Parchi nazionali

 

 

 

Parchi nazionali

 

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PARCO NAZIONALE DELLO STELVIO


Anno di istituzione 1935  Superficie 134.620 ettari


Se le Alpi hanno un cuore, dev’essere dalle parti del parco dello Stelvio. Quest’area protetta si estende infatti nel mezzo delle Alpi centrali e comprende l’intero massiccio montuoso dell’Ortles-Cevedale, con le sue vallate laterali. Questo è un parco prevalentemente di alta montagna, trovandosi il suo territorio per tre quarti a quote superiori ai 2.000 metri. Le rocce che costituiscono le montagne del parco sono in parte rocce cristalline, antichissime, e in parte dolomitiche. Qui, nel settore lombardo del parco, si trova il più grande ghiacciaio delle Alpi (quello dei Forni, con una superficie di oltre 13 chilometri quadrati) ed anche più in generale la più importante concentrazione di ghiacciai delle Alpi centrali, ben 116. Alla presenza abbondante di ghiacci e nevi perenni sono pure legati i numerosi laghetti alpini, spesso di grande bellezza, e le acque di fusione che trasportano a valle enormi quantità di terra, ciottoli e detriti. Dai massicci montuosi discendono numerose valli, modellate dai ghiacciai o dalle acque dei torrenti, e più o meno colonizzate dall’uomo. Dalla val Venosta alla valle di Trafoi, sovrastata dall’Ortles, dalla lunga val Martello alla valle di Rabbi, alla celebrata Valtellina, sono tante e ciascuna caratterizzata da paesaggi, usi, tradizioni. Qui passavano le antiche vie di comunicazione con la pianura o i più elevati alpeggi, qui sono sorti villaggi e malghe ancora oggi, in parte, utilizzate per offrire ristoro e ospitalità agli escursionisti.


La notevole estensione del parco e l’escursione altimetrica tra il punto più basso e la cima dell’Ortles (3905 m), insieme ai diversi suoli e a microclimi particolari, sono fattori che spiegano la grande varietà di vegetazione e flora. Gli studiosi hanno contato almeno 1.200 specie di piante superiori, 600 di funghi e 1.500 tra muschi e licheni e un’idea sufficientemente completa di questo universo multicolore è offerta dal giardino botanico Rezia, alla periferia di Bormio. Alle quote più elevate i fiori non sono molti, fatta qualche eccezione come per il ranuncolo dei ghiacciai (che cresce anche a 3.500 metri) dalla corolla bianco-rosata. Ancora in alto, ma sui conoidi di detriti o meglio sulle morene consolidate, si insediano sassifraghe, cuscini di silene, soldanelle, tipiche specie pioniere. Sulle praterie di quota si incontrano invece diverse associazioni erbacee, dove non è infrequente l’incontro con la stella alpina, la nigritella, diverse specie di genziana. Al di sotto dei 2.000 metri ha inizio la foresta di conifere, e qui a prevalere sono soprattutto l'abete rosso ed il larice: ma vi vegetano pure abeti bianchi, pini mughi e cembri. Sui fondovalle, le aree più umide sono popolate di ontani, e pure caratteristica è la vegetazione delle zone palustri e delle sponde dei laghetti, con specie come l'erioforo o la drosera, che si ciba d’insetti.
Le foreste costituiscono l’habitat ideale per la maggior parte delle specie animali presenti nel parco. Vivono ad esempio qui scoiattoli e picchi, galli cedroni e sparvieri, nocciolaie e civette capogrosso. La salamandra abita i recessi più umidi, mentre le radure e i dintorni degli alpeggi sono gli ambienti della vipera (sia il marasso che la vipera comune). Pure nel bosco vive il mammifero più rappresentativo del parco, il cervo, possibile da osservare (meglio se alle prime luci dell’alba o verso sera) dai fondovalle alle quote più alte. Caprioli, camosci e stambecchi (reintrodotti in val Zebrù nel 1968 con esemplari presi al Gran Paradiso) sono gli altri ungulati presenti, e assicurano altre emozioni agli escursionisti. Quanto all’orso, estinto su queste montagne dai primi anni del Novecento, è da registrare il recentissimo avvio di un programma di reintroduzione nell’adiacente parco dell’Adamello-Brenta, finanziato con fondi comunitari del programma Life. Nella primavera del ’99 sono stati liberati due orsi provenienti dalla Slovenia, muniti di radiocollare e trasmettitori auricolari per consentirne il monitoraggio degli spostamenti. Data la vicinanza dell’area dal parco dello Stelvio, la speranza che in un futuro non remoto il grande plantigrado torni a popolarne le vallate si è nuovamente accesa.


Sopra il limite della vegetazione arborea lo scenario faunistico cambia completamente. Tra i mammiferi questo è il regno dell’ermellino, della lepre variabile e, soprattutto, della marmotta. Nei laghetti è presente il raro tritone alpino, nonché la trota fario, il salmerino e la sanguisuga. L’avifauna conta pernici bianche, gracchi corallini, codirossoni e molte altre specie tra cui in particolare l’aquila reale, nel parco particolarmente abbondante e divenuta il simbolo stesso dell’area protetta. Da qualche tempo è possibile avvistare anche l’avvoltoio degli agnelli, il gipeto, che sta nuovamente occupando i territori alpini a seguito di reintroduzioni operate sui versanti austriaco, francese e svizzero. Una coppia nella primavera del '98 ha nidificato nel settore lombardo del parco, e da allora il grande uccello (i suoi tre metri di apertura alare sono un record assoluto per l’avifauna europea) è entrato stabilmente a far parte della fauna dello Stelvio.

 

 

PARCO NAZIONALE DELLE DOLOMITI BELLUNESI


Anno di istituzione 1993  Superficie 31.512 ettariì

E’ un parco soprattutto di natura selvaggia, di alta montagna, dove i confini sono per lo più in quota e gli abitati si concentrano in una ristretta fascia periferica. Dei centomila e passa abitanti censiti nei Comuni che fanno parte dell’area protetta, quelli realmente residenti stabilmente dentro il parco all’ultimo censimento erano infatti solo 88. Tra i gruppi montuosi principali, le cui vette non di rado superano i duemila metri, sono le Alpi Feltrine, i Monti del Sole, lo Schiara-Pelf e la Tavelna. Qui si viene a camminare tra panorami non di rado grandiosi, a risalire le valli ammirando una flora che già attraeva i botanici del Settecento, a veder volare le aquile sullo sfondo di circhi glaciali e vastissime foreste di conifere.
Cuore selvaggio del parco sono i Monti del Sole, solcati da forre profonde, che si elevano quasi inaccessibili alle spalle di Belluno fino ai 2.240 m del Piz di Mezzodì. Più a oriente danno spettacolo le rocce della Tavelna e la foresta della conca di Cajada, dove l’abete bianco forma splendidi popolamenti. Altre abetine sono in Val Grisol, mentre più diffusamente sono distribuite le pinete — sia a pino silvestre che a pino nero — e i boschi di abete rosso, spesso impiantati dall’uomo, e alle quote più elevate le bellissime associazioni di pino mugo. Nel settore occidentale altre mete da non perdere sono l’area dei Piani Eterni, ricca di grotte (ve ne sono state censite più di duecento, una delle quali profonda almeno 960 metri), e quella della Busa delle Vette. La Busa, cioè conca nel dialetto locale, offre ai visitatori la lunare visione di un paesaggio costellato di doline e inghiottitoi e circondato da una corona di cime da cui scendono come fiumi di pietre i ghiaioni. Nel parco non mancano nemmeno due bacini d’origine artificiale, il lago del Mis nell’area centrale e La Stua in Val Canzoi, tra i Piani Eterni e il massiccio del Colsent.


Tra i mammiferi spicca il camoscio, presente con circa 2.000 esemplari, cui si aggiungono caprioli, cervi e i più piccoli ermellino, tasso, marmotta, lepre variabile, scoiattolo, ghiro, volpe, donnola, nonché il muflone, originario della Sardegna e della Corsica e introdotto in passato a fini venatori, di cui sono presenti circa 200 esemplari. Sulla possibile competizione tra camoscio e muflone sono da poco stati resi noti i risultati di una ricerca, che ha studiato l’uso dell’habitat e la sovrapposizione spaziale delle due specie di erbivori. La conclusione è stata che il camoscio tende a frequentare ambienti quali il prato, seguito dagli arbusteti e dal lariceto, evitando la mugheta, mentre il muflone sceglie soprattutto il macereto in associazione con il prato e la roccia, senza poi precludersi sortite nella mugheta.


Scomparso il lupo alla fine del secolo scorso, sono da registrare al parco due graditissimi ritorni. Il primo è quello della lince, le cui orme inconfondibili si rinvengono, a partire dal 1992, ogni tanto sulla neve o nel fango. E poi c’è l’orso bruno, il grande plantigrado pure scomparso a fine secolo scorso e adesso in via di reintroduzione in altri settori dell’arco alpino, come all’Adamello.


Tra gli uccelli star indiscussa è l’aquila reale, con cinque coppie nidificanti. Ma non mancano molte altre specie significative di rapaci tra cui l’astore, lo sparviere, il gufo reale, la civetta capogrosso e la civetta nana. Da notare pure la presenza negli ambienti forestali di alcuni tetraonidi, gruppo di uccelli in preoccupante rarefazione del nostro Paese, tra cui il gallo cedrone, il fagiano di monte, il francolino di monte e la pernice bianca. Anche la coturnice popola i pendii montani, mentre quattro specie di picchi tra cui il raro picchio nero frequentano i boschi del parco. Quanto ad anfibi e rettili, vivono qui molte specie ancora oggetto di studio ma sicuramente, tra gli altri, il colubro di esculapio, tre specie di vipere (vipera comune, vipera dal corno e marasso), la coronella austriaca, diversi tritoni e la rara salamandra nera.
In un parco di alta montagna come questo non sono molte le testimonianze storiche e artistiche. La più importante è la certosa di Vedana, che ospita un convento di clausura, cui si aggiungono malghe e casere per lo più abbandonate da decenni, oppure il piccolo villaggio di Gena nella valle del Mis. Feltre e Belluno, appena fuori i confini del parco, offrono numerosi spunti interessanti al riguardo.

 

PARCO NAZIONALE DEL GRAN PARADISO


Anno di istituzione 1922 Superficie 70.286 ettari
E’ il parco alpino per eccellenza, il primo ad essere istituito in Italia, nel 1922. La sua origine in realtà è ancora precedente, e risale al 1856 allorché sorse sul massiccio per volontà della Casa Savoia una riserva di caccia destinata a salvare gli ultimi stambecchi delle Alpi. Tre anni prima della nascita dell’area protetta, Vittorio Emanuele III donò le sue proprietà allo Stato italiano che, dopo gli studi di una commissione creata dal ministro dell’Agricoltura, diverranno il fulcro del nuovo parco nazionale del Regno, sorto allo scopo di conservare la fauna, la flora e di preservare le speciali formazioni geologiche nonché la bellezza del paesaggio.
Le montagne del gruppo del Gran Paradiso sono state in passato incise e modellate da grandi ghiacciai e dai torrenti fino a creare le attuali vallate. Quelle principali sono la valle di Cogne, la Valsavarenche e la valle di Rhemes sul versante valdostano, e la valle dell’Orco e la val Soana su quello piemontese. Le colture e gli insediamenti umani coprono una superficie trascurabile, più o meno il 4% del parco. Villaggi e alpeggi, spesso interamente in pietra, raccontano la lunga storia della civiltà dei pastori. Tutto il resto sono rocce, pascoli, morene e ghiacciai: di questi ultimi, tra grandi e piccoli, ne sono stati censiti oltre 60. La vetta più alta, appunto il Gran Paradiso, misura 4.061 metri e sulle Alpi è l’unico "quattromila" interamente italiano. Pure presenti sono numerosi laghi alpini, soprattutto nella zona del colle del Nivolet, e alcuni bacini artificiali sul versante piemontese.


La vegetazione è composta prevalentemente da boschi di conifere con larici e abeti rossi, e in misura minore abete bianco. Pino silvestre e pino mugo sono presenti, rispettivamente, a quote più basse e oltre il limite del bosco, intorno ai 2.200 m, dove lascia quindi il posto agli ontani associati nelle zone più umide a rododendri e ginepri. Simbolo dell'alta montagna, la stella alpina (Leontopodium alpinum) è diffusa dai 1500 ai 3.200 metri di altezza. Ancora più in alto crescono la piccola Gentiana bavarica e il ranuncolo dei ghiacciai, mentre nei boschi e su prati e morene si rinvengono rispettivamente la linnea boreale e il semprevivo dei monti. Quanto ad un’altra rarità del parco, il candido giglio di monte (Paradisea liliastrum), è stato scelto come simbolo per il giardino botanico Paradisia di Valnontey, presso Cogne: un'esposizione all'aperto da non mancare, estesa su 10.000 metri quadrati, per ammirare tutti insieme i principali rappresentanti della flora alpina.


La "capra più bella del mondo", com’é stato definito lo stambecco, vive in tutt’Europa sulla sola catena alpina e nel parco ha la sua roccaforte. I maschi adulti si distinguono per le corna più pronunciate rispetto a quelle delle femmine, provviste di anelli regolari. Alle quote elevate, dove non si spinge nemmeno il camoscio, gli stambecchi sfruttano la proverbiale abilità per spostarsi agilmente sulle rocce e cercare le erbe e i licheni di cui si nutrono. In estate femmine e giovani fanno vita di branco, mentre la stagione degli amori è l’inverno. I piccoli, generalmente uno a coppia, nascono a inizio estate. Gli stambecchi del parco sono circa 6.000, e da qui altri nuclei, da una trentina d’anni a questa parte, sono stati introdotti in diverse zone alpine come le Alpi Orobie in Lombardia, le Prealpi Carniche in Friuli, l’Alpe Veglia in Piemonte. Nel parco il periodo migliore per gli avvistamenti va da maggio a ottobre, quando gli animali pascolano al limite superiore del bosco e si incontrano la mattina presto e la sera. Di giorno se ne stanno accoccolati sulle cenge tra le rocce, dove si mimetizzano alla perfezione ed é difficile scorgerli.


Nel parco poi sono pure presenti il camoscio, il cinghiale, la lepre variabile, la marmotta, l’ermellino e un’altra decina di piccoli mammiferi. Nonché la lince, splendido ed elusivo felino, scomparsa da queste montagne negli anni tra i due conflitti mondiali e oggi tornata nel parco dopo ripetute reintroduzioni avvenute in Svizzera, a partire dagli anni Settanta. Quanto all’avifauna, tra i rapaci nidificano nel parco una dozzina di coppie di aquila reale ma pure astori e sparvieri, gufi reali e civette capogrosso. Anche il gipeto sta tornando nel parco, da cui era assente dal 1918. Il suo ritorno è stato favorito da un progetto di reintroduzione internazionale, e oggi frequenti avvistamenti di questa inconfondibile specie (le enormi dimensioni delle strette ali e la coda a forma di cuneo non lo fanno confondere con nessun altro rapace) vengono segnalati nell’alta val di Rhemes e lungo tutto il confine col parco della Vanoise. Infine, pernici bianche e fagiani di monte frequentano i pascoli montani e i boschi, dove vivono picchi, nocciolaie, ciuffolotti, crocieri e cince dal ciuffo.


LA FLORA DEI PARCHI


Acero (Acer campestre, Acer pseudoplatanus)


L'acero, presente in Italia soprattutto nelle varietà campestre e montano, è diffuso in un'area che va dall'Europa centromeridionale al Caucaso, fino a raggiungere il nord dell'Inghilterra e della Scandinavia nel caso dell'acero campestre. L'acero campestre è assai frequente nei boschi di latifoglie e cresce fino ai 1200m di altitudine. Si insedia preferibilmente in posizioni soleggiate e su terreni freschi, evitando sia i terreni troppo umidi che quelli troppo aridi. Il tronco è contorto, spesso con portamento arbustivo, e non supera di norma i 10-15 metri di altezza, la chioma è leggera e poco ombreggiante. Le foglie assumono una splendida colorazione giallo intenso nel periodo autunnale. Essendo una specie che cresce lentamente viene utilizzata come pianta ornamentale per la creazione di siepi. Il legno viene invece impiegato per la costruzione di manici di attrezzi e come combustibile. L'acero montano vive quasi esclusivamente nei boschi settentrionali collinari e montani, fino ai 1800 metri di altitudine. Si tratta di una pianta ad accrescimento rapido che predilige i terreni freschi e umidi e può raggiungere i 25-30 metri di altezza. Si trova di frequente nei boschi di abete bianco e rosso e in quelli di faggio. Il legno, di color bianco avorio venato di bruno, è pregiato e resistente e viene utilizzato per la costruzione di mobili, manici di attrezzi, utensili da cucina e strumenti musicali.

 

Faggio
Sono grandi alberi dal fusto grigiastro. La loro forma può essere molto diversa: alti e colonnari nelle vecchie fustaie, massicci e nodosi negli esemplari isolati, bassi e fitti nei boschi cedui. L'ambiente d'elezione del faggio è quello dal clima che gli ecologi chiamano "atlantico", con inverni relativamente brevi e estati fresche e piovose. Sulle Alpi il faggio è presente solo in alcune valli, al di sotto della fascia delle conifere. Sugli Appennini si incontra in genere tra i 1000 e i 1800 metri di altitudine, ma dove le condizioni locali lo permettono, anche a quote più basse, come sui Monti Cimini dell'alto Lazio. Un tempo, sui versanti appenninici, il faggio era accompagnato dall'abete bianco. A partire dall'epoca romana, l'abete bianco è stato molto ricercato per le grandi costruzioni edilizie e navali, ed è oggi quasi completamente scomparso dalle nostre montagne, lasciando anche il suo posto al faggio. Secondo i botanici, la storia del faggio ebbe inizio molti milioni di anni fa addirittura in Giappone, da dove raggiunse l'Europa occidentale passando per l'Asia centrale, il Caucaso e l'Asia minore. Qui trovò alberi come il tasso e l'agrifoglio. A ogni glaciazione il faggio scomparve, o quasi, dall'Italia per tornare ogni volta che il clima ridivenne favorevole. Così avvenne anche 10.000 anni fa, al termine dell'ultima glaciazione.

 

 

Pino mugo
Oltre i 1800 metri di quota sulla Maiella non c'è più posto per gli alberi. Dove il vento e il gelo non permettono più la sopravvivenza dei faggi, hanno inizio le boscaglie di arbusti prostrati, l'ultima frontiera della vegetazione che sale fino ai 2200 metri circa. Qui si incontrano ginepro comune, rododendro, uva ursina. Ma il vero protagonista è il pino mugo che negli Appennini è sopravvissuto soltanto sulla Maiella e nel parco nazionale d'Abruzzo, dopo la fine dell'era glaciale. Resistentissimo al freddo, si accontenta di poca acqua e di poca terra ed è capace di mettere radici persino sulle pietraie che rimangono coperte di neve per molti mesi all'anno. I rami del pino mugo crescono infatti dapprima in senso orizzontale, poi verso l'alto, ma non superano mai i 2 - 3 metri di altezza. Questo portamento prostrato non è dovuto all'azione del vento o al peso della neve, ma è un carattere proprio della specie. Il risultato è una boscaglia fitta e contorta, quasi impenetrabile all'escursionista ma adattissima a trattenere la neve, e per questo preziosa per la protezione della montagna dalle valanghe. Il pino mugo si riconosce, oltre che per il portamento basso, per gli aghi robusti, leggermente ricurvi e riuniti in fascetti di due, più raramente di tre, e per le pigne, lunghe da 3 a 5 cm e prive di picciolo. Dal suo legno, che per la sua elasticità veniva un tempo impiegato per cerchiare le botti, si ricava il mugolio, una sostanza balsamica impiegata nelle infiammazioni delle vie respiratorie.

 

Abete rosso

Le più grandi e suggestive abetine delle Alpi, tra gli 800 e i 1800 metri di altitudine, sono costituite quasi esclusivamente da abeti rossi. Conosciuto anche come peccio, l'abete rosso è notissimo anche molto lontano dal suo ambiente abituale perchè altro non è che l'albero di Natale, erede di una tradizione antichissima dei popoli scandinavi, legata al ritorno della luce dopo il solstizio d'inverno. Il portamento di quest'albero può variare a seconda della latitudine e della quota alla quale vive. Gli individui isolati hanno in genere una chioma espansa. Nelle vallate alpine invece, dove forma foreste densissime, è tipicamente colonnare e molti esemplari possono raggiungere i trenta metri di altezza. L'abete rosso deve il suo nome alla corteccia di colore rosso-bruno. Gli aghi invece sono verde scuro, e pendono all'ingiù dai rami sottili che si dipartono dai rami primari. Si riconosce facilmente anche per la pigna (che i botanici chiamano più propriamente "cono"), allungata e pendente anch'essa all'ingiù. Resistente al freddo invernale e ai geli primaverili, l'abete rosso evita invece gli ambienti troppo umidi e quelli in cui le temperature estive sono troppo alte. Per questo, in Italia, è diffuso nelle valli alpine e discende gli Appennini solo fino alla Toscana. Rispetto ad altre conifere, l'abete rosso è sempre stato favorito dall'uomo sia per la qualità del suo legno, che per la sua maggiore produttività. Particolarmente famose sono le abetine del Cadore, nelle Dolomiti, che nei secoli d'oro della Repubblica di Venezia contribuirono non poco alle costruzioni navali e dunque alla fortuna della Serenissima.

Da non confondere con l’ Abete bianco che, nell'aspetto generale,  potrebbe ricordare l'abete rosso, ma ad un esame più attento permette di distinguerlo con sicurezza. La corteccia del tronco è grigio bruno chiaro, le gemme sono prive di resina, i rametti che portano gli aghi sono rivestiti di peli corti e radi, e i coni (le "pigne"), lunghi da dieci a diciotto centimetri, anziché essere penduli sono rivolti verso l'alto come candelabri. I coni, inoltre, non cadono, ma restano sul ramo dove si sgretolano squama per squama.
Le grandi foreste pure di abete bianco che si incontrano oggi a Camaldoli o all'Abetone non sono spontanee, ma sono state piantate dall'uomo. Sugli Appennini, infatti, l'abete bianco cresce insieme al faggio, alle quote più basse di diffusione di quest'albero. oggi ne sopravvivono solo pochi esemplari sul monte Cimone, sull'Amiata, sul Gran Sasso, sui monti della Laga e in Calabria sul Pollino e in Aspromonte. Nell'antichità era invece diffusissimo, come ci ricordano molti scrittori latini, tra cui Virgilio. A determinarne la scomparsa è stata la mano dell'uomo. I lunghi tronchi dell'abete bianco sono state ricercati per secoli per le grandi costruzioni edili e per farne alberi per le navi. Le flotte romane e poi delle repubbliche marinare, i palazzi e le cattedrali dell'Italia medioevale e rinascimentale

 

 

 

Stella alpina (Leontopodium alpinum, Leontopodium nivalis)
La nostra stella alpina, forse il più noto tra i fiori di montagna, cresce oltre che sulle Alpi e sul vicino Appennino Ligure, su molte delle catene montuose più elevate d'Europa. E' un fiore tipico delle alte quote, di solito fra i 1700 e i 3400 metri di altitudine, ma può scendere anche più in basso come nelle Prealpi Friulane dove si spinge a soli 350 metri di altezza. Specie molto simili sono diffuse dagli altipiani desertici dell'Asia fino alle steppe siberiane, dalle alte quote himalayane, dove raggiunge i 5400 metri, fino ad altitudini molto inferiori e territori del tutto pianeggianti. Se osserviamo da vicino la stella alpina - in tedesco edelweiss, sinonimo di purezza e nobiltà - vediamo che Þ alta circa trenta centimetri e che Þ dotata in media di 5-8 fiori gialli raccolti a capolino, circondati da una serie di foglie bianche (brattee), comunemente scambiate per petali, ricoperte di un denso strato di peli. Diversamente da quanto si potrebbe credere, il pelo che ricopre le brattee non serve a difendere il fiore dal freddo ma a ridurre la disidratazione e come protezione dalle radiazioni ultraviolette. Una specie affine alla stella alpina propriamente detta (L. alpinum) Þ la stella alpina appenninica (L. nivalis), vero relitto dei tempi della glaciazione, presente sulle cime più alte dell'appennino centrale: Sibillini, Gran Sasso e Monti della Laga, Maiella. Si distingue facilmente per il portamento nano e per le brattee che sono più larghe e corte e coperte da una peluria più abbondante. Entrambe le specie sono minacciate, oltre che dal pascolo eccessivo, dalla eccessiva raccolta per il mercato dei souvenir. Nei secoli scorsi, invece, la stella alpina, vero e proprio simbolo delle Alpi, veniva utilizzata come cura per la rabbia e la dissenteria, e bruciata affinché i fumenti da essa prodotti allontanassero il malocchio.

 

LA FAUNA DEI PARCHI


Aquila reale


Da migliaia di anni per nazioni e dinastie l'aquila reale è simbolo della forza e del potere. E in effetti - scomparso da tempo l'avvoltoio degli agnelli dai nostri cieli - l'aquila è il più grande rapace italiano: l'apertura alare raggiunge due metri e trenta centimetri nelle femmine (due metri nei maschi), il peso i sei chili e mezzo, il becco è robusto e gli artigli sono lunghi e affilati. Le penne dorate della nuca e del capo, simili a una corona, le hanno valso il titolo di "reale". L'aquila è anche uno dei più importanti predatori delle Alpi, dove sono presenti 250-300 coppie. Uccello molto attaccato al suo territorio, che può andare dai 50 ai 500 chilometri quadrati a seconda della disponibilità di cibo, l'aquila reale predilige gli spazi aperti con grandi pareti rocciose, sulle quali costruisce i suoi nidi. Questi si trovano in genere a una quota più bassa rispetto ai territori di caccia, per non costringere l'uccello a faticose risalite quando è appesantito dalla preda. La tecnica di caccia dell'aquila reale è inconfondibile: scivola silenziosamente a bassissima quota lungo i crinali e piomba di sorpresa sulla preda che uccide quasi sempre con gli artigli. Le vittime sono soprattutto lepri, marmotte e piccoli di camoscio o di capriolo. In realtà l'aquila reale non è un rapace di montagna, perchè potrebbe vivere facilmente anche a quote più basse. Solo in montagna però riesce ormai a trovare territori relativamente disabitati e ricchi di selvaggina. Nonostante la sua forza, poi, l'aquila reale è stata a lungo in pericolo a causa del bracconaggio, del furto dei piccoli e del disturbo arrecato da strade e impianti di risalita, anche perchè si riproduce molto lentamente. Oggi però le aquile italiane, protette dalla legge, sono in ripresa. Oltre alle coppie presenti sulle Alpi, un'altra cinquantina è presente sugli Appennini, e una trentina tra Sicilia e Sardegna.


Astore
Forte, agile, abilissimo nella caccia, l'astore è sempre stato considerato un uccello "feroce", tanto da diventare uno dei rapaci più ricercati dai falconieri. In effetti, è uno dei più grandi predatori della foresta, ambiente ricco di rifugi per le prede, dove è indispensabile volare veloci tra i rami ed effettuare brevi ma velocissime picchiate. A questo servono le ali corte e la coda lunga di questo uccello, specialista proprio degli agguati e degli inseguimenti. L'astore, predatore quasi al vertice delle catene alimentari, occupa territori molto ampi, fino a circa 5000 ettari. Qui cattura mammiferi di medie dimensioni come donnole, scoiattoli, lepri, conigli, esercitando su di essi una preziosa azione regolatrice, e uccelli come corvi, gazze, piccioni e poiane. Uccello stanziale in Italia, dove è presente sulle Alpi e sugli Appennini, soprattutto in quello meridionale, l'astore costruisce il suo nido sui rami degli alberi più alti, oppure utilizza, dopo averli riadattati, i nidi abbandonati di corvi e poiane. Maschio e femmina, che vivono isolati da luglio a gennaio, si riuniscono nello stesso territorio nel cuore dell'inverno, a febbraio, praticamente l'unico periodo in cui è possibile vederli volare ad alta quota, mentre eseguono giri concentrici e spettacolari picchiate di corteggiamento. Le uova sono covate dalla femmina, cui il maschio procura il cibo, e si schiudono in primavera. Per quaranta giorni i piccoli restano al nido, alimentati da tutti e due i genitori. Ancora un mese e diventano del tutto indipendenti. Inizia così per loro il periodo più difficile, quello della ricerca di un territorio. Gli adulti che ne possiedono già uno scacciano i giovani che vi si avventurano, e spesso li uccidono: una forma, questa, di autoregolazione della popolazione di astori, resa più frequente dal fatto che l'aquila reale e il gufo reale, gli unici animali che possono minacciarlo, sono ormai divenuti molto rari.


Corvo imperiale
L'intelligenza, tra le più raffinate tra gli uccelli, la forza e la capacità di nutrirsi di una gamma amplissima di cibi diversi hanno fatto la fortuna del corvo imperiale, una specie presente dalle coste artiche alle steppe, dal livello del mare ai 2400 metri di quota in Nordamerica, Europa, Asia settentrionale e Nordafrica. Il corvo imperiale è un uccello onnivoro, con una preferenza tuttavia per i cibi di origine animale. Innanzitutto si nutre di carogne, che riesce a trovare con lunghi voli di perlustrazione. In questo la sua abilità è grandissima, al punto che spesso gli avvoltoi se ne servono come "cane da caccia". Molto spesso attacca altri uccelli, i gabbiani per esempio, o le cornacchie, per rubare loro le prede. La pirateria è frequente perchè il corvo imperiale non teme nessuno in volo e solo aquile e avvoltoi a terra. Quando può, cattura anche animali vivi di piccole dimensioni come topi, lucertole, rane e larve insetti. E se si trova vicino a un centro abitato, si rifornisce volentieri nelle discariche dei rifiuti. La stessa complessità di comportamento si ritrova nella riproduzione. Il nido viene costruito in grotte, oppure sulla cima di alberi molto alti. I piccoli nascono in genere in marzo, e vengono subito accuratamente puliti dalla madre, che si preoccupa poi per i successivi 40 giorni di sistemare l'imbottitura del nido a seconda della temperatura esterna, di pulire e lavare i nidiacei, mentre il padre procura loro il cibo. In maggio i piccoli si rendono indipendenti e iniziano a cercarsi un territorio, che a seconda della disponibilità di cibo può avere un'ampiezza variabile tra i 10 e i 50 chilometri quadrati.


Picchio muraiolo
Si incontra quasi sempre da solo il picchio muraiolo, mentre si arrampica sulle rocce verticali a piccoli balzi o "camminando" grazie alla presa esercitata dalle sue unghie fortemente arcuate. Di colore grigio, si riconosce facilmente per le penne copritrici delle ali color carminio, molto ben visibili quando l'uccello si sposta in volo. In realtà il picchio muraiolo non è un vero picchio, non è cioè parente dei picchi che vivono sugli alberi. Solo l'abitudine di spostarsi sulle pareti verticali restando ben dritto, e il lungo becco, gli hanno valso questo nome. Il suo habitat sono invece le pareti rocciose, in modo particolare quelle riparate dal sole e piuttosto umide, come le gole attraversate da torrenti. Sebbene lo si incontri più di frequente tra i 1000 e i 2000 metri di altitudine e occasionalmente sulle Alpi si spinga fino ai 3000 metri, il picchio muraiolo non è propriamente un uccello montano, perché se trova un ambiente congeniale può scendere fino ai 400 metri circa. Solo d'inverno il picchio muraiolo, che è una specie sedentaria, si sposta sulle pareti assolate, dove può ancora trovare degli insetti. Uova e larve di insetti e ragni infatti sono il suo solo nutrimento, che estrae pazientemente con il lungo becco sottile dalle fessure della roccia, che esplora senza sosta durante il giorno. Nella tarda primavera il maschio corteggia la compagna svolazzandole intorno, ed è questa che provvede ad attrezzare il nido, in genere all'interno di una fenditura nella roccia. I piccoli nascono tra la metà di maggio e la metà di giugno, e dopo tre o quattro settimane sono già in grado di provvedere a se stessi. Il picchio muraiolo in Italia vive in ampi settori delle alpi occidentali e orientali, e nell'Appennino centrosettentrionale.


Picchio nero
E' impossibile non riconoscere il picchio nero, anche se non è facile avvistarlo. Grande all'incirca come una cornacchia ma più snello, con l'inconfondibile cresta rossa (nel maschio), il becco lungo e robusto, il picchio nero sta diventando sempre più raro. Può vivere infatti soltanto in foreste ben conservate dell'Europa e dell'Asia, dagli alberi secolari, al punto che la sua presenza è un segno sicuro della salute di tutto l'ecosistema. La ragione è semplice. Il picchio nero ha bisogno di una dieta molto variata, costituita in gran parte dalle larve degli insetti che si nutrono del legno, che sono più abbondanti nei vecchi alberi. Le trova sotto la corteccia o direttamente nel legno, che può perforare con il becco, e le cattura con la lingua lunghissima e munita di piccolissime setole uncinate. D'estate si nutre anche di frutti, e non disdegna neppure le formiche. Ma tutta la vita del picchio nero è legata agli alberi, fin dall'inizio. Nei tronchi più grandi infatti scava il suo nido, facilmente riconoscibile perché l'apertura è ovale, al contrario di quella degli altri picchi, che è rotonda. Quasi sempre ne scava uno nuovo ogni anno: un intero mese di lavoro sia per il maschio che per la femmina. Gli ornitologi sono in grado di riconoscere, dalla velocità con la quale tamburella il legno con il becco, se il picchio nero - solitario e territoriale - sta mangiando, sta scavando il nido, o se sta invece segnalando la sua presenza ad altri picchi, perché si tengano alla larga. Più difficile è difendersi dai suoi nemici. Il più pericoloso è la martora, che si può infilare nel nido e sorprenderlo addormentato, ma anche l'astore, il rapace specializzato alla vita nella foresta, riesce qualche volta a piombargli addosso in pieno giorno e a ucciderlo.
Gracchio
E' negli ambienti severi e deserti delle alte quote, tra le creste rocciose e le grandi pietraie, che volano gli stormi rumorosi di gracchi, corvidi neri delle dimensioni poco più grandi di quelle di un merlo. Slanciati, dal caratteristico becco sottile giallo, le ali larghe e lunghe e la coda lunga e arrotondata che permettono loro di sfruttare anche le correnti aeree, i gracchi sono degli ottimi volatori e possono spostarsi a grandissima velocità da una quota all'altra. Quasi mai i gracchi penetrano nelle foreste delle quote più basse. Cavallette, grilli, vermi, larve di insetti, uova e nidiacei di altri uccelli rientrano tutti nella dieta del gracchio che, fedele all'adattabilità alimentare caratteristica dei corvidi, non disdegna anche i frutti del ginepro, del mirtillo e della rosa selvatica. La vita sociale dei gracchi si attenua in primavera, per il periodo riproduttivo. Per nidificare i gracchi scelgono fessure e sporgenze inaccessibili nelle pareti rocciose, dove costruiscono una coppa semisferica di rametti e radici, che imbottiscono con erbe e penne. Da tre a cinque uova vengono deposte nel mese di maggio. Due soli nidiacei riescono però in genere a sopravvivere, e lasciano il nido tra la fine di giugno e l'inizio di luglio. Nel giro di qualche settimana le famiglie tornano a riunirsi in stormi. In Italia, il gracchio è diffuso in ampi settori delle Alpi e nell'Appennino centromeridionale ed è una specie sedentaria. Può venire confuso con il più raro gracchio corallino, con il quale convive in molti luoghi, Gran Sasso compreso. Molto simile nell'aspetto generale, il gracchio corallino si può distinguere con sicurezza dal becco, che è rosso, ed è più lungo e sottile di quello del gracchio.

 

Gufo reale


E' negli ambienti misti, dove si trovano sia boschi con forre o piccole pareti rocciose che zone aperte, che è possibile trovare il gufo reale, il più grande rapace notturno italiano ed europeo. Alcuni esemplari in passato sono diventati famosi per essersi stabiliti sul Duomo di Firenze o al Colosseo, diventando il terrore di gatti, piccioni e pipistrelli. Oggi è piuttosto raro anche perché, essendo un predatore al vertice della catena alimentare, risente prima degli altri di ogni alterazione dell'ecosistema in cui vive. Il gufo reale è un uccello solitario e stanziale. Non migra quindi, ma resta sempre all'interno del suo territorio personale. Trascorre le sue giornate nel nido, ricavato in genere dentro un grande albero cavo o in un anfratto roccioso, più raramente sul terreno, ed esce a caccia all'alba e poi di nuovo al crepuscolo. Le grandi dimensioni (fino a 180 centimetri di apertura alare per quasi tre chilogrammi di peso), il volo potente e silenziosissimo, i lunghissimi artigli e la vista e l'udito particolarmente sensibili fanno del gufo reale un temibilissimo predatore. Le sue vittime, che ingoia intere, sono piccoli mammiferi come lepri, ricci, topi e scoiattoli, uccelli come colombi, cornacchie e gallinelle d'acqua, e grossi insetti. Non facile da vedere, il gufo reale si fa però sentire in febbraio, all'epoca degli amori, con il profondo "huhuh" del maschio, cui risponde il sommesso "chrang" della femmina. Non avendo nemici, i gufi reali "autoregolano" la loro popolazione adeguando il numero delle uova deposte alla disponibilità di cibo. I nuovi nati che riescono a sopravvivere i primi mesi possono aspettarsi una vita anche molto lunga. Non si dispone di dati certi derivati da studi compiuti in natura, ma alcuni gufi reali allevati in cattività sono vissuti fino a sessant'anni.


Marmotta


Le praterie di montagna comprese tra i 1000 metri di altitudine e il limite delle nevi perenni (intorno ai 3000 metri) sono l'ambiente in cui si possono avvistare le marmotte, che qui vivono in colonie composte da alcune decine di individui. La prateria è un ambiente aperto, che offre pochi rifugi dall'attacco dei predatori, primo tra tutti la grande aquila reale. Per questo ogni famiglia di marmotte vi scava una profonda tana: un lungo cunicolo principale conduce ad una camera tappezzata d'erba, provvista anche di uscite di sicurezza. La vita in colonia è un adattamento ad un ambiente così pericoloso. Mentre adulti e piccoli sono fuori dalle tane alla ricerca di foglie e semi, qualche marmotta è sempre di guardia. All'avvicinarsi di un predatore, le sentinelle lanciano acuti fischi d'allarme, e in pochi istanti tutta la colonia rientra precipitosamente nelle tane. L'anno delle marmotte inizia ad aprile, alla fine del letargo invernale. Quasi subito hanno inizio i combattimenti tra maschi, che si contendono le femmine in estenuanti tornei di spintoni. I piccoli nascono a giugno, e dopo tre settimane sono già pronti a mettere il naso fuori dalle tane. Adesso inizia per loro il periodo più pericoloso perché, ancora inesperti, sono facili prede di aquile e volpi. All'arrivo dell'autunno le marmotte cominciano ad accumulare riserve di grasso per l'inverno. Per affrontare la cattiva stagione si spostano nelle tane invernali, più profonde, che scavano a quota più bassa. Si radunano fino a 15 per tana, si avvolgono di fieno e addossate le une alle altre, cadono in letargo. Il lungo sonno durerà sei mesi, fino alla nuova primavera.Non è difficile avvistare le marmotte, che oggi si fanno anche avvicinare. Ma non è sempre stato così. Fino a qualche decennio fa, fino a quando cioè sono state oggetto di caccia da parte dell'uomo, erano timide e sospettosissime.
Stambecco
E' quasi un miracolo il fatto di poter ammirare i branchi di stambecchi sugli alti pascoli del parco del Gran Paradiso. Diffuso fino a qualche secolo fa sull'intero arco alpino, lo stambecco è stato l'oggetto di una persecuzione che ha pochi eguali a causa di una serie di credenze - del tutto infondate - sui poteri curativi di molte parti del suo corpo, dalle corna al pelo, persino al sangue. La caccia fu così accanita che di stambecchi, nel 1821, non ne restavano che un centinaio appena, isolati proprio nei recessi più inaccessibili del Gran Paradiso. La creazione della Riserva Reale del Gran Paradiso da parte del re Vittorio Emanuele II nel 1836 fece appena in tempo a salvare quegli ultimi branchi superstiti. Oggi gli stambecchi del Gran Paradiso sono oltre 4000 e una serie di reintroduzioni effettuate nel corso degli anni in Italia, Francia, Svizzera e Austria hanno definitivamente messo al sicuro l'avvenire di questo animale, presente con oltre 20.000 capi tutto l'arco alpino. Lo stambecco è un animale fatto apposta per la vita sulle più alte pendici delle montagne, al di sopra del limite degli alberi. La sua corporatura è massiccia (tra i 65 e i 100 chilogrammi nei maschi, fino a 60-65 chilogrammi nelle femmine). A renderlo inconfondibile sono le corna dei maschi, lunghe e ricurve, che non servono per difendersi ma per combattere contro gli altri maschi durante il periodo degli amori. Questo ha inizio in novembre. Per tutto il resto dell'anno i branchi di maschi e quelli di femmine restano divisi. I maschi si affrontano, usando anche le corna se necessario, per stabilire una gerarchia basata sulla forza, quindi sull'età: solo i più forti hanno il diritto di accoppiarsi con le femmine. Dopo una lunga gestazione, i piccoli nasceranno intorno alla prima metà di giugno, per poter approfittare dei ricchi pascoli estivi prima dell'arrivo del nuovo inverno. In questi primi mesi possono però diventare le prede dell'aquila reale.


Volpe


"Furbo come una volpe", si dice. Gli etologi non sono d'accordo con questa antica credenza popolare. Il lupo ad esempio, parente stretto della volpe, è molto più intelligente di lei e molto più bravo a sfuggire ai cacciatori. Altre, secondo loro, sono le qualità che hanno fatto il successo della volpe, un animale che vive nei boschi e nei campi, come nelle paludi, e sempre più spesso si avventura fin nei parchi e nelle periferie delle città. Più che furba, infatti, è estremamente prudente. Quasi sempre l'olfatto, l'udito e la vista acutissimi la avvertono in tempo dei pericoli. La capacità della volpe di accontentarsi delle più diverse fonti di cibo è proverbiale. In quanto carnivoro predatore cattura topi, lepri, anatre, fagiani, persino piccoli di capriolo. In caso di necessità però caccia anche pesci, lucertole e piccoli uccelli, che inganna fingendosi morta e non disdegna neppure lombrichi, lumache, larve di insetti e rane. Anche rifiuti di ogni tipo rientrano nella sua dieta, e molto spesso anche frutta matura come uva, susine e mirtilli. Le volpi vivono in tane sotterranee, per le quali scelgono luoghi soleggiati, e riutilizzano anche vecchie tane di tassi o di conigli selvatici, che allargano. Il territorio circostante può avere un'estensione molto variabile, a seconda della disponibilità di cibo: dai 5 ai 50 chilometri quadrati. Nel nido nascono i piccoli, da tre a cinque, alla fine della primavera. Nelle prime settimane di vita la madre li nutre e li protegge dai predatori. L'infanzia infatti è il momento più rischioso nella vita di una volpe. Aquile, astori, gufi e gatti selvatici possono facilmente catturare i volpacchiotti. Molto più difficile, se non impossibile, è invece catturare una volpe adulta, che oltre ad essere prudente è velocissima nella fuga e possiede comunque una temibile dentatura.


Camoscio
Perfettamente adattato alla vita alle alte quote, il camoscio è diffuso in tutte le Alpi. Lo si incontra durante l'estate sui pascoli e i dirupi oltre il limite degli alberi, mentre nei mesi invernali può scendere anche nei boschi più in basso. Guardiamolo da vicino. Il corpo è massiccio, le zampe sono forti e dotate di tendini eccezionalmente resistenti per arrampicarsi o scendere di corsa lungo i più ripidi pendii rocciosi. Le due metà dello zoccolo, dalla superficie plantare capace di grande aderenza sulla roccia, si possono divaricare ad angolo retto per migliorare la presa o frenare sulla neve. Le corna ricurve all'indietro nella parte terminale, invece, servono soltanto nei combattimenti tra maschi e i ricercatori ci leggono l'età dell'animale in base al numero degli anelli di crescita. Maschi e femmine vivono separati per quasi tutto l'anno. Le femmine abbastanza attaccate alla zona in cui sono nate, i maschi invece, a partire dai quattro-sei anni di età, si allontanano verso altri pascoli e altri branchi. Tornano insieme tra novembre e dicembre, per la stagione riproduttiva, il periodo di più intensa attività. I maschi più vecchi e più forti, che hanno resistito al freddo di molti inverni, alle malattie e agli attacchi dei predatori e dei parassiti sono quelli che si accoppiano più spesso. Ciascuno di loro possiede anzi un "harem" composto di femmine dalle quali tiene lontani i maschi più giovani. Quando uno di loro si fa avanti, i due camosci si affrontano con prove di forza e inseguimenti. Ma tenere lontani i concorrenti non è tutto. Occorre anche scoprire qual è il breve periodo dell'estro delle femmine, sempre irrequiete e pronte a lasciare il branco, e guadagnarsene la fiducia. L'accoppiamento dura pochi secondi, poi via: è arrivato l'inverno. I piccoli nasceranno molti mesi più tardi, tra maggio e giugno, al ritorno della bella stagione.


Cervo nobile
Sono i grandi palchi ramificati posseduti dai maschi la caratteristica più appariscente del cervo nobile, il più grande erbivoro delle foreste europee. Cominciano a crescere alla fine della primavera, e raggiungono le loro dimensioni definitive dopo circa cento giorni. Per l'animale la crescita dei palchi, costituiti da tessuto osseo, è uno sforzo enorme, paragonabile alla gestazione e al parto delle femmine. Migliori sono le sue condizioni fisiche, più grandi sono le corna: in questo modo la natura si assicura che a riprodursi saranno i maschi capaci di dare alle femmine i figli più forti e più sani. Tra la fine dell'estate e l'inizio dell'autunno, infatti, la vita dei branchi di cervi viene sconvolta dalla stagione degli amori. I maschi smettono quasi di pascolare, iniziano a occupare le radure all'interno dei boschi e a emettere potenti bramiti, al doppio scopo di attirare le femmine e di scoraggiare gli altri maschi. Quando il bramito non basta, i contendenti si impegnano in veri e propri combattimenti a colpi di corna, che non servono a ferire l'avversario ma a dimostrare la propria forza. Si accoppieranno - ciascuno con più femmine - i maschi dalle corna più grandi, che avranno dimostrato di essere i più forti. Poco dopo l'accoppiamento, che avviene nella prima metà di ottobre, i palchi cadono, e il maschio ritorna improvvisamente timido e pauroso. Le femmine invece si riuniscono di nuovo ai loro gruppi familiari, cui appartengono anche i giovani. I cerbiatti nascono tra maggio e giugno, in tempo per approfittare della buona stagione. Il loro mantello fulvo e pomellato di bianco li aiuta a nascondersi nel fitto sottobosco alla vista dei predatori. Una precauzione ormai inutile, almeno sulle Alpi, dove il lupo e la lince sono da tempo scomparsi.

 

Scoiattolo


I grandi boschi di conifere sono l'ambiente ideale dello scoiattolo, che non disdegna però anche i boschi di latifoglie, dal livello del mare fino ai 2500 metri di altitudine. In Italia infatti vive in tutte le regioni forestali dalle Alpi alla Calabria, ma manca nelle isole.Grande scalatore, dall'agilità eccezionale nel saltare da un ramo all'altro, capace se necessario anche di buttarsi già impiegando la grande coda come un paracadute, lo scoiattolo sugli alberi costruisce il suo nido, simile a quello degli uccelli, e trova di che nutrirsi. Il suo cibo preferito sono i pinoli e i semi in genere, e i semi in genere, il cui guscio spacca con i grandi incisivi a crescita continua. Quando questi scarseggiano, ricerca anche germogli, fiori, bacche, persino uova e nidiacei di uccelli. Suoi nemici, invece, sono i tipici rapaci del bosco come l'astore o lo sparviere, dai quali scappa arrampicandosi a spirale lungo il tronco dell'albero, un movimento che gli uccelli non riescono a seguire. Anche il gatto selvatico e la martora sono attivi cacciatori di scoiattoli. Nonostante l'aspetto a noi così simpatico, la vita sociale degli scoiattoli è regolata da rigide gerarchie. I giovani sono inferiori agli adulti, e le femmine ai maschi, salvo nel periodo della gestazione, durante il quale arrivano a scacciare i maschi dal territorio. Al contrario di quanto avviene in molti altri animali, il territorio non è possesso esclusivo di un individuo o di una coppia, ma viene in buona parte condiviso con diversi "vicini di casa". D'estate lo scoiattolo è attivo al mattino e poi di nuovo verso il crepuscolo. D'inverno non va in letargo, ma si limita a brevi escursioni mattutine fuori dal nido, dove ha accumulato durante la buona stagione una riserva di semi.


Fonte: http://ipertestiscuola.altervista.org/scienze/parchi.zip

 

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

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