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LA DEFORESTAZIONE

Prima che l'uomo "scoprisse" l'agricoltura, gran parte della Terra era ricoperta di foreste e di praterie, dove gli ecosistemi avevano il loro equilibrio naturale. La "scoperta" dell'agricoltura diede inizio all'abbattimento delle foreste per dare luogo alle colture. Il legno abbattuto servì per costruire abitazioni, piccole barche e per accendere il fuoco.
A quell'epoca l'uomo avvertiva la natura come un pericolo mortale. Le foreste costituivano un ostacolo alle comunicazioni. Già in epoca romana le foreste mediterranee erano state in gran parte distrutte. Erano scomparsi, almeno in gran parte, i boschi di pini marittimi in Italia e le foreste di cedro con cui i Fenici avevano costruito le loro navi.
In estese regioni il terreno divenne arido e fu sottoposto senza alcuna difesa all'opera distruttiva del vento e della pioggia. La Mesopotamia, ricchissima di boschi e giardini un tempo, è oggi praticamente una plaga desertica.
Oggi, nella dimensione culturale che l'ecologia ha creato e che sembra essere la nuova fondamentale verità dell'uomo che si è avviato all'inizio del Millennio, si lancia un nuovo allarme: l'uomo sta distruggendo le ultime foreste esistenti sul pianeta. Grandi foreste ricoprono ancora estese regioni dell'Africa, dell'Asia e dell'America Latina. Ormai da diversi decenni queste ultime zone verdi vengono distrutte. E i motivi sono vari. Vi è il problema dell'urbanizzazione ma vi è anche un altro problema che stranamente le nazioni industrializzate fingono di ignorare. I Paesi sottosviluppati, oppressi da enormi debiti, vedono nel legname una risorsa fondamentale per far fronte a tale problema.
Nel Villaggio Globale ci si è accorti improvvisamente della Foresta Amazzonica. L'Amazzonia è un'immensa regione, in gran parte del Brasile. Fino agli anni cinquanta l'Amazzonia restò relativamente immune all'avanzare del progresso. Poi il presidente Kubitscek decise la fondazione di Brasilia, quasi al centro della foresta. Si iniziò con la costruzione di una strada snodantesi per la foresta. Appena furono costruiti gli edifici del Parlamento, il palazzo del governo, quello del presidente della Repubblica, l'edificio della Corte suprema e l'aeroporto internazionale, la capitale fu trasferita a Rio de Janeiro come capitale federale. Successivamente si diede inizio alla costruzione dei quartieri residenziali. I gruppi primitivi che abitavano nella foresta furono assillati da una folla di antropologi. Se ne tentò la civilizzazione e fu un disastro.
E contemporaneamente si cominciò a distruggere la foresta per creare colture, aree di allevamento e le risorse minerarie venero sfruttate al massimo. Ambientalisti di ogni genere proposero e propongono le più svariate soluzioni. Il governo brasiliano promette prudenza, ma la distruzione continua. Di questo passo le aree boschive saranno ridotte al minimo.
Il problema non è affatto semplice da risolvere. La deforestazione e l'Effetto Serra ci porteranno ad un collasso globale senza precedenti. Il problema, infatti, sarà aperto fino a quando ci saranno governi che ne trarranno interessi economici.
Abbiamo visto, quindi, quale grande importanza abbiano le piante che, tutte insieme, prendono il nome di "regno vegetale". Esse esplicano una funzione importante nel mondo. Infatti, rendono salubre l'aria che respiriamo, arricchendola di umidità e di ossigeno, e ad essa sottraggono l'anidride carbonica. Attraverso queste loro attività, le piante svolgono un'azione regolatrice del clima. Le piante forniscono sostanze nutritive necessarie sia nell'uomo (verdura, frutta…) che agli animali (erba, frutti). Né dobbiamo trascurare l'impiego delle piante nella produzione del legno e della cellulosa. Ricordiamo poi l'utilizzo delle piante tessili e di quelle medicinali. Ammirando un albero possiamo riconoscere le radici, le foglie e il fusto.
La radice generalmente si trova sotto terra. Essa è ben infissa nel terreno consentendo alla pianta di protendersi verso l'alto e di resistere alle avverse condizioni atmosferiche e ha la funzione di assorbire l'acqua dal terreno.
Il fusto è quella parte della pianta al di sopra del terreno, tra le foglie e la radice. Il termine fusto dobbiamo estenderlo anche ai rami. Il fusto ha la funzione di sostegno e di trasporto in quanto rende possibile il trasferimento di acqua dalle radici alle foglie. Nel fusto ha luogo una circolazione: l'acqua sale, insieme con i sali minerali (linfa grezza) dalle radici alle foglie mentre le sostanze elaborate nella fotosintesi (linfa elaborata) discendono dalle foglie ai vari organi della pianta.
Guardando un albero ciò che ci appare più evidente sono le foglie, sottili lamine di colore verde. Ogni lamina è di colore verde intenso nella pagina superiore perché nella superficie verso l'alto vi è concentrata una maggiore quantità di clorofilla dovuta ad un'esposizione maggiore alla luce del sole, mentre è di colore più pallido in quella inferiore, più in ombra. Nella foglia avviene il processo chiamato fotosintesi clorofilliana in cui si formano gli zuccheri, alimento primario per le piante.
Come abbiamo detto prima, molti Paesi sottosviluppati ricavano ingenti capitali con la vendita del legname abbattuto nelle foreste. La maggior parte del legname abbattuto viene portato nelle segherie per essere lavorato.
L'operazione primaria per ottenere il legname è l'abbattimento delle piante. L'albero, tagliato alla base, viene privato dei rami e parzialmente della corteccia. Il trasporto avviene con mezzi diversi: se il bosco si trova in montagna i tronchi vengono portati a valle con delle teleferiche. Nel caso in cui il bosco sia in pianura, il trasporto può avvenire anche per fluitazione oppure con autocarri. Quando i tronchi arrivano in segheria vengono scortecciati definitivamente, poi lavati e tagliati in pezzi commerciali e quindi sottoposti a stagionatura, naturale o artificiale. La stagionatura naturale consiste nell'accatastare le tavole in un luogo asciutto e coperto. Questo processo richiede diversi mesi di tempo, ma consente di evitare inconvenienti e deformazioni. La stagionatura artificiale consiste nel far essiccare le tavole in speciali forni a circolazione forzata di aria calda. Dura solo poche settimane ma può provocare successive deformazione del legno per il ritiro delle fibre.
La lavorazione del legno comporta diversi procedimenti. Si può comunque riassumere in tre fasi: la prima è quella in cui il tronco viene scortecciato e squadrato; la seconda prevede una ulteriore lavorazione per ottenere semilavorati; infine nella terza fase i semilavorati vengono sottoposti a lavorazione per ottenere prodotti finiti.
Si fa molto uso anche dei derivati del legno. Il compensato si ottiene incollando fra loro un numero dispari di fogli di legno, in modo che i vari strati abbiano le fibre perpendicolari fra loro e questo conferisce ai pannelli un notevole aumento della resistenza.
I paniforti si ottengono da listelli a sezione quadrata o rettangolare incollati l'uno accanto all'altro e racchiusi tra due piallacci. Sono molto usati per la costruzione di mobili. Il tamburato si ottiene con un'intelaiatura in massello ricoperta da due strati di compensato. Si usa per la costruzione di porte. I pannelli truciolati si ottengono con gli scarti delle operazioni primarie. Si usano per la realizzazione di mobili e pannelli. Gli strumenti per la lavorazione del legno sono rimasti gli stessi degli artigiani del passato. Oggi abbiamo migliorato soltanto alcuni materiali costitutivi. E' possibile distinguere tra gli utensili per tagliare,  quelli per forare e quelli per levigare. Gli utensili per tagliare comprendono, in genere, vari tipi di seghe. Gli attrezzi per forare sono i trapani a mano ma per legni particolarmente duri si ricorre al trapano elettrico. Gli strumenti per lisciare sono le pialle.
Le grandi falegnamerie usano spesso macchine combinate, che riuniscono più lavorazioni. Esistono, comunque, macchine singole che eseguono le operazioni già menzionate. Anche nelle falegnamerie artigianali, inevitabilmente, si sta andando verso l'organizzazione di un sistema di lavoro integrato, basato su macchine a controllo numerico. Questi sistemi assicurano alta tecnologia e precisione.
Come ben sappiamo il legno è largamente usato anche nell'arte. Questo uso, infatti, ha origini remotissime, come è dimostrato dalle palafitte di epoca neolitica. I maggiori sviluppi dell'architettura lignea si sono avuti nei Paesi nordici, più ricchi di legname. Le applicazioni del legno all'architettura sono complesse e variate, estendendosi dal semplice uso sussidiario per costruzioni in altri materiali (ponteggi, armatura) alla realizzazione di strutture interamente lignee, in cui l'intelaiatura in legno ha la funzione portante. L'aspetto più notevole delle strutture interamente lignee è costituito dai diversi tipi di copertura: dal semplice solaio  (Egitto, Paesi a clima caldo) alla carena di nave (architettura islamica e romanica) o ai grandi soffitti piani riccamente decorati (Rinascimento e Barocco).
Naturalmente gli aspetti più originali e complessi dell'uso del legno si rintracciano nelle costruzioni ideate e interamente costruite in tale materiale, come ponti, archi di trionfo, opere militari di difesa.
L'uso del legno è antichissimo anche per ciò che riguarda la scultura. Questa, eseguita attraverso la tecnica dell'intaglio, scavando ciò nel materiale per mezzo dello scalpello, è infatti presente nella cultura occidentale fin dall'antichità classica. Si può affermare che i Greci e i Romani usavano il legno per immagini sacre. Lo sviluppo massimo della statuaria lignea si ebbe con l'arte romanica e poi con quella gotica, specialmente nelle regioni tedesche. Più della pietra il legno permetteva infatti giochi sottili di linee e di piani propri di tali sculture figurative. La cultura romanica, che faceva largo uso del legno per le statue, venne eseguita da quelle umanistica e rinascimentale. In quelle correnti idealiste l'uso del legno venne quasi completamente abbandonato per fare un maggiore uso del marmo. Nel Seicento venne nuovamente impiegato per i presepi napoletani e per gli altari spagnoli. Nel Settecento, infine, il legno venne usato diffusamente per statue di santi e angeli.
Uno dei Paesi maggiori esportatore di legname è il Brasile, il cui territorio "ospita" la Foresta Amazzonica. Il Brasile si trova in America Meridionale e confina con quasi tutti gli Stati del subcontinente. Il suo territorio è montuoso al centro e sulle coste orientali, mentre è pianeggiante a nord dove appunto è situata l'Amazzonia. La parte montuosa è costituita dagli altopiani del Mato Grosso, del Brasile e del Caatigas Sertão. La massima altitudine è raggiunta dal Pico da Bandeira che ha un'altezza di 2890 m. I fiumi hanno una grande portata d'acqua e sono il Rio delle Amazzoni, lo Xingu, il Tocantins, l'Araguaia e il Topajos. Il clima è arido sugli altopiani mentre è umido e di conseguenza piovoso a nord. Le coste in genere sono alte e rocciose a sud mentre a nord sono pianeggianti e un po' più articolate. La capitale è Brasilia ma questa città non è la più importante. La forma di governo è la repubblica federale presidenziale, formata da 26 stati, ciascuno retto da un'assemblea elettiva e da un Distretto Federale. Capo dello Stato e del Governo è il Presidente della Repubblica, eletto ogni 5 anni a suffragio universale, egli esercita il potere esecutivo. Le religioni professate sono la cattolica e la protestante. La lingua ufficiale è il portoghese anche se gli Amerindi preferiscono parlare idiomi propri. Dotato di un enorme potenziale di risorse umane e naturali, il Brasile è di gran lunga il più importante Paese dell'America Latina. Finito il periodo di sfruttamento da parte dei coloni portoghesi, il Paese ha rafforzato la propria economia, da un lato diversificando e consolidando le produzioni agricole, dall'altro avviando un poderoso processo di industrializzazione. Ma a parte questo impegno dei  Brasiliani, il Paese continua a presentare un assetto economico fondamentalmente subordinato al capitale straniero; ciò dà la misura della fragilità del sistema produttivo brasiliano, dovendosi tener conto che esso, date le ristrettezze del mercato interno, lavora essenzialmente per l'estero. Anzi proprio la ponderosa spinta all'industrializzazione, iniziata nella seconda metà degli anni '60 e che avrebbe potuto portare il Brasile ad acquistare un'autentica autonomia sulla scena mondiale economica, è sta indotta da investimenti esteri che qui hanno trovato, oltre naturalmente alle ingenti materie prime, manodopera abbondante e a basso costo.
L'agricoltura occupa il 26% della popolazione attiva e, pur disponendo di un'ampia superficie coltivabile, sfrutta solo il 9% dell'area disponibile. Inoltre la maggior parte dei territori è occupata da colture commerciali, mentre relativamente limitata è la superficie destinata a quelle alimentari, la cui produzione non basta alle necessità di una popolazione tanto numerosa. La situazione è anche il frutto di un sistema agrario di vecchia importazione, in cui la grande proprietà ancora dominante non viene sfruttata. Vi sono però anche grandi aziende agricole moderne in cui si coltivano caffè, canna da zucchero e cotone. Tra le colture predominanti ci sono anche la manioca, lo zucchero, le patate, i fagioli, il mais e il riso. Nettamente più importanti sono le colture da piantagione, per molte delle quali il Paese si colloca ai primissimi posti.
Il Brasile possiede un patrimonio bovino di 131 milioni di capi risultato in forte espansione e tra i più cospicui del mondo, mentre in minor peso ci sono anche ovini e caprini a cui si aggiunge il patrimonio equino. Notevole importanza presenta la pesca, che dà complessivamente 848.000 tonnellate di pescato.
Il Brasile si avvia a diventare una potenza mondiale: in particolare per il ferro è già il secondo produttore al mondo e i depositi amazzonici di Serras Carajas, che si affiancano a quelli di più antico sfruttamento del Minas Gerais, sono ritenuti i vasti del mondo. Molto cospicui sono anche i giacimenti di manganese, nichel, uranio, oro, diamanti e pietre preziose. Sono quindi presenti anche industrie estrattive, controllate però da società straniere. Non sono molto consistenti le fonti energetiche tranne per quelle idroelettriche alimentate dagli enormi corsi d'acqua presenti.
La maggior parte dei problemi dell'America Latina sono la conseguenza di quasi trecento anni di colonizzazione spagnola e portoghese.
Nel 1492 Cristoforo Colombo scoprì l'America, il Nuovo Mondo. Verso il 1500 i conquistadores spagnoli e portoghesi arrivarono in America Meridionale con l'intento di sfruttare al massimo le enormi ricchezze che quegli immensi territori offrivano loro. Con la colonizzazione ebbe inizio la tratta degli schiavi neri provenienti dall'Africa. Essi venivano catturati o comprati dai capi tribù in cambio di qualche cianfrusaglia inutile. Gli schiavi lavoravano nelle piantagioni e nelle miniere dei conquistadores e sostituivano le civiltà precolombiane già decimate a causa del durissimo lavoro e per le malattie portate dagli Europei di cui non disponevano di difese interne.  I coloni, poi, non si preoccuparono di sviluppare l'economia locale, ma si limitarono solo s sfruttare quelle ricchezze ottenute con la forza, portando i prodotti finiti in Europa. Ciò garantiva loro un alto guadagno. Altro problema che essi non si posero fu quello dei confini tracciati a tavolino, senza tener conto delle diverse popolazioni che venivano così a trovarsi a vivere insieme.
I primi moti sudamericani ebbero inizio nel 1810.La spinta per questi moti partì inizialmente da coloro i quali avevano strappato il potere politico dalle mani dei funzionari inviati dalla madrepatria. Di fronte al successo delle prime ribellioni, Ferdinando VII di Spagna inviò consistenti rinforzi militari e procedette alla più crudele repressione. A difesa degli insorti, si schierarono tanto l'Inghilterra, per motivi di interessi economici, quanto gli Stati Uniti, secondo il principio sostenuto dal presidente James Monroe e cioè che gli Europei non dovevano intromettersi nelle questioni americane come gli Americani non si intromettevano in quelle europee.
Il 9 luglio 1816 avvenne la Dichiarazione d'Indipendenza delle Provincie Unite della Plata (Argentina). Il Cile divenne libero nel 1818 e lo seguirono negli anni successi il Messico, il Brasile e il Perù.
Anche in Italia ci furono dei moti rivoluzionari. Le idee  di libertà si sentivano anche nelle opere degli artisti e dei musicisti. Proprio fra questi ultimi un musicista che si distinse per le sue idee liberali fu Giuseppe Verdi.
Infatti il nome di Verdi ci riporta al pensiero del Risorgimento italiano perché visse nei luoghi delle società segrete, intente in una lunga battaglia per conquistare l'unità d'Italia. Grazie alle sue opere teatrali, Verdi contribuì a infievolire l'animo dei combattenti. Quando andò in scena  alla Scala di Milano i Lombardi alla prima crociata, il pubblico si emozionò molto sentendo cantare quelle parole di libertà e i soldati austriaci che vigilavano il teatro erano un po' preoccupati.
Anche il suo cognome era una specie di messaggio in codice: infatti aveva il significato di Vittorio Emanuele Re Di Italia: V.E.R.D.I. Trovare su un muro il suo cognome indicava che lì si stava svolgendo una riunione delle società segrete; i soldati austriaci non potevano insospettirsi perché Verdi era il musicista più famoso d'Europa e trovarono normale leggere il suo nome sui muri.
Giuseppe Verdi nacque a Roncole di Busseto, in provincia di Parma. Figlio di povera gente, potè studiare grazie all'aiuto economico di un commerciante del luogo, Antonio Barezzi, sposandone in seguito la figlia Margherita. Egli aveva sempre creduto nelle straordinarie qualità possedute dal ragazzo.
Gli inizi della sua carriera furono duri. Tra l'altro, nel momento più critico, perdette nel giro di pochi mesi due figli e la moglie. Tuttavia, incoraggiato dal suocero e dalla cantante Giuseppina Streponi, divenuta poi la fedele compagna di tutta la sua vita, il suo genio non tardò ad imporsi.
Insieme a Wagner è il più grande compositore operista dell'Ottocento, e allo stesso tempo figura di rilievo, quasi un simbolo, negli anni del Risorgimento italiano. Le sue opere principali. Le sue opere principali sono: "Nabucco", "I Lombardi alla prima crociata", "Rigoletto", "Il trovatore", "La traviata", "L'Aida", "Othello", "Falstaff".
Morì a Milano nel 1901.
Durante la sua vita fu grande amico di Camillo Benso di Cavour e Alessandro Manzoni. Il primo gli propose di candidarsi come deputato: Verdi accettò anche se disse sempre di esservi stato costretto e dimettendosi non molto dopo la sua elezione, avvenuta in seguito ad un ballottaggio.
Di Alessandro Manzoni, Verdi fu grande ammiratore, non nascondendo la sua ammirazione per colui che riteneva il più grande scrittore di tutti i tempi.

 

Fonte: http://www.raniero.it/home/

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Fonte: http://appuntone.xoom.it/appuntone/AA/tesine.htm

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

LIVING PLANET REPORT 2008

“Abbiamo un solo Pianeta. La sua capacità di sostenere un’immensa diversità di specie, fra cui quella umana, è grande, ma essenzialmente limitata” questo è lo slogan del Living Planet Report 2008: documento redatto dal WWF in collaborazione con la Zoological Society of London e il Global Footprint Network. La ZSL è un’organizzazione internazionale, fondata nel 1862, che si occupa della conservazione della natura e dell’educazione ambientale, la cui missione è quella di ottenere e promuovere la conservazione delle specie animali e dei loro habitat a livello mondiale. Il GFN – il cui fondatore è M.Wackernagel – promuove un’economia sostenibile lavorando sull’Impronta Ecologica, sviluppando standard metodologici e fornendo a coloro che devono prendere delle decisioni resoconti sulle risorse naturali per aiutare l’economia umana a operare all’interno dei limiti ecologici della Terra.
Il Living Planet Report viene pubblicato per la prima volta nel 1998, data a cui seguono resoconti annuali che poi diventeranno biennali a partire dal 2000. In questi documenti vengono presentati i dati e le riflessioni relativi allo “stato di salute del Pianeta” che viene analizzato basandosi su tre indici: Living Planet index, Ecological Footprint index e Water Footprint index.
Il Pianeta Vivente è un indice che monitora lo stato della biodiversità nel mondo, analizzando i trends di 5000 popolazioni di 1686 specie. L’LPi è dato da due indici: uno relativo alle regioni tropicali e uno a quelle temperate. L’indice Tropicale è formato dalle popolazioni di specie terrestri e di acqua dolce presenti nell’emisfero meridionale, mentre l’indice Temperato include le specie dell’emisfero settentrionale.
L’LPi, dal 1970 al 2005, mostra un declino della biodiversità totale del 30%; l’indice Tropicale è diminuito di circa il 50%, mentre quello Temperato mostra piccole variazioni, quindi il calo è imputabile soprattutto all’indice Tropicale, che rivela una grave perdita di biodiversità, facendo apparire sempre più improbabile anche il raggiungimento dell’obiettivo della Convenzione sulla biodiversità, quello di ridurre entro il 2010 il tasso di perdita della biodiversità globale.
La diminuzione di biodiversità è legata principalmente alla distruzione degli habitat, ai cambiamenti climatici, alla pressione antropica sui vari ecosistemi e – soprattutto a livello equatoriale – alla deforestazione. La deforestazione, oltre ad essere una delle cause che porta alla scomparsa di specie, è responsabile di molti altri problemi: sia essi ambientali quali l’erosione dei suoli, sia esse sociali. A riguardo cito il caso della popolazione dei Pigmei che conta 250.000 abitanti della foresta equatoriale che si estende dal Camerun, alla Repubblica CentrAfricana, al Gabon, alla Repubblica Popolare del Congo, alla Repubblica Democratica del Congo, all’Uganda e al Ruanda. I Pigmei sono un popolo antico, in equilibrio con la foresta, si procurano tutto il necessario da ciò che offre loro la foresta, si cibano, costruiscono le loro capanne, i loro attrezzi per cacciare: "la foresta è la nostra casa; se lasceremo la foresta o se la foresta morirà, anche noi moriremo. Noi siamo il popolo della foresta" (Moke, anziano Mbuti). Risulta quindi evidente come la deforestazione minacci fortemente questo popolo che rischia l’estinzione ed è costretto ad abbandonare i propri territori per rifugiarsi nei pressi delle strade aperte dalle compagnie del legno, con rapida diffusione di fenomeni quali la prostituzione, l'alcolismo e la criminalità.
I Pigmei non hanno una forte organizzazione sociale, e questo li rende molto deboli in sede negoziale con le multinazionali del legname e con i governi, che, spesso corrotti, non riconoscono loro il diritto alla terra. Questo apre una riflessione sui conflitti sociali: tema poco trattato, ma che invece dovrebbe essere tenuto ben presente quando si parla di sostenibilità perché spesso manca la consapevolezza che dietro a problematiche come la deforestazione, l’estrazione di materie prime, etc…si nascondano realtà tragiche, frutto di forti interessi politici ed economici.
Un modo per contribuire positivamente alla gestione di questi conflitti potrebbe essere quello di acquistare prodotti certificati. Da anni ormai le campagne ambientaliste tentano di far affermare sempre di più il commercio responsabile, aprendo nuovi spazi di mercato alla domanda di legno prodotto in maniera sostenibile, di modo che i paese esportatori si orientino verso un miglioramento delle pratiche di gestione forestale. Purtroppo però, il concetto “sostenibile” non ha uguale significato per le industrie del legno e le associazioni ambientaliste, le prime considerano un’operazione "sostenibile" quando viene mantenuto un certo livello di produzione in una determinata area, mentre le seconde adottano un concetto più ampio di sostenibilità, incentrato anche su criteri sociali come le condizioni di lavoro, il rispetto dei diritti delle popolazioni locali e ambientali ad esempio l'impatto sulla biodiversità. Ma è forse proprio per questo che è necessario che si affermi sempre di più un commercio responsabile e a tale scopo sono sicuramente utili le varie certificazioni di gestione forestale sostenibile che assicurano ai consumatori di acquistare un prodotto proveniente effettivamente da foreste gestite in modo responsabile.
La gestione forestale è monitorata da un ente certificatore indipendente, sulla base di criteri e standard fissati in precedenza. Un esempio è il Forest Stewardship Council che e' un’organizzazione non governativa internazionale, indipendente e senza scopo di lucro, creata allo scopo di stimolare e certificare sistemi di gestione forestale sostenibile dal punto di vista ecologico, sociale ed economico. Il FSC include tra i suoi membri gruppi ambientalisti, comunità locali, proprietari forestali, industrie che lavorano e commerciano il legno, scienziati che operano insieme per migliorare la gestione delle foreste in tutto il mondo.

Un altro indice analizzato dal Living Planet Report è quello dell’Impronta Ecologica, concetto sviluppato a partire dal 1990 da M.Wackernagel, che misura “quanto l’umanità richiede alla biosfera in termini di terra e acqua biologicamente produttive necessarie per fornire risorse che usiamo e per assorbire i rifiuti che produciamo” (Bologna, 2008) e converte tutte le modalità di utilizzo delle risorse in un solo numero: la superficie di terra richiesta in ettari globali pro-capite. L’EF è quindi uno strumento di calcolo che semplifica un realtà complessa, permettendoci di stimare il consumo di risorse e l’assimilazione dei rifiuti da parte di una nazione, esprimendo il tutto in termini di superficie di territorio produttivo. Però proprio per il fatto che un solo numero indichi il nostro impatto sui sistemi naturali, ha aperto il dibattito sull’impiego dell’EF. Un altro punto controverso sull’utilizzo dell’EF riguarda il fatto che essa possa o meno essere utilizzata come un indicatore del livello di sostenibilità, infatti alcuni autori considerano l’EF come una semplice misura di stock, mentre sarebbe più importante analizzare i flussi di materia (Moffat, 2000), di fatto l’EF è una misura statica che non riesce a rendere la dinamicità stessa degli ecosistemi. Tuttavia, a mio avviso, questo metodo è molto importante per aumentare la consapevolezza del nostro impatto sull’ambiente e della nostra dipendenza dalle risorse naturali e come queste non siano illimitate. Oltre a questo sottolineo anche che al momento nessuno governo adotta un sistema di contabilità per valutare l’estensione dell’utilizzo umano delle risorse naturali rispetto alla capacità di fornire tali risorse da parte dei vari ecosistemi. Sarebbe quindi utile introdurre e istituzionalizzare nelle politiche economiche il metodo dell’EF, insieme anche ad altri indicatori, in relazione anche al fatto che si sta sviluppando sempre più la consapevolezza che gli indicatori economici come il PIL non sono più idonei da soli a rappresentare la situazione dei vari paesi: ignorare la disponibilità e i livelli di sfruttamento delle risorse sta diventando un rischio sempre più inaccettabile.
Riprendendo la definizione iniziale, l’EF è data dalla somma di tutti i terreni agricoli, i pascoli, le foreste e gli stock ittici che una nazione consuma e che sono necessari ad assorbire i materiali di scarto che il paese produce nel momento in cui utilizza energia e trasforma materia e necessari anche a fornire lo spazio per le infrastrutture. L’EF, però non prende in considerazione le risorse non rinnovabili, i prelievi d’acqua e l’inquinamento da radiazioni.
Dai dati del Living Planet Report, relativi al periodo 1961-2005, emerge come l’EF abbia superato la biocapacità – capacità di un territorio di fornire prodotti utili all’uomo e di assorbire i suoi rifiuti – totale della terra per la prima volta negli anni ’80 e da allora tale superamento stia andando sempre crescendo e continuando così nel 2030 avremo bisogno dell’equivalente di due pianeti per sostenere i nostri stili di vita. Nel 2005 la domanda ha superato l’offerta del 30% ed in particolare la domanda principale dell’umanità nei confronti della natura è stata quella dell’Impronta del Carbonio che dal 1961 è aumentata di dieci volte. Questo dato offre sunto per riflettere su che cosa potrebbe accadere se, ad esempio, il prezzo del petrolio aumentasse notevolmente.
Nel 2005 la biocapacità globale disponibile ammontava a 2.1 gha/cap (ettari globali pro capite), mentre l’EF mondiale era di 2.7 gha/cap, questo dato risulta dalla media di paesi con un’EF molto più bassa del valore della biocapacità mondiale, controbilanciati in senso negativo da nazioni con un’EF invece molto alta. A questa classe appartengono gli Emirati Arabi con un’EF pari a 9,5 gha/cap, gli Stati Uniti con 9,4 gha/cap, l’Italia con 4,8 gha/cap, mentre paesi come l’Etiopia, il Senegal, la Nigeria (circa 1,5 gha/cap) hanno EF inferiori alla biocapacità mondiale.
Relativamente alla biocapacità bisogna sottolineare che, sebbene paesi come gli Stati Uniti e la Cina detengano le prime posizioni in termini di biocapacità, sono dei debitori ecologici, cioè le loro EF superano le loro biocapacità interne, questo perché l’EF di una nazione è determinata dai suoi modelli di consumo e dalla popolazione, non dalla sua biocapacità.
La situazione dei creditori e dei debitori ecologici nel tempo si è molto modificata: nel 1961 quasi tutti i paesi possedevano una capacità più che sufficiente a soddisfare la proprio domanda interna, infatti erano molte le nazioni con un’EF minore della loro biocapacità e il mondo possedeva una significativa riserva ecologica; nel 2005, invece, la situazione cambia radicalmente e molti paesi sono in grado di soddisfare i loro bisogni solo importando risorse da altri paesi: sono diventati – così come l’umanità nel suo complesso – dei debitori ecologici. Tali nazioni riescono a mantenere il loro livello di consumi attraverso la combinazione di alcuni fattori: utilizzando risorse più velocemente di quanto non si rigenerino, importando materie e quindi facendo affidamento su biocapacità esterne ed infine servendosi dell’atmosfera, delle terre e dei mari del pianeta come discarica dei proprio rifiuti.
Per quanto riguarda l’Italia anche nel 1961 era in sua situazione di debito ecologico, mentre i paesi del Nord America, del Nord Africa e del Sud asiatico lo sono diventati successivamente; un caso eclatante è quello della Cina che, dal 1961, ha visto raddoppiare la popolazione e quadruplicare la domanda nei confronti del pianeta e ciò ha fatto si che nel 1970 la sua EF superasse la biocapacità interna ed ora la sua domanda ammonta al doppio della sua biocapacità. La Cina è solo una tra le tante nazioni che hanno più di quanto gli competa e ciò avviene a discapito delle altre che ne hanno di meno, questa è una conseguenza obbligata poiché il nostro pianeta è in grado di erogare solo servizi limitati.
Gli esempi di insostenibilità sono molti, ma in particolare ho voluto concentrarmi sul “caso Benetton”: un esempio di insostenibilità ambientale e sociale che si presta bene per evidenziare come siano molteplici i fattori in gioco e come questi siano interconnessi tra di loro a sottolineare l’importanza – quando si parla di sostenibilità – di avere una visione sistemica dei problemi e di essere consapevoli delle fitte relazioni tra di essi quando si parla di sostenibilità.
La Benetton è un’azienda italiana fondata nel 1965 che si occupa di moda, è presente in 120 paesi del mondo ed è proprietaria di diversi marchi: United Colors of Benetton, Undercolors of Benetton, Sisley, Playlife. L'azienda produce oltre 150 milioni di capi l'anno, con una rete di oltre 6200 negozi e un fatturato di oltre 2 miliardi di euro. La Benetton è oggi una delle più importanti multinazionali del comparto tessile-abbigliamento, anche se oramai i sui interessi spaziano in diversi settori: ristorazione, telecomunicazioni, immobiliare, sport.
In molte tesi economiche viene citato il suo sistema di produzione, basato sulla subfornitura e sulla la delocalizzazione, strategie considerate vincenti per riuscire ad essere competitivi sui mercati mondiali, tale modalità organizzativa comporta, infatti, un’accelerazione della produzione e nel contempo un abbattimento dei costi. L’abbattimento dei costi è dovuto a fattori come la flessibilità, l’assenza di tutele sindacali, l’impiego di manodopera in nero o sottopagata e ciò è per l’appunto dovuto alla strategia dell’azienda di ricorrere a piccole imprese contoterziste, in concorrenza l'una con l'altra, delocalizzate sia sul territorio italiano, sia in paesi come la Cina, l’India e la Turchia, dove risulta difficile operare dei controlli e dove manca ogni libertà sindacale.
Ad ogni impresa di subfornitura viene affidato il compito di svolgere una fase specifica della produzione, vi sono laboratori che si occupano della stiratura, altri dell'assemblaggio, altri ancora dell'imballaggio e così via; il far eseguire alle singole imprese solo una o al massimo due lavorazioni è per la Benetton un ulteriore modo di assicurarsi la dipendenza dei laboratori, poiché li pone nella condizione di non essere in grado di accedere direttamente alla commercializzazione, risulta quindi come la posizione dei terzisti sia assolutamente subalterna. Tutto questo comporta alcune gravi conseguenze: ad esempio l’allungamento della giornata lavorativa da 8 a 12 ore, “straordinario” che non sempre viene pagato come tale, non viene invece mai conteggiato come tempo di lavoro quello destinato alla pulizia delle macchine e dei locali, svolta regolarmente dalle dipendenti; oltre alla durata aumenta anche l'intensità con cui deve essere svolto il lavoro: per dare un'idea di come stanno le cose riporto l’espressione di una donna che è stata dipendente di un laboratorio Benetton per 7 anni: "testa bassa e via". I ritmi sono elevatissimi e  con grande difficoltà si riesce a rispettarli e questo, oltre che un affaticamento fisico, comporta anche un notevole stress psicologico, come conferma la frase di una ragazza che ha lavorato in due diversi laboratori Benetton per 17 anni: "Diciamo che lavorando per Benetton sei stanca. No, più che stanca sei stressata, perché hai sempre la paura di non farcela".
Per quanto riguarda le condizioni di lavoro derivanti dalla delocalizzazione produttiva all’estero, riporto il riferimento a tre casi di cronaca: “l'8 marzo 1997 a Cavite nelle Filippine, all'età di 35 anni e dopo 11 giorni di agonia, moriva Carmelita Alonso. La storia di questa giovane donna, madre di 5 bambini, è diventata l'emblema dello sfruttamento perpetrato dalle multinazionali della moda, e in particolare dalla Benetton, nei confronti delle lavoratrici del terzo mondo. La morte è sopraggiunta dopo che Carmelita ha lavorato ogni giorno dal lunedì al sabato per 14 ore, più 8 ore la domenica, per un salario corrispondente a 10.000 lire al giorno. Carmelita era impiegata nella VT Fashion, impresa di Taiwan, dove il 90% dei dipendenti sono donne di età compresa tra i 17 ed i 30 anni. L'azienda è risultata essere contoterzista della Benetton. L'uccisione di Carmelita le è costata solo un'ammenda di circa 200.000 lire”.
Il secondo caso è quello relativo ad un articolo comparso sul Corriere della Sera il 12 ottobre 1998, a firma di Riccado Orizio, che denuncia lo sfruttamento del lavoro minorile in Turchia da parte della Benetton, raccontando le vicende di Ozcan Badat, 12 anni, Mehmet Kocak, 11 anni, Econ Yildlirim, 13 anni, bambini di origine curda, costretti a cucire jeans, per l'equivalente di 6.000 lire a giornata, nella fabbrica Bermuda che produce abbigliamento a marchi Benetton.
La Benetton è stata inoltre accusata, nel 2003, di avere acquistato in Argentina ettari di terra dal popolo Mapuche, costringendolo a vivere in una striscia di territorio sovraffollato e a diventare spesso manodopera a basso costo.
Questi sono esempi di come la Benetton approfitti dell'estremo bisogno di lavoro e ignori anche i diritti più elementari dell’uomo.
Queste delicate questioni sociali accompagnano anche problemi ambientali, in particolare legati alla produzione del cotone e alle fasi di lavorazione che dalla materia prima ottengono il capo di abbigliamento confezionato e pronto per la distribuzione.
Il cotone, ad esempio, viene coltivato in vaste estensioni di monoculture che presuppongono un impiego di enormi volumi d’acqua: si pensi che per produrre una maglietta di cotone sono necessari 2700l d’acqua. Le monoculture comportano anche l’uso massiccio di fertilizzanti con conseguenti problemi ecologici come l’eutrofizzazione, significano anche deforestazione che comporterà sia problemi ambientali come l’ erosione suoli che a sua volta si ripercuote sulla coltivazione, e sia sociali: in Brasile molti popoli che abitano la foresta vengono cacciati per ricavare terreni per l’agricoltura.
Il cotone subirà una serie di fasi di lavorazione che comportano flussi di energia e trasformazioni di materia, con produzione di rifiuti a cui sono legati problemi di stoccaggio e smaltimento, ad esempio l’acqua impiegata nelle fasi di lavorazione alla fine del processo dovrà essere depurata perché molto ricca di sostanze chimiche inquinanti.
Da non dimenticare i problemi di salute: in Italia si registrano 60.000 casi di dermatiti da contatto dovuti ai capi di abbigliamento per la produzione dei quali sono state impiegate sostanze chimiche nelle fasi di produzione. Una volta ottenuto il prodotto confezionato, questo poi dovrà essere trasportato nei vari negozi, il che vuol dire consumo di combustibili fossili per il trasporto con emissioni in atmosfera di gas inquinanti.
Molti sono gli esempi analoghi al “caso Benetton” ai quali, per fortuna, si contrappongono esempi di responsabilità ambientale e sociale come la Rajlakshmi Cotton Project: impresa fondata nel 1934 a Calcutta per la manifattura di tessuti e articoli in cotone, che, dal 2001, è impegnata nella riconversione della filiera verso una produzione organica ed è aiutata in questo anche da Greenpeace che ha scelto di acquistare per le sue attività magliette in cotone organico, promuovendo così il commercio equo  e solidale.
La coltivazione organica sicuramente presenta dei vantaggi rispetto alle coltivazioni tradizionali o di cotone BT (tipologia di cotone geneticamente modificata con il Bacillus Thuringiensis, batterio produttore di tossine letali per numerosi insetti):

  • non impiega fertilizzanti chimici, ma favorisce i fertilizzanti naturali come le leguminose che a livello radicale instaurano rapporti simbiotici con batteri azoto-fissatori;
  • punta a ripristinare la fertilità del suolo attraverso l’uso di compost organico prodotto localmente;
  • abbandono delle monoculture in favore di colture alternate;
  • impiega pesticidi “naturali” e non di sintesi, ad esempio richiamando, mediante rilascio di feromoni, i predatori degli insetti-pests del cotone;
  • permette agli agricoltori di non dipendere dall’acquisto di input (sementi, fertilizzanti, pesticidi) e così facendo si spezza la catena di indebitamento che li subordina agli interessi delle multinazionali;
  • l’indumento organico riduce il rischio di dermatiti da contatto;
  • inoltre tutto il processo di lavorazione del cotone è certificato da Skal: ente di certificazione olandese specializzato in produzioni organiche.

La Rajlakshmi Cotton Project è anche esempio di sostenibilità sociale in quanto ha adottato il Codice di Condotta della Clean Clothes Campaign: campagna internazionale che si occupa di diritti del lavoro nel settore tessile in collaborazione con i sindacati, le istituzioni e le imprese, garantendo un lavoro dignitoso lungo tutta la filiera produttiva.

Infine l’ultimo indice è quello dell’Impronta Idrica che valuta il volume di acqua impiegata per i consumi della popolazione, in particolare calcola il volume totale di acqua necessario a produrre beni e servizi. L’WF deriva dall’Impronta Idrica Interna, cioè la quantità d’acqua usata per beni e servizi prodotti e consumati internamente al paese e dall’Impronta Idrica Esterna che corrisponde alla quantità d’acqua utilizzata per la produzione dei beni nel paese esportatore.
Quello dell’WF è un concetto nato negli anni ’90 insieme all’Impronta Ecologica, ma che viene inserito solo nel 2008 come terzo indice nel Living Planet Report. Ciò, molto probabilmente, è dovuto al fatto che i dati relativi ai consumi e ai flussi d’acqua sono molto recenti, basti pensare che uno dei primi lavori su questo argomento risale al 2002 quando Hoekstra e Hung introducono il WF come indice aggiuntivo ai tradizionali indici di consumi idrici che calcolano semplicemente i prelievi d’acqua per uso domestico, agricolo e industriale. Queste tre tipologie forniscono semplicemente una stima dei prelievi d’acqua distinti per ogni settore all’interno di una nazione, riducendo il problema ai confini del paese; ma in un’economia globale, caratterizzata da confini ampliati e da una fittissima rete di commerci bisogna essere in grado di valutare anche i volumi d’acqua impiegati per produrre i beni di commercio. Si passa così al concetto di Virtual Water, introdotto da Allan nel 1993, che rappresenta i volume d’acqua richiesta per produrre una merce, un prodotto o un servizio. Si deduce quindi che la rete di commerci comporta flussi di virtual water che influenzeranno l’WF di una nazione a seconda delle esportazioni e delle importazioni. In particolare il paese importatore avrà un’WF aumentata rispetto alla nazione esportatrice e più aumentano i passaggi di trasformazione della materia, maggiore è il contenuto di virtual water del prodotto finito e maggiore sarà anche l’WF del paese importatore.
Un caso tipico è quello del commercio delle arance tra la Spagna, la Germania e la Svezia. Le arance, come tutti gli agrumi, necessitano già di per sé di un elevato quantitativo d’acqua che però viene aumentato durante le varie fasi di lavorazione per poi ottenere il succo di frutta. In particolare le arance vengono coltivate in Spagna e qui assumono un valore di virtual water pari a x, poi vengono esportate in Germania, trasformate in succo di frutta che viene esportato in Svezia. La Svezia vedrà aumentata la sua WF di un valore di x+y, in quanto durante lo step in Germania le arance hanno subito una serie di processi di lavorazione che hanno richiesto un certo quantitativo y d’acqua che si sommerà al valore x di virtual water che le arance possedevano in Spagna.
L’Impronta Idrica viene espressa in m3 (o litri) pro capite all’anno (m3/cap/yr), la media mondiale è di 1240 m3/cap/yr, con molti paesi dai valori elevati come gli Stati Uniti al primo posto con 2500 m3/cap/yr , l’Italia è al quarto posto con 2332 m3/cap/yr, mentre India (980 m3/cap/yr) e Cina (700 m3/cap/yr) fanno parte di quelle poche nazioni con un basso valore di WF. Queste differenze vengono spiegate principalmente da quattro fattori: il volume dei consumi, la tipologia dei consumi, le tecniche agricole e il clima.
Per quanto riguarda il volume dei consumi nei paesi più ricchi i consumi sono elevati, con volumi di importazioni notevoli che come risultato aumenteranno il valore dell’WF della nazione.
Oltre al volume si deve anche considerare la tipologia dei consumi, in quanto ci sono prodotti che richiedono un quantitativo elevato d’acqua, creando una pressione maggiore sulle risorse idriche. L’alimentazione è un tema che si presta bene ad alcuni esempi, infatti molti sono i cibi con un elevato valore di virtual water, in particolare le carni sono prodotti ad elevata intensità idrica: 1 kg di manzo “usa” 15.500l di acqua. Ne consegue che paesi che si basano su una dieta carnivora avranno WF elevate, rispetto a quelle nazioni come la Cina e l’India dove la dieta è a base di riso (3400l d’acqua per 1 kg). Nasce quindi una riflessione sulle nostre abitudini alimentari che, a mio avviso, sono un esempio di come il cittadino, orientando i propri consumi,  possa contribuire ed essere direttamente partecipe alla sostenibilità; infatti – senza dimenticare che per perseguire obbiettivi di sostenibilità è necessario ragionare in termini collettivi – ci sono molteplici esempi di atteggiamenti virtuosi che possono essere svolti dal singolo per contribuire alla sostenibilità.
Il terzo fattore è quello delle tecniche agricole: le nazioni con un buon grado di sviluppo tecnologico possiedono tecniche agricole più efficienti rispetto alle pratiche “water inefficient”, ciò fa si che per avere la stessa resa produttiva nei paesi con tecnologie avanzate – come sistemi di irrigazione computerizzati che si attivano in precisi momenti grazie a  timer – si impieghi un minor quantitativo d’acqua. Questo fattore può spiegare, in parte, l’elevato valore dell’WF della Tahilandia (2223 m3/cap/yr) che, nel periodo compreso tra il 1997 e il 2001, ha avuto un produzione media di riso di 2.5 ton/ha, valore al di sotto della media mondiale che si aggira intorno a 4 ton/ha.
L’ultimo fattore è quello climatico: aree di clima caldo saranno caratterizzate da un elevato tasso di evaporazione e quindi dovranno impiegare un maggior quantitativo di acqua per le pratiche agricole, ad esempio per l’Italia occorrono 1679 m3 di acqua per produrre una tonnellata di riso, mentre il Brasile necessita di 3082 m3.
Si può quindi osservare come i fattori descritti influenzino in maniera diversa l’WF delle diverse nazioni: se consideriamo le tecniche agricole e il clima i paesi più ricchi, con tecnologie avanzate, riducono gli sprechi di acqua, cosa che non accade nei paesi più poveri dove spesso si impiegano macchinari “water inefficient”; associando a ciò il fatto che spesso molti di queste nazioni si trovino in regioni climatiche che favoriscono l’evaporazione, si comprende come questi paesi abbiano valori elevati di WF. Situazione opposta per il volume e la tipologia dei consumi che sono i due fattori responsabili dell’alta WF dei paesi più ricchi, caratterizzati da consumi “esasperati” e con un alto contenuto idrico; viceversa  dove i consumi sono ridotti e la tipologia propende verso prodotti a bassa intensità idrica – come nei paesi più poveri – l’WF è bassa.

In conclusione il Living Planet Report può essere un buono strumento divulgativo per capire meglio ciò che sta accedendo al Pianeta e per assumere consapevolezza che noi non siamo esterni al sistema Natura, ma ne siamo parte integrante ed è quindi nostro compito preservare le risorse che Essa fornisce. È importante comprendere che è dalla stabilità ecologica che dipende il nostro futuro ed è per questo necessario tendere verso un modello di vita sostenibile.

 

Bibliografia e sitografia

Desirò, 2007, Water Footprint

Greenpeace, 2001, L’industria del legno in Africa: impatti ambientali, sociali ed economici

Hoekstra A.Y., Chapagain A.K., 2007, Water footprints of nations: Water use by people as a function of their consumption pattern. Water Resour Manage

http://landsofshadow.medialighieri.it/griot/pigmei/pigmei.htm

it.wikipedia.org

Wackernagel M., Rees W., 2008, L’impronta ecologica. Come ridurre l’impatto dell’uomo sulla terra. Edizioni Ambiente

www.faircoop.it/equofelpe/pdf/RCP.pdf

www.unibg.it/dati/corsi/52033/20913-caso%202.pdf

www.waterfootprint.org

www.wwf.it/UserFiles/File/News%20Dossier%20Appti/DOSSIER/Sostenibilit/LivingPlanetReport2008_def2.pdf

www.wwf.it/UserFiles/File/News%20Dossier%20Appti/DOSSIER/Sostenibilit/impronta%20ecologica%20Cina_2008.pdf

 

fonte: http://www.personalweb.unito.it/elena.camino/FSNoemi%20living%20planet.doc

autrice : Noemi Canevarolo                                                                       
Corso di Fondamenti di Sostenibilità
Anno 2009/10

 

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