dire nulla, ed in questo Heidegger intravede l’innesco per la  trascendenza, la condizione dell’uomo è quella di non poter dire nulla del  nulla. Il carattere tragico dell’esistenza Heidegger lo recepì dal clima che si  respirava tra le due guerre. 
  La  contraddizione che Heidegger porta in rilievo è quella dovuta alla discordanza  tra un soggetto che svolge la ricerca che appartiene alla dimensione storica,  l’uomo, ed un iggetto di ricerca non storico, l’essere.
  Altro  esponente dell’esistenzialismo è SARTRE, ateo. Ma esiste anche un  esistenzialismo cristiano: la perfezione dell’essere si dà in maniera unica  sull’uomo. 
  Sartre  pone questo tema: l’esistenza precede l’essenza, l’uomo può progettare la sua  esistenza, è l’unico a fare esperienza della libertà. Per questo Dio non  esiste, perché se esistesse potrebbe la sua libertà. Ma il suo progetto cade  nel nulla, in questo senso l’essere si manifesta ancor più tragico, perché non  trova la ragione del proprio esistere. 
Entrambi  questi autori nell’affrontare l’essere sono autenticamente metafisici, e ci  conducono alle loro tragiche conseguenze. 
  Cosa  distingue, quindi, gli analitici dai continentali? I primi (es. Wittgenstein)  vogliono connotarsi scientificamente, vogliono spiegare, i secondi (es.  Heidegger) prendere le distanze dalla scienza, vogliono comprendere, ed hanno  assunto come modello di riferimento le discipline umane (storicità come modo di  essere dell’uomo). 
  Entrambe  le scuole antepongono l’intelletto alla razionalità, l’essere si comprende  prima con un’azione intellettuale (intuitiva)  poi razionale. Per comprendere la metafisica, anche se si fa uso del  ragionamento, è necessario il nous,  la conoscenza immediata. 
  Per  Tommaso la prima cosa che l’essere dice, quando cade sotto la nostra  attenzione, è la partecipazione, cioè vi è un essere impartecipato, anteriore alla partecipazione, 
  Per  concludere. Heidegger e Sartre fondano la loro visione sulla concezione che la  conoscenza ha le basi nella soggettività, affermazione che non può condividere  chi ha riferimenti assoluti. 
Lezione del 18/3/2010
Ma  chi è alla radice del rifiuto della metafisica che si sviluppa nel XX secolo?  Le radici della modernità, in filosofia, possiamo in Cartesio e nella Francia  del XVI secolo. 
  La  riflessione di Cartesio parte dall’idea che è necessario formarsi non solo  attraverso i testi del passato ma anche confrontandosi direttamente con la  realtà, il mondo naturale. Con questo approccio Galileo mise a punto il metodo  scientifico. Cartesio è alla ricerca di un metodo anche per la filosofia. Sulla  scorta delle conquiste tecniche, che hanno rivelato la fallacia dei sensi,  Cartesio afferma che se no possiamo fidarci della conoscenza sensibile dobbiamo  trovare un nuovo punto di partenza. Quindi la prima meditazione è sul dubbio,  inizialmente sul piano metodologico. Qual è la cosa più certa? Il pensiero,  possiamo pensare anche oggetti inesistenti, ma il pensiero è certo. Tutto ciò  che è al di fuori del pensiero non possiede lo stesso grado di certezza. E’  un’idea che è alla base della filosofia moderna, che è infatti una filosofia  idealista. Le idee possono essere avventizie, se provengono dall’esterno, o  fittizie, se composte dalla mente.
  Come  collocare l’idea di Dio? Tra le idee innate, quindi per Cartesio poste da Dio  stesso nella mente. Gli argomenti della sua metafisica sono l’idea di Dio, del  Mondo, dell’Uomo. Quindi argomenti della metafisica classica, ma affrontate in  modo nuovo. E’, a modo suo, una strada per salvare la metafisica dalla tendenza  a valorizzare solo le evidenze scientifiche. 
  Kant  nasce nel 1724, attraversa l’intero secolo dei lumi, si interessa di  scienza e solo dopo i 50 anni scrive le sue opere maggiori. Critica della  ragion pura: ciò che la nostra conoscenza può o non può conoscere. Perché la  metafisica non procede come la scienza, con progressi successivi, ed invece  prosegue il suo cammino distruggendo sempre tutto ciò che ha alle spalle? La  metafisica può diventare scienza? Le scienze stabiliscono le leggi, universali  e necessarie, le costruisce grazie al giudizio. Il giudizio analitico è  quello che analizza un concetto, senza verifiche esterne, quindi non accresce  la nostra conoscenza; invece il giudizio sintetico accresce la  conoscenza. Questi temi sono affrontati nel suo testo del 1783 Prolegomeni  ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza.  
  Secondo  Kant le scienze, Matematica, Fisica, si servono di giudizi sintetici (che  aumentano la conoscenza) a  priori (universali e necessari). Questi giudizi esistono anche in metafisica e  riguardano l’idea teologica (Dio), antropologica (l’anima) e cosmologica (il  mondo), ma non sono alla portata della ragione umana, abbiamo i pensieri ma non  i concetti. Quindi in questi campi non è possibile avere scienza, cioè pensare  non equivale a sapere. Siamo in ambiti dialettici, la ragione non sa dare  una risposta definitiva. 
  Quindi  Kant per giungere a queste conclusioni ha fatto anch’egli uso di un’altra  metafisica, quella della mente umana. La sua critica per molti è definitiva. Ma  è proprio così? E’ davvero impossibile conciliare la metafisica classica con  quella della conoscenza? 
Lezione del 25/3/2010
Esiste una doppia possibilità  nell’affrontare la metafisica: o una metafisica della conoscenza, della mente,  così come ce l’ha presentata kant, oppure con un’accezione più antica,  classica. Nelle prossime lezioni presenteremo le caratteristiche della  metafisica dell’essere, una visione prima ed ultima della totalità che ha punto  di partenza l’osservazione del sé. 
  Oggi  mostriamo il percorso storico di come l’identità tra metafisica ed ontologia,  posta in primo piano da Tommaso d’Aquino, è espressione di una storia più  antica. All’origine di questa storia troviamo la Metafisica di Aristotele, dove  troviamo ben quattro definizioni della metafisica: scienza dell’essere in  quanto essere, scienza della cause, scienza del soprasensibile, studio  delle realtà trascendenti. Queste definizioni fanno riferimento al  rapporto tra Aristotele ed autori del suo tempo ed all’aspirazione di portare a  compimento la loro opera, ad esempio la prima definizione fa certamente riferimento  a Parmenide. Anche attraverso la mediazione della filosofia araba, Aristotele  giunge a Tommaso ne coglie la capacità di giustificare razionalmente anche  realtà soprasensibili, lo commenta e ne fa proprie alcune categorie, come  l’anima intesa come forma del corpo, prendendo in questo modo le distanze da  visioni più idealiste di area platonica. 
La radicalità della ricerca filosofica deriva dal fatto che il filosofo cerca di comporre una certa visione della totalità delle cose. Tommaso ci dice che l’essere è la prima di ogni perfezione, la più radicale. L’insieme delle perfezioni concettualizzabili, proprietà essenziali, mentre la perfezione dell’essere la chiamiamo esistenza. La visione mentale di un oggetto ha la stessa essenza dell’oggetto reale, ma non ha esistenza. Questi caratteri la metafisica intende farli sorgere nella mente di chi la studia per generazione interna, non come accettazione di un’autorità esterna.
Lezione del 15/4/2010
Parliamo del metodo in metafisica. Il VI libro della Metafisica di Aristotele parla di
- Ricerca della verità pratica
- Ricerca della verità speculativa
Per quanto riguarda la ricerca speculativa occorre distinguere tra
- Scienze matematiche (metodo disciplinato)
- Fisica (metodo razionale)
- Filosofia prima (metodo intellettuale)
Queste  tre discipline possiamo definirle tutte come epistemi, perché cercano conclusioni  universali e necessarie. 
  Le  scienze matematiche, con il loro  metodo disciplinato, utilizzano la logica, e quel tipo di ragionamento che  viene definito deduttivo. 
  La fisica, anche definita filosofia  della natura, utilizza l’induzione, oltre agli strumenti della matematica
  La metafisica un metodo che possiamo  definire intuitivo, oltre agli strumenti della matematica e della fisica. Gli  oggetti della sua analisi prescinde dalla materialità, anche se possono  trovarsi uniti ad essa. Secondo Maritain, l’intuizione consiste nel leggere  nelle cose in maniera immediata. 
Lezione del 22/4/2010
Continuiamo  il discorso sul metodo della metafisica.
  Il  metodo si designa, chiaramente, in base all’oggetto dell’indagine, e quello  della metafisica fa uso della funzione intellettuale. La conoscenza  intellettuale richiede un salto ulteriore rispetto all’uso ed alla comprensione  di logica e sillogismi, benché anche questi siano necessari.  
  Com’è  conoscibile l’essere? Affrontiamo ora l’esperienza  ontologica fondamentale. (fa riferimento al cap. 2 libro Alessi)
  E’  necessario, però, stabilire subito che l’idea dell’essere non coincide con  l’essere stesso, ma è uno strumento che ci permette di comprendere. 
  Da  dove nascono le idee? Sono un dato esperienziale che coinvolge globalmente il  soggetto, questo vale anche per l’essere. Si parte dall’esperienza sensibile,  che ci deriva dal nostro essere animali. I sensi ci permettono di cogliere solo  alcune manifestazioni dell’essere, non di conoscerlo, ma non è possibile  prescindere dai sensi per iniziare un percorso conoscitivo. 
  L’essere  è conosciuto quando cogliamo il suo carattere di unicità. Quando parliamo di  ente ci riferiamo a tutto ciò che è, quindi cose animate, inanimate, etc.  L’ente ha molte forme di perfezioni, l’intelligenza, la corporeità, l’estensione,  il linguaggio, e molte altre che definiamo nel loro insieme quidditative o essenziali ma la più  importante di tutte è il fatto di essere,  inteso come esistere. 
  Quando  comprendiamo pienamente l’idea dell’essere possiamo dire di avere vissuto  l’esperienza ontologica fondamentale, e questa attiene all’uomo in quanto uomo,  non al filosofo. 
  Ciò  che dobbiamo distinguere è, quindi, l’esistenza (comune a tutto ciò che esiste) dall’essenza (il modo in cui si esiste). Ma  l’esistere stesso non esiste, in senso stretto, perché è solo un concetto.  L’esistente può essere un essere reale (esistente in senso stretto) o un  contenuto di pensiero. 
  Tutto  ciò è comprensibile solo in termini di intuizioni, perché è una conoscenza ai  limiti delle nostre capacità creaturali. Quando l’escatologia cristiana afferma  che vedremo Dio faccia a faccia, o  che sarà tutto in tutti, si riferisce  proprio a questo, all’intuizione immediata, alla conoscenza non mediata.
  Di  seguito affronteremo tutto ciò che l’essere dice all’intelligenza, il primo  concetto sarà la partecipazione. Questo già ci anticipa che esiste un essere impartecipato (Dio),  dal momento che il suo essere è sussistente, cioè non l’ha ricevuto da nessuno.  La sua prima qualità è l’essere e lo partecipa alle forme con statuto  ontologico inferiore.  Questo passaggio è  l’espressione della nozione che abbiamo dell’essere. 
Lezione del 29/4/2010
Carattere analogico  dell’essere (fa  riferimento al cap. 3 libro Alessi)
  All’essere possiamo giungere  utilizzando la figura retorica dell’analogia.  Se in particolare ci riferiamo all’essere di Dio è indispensabile, porre i due  piani in termini di eguaglianza ci farebbe incorrere nel rischio di panteismo.  D’altra parte, il rischio opposto all’univocità è quello dell’equivocità.  L’analogia ben si presta, quindi, a porci dal corretto punto di vista, perché  confronta due realtà considerandole in parte eguali ed in parte diverse, ed  inoltre si pone sul piano di una conoscenza intuitiva che, come sappiamo, è la  più indicata a trascendere la realtà materiale. 
  L’essere è la maggiore delle  perfezioni e si può predicare di ogni cosa. Esso è in sé stesso analogico e  così permette alla mente di produrre un modo di conoscerlo, ma non è una  conoscenza perfetta. 
  Tommaso d’Aquino: la condizione  spazio-temporale in cui viviamo non ci permette di accedere alla visione di  Dio. La conoscenza analogica, che è comunque veritativa, ci permette di  conoscerlo. 
  Tommaso  De Vio, detto il  Gaetano, parla di 
  Analogia di attribuzione: la perfezione viene predicata in senso proprio ad un  determinato ente e poi è detta agli altri enti in maniera relazionata all’ente  principale. La perfezione è, quindi, in un solo analogato, poi estesa agli  altri. 
  Analogia di proporzionalità: è in funzione di una coppia di rapporti, come nel  concetto matematico di proporzione (a:b = c:d), questo ci porta a dire, ad  esempio, che l’essere sta all’essenza come l’atto sta alla potenza. 
  Ciascuna di queste due forma di  analogia può essere intrinseca o estrinseca. 
  “Così  il termine sano si dice propriamente e principalmente del corpo (attribuzione intrinseca);  ma per analogia si applica ugualmente all'alimento, al clima, o al volto che  esprime la salute del corpo (attribuzione estrinseca).”
Lezione del 6/5/2010
Parliamo oggi di univocità, finitezza, contingenza (fa riferimento al cap. 4 libro Alessi)
  L’affermazione che l’essere è e non può  non essere (Parmenide) sembra esser messa in dubbio dalla nostra esperienza  sensibile, così come la sua unità. 
  La principale obiezione che si pone è:  come convivono Uno e Molteplice? Secondo Parmenide il Molteplice non è, appartiene alla dimensione della doxa.
  Le cinque vie di Tommaso (Summa  theologiae, I,  q. 2, a. 3.)
  E’ un percorso che porta alla  conoscenza razionale dell’esistenza di dio. 
  [a. La  prima via Dal mutamento]   Tutto ciò che si muove è mosso da un altro. E’  il principio con cui Aristotele giunge a teorizzare il motore immobile.
[b. La seconda via Dalla causalità efficiente] La seconda via parte dalla nozione di causa efficiente. Niente può essere causa di se stesso, ed un processo all’infinito nelle cause efficienti non è pensabile. Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente.
[c. La terza via Dalla contingenza] Le cose possono essere e non essere, e ciò che può non essere un tempo non esisteva, quindi se così fosse un tempo non esisteva nulla. E siccome è impossibile che qualche cosa comincia ad esistere autonomamente, bisogna che nella realtà vi sia qualche cosa di necessario. Ora, tutto ciò che è necessario, o ha la causa della sua necessità in un altro essere oppure no. Anche in questo caso non si può procedere all’infinito, bisogna concludere all’esistenza di un essere che sia di per sé necessario, e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri.
[d. La quarta via Dai gradi di perfezione] Nelle cose si trova il bene, il vero, il nobile e altre simili perfezioni in un grado maggiore o minore. Ma il grado maggiore o minore si attribuiscono alle diverse cose secondo che si accostano di piú o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto. Vi è dunque un qualche cosa che è vero al sommo. Come dice Aristotele, ciò che è massimo in quanto vero, è tale anche in quanto ente. Ora, ciò che è massimo in un dato genere, è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, dunque vi è qualche cosa che per tutti gli enti è causa dell’essere, della bontà e di qualsiasi perfezione.
[e. La  quinta via Dal finalismo] Alcune cose, prive  di conoscenza, operano per un fine, come appare dal fatto che esse operano  sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione, per predisposizione.  Vi è dunque un qualche essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali  sono ordinate a un fine.
  
  Tommaso affrontare l’idea di creazione  sottolineando contemporaneamente il suo aspetto “dal nulla” e il suo aspetto  “nel tempo e nello spazio”. Soprattutto ritiene indivisibili questi due  aspetti: per comprendere la creazione dobbiamo partire dal modo creato, quindi  dagli effetti. 
  Gli effetti, che percepiamo con i  nostri sensi, ci mostrano un molteplice. Tommaso ci dice che il molteplice riceve  l’essere dall’Uno per partecipazione. L’unione avviene nell’atto di creazione. 
  Quindi abbiamo visto che a partire  dalle visioni estreme di Parmenide (esiste solo l’essere) e di Eraclito (esiste  solo il divenire), Aristotele concilia per primo i due aspetti apparentemente  contrastanti: interpreta il divenire alla luce dell’essere. In particolare la  trasformazione è vista nella sua duplice veste di accidentale o essenziale.  Parleremo di questo nella prossima lezione. 
Lezione del 13/5/2010
Attenzione, questi appunti sono molto frammentari  e poco attendibili, utilizzarli solo come promemoria degli argomenti trattati  in questa lezione. 
  Il divenire
  Come interpretare il divenire alla luce  dell’essere? Intendiamo l’essere non come esperienza ma come perfezione delle  perfezioni, quindi dal punto di vista filosofico. Ma l’essere non può divenire.  Parmenide afferma che il movimento non è reale, Eraclito, invece, che è proprio  il movimento l’essenza della realtà. 
  Aristotele parlava di trasformazione  all’interno dell’essere: l’essere o è in atto o è in potenza, il movimento, in  questa accezione, è in grado di cambiare l’essere. Dio è atto puro perchè ogni  perfezione la possiede in maniera perfetta, completamente attuata. 
  Ogni passaggio dalla potenza all’atto  proviene da una causa esterna, con questo principio, applicato all’essere,  possiamo dedurre che l’essere proviene da qualcuno che lo possiede in maniera  perfetta. 
  Tutto ciò che ha l’essere in maniera  partecipata lo ha in atto o in potenza. Il divino tocca tutte le cose che  partecipano all’essere. 
  Per Aristotele esistono due forme  differenti di trasformazioni. 
  -  accidentali (le categorie del reale)
  - sostanziali
  La perfezione dell’essere appartiene  alla sostanza, ma gli accidenti determinano la sostanza. Gli accidenti sono gli  unici che si possono percepire con i sensi, la sostanza invece con  l’intelletto. 
  La trasformazione sostanziale è il  cambiamento radicale. 
  L’essere è una forma sostanziale  comunicato ad una materia, e questa la comunica anche agli accidenti. 
Lezione del 20/5/2010
Attenzione, questi appunti sono molto frammentari  e poco attendibili, utilizzarli solo come promemoria degli argomenti trattati  in questa lezione. 
  Le proprietà trascendentali  dell’esistente
  Nel corso della storia della filosofia  le proprietà trascendenti hanno preso forme diverse a seconda dei filosofi che  ne hanno trattato. Per Plotino era l’Uno, per Platone il bene/bellezza, etc.
  Nel medioevo Filippo il Cancelliere  teorizza i trascendentali. Tommaso ne enumera cinque, gli scolastici  successivi (Suarez, ed anche Maritain) ne aggiungono altri. 
- Res
- Aliquid
- L’uno
- Bene
- Vero
In questa analisi non trova posto il bello. La differenza con i successori è che  li descrive in modo concomitante al discorso intorno a Dio. In Tommaso il bello trova posto in altre opere, ma non  nell’articolo 1 del De Veritate di cui ci occupiamo. 
  Ognuna di queste proprietà coincide con  l’essere dal punto di vista della realtà, se ne allontana, invece, dal punto di  vista della nozione o del concetto. 
  Non è possibile ordinare per importanza  le proprietà se non per importanza storica: 
  1) Unità (Plotino) viene  accomunata all’aliquid, in nome della nozione di divisione. L’unità aggiunge alla nozione di  essere l’indivisibilità. Il grado di unità è proporzionale al grado di  essere. 
  2) Aliquid. Esiste una diversità  anche sul piano del grado dell’essere, per esempio in Dio l’essenza coincide  con l’essere. 
  3) Il vero, il più importante dal punto  di vista del filosofo. Il modo classico di definire la verità è adeguazione. Si  parla anche di verità con 3 accezioni: 
  a) la nostra capacità logica di  esprimere un giudizio
  b) verità morale (? - verificare),  adeguare pensieri e parole 
  c) verità ontologica. L’essere di per  se non ci dice che è conoscibile. Ma quando diciamo che una realtà è vera  vogliamo affermare la sua intrinseca conoscibilità. L’intellegibilità è, in sè,  proporzionale al grado di essere. La verità ci dice qualcosa che l’essere non  ci dice: che è fatto per essere compreso. 
  4) Bontà, L’azione propria della bontà,  per un essere dotato di intelligenza e volontà, è quella di attrarre. L’essere  in quanto tale è desiderabile. Attenzione a non confondere bontà morale, se  parliamo di agire, con bontà metafisica se parliamo di pienezza dell’essere. 
  Da internet: In  conclusione, sei sono (contando anche ens) le nozioni trascendentali: ens,  res, unum, aliquid, verum, bonum. Ciò significa che ogni ente (cioè  ogni cosa che ha essere) è una cosa in quanto determinato (cioè in  quanto ha un'essenza), è un'unità in quanto identico a sé (come già  esplicitamente rilevava Aristotele), è un qualcosa in quanto distinto  dagli altri enti, è vero in quanto conoscibile, è buono in quanto  desiderabile.
Lezione del 27/5/2010
Attenzione, questi appunti sono molto frammentari  e poco attendibili, utilizzarli solo come promemoria degli argomenti trattati  in questa lezione. 
  Leggi  trascendentali dell’essere. 
  Ci si  riferisce sempre all’essere in quanto tale, che esprime alcune leggi intese nel  senso forte di universalità, assolutezza, imprescindibilità. 
  Legge  di non contraddizione
  formulazione  ontologica: se  l’essere è non può non essere
  formulazione  gnoseologica: una  proposizione non può essere contemporaneamente vera e falsa sotto la stessa  prospettiva e nello stesso tempo
  La  modernità (Kant) adopera questa legge attribuendola al modo di funzionare  dell’intelligenza, il mondo premoderno come espressione di funzionamento della  realtà stessa. 
  Per  Hegel la realtà si basa sulla contraddizione, come per Eraclito (cui si oppose  Aristotele). 
  Complessivamente  i principi dichiarativi dell’essere sono:    (è una sistematizzazione moderna)
  1) non  contraddizione
  2) identità (perfetta identità dell’essere con se stesso, per Hegel è una tautologia)
  3) terzo  escluso (non esiste una terza possibilità tra vero e falso).
  Il  loro valore non è nella loro declamazione, cioè nel piano della comprensione,  ma nella loro formulazione ontologica, riferiti all’essere stesso. 
  Principio  di ragion d’essere (Leibnitz) formulato in chiave gnoseologica: ogni realtà in quanto è ha la  ragione del proprio essere.
  In  termini ontologici: l’essere contiene le ragioni per cui esso è tale, e queste  ragioni sono anche conoscibili. 
  In un  contesto moderno (in cui la teologia è svalutata) questo principio è  ingiustificato, possiamo dire che è frutto più della teologia che della  filosofia. O anche che espressione più di un’intelligenza che della realtà. 
  Ma per  conoscere il senso è necesario prima conoscere l’essere, in questo troviamo la  contraddizione della modernità. 
  Principio  di finalità:  risponde alla domanda “a che scopo”. Ogni essere, in quanto è, ha una finalità  propria. 
  Principio  di causalità efficiente: risponde alla domanda “chi ha prodotto”. Ogni  ente, in quanto è, è partecipato da un altro, è prodotto da un’altra realtà. 
  Anche  queste sono leggi principalmente della realtà poi, in via subordinata, della  conoscenza. 
  Conclusione: per la teologia naturale questi  principi possono tutti essere utili all’interno di un discorso razionale su Dio  nella loro accezione ontologica (verità e assolutezza), ma nell’altra accezione  (gnoseologica) no. Per la teologia rivelata esiste una magistero che esprime  queste verità ma sempre con l’uso di un linguaggio metafisico, che però non  intende essere una canonizzazione di una particolare metafisica, ma esprime il  fatto che anche per fare teologia rivelata occorre una metafisica. 
Fonte: http://aula6.altervista.org/metafisica.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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