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FOTOGRAFIA:

Documentazione e interpretazione.
Se la fotografia è, per la società contemporanea, uno strumento di prim’ordine, lo è soprattutto per la sua capacità documentaria di ritrarre esattamente la realtà esteriore, capacità che la fa apparire, almeno in prima istanza, come il procedimento di riproduzione più fedele e più imparziale della vita sociale, anche se questa “esattezza” rappresentativa non può prescindere dai punti di vista e dalle ideologie dei soggetti che riprendono le immagini in un gioco, per così dire, infinito di rimandi tra tecnica e ideologia. Se anche la macchina fotografica coglie effettivamente la realtà e non si limita ad interpretarla, le fotografie si presentano sempre all’osservatore come un’interpretazione del mondo, allo stesso modo dell’arte pittorica. La natura è captata da un apparecchio e questo fatto non è una ragione di oggettività e soprattutto di fedeltà.

Il paradosso della fotografia.
La fotografia, secondo Roland Barthes, è caratterizzata da un paradosso. Tale paradosso consiste nella coesistenza di due messaggi: 1) uno senza codice, cioè l’analogo fotografico; 2) e l’altro con codice, cioè l’arte, la scrittura della fotografia. Come può la fotografia essere contemporaneamente oggettiva e investita, naturale e culturale? Il messaggio denotato è assolutamente analogico, cioè privo di ogni riferimento a un codice, in altri termini continuo. Il messaggio connotato implica un piano dell’espressione e un piano del contenuto, dei significanti e dei significati: obbliga, dunque a un autentico decriframento.

Oggettività e soggettività.
La fotografia può essere definita, fra le altre cose, come una pratica creativa riproduttiva sintetica in cui si fondono idealmente oggettività e soggettività. La macchina fotografica di proponeva a Talbot come una nuova forma di notazione, la cui attrattiva era appunto l’impersonalità, in quanto registrava un’immagine, per così dire naturale, cioè un’immagine che prende vita per opera della sola luce, senza alcun aiuto del pennello dell’artista. Ma quando ci si rese conto che nessuno fotografa allo stesso modo una medesima cosa, l’ipotesi che le macchine fornissero un’immagine impersonale e oggettiva dovette cedere il posto alla consapevolezza che le fotografie non attestano soltanto ciò che c’è, ma ciò che un individuo vede in esse, che non sono soltanto un documento, ma una valutazione, un’interpretazione del mondo.

 

Le origini.
In fotografia, fino ai primi del 900 non esiste l’istantaneità. Talbot scrive un libro dal titolo “The pencil of the nature”, nel quale comunica come la nuova scienza della fotografia abbia un intento puramente riproduttivo della realtà (c’è chi dice che è solamente un’interpretazione).
Bourdier la indica come art moyen; la fotografia è per lui un’arte mediana, a metà tra filosofia, storia e letteratura. La fotografia è la somma di tutto questo. Per capirla la devo inserire in mezzo a varie tensioni. Dietro ogni fotografia c’è una cultura non solo dell’immagine.
Alle origini troviamo una fotografia con la messa in posa che si avvicina e riproduce la natura. Un altro elemento della nascita della fotografia è la figura dello scrittore fotografo: L. Carroll, G. Verga, E. Zola.
Mathew Brady: Scrive “civil war project”. Sono diminuiti i tempi per le fotografie. Spese soldi per le foto sulla guerra civile (campi di battaglia) e fa mostre fotografiche in giro per l’America: chiara mossa sociale. I morti, spesso, vengono messi in fila, con un chiaro riferimento ai mucchi di grano del campo. Intento documentale, di rappresentare la morte. C’è una regia, che poi resterà nel discorso sulla guerra. Questa concezione vale fintanto che la morte avrà dei determinati connotati. Oggi, anche l’immagine della morte è cambiata. Prima l’immagine del morto era importante. Si tende a sganciare la guerra dalla morte. Si fa vedere la morte, adesso, secondo l’idea della war pornography: il corpo in primo piano e si punta su quello. Mentre prima c’era riflessione, rispetto del morto, adesso c’è solo l’eccitazione del vedere il morto. Ci attira per l’iperrealismo non si ragiona più sulla morte. I pezzi dei morti non fanno riflettere, pensare, ma è solo un fatto estetico.
Nel 1859 vi è un intervento importante di Baudleire che definisce la fotografia come qualcosa di meccanico, come l’umile serva della scienza e delle arti. La pittura è creazione, mentre la fotografia è mera finzione.
Fino alla metà degli anni 10 troviamo il Pittorialismo: la fotografia deve in ogni modo avvicinarsi alla pittura. Si cerca di rendere le forme o sullo smosso o un effetto simile (pittura impressionista). La più grande fotografa dell’800 è Giulia Cameron, che è molto vicina al modello preraffaellita.

La fotografia sociale (Riis, Hine, Evans, Lange, Arbus).


Con l’espressione fotografia sociale non si indica tanto un preciso genere fotografico, quanto piuttosto una sensibilità e un atteggiamento di fronte alla realtà storico-sociale contemporanea. La fotografia sociale cerca di stimolare nell’osservatore il risveglio di una coscienza e quindi una reazione critica e partecipata verso le ingiustizie, le oppressioni, la povertà, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e, in genere, verso condizioni umane che coinvolgono precise responsabilità individuali e istituzionali. Nell’ambito di tale fotografia sociale è possibile individuare, grosso modo, due grandi direzioni operative. Una direzione sociologica e una direzione ideologico-politica o di testimonianza in cui la descrizione obiettiva si accompagna o lascia parzialmente il posto al messaggio ideologico che il fotografo vuole comunicare al pubblico.
La tendenza sociologica: è costituita dalla fotografia sociale americana all’interno della quale vanno soprattutto distinte due fasi: 1) una risalente al periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo; 2) l’altra corrispondente al periodo degli anni Trenta nel corso della cosiddetta Grande Depressione.
La prima fase può essere esemplificata dalle esperienze di Riis e Hine.
Jacob Riis mise a punto la propria indagine personale per far conoscere al pubblico la misera di quegli strati sociali che vivevano in quartieri squallidi e malfamati del basso East Side. Nel 1890 fu pubblicato il suo famoso libro How the other half lives – Come vive l’altra metà della città.  Le fotografie di Riis presentano caratteristiche di immediatezza e di penetrazione e si rivelano crude, aspre come le squallide situazioni che spesso registrano. Non utilizza il primo piano, ma sarà uno dei primi ad utilizzare la polvere del flash. La fotografia, finchè non ha un media a cui appoggiarsi, si rifarà a un vecchio media: così avviene in questo caso, come abbiamo visto con il libro di Riis. Riis vede una grande importanza negli oggetti e guardò sempre con simpatia, con umana partecipazione, le persone umili, emarginate, sia che fotografasse i ragazzi di strafa arabi dediti ai piccoli furti, o gli abitanti del malfamato vicolo noto come il covo dei banditi che fissavano in modo arrabbiato l’apparecchio fotografico dalle porte, dai balconi delle finestre. Molte volte nella fotografia sociale si hanno immagini accompagnate dalla caption, didascalia di spiegazione.
Lewis Hine è un sociologo. All’inizio del ventesimo secolo, l’evoluzione della tecnica fotografica permise ad altri fotografi di mostrare lo sbarco delle famiglie di immigrati, i loro luoghi di lavoro, le loro abitazioni urbane, le loro strade. Tali immagini permisero ai riformatori progressisti di mettere in discussione e di criticare aspramente le contraddizioni del sistema capitalistico. E’ per questo che la fotografia di Hine può essere compresa solo in relazione al suo contesto. La sua produzione è di tre tipi: una che riguarda i bambini al lavoro, una seconda chiamata uomini al lavoro (e riguarda la costruzione dell’Empire State Building) e la terza che riguarda le foto degli immigrati ad Ellis Island. Negli anni antecedenti la prima guerra mondiale, Hine andò con la propria macchina fotografica ad Ellis Island per riprendere gli immigrati che giungevano a decine di migliaia. Nel mostrare queste immigrati in pose che, secondo alcuni evocavano segni iconici dell’arte della tradizione, Hine cercò di disinnescare i pregiudizi che si dimostravano nei loro confronti. Con Hine il primo piano acquisterà sempre più importanza. I bambini hanno una loro dignità e il contrasto si gioca nel fatto che lavorano in fabbrica. Hine girava l’America e promuoveva un cambiamento, mostrando anche le foto che faceva. Non preoccupandosi di particolari di secondario rilievo, Hine concentrava tutta la propria partecipata attenzione sugli individui che gli stavano di fronte. Hine registra le reiterate trasgressioni alla legislazione che vietava il lavoro a full time dei bambini. Quando lavoravano in fabbrica, li faceva vedere di fronte alle macchine ponendo l’accento sulla discrepanza fra le proporzioni delle macchine e quelle dei bambini, in maniera che l’osservatore fosse immediatamente consapevole della loro giovanissima età.
La seconda fase della fotografia sociale americana, si riferisce al periodo degli anni Trenta, quando negli USA si abbattè la cosiddetta Grande Depressione.
Durante questo periodo a Stryker venne affidato l’incarico di organizzare un ampio reportage fotografico che documentasse sia le attività dell’ente della Rural resettlement Administration, sia la vita rurale americana. Nel 1937, la Rural Resettlement Administration diventò parte del Dipartimento dell’Agricoltura col nome di Farm Security Administration (FSA). Con la FSA inizia l’era delle immagini negli Stati Uniti e poi in tutto il mondo. Le foto di questi fotografi giungeranno anche in Italia ed ispireranno il Neorealismo.  La FSA rimarrà aperta fino al 1943 e vede come suoi esponenti di maggior spicco le figure di Evans e della Lange.
Evans: Fu uno dei primi fotografi reclutati per la FSA. Egli compì diversi viaggi nelle zone del Sud americano raccogliendo documenti sulle condizioni del paese, sulla situazione finanziaria dei fittavoli, le loro case, i loro beni, i loro metodi di lavoro, i raccolti, le scuole, le chiese, i negozi. La fotografia, pur essendo documentaria, deve essere disinteressata (la future interest non gli interessa); cerca l’arte nella banalità del quotidiano. La sua novità è legata ad un libro, scritto con James Agee: nel libro prima vengono le fotografie di Evans e poi il testo, il cui titolo è “let us now praie famous man”  (vi troviamo dei semplici contadini dell’Alabama). Gli interni sono molto accurati ed Evans è un patito dello “sharp focus” (lastre grandi, senza flash, il fotografo è davanti, una piena messa in scena, l’artistico è dato dal contrasto tra la depressione interna e la bellezza artistica della fotografia; le persone possono esserci come non esserci). Evans non vuole comunque creare compassione.
Lange: Pensa che la fotografia sia uno strumento di politica. Le due fotografie di lavoratori costretti a trasferirsi da un paese all’altro con vecchie auto sovraccariche, a vivere sotto le tende piantate nei campi, a riposare nei dormitori pubblici della città o in accampamenti di fortuna, a lavorare pesantemente la terra, costituiscono una testimonianza fedele e un commento partecipato e commosso, in quanto la Lange nutriva per loro sentimenti sinceri di pietà e di rispetto. La Lange ha tre campi principali nei quali lavora: il discorso sull’emigrazione, il tema attorno alla seconda guerra mondiale su un piccolo paese e una serie di fotografie sui giapponesi. Diceva la Lange: “Il mio particolare modo di fotografare si basa su tre regole. Primo: non toccare! Qualunque cosa fotografi non infastidisco, non altero, non accomodo. Secondo: il senso del luogo. Qualunque cosa fotografi, cerco di farla apparire come parte del suo ambiente, come radicata in esso. Terzo: il senso del tempo. Qualunque cosa fotografi cerco di far vedere che è inserita nel passato o nel presente.”
Diane Arbus: Nasce a New York da una famiglia ricca e a 18 anni si sposa con un fotografo di moda. Ma nel 1958 abbandona tale attività e nel 1959 inizia a lavorare con la fotografa Limette Model. Il mondo fotografico della Arbus è un mondo costituito da persone che possono sembrare al di fuori della realtà o tragiche, ma la cui cultura è significata da sistemi di valori eterogenei a quella stessa cultura e quindi, il più delle volte, violenti in rapporto ai valori e ai comportamenti di tali persone. Predilige l’uso del formato quadrato, che incamera meglio il soggetto e utilizza il flash anche di giorno, dato che stacca maggiormente le figure. La sua concezione fotografica si spiega attraverso le immagini dell’emarginazione sociale e di situazioni che eccedono la cosiddetta normalità. Guarda ai cosiddetti “ultimi uomini” e fu capace di esprimere tutta l’inquietudine di un sistema di vita servendosi, fra l’altro, di lunghi ed incisivi titoli che aveva l’abitudine di apporre in fondo alle proprie foto. La rappresentazione del corpo, alla quale la Arbus ha guardato con grande attenzione, si declina soprattutto le immagini dell’obesità, del tatuaggio e dei concorsi di bellezza per culturisti. Nella prospettiva della Arbus la macchina fotografica ha il potere di cogliere le persone cosiddette anormali in maniera da farle apparire come normali. Il fascino singolare delle fotografie della Arbus deriva non secondariamente dall’antitesi tra una tematica lacerante e un’attenzione pacata e realistica. Lungi dallo spiare mostri, dal coglierli alla sprovvista, ella si è presa la briga di conoscerli, di rassicurarli perché posassero per lei con impettita tranquillità. Quasi tutti i personaggi delle sue fotografie sembrano non accorgersi della loro stranezza o bruttezza. Il paesaggio per lei non conta niente. Il soggetto è tradizionale e nel 1971 abbiamo l’ultima sua raccolta, “untitled”: una serie di fotografie su disabili mentali, anziani, quasi tutti vestiti da Halloween. Non si distingue se hanno una maschera oppure no.
La fotografia di reportage  (Bresson, Frank, Giacomelli, Patellani, Capa, Smith, Weegee).
Il reportage vero e proprio si riferisce a quelle immagini riprese da un fotografo in tempo reale sul luogo stesso di un determinato evento; in questo senso, la fotografia di reportage, in quanto registrazione meccanica dello stato vivente del mondo, si distingue dalla fotografia di atelier in cui determinate situazioni vengono artificialmente costruite e messe a punto per finalità soprattutto estetiche. La fotografia di reportage può essere identificata con il cosiddetto fotogiornalismo, anche se nel fotogiornalismo emerge maggiormente il desiderio di raccontare, attraverso le immagini, una storia avente valenze semantiche prevalentemente storiche, sociali e politiche. Si può distinguere in due fasi: da un lato il reportage della vita quotidiana e, dall’altro, il reportage eroico.
Il reportage della vita quotidiana. Si tratta di una fotografia che ha come preoccupazione fondamentale gli individui e il loro ambiente colti nella multiforme fenomenologia delle loro interrelazioni e del loro comunicare.
Henri Cartier-Bresson: Nasce e si forma in un ambiente prevalentmente pittorico. Possiamo dire che una delle sue caratteristiche principali risiede nella capacità di integrare le proprie preoccupazioni plastiche al reportage, concepito come una ricerca del momento decisivo escludente l’aneddoto ed intenzionata a trasferire l’istantaneità alla permanenza. Cartier-Bresson è stato un testimone primario dei più grandi eventi del secolo XX. Il suo primo libro fotografico esce nel 1952 con il titolo Images à la sauvette, cioè immagini riprese di nascosto, di sorpresa, in tutta velocità, tematizzando quel momento decisivo attraverso il quale egli tenta di cogliere il ritmo specifico dell’universo reale: è quell’istante particolare e significativo che il fotografo decide di fissare tra tanti che caratterizzano un determinato evento. E’ decisivo per tre elementi: 1) in un momento dato e in uno solo il fotografo rivela qualcosa di perfettamente equilibrato dal punto di vista estetico; 2) il fotografo è il solo ad aver percepito ed organizzato nel suo mirino la scena così come ce la mostra; 3)l’equilibrio, la perfezione e la pienezza ricercate dal fotografo in una determinata immagine della realtà da lui ripresa in uno specifico istante, no si riproducono mai esattamente nella medesima maniera in una immagine simile. Bresson con Capa, Seumour e Rodger fondò la Magnum Photo, un’agenzia cooperativa destinata alla registrazione e alla distribuzione delle immagini. Fondata nel 1947, questa agenzia aveva un elemento molto importante: i fotografi trattano direttamente con le riviste per la pubblicazione delle loro foto, che però, continuano a rimanere di loro proprietà e non della rivista. Nella Magnum i quattro fotografi si spartiscono il mondo: Capa l’America, Seymour l’Europa, Rodger l’Africa e Bresson l’India e l’Asia. Per Bresson uno dei compiti essenziali del fotografo è l’osservazione della realtà tramite la macchina fotografica, fissando e non manipolando né durante la ripresa né dopo in laboratorio. Un altro genere a cui si è dedicato proficuamente Cartier-Bresson è il ritratto. Egli considera ritratti fotografici solo le immagini che si scattano alle persone che si conoscono, o a coloro che si pongono di fronte all’obiettivo con la consapevolezza di prendere parte ad un momento creativo di un certo rilievo.
Robert Frank: Svizzero di origini, vive e lavora in America dove, nel 1956 è il primo non americano a ricevere il premio Guggenheim; libero da costrizioni finanziarie viaggiò così per un anno attraverso gli Stati Uniti. In risultato di questo viaggiare fu la pubblicazione, nel 1958, del libro The Americans, in cui Frank mostrava non tanto i momenti convenzionalmente significativi, quanto piuttosto gli istanti assurdi del quotidiano al contempo frammentario e monotono, tanto più vissuti quanto meno hanno senso. Venne considerato come un attacco contro un certo ottimismo americano. La prefazione a questo libro fu di Kerouak. Nella sua poetica sono individuabili due fasi, separate da un periodo di abbandono temporaneo della fotografia a profitto del cinema. 1)La prima fase corrisponde approssimativamente al suo lavoro professionale di reporter, che si svolge dal 1947 al 1958. 2) La seconda fase, viene fatta cominciare nel 1974, anno che coincide con un evento tragico: la morte della figlia. Egli riprende in maniera intensa quel “viaggio solitario” che si identifica per lui con la fotografia stessa. L’ossessione della morte, ricorrente in tutta la sua opera e concretizzata in un primo tempo da indici assai precisi come cadaveri di animali, carri funebri e feretri è ormai tradotta dall’assenza e dal vuoto. Per Frank risultano importanti i comizi, i funerali, i predicatori (sono non luoghi), che risultano essere espressione del vuoto dell’autorità. Cerca il rapporto tra il visibile delle persone e l’invisibile: si accenna appena alle identità, i volti sono nascosti. C’è un certo senso di inconoscibilità delle persone. C’è volutamente la tecnica del mosso e del fatto male.
Mario Giacomelli: Di origini marchigiane, possiamo suddividere la sua produzione in tre cicli. Il primo ciclo è quello Io non ho mani che mi accarezzino il viso e risale agli anni 1962-1963 a Senigallia, dove sta in un convento con i pretini. Le foto di questo servizio comunicano, fra l’altro, una singolare malinconia, nella misura in cui non riusciamo a separare la rappresentazione degli aspetti infantili, ludici dei giovani preti, la loro allegria semplice e schietta dalla loro condizione di solitudine, di separatezza, di privazione di esperienze corporee intersoggetive. Il secondo ciclo è quello del Mattatoio, del 1961, dove Giacomelli fa emergere in modo sublime la brutale condizione degli animali a cui è stata negata non solo la libertà, ma anche la vita, dalla bestialità dell’uomo. Il terzo ed ultimo ciclo è Verrà la morte e avrà i tuoi occhi e ha per tema l’ospizio, cioè l’istituzione dove sono ricoverate persone molto anziane bisognose di cure e di assistenza, ma che si rivela spesso come un luogo di emarginazione e di solitudine effettiva e quindi di conseguente decadimento psicofisico dei ricoverati stessi. L’ospizio è una specie di teatro delle ombre, con pochi accessori, dove i vecchi sembrano amalgamarsi con i letti, con le poltrone, con sedie di fortuna, con suppellettili indecenti, di scarto, indignitosi oggetti di luoghi di degrado. L’ospizio è una sorta d’attesa dove uomini e donne vivono aspettando la morte. E’ la corporeità che sembra stare più a cuore alla sua commossa rappresentazione.
La fotografia di reportage eroica. In che senso eroica? Nel senso che la pratica di questi fotografi ha dato prova, secondo maniere diverse e in situazioni differenti, di straordinario coraggio e abnegazione nel testimoniare eventi, fatti di sensibile rilievo per una comunità o una società determinata.
Robert Capa: Fin dall’adolescenza s’impegno nel giornalismo che ben sintetizzava i suoi due principali interessi: la letteratura e la politica. La prima fase delle sue fotografie è in Spagna. La propaganda durante la guerra civile è parte stessa della lotta e la fotografia di Capa è parte integrante della battaglia politica contro i franchisti. La propaganda passa davanti alla notizia. Nel 1933 Capa fugge dalla Geomanzia nazista e va a lavorare a Parigi, dove conosce Bresson e altri. I profondi sconvolgimenti della situazione mondiale nel corso degli anni Trenta e il suo interesse per i conflitti politici, nonché il suo impegno nella lotta contro il fascismo e il nazismo, avvicinarono Capa al reportage politico. Dopo aver lavorato in Cina, nel 1939 emigrò negli Stati Uniti. Dal 1941 al 1945 fotografò la Seconda Guerra Mondiale come corrispondente di Life. Egli ha fissato non solo il furore dei combattimenti, ma anche il riposo degli uomini dietro le linee, i preparativi all’assalto, gli sfollati, i feriti, i cadaveri. Capa si immerge negli eventi cogliendo il proprio soggetto a distanza a volte così ravvicinata che esso appare sfocato o impreciso. Uno dei suoi lavori più importanti fu quello dello sbarco in Normandia, dove però si rovinarono molte foto (Life diede la colpa di questo a Capa). Lo troviamo sempre in prima linea, vicinissimo agli accadimenti e morirà poi in Indocina, ucciso da una mina.
Eugene Smith: Le sue immagini, i suoi grandi reportage uniscono una forma espressiva drammatica a un’estrema umanità dei soggetti e i suoi metodi di lavoro l’hanno portato a studiare in profondità i propri temi prima di riprenderli fotograficamente. Egli realizzò per Life, due reportage: Medico condotto e Ostetrica, che indagavano la tematica della nascita e della morte in maniera oltremodo espressiva e diretta. In Medico condotto (1948) Smith raccontò la commovente storia del dottor Cerini. Giorno e notte il dottor Cerini riceveva chiamate e Smith era con lui. Egli fotografò il medico durante i parti, mentre confortava i pazienti o fasciava una ferita. Nel reportage Ostetrica (1951), Smith raccontò la storia dell’ostetrica diplomata Maude Callen, la quale prestava cure mediche e si occupava dei servizi sociali di circa diecimila persone, sparse in un territorio di circa 500.000 metri quadrati della Carolina del Nord. Smith concepisce la fotografia come un progetto lungamente meditato e preparato, cosicché egli studia in maniera accurata il contesto e il soggetto, prima di iniziare a riprendere le proprie immagini. In lui troviamo una presenza accentuata del chiaroscuro e un forte simbolismo. Tra il 71 e il 72, assistiamo al suo ultimo reportage, Minimata, realizzato in Giappone, dove Smith venne a conoscenza del fatto che centinaia di persone di Minimata erano rese storpie da un morbo terribile. La causa della malattia fu attribuita all’inquinamento del mercurio del mare e dei pesci, dovuto agli scarichi di una fabbrica.
Weegee: Siamo negli anni 40 e pubblica Nacked city, riguardante New York. Parte come street photografy (un fotografo di crimini) e le sue foto sono fatte con forti chiaroscuri (forti esposizioni e con il flash); dietro vi è un’ideologia antiamericana, espressione di un’America oramai degradata. Weegee scattò indubbiamente alcune delle fotografie più famose di un’epoca violenta. Anche se il suo carattere era molto impressionabile, e benché respingesse la vista del sangue, egli era affascinato dai misteri che avvolgono l’assassinio; questo fece si che in molte sue foto si tenesse a una certa distanza dal cadavere, allo scopo di registrare le reazioni sconvolte del pubblico presente. Prediligeva soprattutto la luce artificiale, l’azione fissante del flash che illumina e appiattisce il soggetto diluendo i contorni nello sfondo nero molto intenso. Weegee usava spesso la fotografia a raggi infrarossi, quella utilizzata particolarmente nei voli di ricognizione. Attraverso l’infrarosso Weegee accentuò il mascheramento della sua presenza, rafforzando il proprio ruolo voyeuristico. La pellicola a infrarosso gli consentiva di fotografare quasi al buio completo, occultando la propria presenza. I temi ricorrenti ed ossessivi di Weegee sono stati il sonno, l’abbandono, l’incoscienza, mentre i suoi bersagli preferiti egli li scelse tra gli individui braccati, feriti, terrorizzati, sconvolti dal dolore e dalla follia. Il fine di Weegee fu sempre quello di raccontare la realtà così com’è, ma in questa volontà egli non nascose la sua partecipazione, la sua complicità, la sua emozione.
Fotografia digitale: Il fotografo digitale imputa comunque una manipolazione avvenuta anche con l’analogico; con l’analogico la foto è un indice (Peirce) con un rimando alla realtà. Con il digitale, invece, si può creare anche una realtà nuova, completamente costruita. Oggi il fotografo si muove in tre direzioni: o si fa un portale fotografico sul web; alle foto può aggiungere un commento. E’ una fotografia digitale che però tiene di conto la tradizione. Un altro tipo di intervento può essere quello più integrativo, in cui questa integrazione viene maggiormente fuori e la fotografia è condizionata dalla struttura del web. Con Sierra la logica della fotografia si unisce a quella del web à fotografa il confine tra America e Messico e nel suo sito si trova anche supporti audio, video, mappe interattive; la fotografia perde così l’aura e diventa una dei tanti mezzi di comunicazione per costruire qualcosa d’altro: il libello di rimediazione è molto forte, la fotografia viene quindi intessuta in qualcosa d’altro. Il terzo tipo di intervento è più moderno e viene portato avanti solo in Corea (a livello sperimentale): è un sito partito dal giornalismo à Ommy-news. Si è perso il mito dell’autore, questa è la nuova via che però non prevede più il mito dell’artista. Non conterà più il momento della produzione delle fotografie, ma conterà maggiormente il momento della selezione. A questo bisogna anche aggiungere il concetto di “digital divide”.
Federico Patellani: Iniziò la sua carriera nel 1935, lasciando una professione d'avvocato che s'era sempre affiancata alla passione per la pittura. Il suo stile focalizzato sulla verità e sul desiderio di farsi documento della realtà circostante condizionò fortemente la rivista Tempo e anche l'impostazione del fotogiornalismo. Per il Tempo inventò i "fototesti": ampi servizi fotografici corredati da lunghe didascalie che scriveva egli stesso. Durante la guerra, Patellani continuò a fotografare con lo pseudonimo di Pat Monterosso, raccontando il fronte orientale. Nel 1952 lasciò la rivista e divenne un libero professionista per numerose testate italiane e straniere tra le quali Epoca, La Storia Illustrata, Successo, Atlante, La Domenica del Corriere. In questo stesso periodo Patellani divenne anche regista, collaborando con Mario Soldati e Alberto Lattuada e poi girando alcuni documentari televisivi. Patellani aveva una chiara concezione del giornalista di "nuova formula" e lo definiva come qualcuno che "sappia fare fotografie che documentino il lettore; se vuole, se è capace faccia poi delle belle fotografie, interpreti ciò che vede".
James Nacthwey: E’ profondamente segnato, nella sua scelta di diventare fotografo, dalle immagini della guerra nel Vietnam e del movimento per i Diritti Civili. Autodidatta, comincia a lavorare nel 1976 come fotografo per i quotidiani nel New Mexico; dal 1980 è a New York dove inizia la sua carriera di fotografo freelance per le riviste. Il suo primo compito all'estero è, nel 1981, in Irlanda, durante lo sciopero della fame di alcuni militanti dell'IRA (Irish Republican Army). Da allora Nachtwey ha dedicato la sua vita e la sua attività a documentare guerre, conflitti sociali, con immagini che sfidano la nostra indifferenza e passività, sia per la loro intrinseca bellezza, che per la loro manifesta attenzione alle persone. Egli vuole sottolineare la tragedia di un singolo uomo, di una famiglia. Memorabili sono i suoi reportage da El Salvador, Nicaragua, Guatemala, Libano, Gaza, Israele, Indonesia, Thailandia, India, Sri Lanka, Afghanistan, Filippine, Sud Corea, Somalia, Sudan, Ruanda, Sud Africa, Russia, Bosnia, Cecenia, Kossovo, Romania, Brasile, Stati Uniti, Iraq. Nachtwey lavora per Time Magazine dal 1984; è membro dell'Agenzia Magnum dal 1986 al 2001 ed è tra i fondatori dell'Agenzia VII. Tra i tanti riconoscimenti, ricordiamo che è stato vincitore della Robert Capa Golden Medal per cinque volte - non a caso, Nachtwey è stato ripetutamente paragonato al leggendario fotografo di guerra -, del Magazine Photographer of the Year per sei volte e dell'Eugene Smith Memorial Grant in Humanistic Photography. Con Nachtwey il fotogiornalismo diventa o da libro o da museo.
Salgado: nasce nel 1944 in Brasile. Vive a Parigi. Dopo una formazione universitaria di economista e statistico decide, in seguito ad una missione in Africa, di diventare fotografo. Nel '73 realizza un reportage sulla siccità del Sahel, seguito da uno sulle condizioni di vita dei lavoratori immigrati in Europa. Nel '74 entra nell'agenzia Sygma e documenta la rivoluzione in Portogallo, la guerra in Angola e gli avvenimenti in Mozanabico. Entra a far parte nel 1975 dell'agenzia Gamma ed in seguito, nel 1979, della celebre cooperativa di fotografi Magnum Photos. Lascia la Magnum nel 1994 per creare, insieme a Lelia Wanick Salgado, Amazonas Images, una struttura autonoma completamente dedicata al suo lavoro. Salgado si occupa soprattutto di reportage di impianto umanitario e sociale, consacrando mesi, se non addirittura anni, a sviluppare e approfondire tematiche di ampio respiro. A titolo di esempio, possiamo citare i lunghi viaggi che, per sei anni, lo portano in America Latina per documentarsi sulla vita delle campagne. Questo lavoro ha dato vita al libro Other Americas. Salgado fotografa la tragedia della siccità nei paesi africani del Sahel e l’insieme di questo lavoro è stato organizzato in diverse esposizioni e due libri, a sostegno di Medicins sans Frontieres.Durante i sei anni successivi Salgado concepisce e mette a punto un progetto su scala mondiale sul lavoro nei settori di base della produzione. Il risultato è La mano dell’uomo, una pubblicazione di 400 pagine del 1993 tradotta in sette lingue diverse e accompagnata da una mostra. Dal 1993 al 1999 Salgado lavora sul tema dei movimenti di popolazione nel mondo. In Salgado troviamo tanti riferimenti iconografici classici (Dante, la Bibbia). Il nocciolo della sua opera sono i lavori e le grandi migrazioni. Negli ultimi tempi fotografa i bambini del terzo mondo. Con lui siamo alla fine della fotografia analogica. Egli ha fatto anche una serie di fotografie sulle miniere a cielo aperto. Ha fatto quasi sempre foto sull’uomo in movimento. Riesce a fare anche lo scoop dell’attentato a Reagan.

 

Fonte: http://digilander.libero.it/AP1982/fot.DOC

Sito web da visitare: http://digilander.libero.it/AP1982/

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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