Groenlandia

 

 

 

Groenlandia

 

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LA VERDE GROENLANDIA

 

Il suo paesaggio sembra avere essenzialmente tre colori: bianco, nero e blu, con il bianco predominante. Le sue coste infatti si ergono a strapiombo sul mare delimitando un altopiano ghiacciato che ricopre la maggior parte dell’isola e che costituisce la mole di ghiaccio più grande del mondo dopo quella dell’Antartico. Solo qua e là si possono avvistare altri due colori: zone marroni di ghiaia e il verde pallido delle aree coperte di muschi e licheni. 
E allora perché questo nome, che in antico norvegese significa ‘terra verde’?  Si racconta che Erik il Rosso (fondatore di questa colonia vichinga) abbia coniato tale nome a scopo d’inganno, per allettare altri compagni a seguirlo nella sua spedizione. L’isola attorno al 1000 d.C.era abitata da 5.000 persone.
In realtà, anche se il 99% del territorio è inabitabile esistono delle aree verdi sulla costa sudoccidentale: due fiordi lunghi e stretti s’inoltrano così profondamente nell’entroterra da non risentire del freddo delle correnti oceaniche, degli iceberg, degli spruzzi di acqua salata e del vento. Qua e là di possono trovare zone di terreno pianeggiante e pascoli adatti all’allevamento del bestiame. Per quasi 500 anni, tra il 984 e la metà del 1400, questi luoghi costituirono il più remoto avamposto della civiltà europea. Fu qui che gli scandinavi, a 2500 km dalla madrepatria, costruirono chiese, scrissero testi in latino e in antico norvegese, fecero uso di strumenti di ferro, allevarono gli animali, seguirono le tendenze della moda europea e alla fine scomparvero.
Il mistero dei vichinghi è reso ancora più fitto dal fatto che essi condividevano il territorio con un altro popolo, gli inuit (cioè gli eschimesi). I norvegesi scomparvero, mentre i discendenti degli inuit sono ancora lì, a dimostrazione del fatto che la sopravvivenza in Groenlandia non è impossibile e che la fine dei norvegesi non era inevitabile. Del resto 300 anni dopo la scomparsa dei norvegesi, nel 1721, i danesi riconquistarono la Groenlandia e la tennero fino al 1979, quando gli inuit ottennero l’autonomia.

Com’era l’ambiente in cui nacque, prosperò e crollò la colonia norvegese?
Gli insediamenti erano due, ad una latitudine più a sud dell’Islanda, paragonabile a quella di Bergen, in Norvegia. La Groenlandia però ha un clima più rigido perché la sua costa risente di una corrente artica, per cui in definitiva il clima è freddo, variabile, ventoso e nebbioso. Le temperature medie estive sono di 5-6° sulla costa meridionale e 10° all’interno dei fiordi. Spesso la navigazione è impossibile e non esistono strade che colleghino tra loro i centri principali. Hanno contatti costanti solo le comunità che si trovano sulla stessa sponda dello stesso fiordo.
Il clima è anche assai variabile da un anno all’altro e questi cicli hanno effetto sulla crescita del fieno e sulla quantità di ghiaccio marino, che a sua volta ostacola o favorisce la caccia alle foche ed i commerci via nave.
I due insediamenti erano posti a 500 km di distanza: come era la situazione climatica al tempo dello sbarco vichingo? E come mutò nel corso di cinque secoli?
Possiamo ricavare informazioni da documenti scritti, dallo studio sui pollini e dal carotaggio del ghiaccio. Diari, lettere e cronache dell’epoca ci narrano del clima in Islanda e le due isole hanno vicende climatiche simili. Se leggiamo di annate in cui il mare intorno all’Islanda era pieno di iceberg, sappiamo che la situazione doveva essere analoga in Groenlandia e rendere difficili i contatti con la madrepatria.
Lo studio dei pollini trovati nei sedimenti prelevati nei laghi e nelle paludi ci dice che i pollini di piante abituate a climi più caldi sono scomparsi in favore di quelli resistenti al freddo e questo significherebbe un raffreddamento del clima. Ma le informazioni più importanti ci giungono dalle carote di ghiaccio: al posto degli anelli arborei un grande aiuto viene dagli strati di ghiaccio, grazie a cui possiamo risalire alla quantità di precipitazioni annue. Sappiamo a questo punto che il clima diventò più caldo dopo la fine dell’ultima glaciazione, circa 14.000 anni fa e ciò consentì la nascita di foreste di alberi di piccola taglia; dunque la storia dell’Artico, Groenlandia compresa, ha visto importanti fluttuazioni climatiche, ha visto popoli arrivare, migrare o cambiare stili di vita  perchè le modificazioni del clima avevano mutato la disponibilità delle specie da cacciare.

I Vichinghi non incontrarono inizialmente alcuna popolazione locale (gli indigeni americani –gli inuit- avevano lasciato l’isola poco prima del loro arrivo nel 980 d.C.), ma poi il clima caldo permise anche agli inuit, provenienti dall’Artico canadese, di passare in Groenlandia verso il 1200. Infatti sappiamo che tra l’800 e il 1300 (il “periodo caldo medievale”), il clima fu simile a quello attuale, se non più caldo. Verso il 1300 però si verificò la “piccola glaciazione” che durò fino al XIX sec.
Si pone però la domanda: perché i norvegesi non si adattarono al freddo osservando gli inuit e imitando le strategie con cui essi affrontavano con successo le stesse difficoltà?

Quali specie di piante e di animali vivevano a quel tempo sull’isola? Vi erano erba da pascolo, brughiera costituita da arbusti nani, radi boschi di betulle,salici e ginepri.
La fauna selvatica era costituita da caribù, orsi polari, lupi, lepri, volpi, foche, trichechi, pesci in abbondanza e uccelli.
I coloni avevano sperato inizialmente di dedicarsi alla caccia e di poter continuare ad allevare mucche, maiali, pecore, capre e cavalli, come avevano fatto nella madrepatria, ma questa situazione non era adatta all’ambiente della Groenlandia. I maiali, che prosperavano nei boschi di Norvegia ricchi di ghiande, risultarono distruttivi nel nuovo ambiente povero di alberi e in pochi decenni si estinsero. I cavalli erano tenuti per soma e traino, mentre la religione vietava l’uso delle loro carni. Le mucche potevano pascolare solo nei tre mesi estivi e poi, al chiuso delle stalle, erano nutrite con fieno e foraggio raccolto in continuazione dai coloni. Tale allevamento richiedeva quindi inutili fatiche, ma non scomparve perché i bovini erano segno di prestigio sociale.
Al contrario delle mucche, pecore e capre scavavano nella neve per procurarsi l’erba in inverno ed ancora oggi in Groenlandia gli ovini possono esser tenuti all’aperto per nove mesi all’anno. Tutti questi animali erano allevati più per il latte che per la carne.
L’intera popolazione, per sfamare le mucche e in parte le capre, si dedicava sul finire dell’estate a tagliare, asciugare e ammassare il fieno e sulla base della quantità di foraggio accumulato decideva quanti animali dovessero esser macellati.
Oltre ai latticini ci sia alimentava grazie alla carne di foche, caribù e piccoli mammiferi. E il pesce? Nei siti archeologici groenlandesi i resti di pesce sono quasi assenti,così come ami, lenze e reti, eppure i coloni discendevano da popoli dediti fortemente alla pesca, la  zona era ed è pescosa (il pesce è oggi la principale esportazione della Groenlandia) e gli inuit si nutrivano regolarmente di pesce.
Forse la popolazione vichinga potrebbe avere sviluppato un tabù alimentare nei confronti del pesce, del resto ogni cultura ha tabù di vario genere. Ciò dipende dal fatto che la carne e il pesce sviluppano batteri più facilmente dei cibi vegetali e quindi possono provocare malattie o intossicazioni.
I coloni organizzarono quindi un’integrazione economica basata sull’allevamento e la caccia, ma le variabili erano molte: scarsa/regolare produzione di foraggio, inverno lungo, calo delle foche, succedersi di annate cattive …

 

La società groenlandese era caratterizzata da: 1) condivisione, 2) violenza, 3) gerarchia, 4) conservatorismo, 5) eurocentrismo.
1: la cooperazione era essenziale per la caccia alle foche ed ai caribù, per la raccolta del fieno, per la costruzione di edifici in pietra; era dunque una società controllata, in cui i capi delle fattorie più ricche operavano scelte per la collettività.
2: la violenza: diverse evidenze archeologiche testimoniano di una società violenta, così come le vicissitudini narrate da un vescovo groenlandese
3: vi era un’organizzazione sociale gerarchica per cui un ristretto numero di capi, che possedevano le fattorie più ricche dominava su tutti.
4: proprio come gli islandesi erano poco inclini al cambiamento, infatti nel corso dei secoli non si verificarono molti mutamenti nello stile degli strumenti e dei prodotti intagliati, inoltre la pesca fu presto abbandonata e non impararono a cacciare le balene come gli inuit.
In effetti si resero conto con timore che un qualsiasi cambiamento apportato a quel fragile equilibrio ambientale aveva più probabilità di peggiorare che di migliorare le cose.
5:dall’Europa i groenlandesi importavano beni materiali, attraverso gli scambi commerciali, ma soprattutto derivavano la loro identità di cristiani e di bianchi.
Nel medioevo il viaggio Norvegia - Groenlandia durava una settimana ed era pericoloso. Dunque l’isola doveva essere autosufficiente almeno per le risorse alimentari. Venivano importati il ferro, il legno di buona qualità, il catrame, il miele e il sale, infine beni di lusso per la Chiesa e le fattorie più ricche. Si esportavano: avorio e pelli di tricheco, orsi polari vivi o le loro pelli, zanne di narvalo e girifalchi.
Il commercio con la Groenlandia avveniva attraverso i porti norvegesi di Bergen e Trondheim Tutto ciò confermava i groenlandesi nella loro identità europea e l’imitazione si estendeva perfino ad oggetti di uso domestico ed ai vestiti (non molto adatti al loro clima freddo!)

Inizialmente i groenlandesi prosperarono perché colonizzarono un territorio vergine, arrivarono in un periodo di clima più mite, il ghiaccio non ostacolava le comunicazioni con la madrepatria, vicino ai loro insediamenti non vivevano popolazioni ostili. Ma tutti questi vantaggi a poco a poco svanirono, per cause spesso umane.
Furono tre le azioni umane che ebbero un impatto disastroso sull’ambiente: la deforestazione, l’erosione dei suoli e l’asportazione della copertura erbosa.
Bruciarono boschi per creare terreni da pascolo, per procurarsi legna da costruzione e da ardere. Conseguenze: in mancanza di legno dipendevano dal legno alla deriva che la corrente trasportava o da tronchi importati dalla Norvegia, usarono la torba per la costruzione di case, non si adattarono mai , come gli inuit, a usare grasso di balena per riscaldamento e illuminazione. Mancando la legna da ardere avevano difficoltà a lavorare il ferro, poiché il suo processo d’estrazione richiedeva temperature elevate, per cui si adattarono a lavorare chiodi legno o di corno e a riutilizzare ogni parte di metallo. La carenza di ferro causò la presenza di una minore quantità di strumenti agricoli e di quelle armi che fino a quel momento avevano dato un vantaggio militare sugli inuit.
Il disastro ambientale fu totale quando asportarono le zolle di torba dal terreno ( si diceva “scuoiare i campi” ) per usarle come combustibile e per costruire le case le cui pareti erano spesse fino a 2 metri. Inoltre con il taglio della copertura vegetale arborea, pecore e capre brucarono tutta l’erba – che si rigenera lentamente nel clima dell’isola - , il terreno era così esposto agli agenti atmosferici, il suolo trascinato via dalle piogge e intere valli furono messe a nudo.

Gli inuit
In un manoscritto del XV sec. si legge: ‘ Più al nord, di là degli insediamenti norvegesi, i cacciatori si sono imbattuti in individui di corporatura minuta, che essi chiamano skraeling (miserabili). Se vengono colpiti superficialmente, le loro ferite diventano bianche e non sanguinano, ma quando sono colpiti a morte, sanguinano senza posa. Non hanno ferro, ma usano per proiettili le zanne di tricheco e pietre affilate come strumenti di lavoro’
Gli europei non riuscirono mai a stabilire buone relazioni con i loro vicini. Certamente si incontrarono ( si sono ritrovate 9 figure umane intagliate dagli inuit che rappresentano degli europei, come si comprende dalla pettinatura, dagli abiti e dalla presenza di un crocifisso), ma nei siti vichinghi non sono stati trovati oggetti inuit come arpioni, fiocine, kayak o umiak. Se vi fu un’attività commerciale fra le due comunità fu basata sullo scambio di zanne di tricheco che gli inuit sapevano procacciarsi facilmente e che per i norvegesi erano un prezioso prodotto da esportare. Ed essi videro certo le leggere imbarcazioni di pelle di foca e i sofisticati metodi di caccia inuit.
Ma è probabile che gli ostacoli culturali impedissero i matrimoni misti, gli scambi d’informazioni e di tecniche. Inoltre i norvegesi si consideravano i veri abitanti originari della Groenlandia e vedevano gli altri come intrusi. E’ probabile che nei confronti degli inuit i norvegesi avessero dei pregiudizi (barbari-pagani), avessero la tentazione di uccidere e derubare, avessero difficoltà a intraprendere relazioni commerciali e sociali.

La fine della colonia norvegese è rimasta un mistero rispetto alle sue cause prossime, agli eventi scatenanti, ma le cause lontane sono certe: 1)l’impatto umano sull’ambiente; 2) il cambiamento climatico; 3) il venir meno dei contatti con la madrepatria; 4) l’ostilità degli inuit; 5) l’atteggiamento conservatore della società.
Non sappiamo con certezza la data in cui i due insediamenti cessarono di esistere, ma ai primi del 1400 il clima si fece più freddo e tempestoso e non si hanno più notizie di viaggi in Groenlandia.
Le tradizioni orali degli inuit raccontavano di un succedersi di periodi di lotta e di pace tra i nativi e i norvegesi. Certamente il crollo – derivante da tutte le cause di cui si è parlato - sopraggiunse bruscamente: la società norvegese era come un castello di carte in precario equilibrio, sempre esposta al rischio di tracollo.
Comunque i norvegesi erano meglio attrezzati degli stessi inuit a sopravvivere in Groenlandia, a patto che avessero imparato a pescare ed  a cacciare le balene. Non aver sfruttato queste risorse fu una loro scelta.
Tuttavia i coloni erano legati alla Norvegia per lingua, religione e cultura, gli stessi fattori che tennero legati per molti secoli gli americani e gli australiani all’Inghilterra. E se la società groenlandese non fosse stata cementata da questi valori, non sarebbe stata possibile quella stretta collaborazione che la fece sopravvivere per secoli.
I norvegesi, come gli altri cristiani europei del medioevo, consideravano inferiori i popoli pagani non europei e, per mancanza di esperienza non sapevano quale tipo di relazione fosse meglio instaurare con loro; anche per questo i norvegesi si rifiutarono d’apprendere le tecniche inuit e l’inimicizia dei nativi nei loro confronti fu probabilmente una conseguenza di questo atteggiamento di totale disprezzo.
Per i 5 secoli successivi alla fine della colonia l’isola non ebbe più animali d’allevamento, tanto più che gli inuit non ne possedevano Oggi vi sono 65 allevamenti di pecore e in realtà sono ricominciate le pratiche di pascolo eccessivo. Ma è stata fondata una stazione sperimentale per studiare gli effetti del pascolo sull’ambiente, le popolazioni locali hanno stabilito di tenere le pecore al chiuso durante l’inverno e ci si è sforzati di aumentare la produzione di fieno e foraggio.
Resta il fatto che anche per una società moderna sarebbe difficile sopravvivere alle fluttuazioni selvagge del clima,  in Groenlandia: ancora oggi l’isola non è autosufficiente, dipende in modo essenziale dagli aiuti danesi e dell’Unione Europea.
(adattamento da J. Diamond, Collasso, Come le società scelgono di morire o vivere)

 

Fonte: http://www.donmilanicolombo.com/Unita_Didattiche_strutturate/materiali/Collapse_Strumenti_materiali_Colonizzazione_Groenlandia.doc

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 


 

Groenlandia

 

LE ZONE POLARI

La presenza del ghiaccio  e le condizioni estreme che caratterizzano le zone polari hanno indotto da sempre a classificarle come zone difficili per gli organismi che devono adattarsi a viverci. Tuttavia lo studio della vita in questo ambiente ha rivelato una notevole ricchezza quali e quantitativa di specie vegetali ed animali. Il pack, lungi dall’essere un ostacolo, è risultato un’importante protezione per tutti gli organismi e funziona addirittura da “casa per il plancton” durante i lunghi mesi invernali.

Link su  Nave rompighiaccio in navigazione

 

 

Links sulle Zone Polari
Geografia delle zone polari
Confronto fra le zone  polaril

 (a)


Reti Trofiche: (a) dei mari artici e (b) dei mari antartici (v. Links)

(b)


MORFOLOGIA E CIRCOLAZIONE  DEL MAR ARTICO

 

L'Artide è costituita da un oceano profondo oltre 4000m ma chiuso per gran parte del suo contorno dalle coste settentrionali dei continenti dell'emisfero boreale. L morfologia del bacino è complessa: al centro si sviluppano dorsali  (lomonosov Ridge, Gakkel Ridge) che suddividono il Mar Artico in sub-bacini la cui morfologia condiziona il movimento delle correnti.
Lo Stretto di Bering è un varco di comunicazione che si apre sul Pacifico Settentrionale, profondo però circa 45m e fronteggiato dall'arco delle Isole Aleutine, limitazione importante  questa, per lo scambio di acque profonde.
La comunicazione con l'Oceano Atlantico è invece più articolata ed è quella di maggior entità. Ad est della Groenlandia si apre il varco più ampio attraverso lo Stretto di Fram,  mediato dai mari di Groenlandia e di Norvegia a nord dell'Islanda. Ad ovest della Groenlandia la circolazione delle acque avviene filtrando attraverso gli innumerevoli passaggi del fitto arcipelago a nord del Canada, confluendo poi nella Baia di Baffin prima di attraversare lo Stretto di Davis e arrivare nel mare del Labrador.
Nel Mar Artico sfociano numerosi corsi d’acqua sia nel nord dell’Asia sia nel Nord America, che sversano acque provenienti dall’entroterra anche abitato
Gran parte del ghiaccio che si forma nell'oceano artico resta all'interno del bacino per tutto l'anno. Solo il 10% migra attraverso lo Stretto di Fram, tra la Groenlandia e le Spitzbergen. La parte centrale del Mare Artico è perennemente ricoperta dai ghiacci e gran parte del ghiaccio è poliennale, diversamente dai ghiacci del pack antartico che si sciolgono e si riformano ogni anno. Anche dove il Mare Artico è permanentemente coperto dal pack, la banchisa si muove in continuazione spinta dai venti e dalle correnti, rendendola instabile. Le onde ed il vento inoltre hanno l'effetto di fratturare la banchisa ed accatastare i lastroni aumentando lo spessore fino a 40-50m.


Variazione stagionale del pack: (a) in inverno e (b) in estate
Link: Animazione

La circolazione delle acque dal e per il bacino artico assume l'andamento di un  grande vortice incentrato sul Bacino Canadese e che si muove in senso orario generando una corrente (Corrente Groenlandese orientale) che uscendo dallo Stretto di Fram, scorre lungo le coste orientali della Groenlandia fino a fondersi con la Corrente di Irminger, a sud dell'Islanda.
Il giro delle correnti che, doppiato il capo meridionale della Groenlandia, proseguono lungo le sue coste occidentali e ritornano verso sud lungo le coste canadesi come Corrente del Labrador, completano il percorso delle acque artiche fino all'incontro con la Corrente del Golfo.
La corrente trasporta con sé lastroni di pack ed icebergs staccati dai numerosi ghiacciai che dalle coste della Groenlandia si protendono fino in mare e che finiscono di sciogliersi nell'incontro delle Correnti del Labrador e di Irminger con la Corrente del Golfo.


La  circolazione nel Mar Artico e verso l’Oceano Atlantico

 

Tipi di pack e tempi di residenza delle masse d’acqua sottostanti. Nella figura viene analizzata anche la diffusione di un eventuale effluente all’interno del Mar Artico  e la sua incidenza sulle diverse masse d’acqua.


MORFOLOGIA E CIRCOLAZIONE  DEL MAR ANTARTICO

L'Antartide è un continente circondato dalle acque a sud dei tre oceani, Atlantico, Indiano e Pacifico,
Le acque che circondano il continente antartico fanno parte di un sistema complesso di correnti e di fronti che le distinguono nettamente dagli oceani adiacenti e possono a ragione essere denominate come Oceano Meridionale.

 

 

Invece la circolazione verticale delle varie masse d’acqua che fanno parte di questo sistema è particolare in quanto si inserisce in tutti e tre gli oceani. Difatti non ci sono ostacoli fisici, rappresentati dalle terre emerse, che limitino la diffusione  delle acque di formazione antartica che si muovono verso le zone intermedie e profonde degli oceani. Per questo
Le acque congelano in superficie per una parte dell’anno, corrispondente all’inverno australe, estendendo la calotta polare antartica fra i 70 ed i 55°S.  Questo ghiaccio marino è annuale, raggiunge uno spessore intorno ai 2m e si scioglie in estate.
L’Oceano Meridionale può essere immaginato come strutturato una serie di aree concentriche delimitate da zone frontali  o altri limiti in superficie


Come si può osservare, esiste una Zona di ghiaccio persistente  (PIZ) anche nella stagione estiva, che occupa una parte del Mare di Weddel e del Mare di Ross, mentre una stretta Zona costiera a bassi fondali  (CCSZ) riesce a liberarsi per periodicamente dal ghiaccio. La  Zona del ghiaccio stagionale (SIZ) occupa circa 16 milioni di chilometri quadrati, cioè quasi la metà di quello che viene considerato l’Oceano Meridionale, ed il suo limite verso nord costituisce il limite dei ghiacci della banchisa. Esternamente c’è una Zona di oceano permanentemente libero dai ghiacci  (POOZ) che occupa lo spazio fin al fronte polare (PF), mentre più a nord sono identificabili il Fronte Sub-Antartico  e la Convergenza Sub-Tropicale.
Si può constatare che la zona del ghiaccio stagionale (SIZ) è quella che subisce i cambiamenti più drastici ed imponenti nel corso dell’anno, poichè il 90% della copertura di ghiaccio si scioglie durante la primavera e l’estate, dopo avere raggiunto il massimo della sua estensione durante l’inverno.

Animazione sulla: Variazione stagionale del pack - Altra animazione


IL GHIACCIO MARINO

I fattori principali che regolano generalmente la produttività primaria negli ambienti oceanici sono la temperatura, la luce, la disponibilità di nutrienti e l’incidenza degli erbivori sulla biomassa vegetale (grazing). Nelle acque antartiche del SIZ la presenza del ghiaccio incide fortemente su tutti questi fattori: le temperature sono basse anche durante la stagione estiva e questo richiede indubbiamente un adattamento di tutto il plancton e quindi anche del fitoplancton, che deve svilupparsi a temperature insolite per altre zone oceaniche. Anche la luce, che già ha una forte oscillazione stagionale propria, risulta mediata dalla copertura di ghiaccio per la colonna d’acqua sottostante.


Link a: animazione sulla formazione di acque iperaline dal ghiaccio

Durante la formazione del ghiaccio marino solo l’acqua forma il reticolo cristallino. La sua uscita dalla fase liquida sarà perciò accompagnata dalla formazione di una soluzione salina più concentrata che, nell’immediato, resta parzialmente intrappolata negli spazi interni del reticolo. Si costituisce così una rete di canalicoli di salamoia, più o  meno ramificata a seconda del tipo di ghiaccio,  a sua volta determinato dalle condizioni in cui si è formato. Il drenaggio della salamoia nella colonna d’acqua sottostante il ghiaccio comporta un aumento di salinità e l’innesco di una circolazione verticale, per la maggiore densità delle acque che drenano dal ghiaccio. Si ha perciò un ispessimento dello strato misto, ovvero dello strato superficiale in cui si verificano mescolamenti verticali.
Questo processo, che prevale durante la stagione invernale e nell’area occupata dalla banchisa, in generale ha un effetto negativo per la produttività in quanto disperde il fitoplancton e lo allontana dallo strato eufotico.
Quando in primavera la banchisa comincia a frantumarsi e poi ad arretrare per fusione, col progressivo aumento della temperatura, si forma in superficie, lungo il margine della banchisa e per un’estensione che può andare dai 50 ai 250km, uno strato di acque notevolmente meno salate della colonna d’acqua sottostante e questo diminuirà lo spessore dello strato misto. L’area occupata dal margine della banchisa e dalle sue acque di fusione viene denominata Zona del Ghiaccio Marginale (MIZ). Il fenomeno può essere visto nello stesso tempo sia su scala spaziale sia su scala temporale.

 


Processo di inclusione degli organismi nel ghiaccio durante la sua formazione

Il plancton ed in particolare il fitoplancton viene inglobato, con vari meccanismi, nel ghiaccio che si forma.
Nelle zone di polinia il ghiaccio cristallizza in minutissimi cristalli (frazil ice) nella colonna d’acqua e poi, data la sua minore densità, si sposta in superficie trascinando  nel suo movimento il seston presente e quindi anche cellule fitoplanctoniche. I cristallini di ghiaccio che coprono la superficie del mare, non ancora consolidati fra loro costituiscono il cosiddetto ghiaccio oleoso (grease ice).
Un’ulteriore  diminuzione di temperatura induce la coesione in forme tondeggianti dai bordi rialzati (pancake ice), che si congiungono poi in un unico strato, in cui restano intrappolati gli organismi flottati dai cristallini di ghiaccio. Le canalizzazioni di salamoia  che si formano internamente al ghiaccio offrono lo spazio in cui gli organismi catturati potranno sopravvivere, paradossalmente al riparo dall’ambiente esterno più ostile. Nello strato già formato gli organismi possono penetrare anche dal basso, cioè dalla colonna d’acqua sottostante e restare all’interno via via che la banchisa si estende verso il basso con un diverso procedimento, cioè la formazione di ghiaccio da congelamento, che ha una struttura colonnare, con una rete di canali meno ramificata.



Processi di formazione del pack in condizioni diverse

Sito su Immagini del pack a vari stadi di formazione

La formazione della banchisa non avviene con un evento unico, ma è il risultato di più cicli di congelamento e di fusione più o meno parziale, determinati dall’andamento meteorologico, finchè non si stabilisce pienamente la stagione invernale e la banchisa si stabilizza e si sviluppa al massimo. Lo stesso vale per la fusione della banchisa che avviene in più cicli fino alla stabilizzazione delle condizioni estive. In questi cicli di formazione e di dissolvimento del ghiaccio gli organismi vengono più volte catturati e rilasciati e si formano stratificazioni, che singolarmente immagazzinano quello che è stato raccolto dalle acque sottostanti al momento della loro formazione. Da questo deriva la grande eterogeneità nella distribuzione del plancton dentro il ghiaccio, spesso in brevi spazi si passa da addensamenti tali di organismi fitoplanctonici da colorare il ghiaccio di bruno, come nel caso delle diatomee, a zone di ghiaccio pressocchè immacolato con pochi organismi al suo interno.
Proprio in funzione dei diversi tipi di ghiaccio che si possono formare in condizioni diverse e della storia dello strato di ghiaccio dopo la sua formazione, si possono individuare diversi tipi di comunità proprie del ghiaccio marino (Fig.6). Una prima suddivisione riguarda la posizione delle comunità nel ghiaccio, cioè di superficie, interne, di fondo e subglaciali. All’interno di queste suddivisioni si possono distinguere diverse tipologie, conseguenti alle condizioni offerte dal substrato fisico.
Le comunità di superficie del ghiaccio possono svilupparsi in pozze, formatesi per (1) deformazione del ghiaccio o (2) infiltrazione laterale dell’acqua di mare, per un abbassamento del blocco di ghiaccio, o ancora (3) fusione, quando la temperatura esterna si innalza ed il calore fa fondere del ghiaccio sotto la copertura nevosa.


Le comunità del pack

Le comunità  si possono ancora distinguere per il tipo di distribuzione, come le comunità interne che possono presentarsi diffuse o a banda. Alla superficie inferiore del ghiaccio possono aversi aggregazioni negli ultimi centimetri (comunità interstiziali) che vivono uno scambio più diretto con le acque sottostanti.


Carote di ghiaccio con presenza di “brown ice”

 


Sviluppo microalgale sulla superficie inferiore del pack

L’attività del fitoplancton, che utilizza i nutrienti presenti nell’acqua e produce sostanze organiche, offre alimento ai produttori secondari  più piccoli. Un modello semplificato  che presume un flusso laminare per la salamoia, presenta insieme gli effetti della diversificazione verticale degli organismi simpagici e del trasporto di DOC (Dissolved Organic Carbon). Se non c’è trasporto di salamoia, ovvero in condizioni ambientali stazionarie, la stratificazione verticale della biomassa algale porta ad un gradiente di concentrazione del DOC dovuto ai processi essudativi algali. Se invece c’è un afflusso di acqua di mare, ci sarà dapprima una disponibilità di nutrienti per l’insieme delle diatomee al livello più esterno, che si comporteranno come un impianto di depurazione assorbendo nutrienti. La salamoia, localizzata inizialmente al livello 1 prima dell’afflusso, si sposterà verso l’alto trasportando alte concentrazioni di DOC al livello 2. L’afflusso porterà nuovi nutrienti al complesso di diatomee del fondo ghiaccio e nuovo DOC alle comunità batteriche localizzate più all’interno.
D’altra parte un deflusso dovuto, ad esempio, ad un drenaggio per gravità, aumenterebbe la concentrazione di DOC nella colonna d’acqua, subito sotto il ghiaccio flottante . Quel che importa è che si osserva un trasporto di salamoia, ma non altrettanto di organismi del ghiaccio. Quindi i processi di trasporto della salamoia e le dinamiche dei nutrienti all’interno del ghiaccio marino sono basilari per la conoscenza della struttura delle comunità simpagiche, non solo in termini di fornitura di nutrienti per le alghe del ghiaccio, ma anche in termini di trasporto del DOC e quindi per la struttura della rete trofica.
Lo studio delle comunità del ghiaccio ha dato origine ad una ricca terminologia, con cui vari autori hanno cercato di esprimere la capacità di alcuni organismi vegetali ed animali di convivere con un substrato alquanto ostile come il ghiaccio. Come si vede dalla tabella annessa, per concetti simili sono stati elaborati più termini. In questi ultimi anni un esame critico della terminologia in uso, teso ad unificare concetti e termini simili per una migliore  comprensione ed uno scambio più efficace delle informazioni fra i vari gruppi di studio, ha indotto a raccomandare alcuni termini come più appropriati di altri. Per le specie facenti parte delle comunità del ghiaccio si ritiene, ad esempio, più corretto qualificarle come  simpagiche, che significa associato al ghiaccio, e nell’accezione comune può  riferirsi ad organismi animali e vegetali, mobili o fissi, come quelli bentonici.


GHIACCIO MARINO E COMUNITA’  RELATIVE: TERMINOLOGIA

TERMINE

DESCRIZIONE

Plancton del ghiaccio

o   Crioplancton

Organismi peculiari del ghiaccio marino che in estate si sviluppano  e formano comunità sia nel ghiaccio che attorno ad esso

Ghiaccio (bruno)

Determinato dal colore e dalla presenza di alghe (diatomee).

Ghiaccio colorato

Colore bruno dovuto alla presenza di diatomee.

Ghiaccio planctonico

Si forma quando l’acqua del mare di gela: colore bruno dovuto allacrescita di plancton nel ghiaccio marino.

Epontico

Specie aderenti o non aderenti al substrato adattate particolarmente alla vita nel ghiaccio marino.

Psicrofilo

Organismi che hanno una temperatura ottimale per la crescita inferiore a 15°C.

Criofilo

Implica associazione col ghiaccio temporaneo o  permanente

Epicriotico

Riferito a cellule viventi attaccate a cristalli di ghiaccio

Endocriotico

Riferito a cellule viventi all’interno del ghiaccio

Criofiton

Alghe che vivono nella neve e su ghiacci galleggianti.

Criobionte

Riferito ad organismi che vivono nella neve e nel ghiaccio o alghe inizialmente trovate sulla superficie del ghiaccio marino

Crion

Comunità del ghiaccio marino.

Simpagico

Riferito ad organismi che vivono nel ghiaccio marino.

Superficiali
Interne
Di fondo

Comunità algali definite dalla loro posizione nel ghiaccio

SIMCO

Comunità microbiche del ghiaccio: includono virus, batteri, diatomee, funghi e protozoi

Subglaciale

Riferito ad organismi, che vivono nella parte di fondo del ghiaccio

Interfacciale

Alghe galleggianti nell’interfaccia ghiaccio-acqua


PRODUTTIVITA’ DEGLI ORGANISMI NEL GHIACCIO

Per quanto riguarda la produttività  primaria le comunità del ghiaccio giungono a superare la produzione della colonna d’acqua sottostante il ghiaccio, in cui predomina invece l’attività eterotrofica.  Considerando la produttività  primaria  globale, quella associata alle comunità del ghiaccio rappresenterebbe il  25-30% . Questa valutazione richiede comunque ulteriori dati sperimentali, la cui raccolta presenta parecchi problemi. Il campionamento del ghiaccio marino richiede mezzi e logistica adeguati, come pure di tener conto della grande eterogeneità spaziale e temporale nella distribuzione degli organismi.
In inverno il numero di organismi che sopravvive nel ghiaccio è minore che nelle altre stagioni, ma le alghe rimangono vitali. Esse si adattano a fotosintetizzare a livelli molto bassi di luce , sono anche meno sensibili alle basse temperature ed alle alte salinità: durante alcuni esperimenti le alghe continuavano a crescere a temperature inferiori a –5,5°C e salinità fino a 95 psu. Si è osservato che le alghe non crescevano ma sopravvivevano per alcune settimane anche a –10°C e 145psu, riprendendo la crescita se venivano riportate lentamente in condizioni più favorevoli.


Gli organismi del ghiaccio, che vengono rilasciati nell’acqua durante la fusione e l’arretramento del MIZ (Marginal Ice Zone), possono agire come inoculo e dare inizio o contribuire alle fioriture fitoplanctoniche, come sembra confermare la comparazione fra le specie presenti nei canalicoli di salamoia del ghiaccio e nella colonna d’acqua. Le potenzialità, come inoculo delle alghe simpagiche,    sono indicate dalla loro abilità nell’incrementare i tassi fotosintetici in condizioni di minor salinità, quali si verificano durante la fusione del ghiaccio.
Il contributo principale alla produttività viene perciò dalle aree del margine del ghiaccio (MIZ).  L’arretramento della banchisa all’inizio della bella stagione è accompagnato dalla formazione di uno strato di acqua più dolce in superficie, che stabilizza verticalmente la colonna d’acqua riducendo lo spessore dello strato misto, e nel contempo dal rilascio degli organismi vegetali ed animali contenuti nel ghiaccio. Per il fitoplancton l’effetto è quello di un inoculo di cellule  che dà inizio a grandi fioriture, che possono estendersi su vaste aree.
Lo sviluppo iniziale delle fioriture planctoniche da MIZ è determinato dalle proprietà fisiche dello strato superficiale,  subordinato alle condizioni meteorologiche. La posizione della fioritura si sposta rispetto al margine del ghiaccio in funzione delle condizioni del tempo, principalmente quelle che determinano la frequenza, la durata e la forza di eventi di mescolamento verticale delle acque, fenomeno quest’ultimo che ritarda lo sviluppo di fioriture.
L’entità e l’estensione spaziale delle fioriture sono  condizionate dalle condizioni meteorologiche e dal consumo da parte degli erbivori.

Siti consigliati per approfondimenti sul ghiaccio e sugli ambienti collegati al pack.
WHAT  IS  SEA  ICE?
http://www.gi.alaska.edu/~eicken/he_teach/GEOS615icenom/form/intro.html
http://www.msc.ec.gc.ca/crysys/education/seaice/seaice_edu_e.cfm

DIVING UNDER ANTARCTIC ICE
Sito dedicato all’esplorazione subacquea del pack e del fondo marino in Antartide.
All’interno, scegliendo dal menù:
  • Gallery: offre immagini da vari ambienti
  • Field guide: offre la consultazione sulle specie presenti organizzata secondo  la sistematica

 

http://ww2.unime.it/snchimambiente/ZonePolari.doc

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

La lingua degli Inuit (in una prospettiva per lo studio dei rari italianismi)

Le lingue Eskimo-Aleute sono parlate in una vasta fascia territoriale delle regioni circumpolari: dall’area Siberiana della Ciukotka, di Bering, delle isole Aleutine al Nord America con i territori dell’Alaska, del Nord del Canada e della Groenlandia.
I popoli delle diverse regioni dell’Artico si esprimono attraverso dialetti che appartengono ai ceppi linguistici dell’inuktitut, dello yupik, dell’inupiaq e dell’aleuto.
Gli Inuit dell’area Siberiana si esprimono in Yupik - di difficile comprensione per le popolazioni che vivono più ad Est - e possono facilmente conversare con i parlanti Inupiak dell’Alaska. Gli Inuit del Nord del Canada e della Groenlandia parlano dialetti dell’Inuktitut relativamente comprensibili fra loro.
Anche qui, però, le differenze sono marcate, comprendendo ceppi linguistici come l’Inuvialuktun, l’Inuinnaqtun e il Labradorimiutut, che ne sono varianti specifiche. Lo stesso vale per il Kalaallisut della Groenlandia, al punto che il termine Inuktitut, nella parlata, suona Inuttut.
Sono tutte lingue di tradizione orale che si sono confrontate con la scrittura solo dopo l’incontro con gli Occidentali, attraverso aspetti della cristianizzazione portata dai missionari di diverse confessioni (in particolare Cattolici e Anglicani).
Per un tempo immemorabile gli Inuit hanno tramandato da una generazione all’altra le storie, gli usi, i costumi e le leggende attraverso l’oralità del racconto e del canto. Con l’arrivo dei missionari, i Popoli dell’Artico hanno cominciato ad adottare un sistema di scrittura per poter leggere la Bibbia e i libri di preghiera.
La penetrazione culturale, avvenuta in epoche successive, ha dato luogo a differenti stadi di evoluzione della scrittura.
Il primo sistema di scrittura utilizzato fu l’ortografia romana, grazie ai missionari provenienti dalla Moravia che iniziarono a cristianizzare la Groenlandia intorno al 1721.
Ha fatto notare Penny Petrone nell’introduzione alla raccolta di poesie e canti degli Inuit, scritti in lingua inglese, che questi missionari, dopo l’insediamento in Groenlandia «cominciarono a costruire stazioni lungo le coste del Labrador dove, proponendosi d’insegnare i fondamenti del cristianesimo, ebbero l’effetto di perfezionare la lettura e la scrittura del dialetto del Labrador in un’ortografia Morava. La scrittura fu introdotta nel resto dell’Artico, invece, dai Missionari Protestanti, mandati dalla Società Missionaria della Chiesa d’Inghilterra e dai Missionari cattolici con la congregazione degli Oblati di Maria Immacolata» (Petrone, 1988: XII).
Questo sistema, con varie modifiche, è quello adottato ancor oggi. In alcuni territori dell’Alaska e nell’area Asiatica siberiana, poi, si è sviluppata una scrittura con grafia cirillica e, per un certo periodo, gli Yupik dell’Alaska dettero vita anche ad una sorta di scrittura pittografica, scomparsa con l’estinzione di queste comunità.
Solo dopo il 1860 gli Inuit dell’Artico canadese hanno adottato un impianto di scrittura strutturato in caratteri sillabici e gli ultimi in ordine di tempo ad adottare questa scrittura, intorno al 1920, sono stati i Popoli della Terra di Baffin e della Regione di Pelly Bay.
Attualmente, gli Inuit dell’Artico Canadese utilizzano sia l’ortografia romana (qaliujaaqpait) che i caratteri sillabici (qaniujaaqpait) per la redazione di comunicazioni quotidiane.
Secondo James Tully, la spinta alla rinascita e alla salvaguardia della propria lingua, associata alle rivendicazioni per l’autogoverno dei territori, diviene motivo per «utilizzare le loro lingue nella sfera pubblica, ad avere scuole adeguate e l’accesso ai media, per essere riconosciuti e agevolati nei curricoli e nella letteratura della società che hanno contribuito a costruire, e per essere in grado di poter vivere in consonanza con le loro caratteristiche  senza discriminazioni» (Tully, 1993: 165).

Negli ultimi anni, sotto la spinta dell’Inuit Tapiriit Kanatami - l’organizzazione nazionale che in Canada rappresenta oltre 40.000 Inuit - sono sorti soggetti giuridici che hanno funzione di distretti  territoriali, come il Nunavik (l’area settentrionale del Québec) e il Nunatsiavut (sub-regione amministrativa del Labrador), e, dal 1 Aprile 1999,  il Territorio del Nunavut (Nostra Terra).
La politica linguistica degli Inuit, oggi, è quella di tendere ad una standardizzazione della lingua pur nel rispetto dei diversi idiomi e dei sistemi di scrittura, soprattutto nella redazione di dizionari e di testi lessicali.
La pubblicazione del Dizionario Inglese-Inuktitut di Padre Lucine Schneider, O.M.I, nel 1985, realizzata con il contributo del Department of Indian and Northern Affairs del Canada (Schneider, o.m.i., 1985), ha iniziato ad uniformare la struttura dei dialetti.
Questa edizione è la traduzione del Dizionario Inuktitut-Francese del 1970, che è stato preceduto, nel 1966, dalla pubblicazione dei materiali raccolti dagli informatori di Padre Schneider, Christine Nutaraaluk e Salome Mitiarjuk, che costituirono il Dictionaire alphabético-syllabique du language de l’Ungava et contrées limitrophes (Nutaraaluk-Mitiarjuk, 1966).
Forte impulso al processo di standardizzazione della lingua è stato dato dalla NIC(Nunavut Implementation Commission), durante la preparazione del Territorio del Nunavut con attenzione ai neologismi per escludere forme e voci della colonizzazione linguistica Occidentale (cfr. Kublu – Mallon, 1999: 70-81).
Jose Kusugak è il più importante rappresentante di questa esigenza e, attraverso l’Inuit Tapiriit Kanatami, da lui presieduto, ha realizzato il primo programma di standardizzazione dell’inuktitut.
Si deve ricordare che l’inuktitut è una lingua polisintetica che si costruisce attraverso la giustapposizione di suffissi ed infissi per dare senso al discorso. Il grado di sintesi delle lingue polisintetiche è quello della composizione di molti elementi, componenti un continuum con più morfemi per parola.
Per fare un esempio «il termine occidentale “satellite” è stato ri-coniato in Inuktitut in questo modo qangattaqttitausimaiuq, che potrebbe essere tradotto con ‘è stato fatto per volare’» (Pitto, 2003: 77).  
Per spiegare questo processo e i meccanismi che esso mette in atto si può fare riferimento a quanto osservato a questo proposito dal Sylvie Teveny, Presidente dell’associazione Inuksuk.
«La vitalità della lingua è strettamente legata alla volontà di difendere il linguaggio, che favorisce per disposizione strutturale l’integrare delle realtà del mondo contemporaneo, creando numerosi termini nuovi sul modello del proprio lessico tradizionale. Esso stesso è caratterizzato da una grande trasparenza descrittiva. I neologismi sono sovente dei componenti descrittivi che si presentano, alla maniera del lessico tradizionale, come parafrasi esplicative. Per esempio: payniuqruqattatulirijikkut
-niuqru- : "partire da un posto per andare a fare una visita"
-qatta- : "regolarmente"
-tut- : "la gente che"
-liri- : "se ne occupa"
-ji- : "quello che agisce"
-kkut- : "il gruppo"
- traduzione alla lettera: "l’organismo che si occupa della gente che parte regolarmente da un posto per andare a fare una visita"
- traduzione: ufficio turistico» (Teveny, 2003).
Stessa sorte hanno subito, e subiscono, i termini provenienti da altre lingue diffuse dalla presenza di missionari, viaggiatori e/o emigranti, ma anche dalla televisione e attualmente dalle reti web. In tal senso anche l’italiano, nei rari inserimenti lessicali, segue la stessa sorte delle lingue di maggior diffusione coloniale.
Nel complesso queste parole non hanno alcun riscontro nella cultura Inuit, ma si tratta di calchi dell’italiano o delle comuni origini latine sulla lingua replica (per lo più inglese, ma anche francese).
È utile far riferimento alla trascrizione di tali termini in lingua originale - sia in caratteri romani, sia in caratteri sillabici - a causa della diffusione dei termini attraverso la scrittura dei media. Alcuni termini che non hanno riscontri originari in questa cultura (patiiti, puraakiliut [broccoli], maakuruuni, aliv, salsa, parmesan cheese), hanno trovato una traslazione nell’inuktitut dalle lingue di replica inglese e francese.
Alcune parole costituiscono degli usuali stereotipi, come pizza e anche pasta, o parole legate ad aspetti recenti del linguaggio tecnico-scientifico (v(a)itamin) edella musica (piana) e in relazione alla religiosità (Vangel, Roman Catholic Church).
In ultimo, vi sono alcuni termini tratti da comportamenti locali poco noti, che possono essere confermati da informatori di madrelingua, e che vengono usati in una particolare cerchia di conoscenti, come il calco siiau (ciao) o pseudo-italiano, come italian-ktitut.
I testi di riferimento per la presenza di italianismi nell’inuktitut sono stati reperiti nelle indagini lessicografiche svolte su internet, con l’utilizzo di specifici motori di ricerca, sulla stampa locale e divulgativa, con edizioni bilingui (o plurilingui); molte volte in presenza di sistemi ortografici in lettere romane o in grafia sillabica. Si propone anche la trascrizione in grafia sillabica, con apposito programma di scrittura (http://www.nwmb.com/english/download.php).
L’analisi linguistica è stata sviluppata con il supporto del programma Attavik (Supporting Inuktitut Computing) per l’informatizzazione dell’Inuktitut e per la navigazione web in caratteri sillabici. Questa definizione si riferisce a Inuktitut Qarasaujalirinirmut Attavik, che significa "regole per un sistema d’informatizzazione dell’Inuktitut".

Fig. 1. Naamajut – Scrittura Inuktitut Sillabica (Prodotto da Nortext)

 

Riferimenti bibliografici

Dorais L-J.
1975 IqalungmiutUqausingit (Kingmirungmiudlu Pagnirtuumiudlu) - Southeast Baffin Inuit Language (Lake Harbour, Frobisher, Cumberland Peninsula) – Le parler Inuit de Baffin Sud-Est (Lake Harbour, Frobisher, Cumberland Peninsula), Association Inuksiutiit katimajiit – Laboratori d’anthropologie, Università Laval, Québec.

Kublu A. – M. Mallon
1999  Our Language,OurSelves, in NUNAVUT ’99: Changing the Map of Canada, Iqaluit (Nunavut): Co-published by Nortext Multimedia Inc. and Nunavut Tunngavik Incorporated, 1999: 70 -81.

MAMA           
2004 Mamaqtut. Inuit Healthy Living Cookbook, Published by Tungasuvvingat Inuit, Urban Inuit Diabetes Awareness and Prevention Program, Ottawa, Ontario, Canada, March 2004 [in inglese e Inuktitut] (consultabile sul sito internet http://www.inuitdiabetes.ca/mamaqtut_cookbook_final.pdf).

Nutaraaluk Ch. – S. Mitiarjuk
1966 Dictionnaire alphabético-syllabique du language esquimau de l’Ungava et contrées limitrophes, Laval: Les Presses de l’Université Laval & Centre Nordiques.

Petrone  P.
1988(ed.) Northern Voices. Inuit Writing in English, , Toronto, Canada: University of Toronto Press.

Pitto C.
2003  Quviassutigivassi Nunavut! – Congratulazioni Nunavut! Sortite antropologiche nella terra degli Inuit, Rende (Cosenza): Centro Editoriale e Librario, Università della Calabria.

Teveny S.
2003  Les mots de la ville en inuktitut, langue des Inuit de l’Arctique OrientalCanadien, Colloque international «Quatre siècles d'échanges Europe-Afrique-Amérique», organisé par le CIDEF-AFI, à l'Université Laval (Québec, Canada),  mai 2003.

Tully J.
1993   Strange Multiplicit. Constitutionalism in an Age of Diversity, Cambridge: Cambridge University Press.

ULIR
Schneider L., o.m.i., ULIRNAISIGUTIIT: An Inuktitut-English Dictionary of Northern Quebec, Labrador, and Eastern Arctic Dialects, Laval: Les Presses de l’Université Laval, Bibliotheque National du Quebec, National Library of Canada, 1st quarter, 1985.

 

Fonte: http://bottegantropos.altervista.org/docs/lingua_inuit.doc
autore: Cesare Pitto http://bottegantropos.altervista.org

 

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