Italiano riassunti

 


 

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Introduzione al Romanticismo                                                       

La parola romantic compare per la prima volta in Inghilterra verso la metà: del Seicento e viene usata in senso spregiativo ad indicare ciò che vi era di fantastico, assurdo e falso negli antichi romanzi cavallereschi e pastorali. Nel Settecento, il termine comincia a perdere l’accezione peggiorativa e passa a significare semplicemente «ciò che è atto a dilettare l’immaginazione». Viene anche usato per definire aspetti selvaggi, solitari e malinconici della natura. Nella Nuova Eloisa Rousseau col termine romantique definisce qualche cosa di vago e indefinito, «un non so che di magico, di sovrannaturale, che rapisce lo spirito e i sensi». Il termine fu poi usato dagli scrittori e filosofi che si raccoglievano intorno alla rivista «Athenaeum» per definire la letteratura moderna, nata dalla sensibilità formatasi nel Medio Evo in contrapposizione alla letteratura classica. Il termine “romantico” viene usato a designare uno stato d’animo di nostalgia per ciò che è lontano, indefinito, sconosciuto.
Nella cultura romantica trionfano le tematiche negative: il dolore, la malinconia, il disgusto, la malinconia, il rifiuto della realtà.
Il periodo in questione è segnato da grandiose e rapide trasformazioni che sconvolgono assetti secolari:  le rivoluzioni politiche (America e Francia) che fanno crollare la monarchia assoluta per diritto divino e si afferma il principio che la fonte di sovranità è il popolo; alle idee di autorità e gerarchia si affermano le idee di libertà e eguaglianza. Lea rivoluzione economica determinata dall’industrializzazione; originatasi a metà Settecento in Inghilterra si estende in tutti i paesi europei. Si affacciano nuovi ceti alla scena sociale, si trasforma la vita quotidiana, cambia il rapporto tra città e campagna sorgono nuove città industriali dove si concentrano gli operai e il proletariato che viene sfruttato e vive in condizioni di vita pessime. I trasporti si fanno più rapidi e oltre allo scambio di merci viene incrementato lo scambio di idee.
L’intellettuale che prima faceva parte dei ceti egemoni o era de essi cooptato ora perde la sua posizione privilegiata: è costretto a trovare un’occupazione di poco prestigio per vivere e non gli viene concesso più quell’otium che era prerogativa dell’intellettuale del passato. Nella società dove dominano i valori dell’utile e della produttività l’artista è visto come una persona INUTILE e improduttiva. L’opera d’arte diventa una merce che ha un prezzo e che si scambia sul mercato; inoltre l’artista se vuole vendere deve assecondare i gusti del pubblico che egli dispressa per la sua grettezza e la sua insensibilità. Ciò lo induce ad atteggiamenti di rivolta, di anticonformismo di rifiuto dei valori correnti.
Il rifiuto romantico si indirizza in un primo luogo contro la ragione, ma è limitativo parlare di rifiuto del razionalismo. Accanto alla ragione viene recuperato il sentimento e la fantasia: la poesia è la libera espressione della fantasia e del sentimento. La ragione rende uguali e il sentimento distingue. Mentre l’illuminismo è il periodo dei lumi il romanticismo predilige la tenebra e la notte che sono metafore per l’irrazionalità. Il romantico ha anche una visione idealistica, egli tende a sprofondare negli abissi dell’interiorità. Il mondo esterno non esiste è solo una proiezione o creazione dell’io. Il romanticismo inoltre segna un ritorno alla spiritualità e alla religiosità, che si manifesta in vere e proprie conversioni alla religione tradizionale. Il male esercita un fascino prepotente sull’anima romantica. Nascono fantasie di sangue di crudeltà di morte che caratterizzano la letteratura del tempo.
L’esotismo è una delle tendenze fondamentali del Romanticismo; esso può essere spaziale, ovvero il vagheggiare in luoghi lontani e ignoti resi affascinanti dalla lontananza e dalla diversità; oppure l’esotismo temporale che consiste nel trasferirsi in altre epoche come il medioevo cavalleresco o l’Ellade antica.
L’eroe romantico può essere di due tipi: il ribelle che orgoglioso della sua superiorità si erge a sfidare ogni autorità (titanismo) oppure la vittima che è reso diverso dalla sua superiorità ed è incompreso; il suo disagio è espresso con la solitudine e la malinconia. Sullo stesso versante si colloca l’esule che a causa del destino e della malvagità degli uomini è costretto a vagare senza sosta lontano dalla sua patria. Il poeta è visto come il genio, la persona datata di sensibilità e intelligenza superiori e attraverso di lui parla al divinità stessa.

 

Alla tematica negativa e “malata” è stato contrapposto un romanticismo Positivo, teso ai grandi ideali, all’impegno civile e patriottico, quello che riscopre la positività della storia e delle tradizioni, Il Romanticismo sente con grande intensità il concetto di nazione; ognuna è una grande individualità con lo spirito del popolo che la contraddistingue. Il polare si identifica col nazionale.
Il passato storico è un patrimonio prezioso che deve essere conosciuto e posseduto a fondo, perché una nazione abbia coscienza della propria identità, al contrario dell’antistoricismo razionalistico.
Anche il recupero delle tradizioni nazionali e popolari è pur sempre polemico contro un mondo presente che nega le radici, per questo può essere assunto entro le categorie del rifiuto. Anche l’impegno civile del poeta presuppone una scontentezza nei confronti della realtà cosi com’è. Rimane comunque sbagliato dare un giudizio di condanna m moralistica del Romanticismo negativo.
La poetica classicistica si fondava sul principio d’imitazione della natura desunto dagli antichi; la natura era perfetta e una volta raggiunta la perfezione non restava che riprodurla. Il prodotto andava rifinito con il lavoro di lima e portato alla perfezione formale. Inoltre vi era la separazione degli stili.
La poetica romantica rifiuta decisamente regole, modelli e generi. La poesia è libera espressione individuale, una voce che proviene dal profondo dell’essere. Infatti, contro l’imitazione, viene esaltata l’originalità, la spontaneità e l’autenticità. Il sentimento del poeta deve trovare espressione immediata e sincera. L’arte romantica tende al vago, all’indeterminato, al musicale che meglio possono esprimere la disposizione sentimentale del soggetto. Legato  a ciò vi è l’idea della molteplicità dei gusti a seconda delle condizioni storiche, sociali e culturali che nega il concetto classico dell’immutabilità del bello. Ne deriva anche un allargamento dei confini del poetico: in esso si può trovare anche quello che in età classica era definito brutto o impoetico. Crolla così il principio della separazione degli stili.

 

I movimenti romanitici in Europa                                                  

In Germania già dal Settecento si erano delineate tendenze preromantiche come lo Sturm und Drang; ma l’atto di nascita del Romanticismo è la fondazione della rivista Athenaeum dei fratelli Schlegel pubblicata tra il 1798 e 1800.
La base filosofica del Romanticismo tedesco è l’idealismo di Fichte che identifica il reale con l’io e vede il mondo esterno come sua negazione, non-io, e quello di Schelling che propone una visione mistica della natura. La nuova spiritualità romantica ha le sue radici nella spiritualità cristiana che si afferma nel medioevo. Caratteristico del Romanticismo tedesco fu il recupero delle tradizioni nazionali e popolari, collegato al nazionalismo, che nasceva in contrapposizione all’oppressione napoleonica.
Ci fu anche l’impulso alla fuga dal reale, il soggettivismo esasperato, la tensione verso l’infinito, ma anche l’ironia, la cosiddetta “ironia romantica” che nasce dalla consapevolezza che il mondo esterno è la proiezione dell’io. Allo stesso tempo vi è il gusto per le situazioni fantastiche,  irreali o di sogno.
In Inghilterra la prima fase con Wordsworth e Coleridge che dicevano che il poeta deve usare un linguaggio semplice come quello della gente comune e la poesia deve trattare cose reali, quotidiane e umili. La seconda fase con Byron Shelley e Keats che avevano l’ansia di libertà e il conflitto con la società inglese, col suo rigido moralismo e le sue convenzioni soffocanti.
In Francia il romanticismo si sviluppa più tardi. La figura più significativa è Chateaubriand che nel Genio del Cristianesimo esalta la religione cattolica come fonte di ispirazione poetica e artistica. Il manifesto del movimento romantico fu la prefazione di Hugo alla sua tragedia Cromwell dove lo scrittore sostiene che nell’arte devono convivere bello e brutto, sublime e grottesco, tragico e comico.
In Italia la pubblicazione di un articolo di Madame de Stael sulla “Biblioteca Italiana” diede impulso al movimento romantico. La scrittrice deprecava la decadenza della cultura italiana e invitava gli Italiani ad uscire dal loro culto del passato, aprendosi alle correnti vive dell’Europa. L’articolo suscitò le critiche dei classicisti difensori delle glorie nazionali e dei principi sacri dell’arte classica. Nel 1818 un gruppo di intellettuali romantici diede vita ad un giornale, “Il conciliatore” che divenne il portavoce delle nuove idee letterarie e si proponeva anche finalità di progresso civile, diffondendo cognizioni scientifiche utili allo sviluppo economico il Lombardia. Esso ebbe vita difficile con la censura austriaca e cessò le pubblicazioni nel 1819. I romantici Italiani erano però lontani dalle soluzioni estreme del Romanticismo europeo e ne rifiutavano le tematiche irrazionalistiche e tenebrose e gli eccessi di anarchia formale. Nei primi anni della Restaurazione si formò una nuova classe dirigente che fece le sue prime prove con i moti del 20 e del 21. Il romanticismo lombardo fu l’avanguardia intellettuale di questo processo. Il programma del Conciliatore ricorda quello del Caffe illuminista, vi fa espliciti riferimenti e ne riprende la terminologia come la forumla chiave “diffondere i lumi”. Tuttavia non è solo una seconda fase dell’Illuminismo: gli uomini del Conciliatore possiedono un nuovo senso della storia che li fa guardare con diverso interesse al passato ed hanno una precisa visione della nazione come prodotto storico e unità spirituale; in secondo luogo hanno come referente un pubblico popolare e sono oramai liberi dall’illusione di una possibilità di collaborare con i governi assoluti illuminati per promuovere riforme dall’alto.

 

Le ideologie e Berchet                                                                     

Il liberalismo moderato era caratterizzato innanzitutto dal rifiuto della Rivoluzione Francese. La soluzione del problema nazionale doveva giungere attraverso l’iniziativa del sovrano grazie a graduali riforme come quelle settecentesche dell’illuminismo illuminato, in modo da evitare degenerazioni. Sul piano politico si proponeva una federazione di Stati Italiani. Si riteneva che solo un elite di nobili e alto-borghesi potesse avere la competenza per gestire la cosa pubblica.
Gioberti nella sua opera Del primato morale e civile degli Italiani proponeva una federazione di stati italiani ciascuno con la sua dinastia legittima sotto la presidenza del papa e con caute riforme politiche.
Cesare Balbo nel Delle speranze d’Italia credeva che l’Austria avesse lasciato i suoi territori italiani in cambio di contropartite in Oriente e la sua idea di federazione Italiana aveva a capo il re della Sardegna.
Cattaneo e Ferrari, avevano tendenze democratiche e proponevano un assetto repubblicano federativo, che avesse come modello gli Stati Uniti e salvaguardasse l’autonomia delle regioni italiane.

Giovanni Berchet nacque a Milano nel 1783 e fu l’autore del più famoso manifesto Italiano del Romanticismo: Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo. Nel 18 fondò il conciliatore e nel 20 si iscrisse alla Carboneria. Fu vittima di una repressione a seguito dei moti del 21 e andò esule in giro per l’Europa. Tornò in Italia nel 45 e partecipò alle 5 giornate milanesi del 48. Dopo il ritorno degli Austriaci si riparò in Piemonte e fu eletto deputato del Parlamento subalpino schierandosi con la Destra. Morì nel 51 a Torino.

La lettera semiseria:
L’autore che si cela dietro lo pseudonimo di Grisostomo (bocca d’oro in greco) finge di scrivere al figlio in collegio dandogli dei consigli letterari. All’inizio esalta la nuova letteratura Romanitca e le ballate del tedesco Burger. Poi alla fine finge di aver scherzato e esorta il figlio a seguire le regole classicistiche che espone facendone la parodia. Per questo è detta semiseria.

 

Manzoni                                                                                             

Alessandro Manzoni nacque a Milano nel 1785, dal conte Pietro e da Giulia Beccaria, figlia di Cesare Beccaria. Separatisi presto i genitori, trascorse la giovinezza in collegio dove ricevette l’educazione classica. Uscito dal collegio a 16 anni si inserì nell’ambiente Milanese e strine amicizia con i profughi napoletani e con poeti già famosi come Foscolo. In questo periodo scrisse anche molte opere poetiche nel gusto classicistico dell’epoca. Nel 1805 raggiunse la madre a Parigi e nacque tra di loro un rapporto affettivo molto intenso destinato a segnare la vita dello scrittore. A Parigi entro i contatto con gli ideologi, un gruppo di intellettuali eredi dell’illuminismo, e con i giansenisti. Strine amicizia con Fauriel; l’ideologo divenne punto di riferimento per Manzoni nel periodo più fecondo della sua attività di scrittore. Sul suo ritorno alla fede cattolica Manzoni mantenne sempre uno stretto riserbo. Dovette essere determinante l’influsso della moglie che si convertì al cristianesimo a Parigi. La conversione fu il primo manifestarsi di quelle gravissime crisi nervose che angustiarono Manzoni per tutta la sua vita. Nel 1810 lasciò Parigi e tornò a Milano. Manzoni abbandonò la poesia classica e si dedicò alla stesura di Inni Sacri. Fu vicino al movimento romantico milanesee ne segui gli sviluppi, ma non partecipò direttamente alle polemiche con i classicisti. In questo periodo scrisse molte opere tra cui la Pentecoste, le tragedie, le prime stesure del romanzo, Osservazioni sulla morale cattolica e Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia. Ma con la pubblicazione nel 27 dei Promessi sposi si può dire concluso il periodo creativo del Manzoni. Trovò una nuova guida intellettuale nel filosofo cattolico Rosmini. La sua figura di intellettuale era sempre circondata di ammirazione dopo il successo del suo romanzo: Manzoni era diventato una figura pubblica. Costituitosi il Regno d’Italia nel 60  fu nominato senatore. Pur essendo cattolico era contrario al potere temporale della Chiesa, ma favorevole a Roma capitale. Negli anni della sua lunga vecchiaia Manzoni fu circondata dalla venerazione della borghesia italiana. Morì a Milano nel 73 a 88 anni.

 

Le opere                                                                                             

Tra il 1801e il 1810 Manzoni compone opere in linea col gusto classicistico dell’epoca. Sono opere scritte nel linguaggio aulico e con l’ornamentazione retorica della tradizione. Nel 1801 scrive una visione allegoria “Trionfo della libertà”, un poemetto colmo di spiriti libertari inneggianti alla rivoluzione francese e contro la tirannide politica e religiosa.
Nel 1805 nel Carme in morte di Carlo Imbonati Manzoni immagine che l’Imbonati gli appaia in sogno dandogli nobili insegnamenti di vita e di poesia. Possiamo vedere la nascita dell’ideale del giusto solitario. Ma si può gia cogliere un presentimento del Manzioni futuro nella convinta affermazione della sincerità e del rigore morale che deve ispirare la scrittura letteraria. Nel 1809 compone il poemetto Urania.
La conversione investì a fondo tutti gli aspetti della sua personalità. Ne sono una prova eloquente le Osservazioni sella morale cattolica scritte per controbattere le tesi dello storico De Sismondi che affermava nella Storia delle repubbliche italiane nel Medio Evo che la morale cattolica era la radice della corruzione del costume italiano. L’approdo al cristianesimo è lo sbocco di un processo che aveva messo in crisi le scelte esistenziali e gli orientamenti ideologici e culturali. In ambito storico Manzoni assunse un atteggiamento anticlassico: I Romani erano visti come un popolo violento e il Medioevo cristiano era la matrice della civiltà moderna. Inoltre vi era il rifiuto della concezione eroica e l’interesse per i vinti e gli umili. In ambito letterario si forma in lui una visione tragica del reale che non tollera più la serena serenità classica. Nasce il bisogno di una letteratura che guardi al vero della condizione storica dell’uomo. Vi si aggiunge il rifiuto del formalismo retorico e il bisogno di un arte che si prefigga come fine l’utile come scrive nella lettera a Cesare D’Azeglio dove afferma che lo scopo è l’utile, il mezzo è l’interessante e il soggetto è il vero.
Gli inni sacri scritti tra il 12 e il 15 sono l’esempio della poesia nuova. Manzoni rifiuta la mitologia classica che vede come qualcosa di falso. Ne deriva una poesia non più per la cerchia dei letterati, ma per il popolo (la borghesia). Manzoni si propone come semplice interprete della coscienza cristiana. Manzoni aveva progettato 12 inni, ma ne compose 4 più 1 in seguito nel 22. Il modello per gli Inni erano i Vangeli dei Padri della Chiesa e gli Oratori Sacri del Seicento Francese. Nei primi 4 inni seguono uno schema fisso: enunciazione del tema, rievocazione dell’episodio centrale e commento e prevalgono i motivi teologici e l’episodio, mentre nella Pentecoste, Manzoni insiste sullo sconvolgimento portato dallo spirito santo nella sua discesa nel mondo e conclude invocandolo a riscendere. Nel 21 Manzoni compone l’ode Marzo 1821 dedicata ai moti dello stesso anno e il cinque maggio ispirato alla morte di Napoleone. Al posto della mitologia, vi è una descrizione dei fatti sotto la prospettiva religiosa. Vicino alle forme di Marzo 1821 è il coro del Carmagnola. Il primo coro dell’Adelchi contiene un ammonimento agli Italiani affinché non facciano affidamento su forze straniere per la loro liberazione nazionale.

 

Le tragedie

La tragedia si colloca in una posizione di rottura rispetto alla tradizione del genere. Troviamo la scelta della tragedia storica e il rifiuto delle unità aristoteliche. Manzoni rifiuta soprattutto l’unità di tempo e l’unità di luogo; i principi che lo guidano sono esposti nella lettera a Chauvet, in risposta al critico Chauvet che gli aveva rimproverato l’inosservanza delle unità con allegate due sue tragedie tradotte da Fauriel. In obbedienza al suo culto del vero Manzoni vi afferma di non voler inventare dei fatti per adattarvi dei sentimenti, ma di voler spiegare ciò che gli uomini hanno sentito, voluto e sofferto, mediante ciò che essi hanno fatto. Per creare la poesia drammatica basta ricostruire un fatto storico; per questo il poeta deve essere fedele al vero storico senza bisogno di prendersi arbitrii inutili. Ciò che lo distingue dallo storico è il completare i fatti investigando con l’invenzione poetica i pensieri e i sentimenti dei protagonisti.
Chiudere lo sviluppo di un’azione in stretti limiti di tempo e di luogo costringe ad esagerare le passioni (per far si che i personaggi giungano in 24 ore alla risoluzione decisiva)  e fa nascere il falso della tragedia classicistica. Solo la libertà da regole artificiose consente di riprodurre il vero di costruire caratteri autentici e individuali. La falsità della tragedia ha anche dannosi effetti morali poiché gli uomini finiscono per applicare nella vita reale i principi falsi visti sulla scena. Solo un teatro che si ispira al vero può avere influssi positivi sul pubblico.
Il conte di Carmagnola scritto tra il 16 e 20 si incentra sulla figura di un capitano di ventura del 1400, Bussone, che al servizio di Milano ottiene tante vittorie e sposa la figlia del Duca; passa poi al servizio di Venezia e sconfigge i Milanesi a Maclodio. Ma viene sospettato di tradimento per la sua clemenza con i prigionieri e  condannato a morte. La tragedia si basa sul confitto tra l’uomo d’animo elevato e la Ragion di Stato; la storia umana come trionfo del male a cui si contrappongono esseri incontaminati destinati alla sconfitta.
L’Adelchi del 22 tratta del crollo del regno longobardo in Italia nel VIII secolo. I quattro protagonisti sono divisi in due gruppi: Desiderio e Carlo sono animati dall’interesse della ragion di Stato e dalla passione di dominio, mentre Adelchi ed Ermengarda sono puri, ma destinati alla sconfitta.
Il coro manzoniano non ha la stessa funzione del coro classico, ovvero la personificazione dei pensieri e dei sentimenti che l’azione doveva ispirare, ma è un momento in cui lo scrittore può esprimere la propria visione e le proprie reazioni soggettive di fronte ai fatti tragici. In questo modo l’autore non doveva prestare ai personaggi i propri sentimenti.

 

I promessi sposi

La scelta del genere romanzesco fu nell’Italia del tempo molto coraggiosa, perché il romanzo era ritenuto inferiore e indegno di entrare nella letteratura.
Ma con “I promessi sposi” Manzoni compie la realizzazione della nuova concezione della letteratura; in primis il romanzo corrisponde alla poetica del vero dell’interessante e dell’utile: è vero perché rappresenta la realtà senza gli artifici della cultura classica; è interessante perché si rivolge ad un vasto pubblico e suscita facilmente l’interesse del lettore; è utile perché fornisce il mezzo per comunicare al lettore notizie storiche ideali politici principi morali.
Il romanzo permette allo scrittore di esprimersi con piena libertà per questo nel romanzo Manzoni rappresenta una realtà umile, ignorata dalla letteratura classica o vista solo in una luce comica ed elegge a protagonisti due semplici popolani (cosa che non gli era stato possibile nelle tragedie). La rappresentazione seria della realtà quotidiana è il tratto che meglio caratterizza il moderno realismo europeo. I personaggi sono immersi nella storia e non in uno sfondo astratto. Inoltre Manzoni rappresenta individui dalla personalità unica, inconfondibile e complessa e rifiuta l’idealizzazione del personaggio. Per questo viene considerato l’iniziatore della tradizione romanzesca realistica moderna.
Manzoni sceglie la formula del romanzo storico e ci offre un quadro dell’epoca del passato. I protagonisti sono personaggi inventati di cui la storiografia non si occupa e i grandi avvenimenti storici costituiscono lo sfondo della vicenda e compaiono in quanto vengono ad incidere nella loro vita. Lo scrupolo del vero induce il Manzo a rendere le vicende dei personaggi inventati molto simili alla realtà.  Manzoni ci fa un quadro sulla società lombarda del Seicento sotto la dominazione spagnola. Egli si colloca nei confronti del passato su una posizione illuminista, ovvero coglie le ingiustizie e l’irrazionalità di un epoca che secondo lui rappresenta il “trionfo della prepotenza”. Manzoni però risale al passato per cercare le radici dell’arretratezza dell’italia presente e offre alle nascenti forze borghesi un modello di una società da costruire. Per l’indipendenza dell’Italia sono essenziali: un saldo potere statale che si opponga alle spinte degli interessi privati, una legislazione razionale, una politica economica oculata e un’organizzazione sociale giusta senza i conflitti tra le classi.
Nel sistema dei personaggi troviamo esempi positivi e negativi di tutte le classi:

  • Aristocrazia: Negativi: Don Rodrigo e Gertrude che vengono meno alle loro responsabilità e usano il loro privilegio in modo oppressivo. Positivi: Cardinal Federigo.
  • Popolo: Negativi: popolo di Milano violento e rivoltoso. Positivi: la rassegnazione cristiana di Lucia. Passaggio da negativo a positivo: Innominato e Renzo che passa da un atteggiamento ribelle a un fiducioso abbandono alla volontà di Dio.
  • Ceti Medi: Negativi: Don Abbondio Azzeccagarbugli. Positivo Fra Cristoforo.

Questo ideale di società si nutre dei principi della nascente civiltà borghese liberale che però unisce e fonde la componente laica e religiosa.
Manzoni è convinto che la religione cattolica sia l’unica vera forza riformatrice perché agisce alla radice dei mali della società. Egli è convinto che esiste un male sociale, ma si può attenuare questo male. Perciò la società manzoniana deve ispirarsi al liberalismo borghese e ai valori del cattolicesimo.
Manzoni fornisce alla letteratura moderna un nuovo modello di lingua letteraria, ovvero una possibile lingua utilizzabile nella società della futura Italia unita.
Essendo il romanzo indirizzato ad un pubblico vasto non poteva essere usata la lingua della tradizione letteraria. Ma alla scoperta della lingua migliore il Manzo arriva per gradi: dapprima trova una lingua di compromesso tra toscano letterario, elementi di parlata viva e anche un pizzico di francese. Ma da dopo il 24 egli rinuncia a questa lingua composita e si avvicina di più al toscano. Ma dopo il suo viaggio a Firenze scopre che la lingua italiana unitaria è il fiorentino delle persone colte. Per questo dopo aver rivisitato a lungo il suo romanzo ed averlo sottoposto alla critica dei fiorentini colti egli lo ripubblica nel 40.

 

Leopardi

Giacomo Leopardi nacque a Recanati nel 1798. La sua famiglia era una delle più cospicue, ma si trovava in cattive condizioni economiche tanto da dover osservare una rigida economia per mantenere il decoro nobiliare. Il padre era un uomo colto di orientamento reazionario. ma la vita famigliare era dominata dalla madre, donna dura e gretta. Leopardi fu istruito da precettori ecclesiastici ma a 10 anni decise di continuare gli studi da solo. si chiuse nella biblioteca paterna per 7 anni che contribuì a minare il suo fisico già fragile (GOBBO). dotato di un intelligenza precoce si formò ben presto una vastissima cultura. in questo periodo scrisse varie opere di compilazione erudita, tradusse classici e scrisse molti componimenti poetici. Ma ne emerge un quadro di una cultura arcaica ispirata a modelli illuministici. Tra il 15 e il 16 si attua la sua conversione dall'erudizione al bello entusiasmandosi per i grandi poeti e tramite la lettura della De Stael viene a contatto con la cultura romantica. Strinse amicizia con Pietro Giordani in cui trova una guida intellettuale e una confidenza affettuosa. Decide di voler entrare in contatto con varie esperienze intellettuali e nel 19 tenta la fuga dalla casa paterna ma fallisce. Questo fallimento lo porta in uno stato solitudine e malinconia. questa crisi segna un passaggio dal bello al vero e scrive l'infinito, completa lo Zibaldone e scrive altri idilli. Nel 22 si reca a Roma ma resta deluso dagli ambienti letterari e viene infastidito dalla grandezza monumentale. Torna a Recanati e scrive le operette morali a cui affida l'espressione del suo pensiero pessimistico. Nel 25 inizia a lavorare per il giornale milanese la Stella con una serie di collaborazioni. Soggiorna in seguito a Milano e a Bologna e nel 27 a Firenze dove entra in rapporto con Viesseux a capo della rivista antologia (erede del conciliatore). Si trasferisce a Pisa dove compone A Silvia che apre la serie dei grandi idilli. Nel 28 si aggravano le sue condizioni di salute e non potendo più lavorare per il giornale milanese ed è costretto a tornare a Recanati. Inizia a vivere isolato nel palazzo paterno immerso nella sua malinconia. Nel 30 decide di accettare un assegno mensile degli amici fiorentini e va via da Recanati. Stringe rapporti sociali più intensi ed entra in polemica con i liberali. Si innamora di Fanny Tozzetti, ma la delusione amorosa lo porta a scrivere un ciclo di canti detto ciclo di Aspasia. In questo periodo stringe un rapporto di amicizia con Antonio Ranieri e con lui fa vita comune fino alla morte. Dal 33 si stabilisce a Napoli col Ranieri ed entra in contatto con tendenze idealistiche e spiritualistiche che sono avverse al suo pensiero e scrive il suo ultimo canto La Ginestra. Mori a Napoli nel 1837 

 

L’Italia postunitaria

Con l’unificazione l’Italia divenne una monarchia costituzionale regolata dallo statuto Albertino. A tutta Italia venne estesa la legislazione sabauda. Solo il 2% della popolazione aveva diritto di voto e un allargamento della base elettorale si ebbe soltanto dopo l’avvento della sinistra al potere nel 1876 e al suffragio universale maschile nel 1913. L’Italia era comunque fortemente arretrato rispetto al resto dell’Europa. La classe politica al potere nel primo quindicennio unitario, la Destra Storica erede del liberalismo cavouriano era ostile ad uno sviluppo industriale poiché l’Italia era povera di materie prime e temeva che il proletariato avrebbe potuto creare problemi sociali e tensioni come negli altri paesi europei. La Destra compi scelte negli interessi dell’agricoltura ovvero applicò tenui tariffe doganali per favorire l’esportazione di prodotti agricoli e l’importazione dai paesi stranieri dei vari prodotti industriali. Questa scelta ebbe effetti disastrosi sulle industrie del mezzogiorno.
L’Italia non era un paese industrializzato, inoltre mancava una vera e propria mentalità imprenditoriale. Nel campo agrario nonostante le politica liberoscambiste l’Italia era ancora fortemente arretrata soprattutto nelle tecniche soprattutto al Sud con i latifondi e la mezzadria. Un settore dell’economia molto attivo è quello della creazione di infrastrutture: ferrovie, strade, ponti e opere pubbliche in genere. Intorno a queste opere pubbliche affidate in appalto a società private, fiorisce una forte speculazione in cui si lasciano trascinare le banche con effetti disastrosi.
La Sinistra Storica sale al potere nel 1876 e subito promuove un inasprimento delle tariffe doganali, per favorire l’industrializzazione e la corsa agli armamenti sul modello prussiano (1882 triplice alleanza con Prussia e Austria). Lo Stato finanzio la costruzione di industrie siderurgiche e anche di cantieri navali
Nel 1880 la crisi agraria fra crollare i prezzi: arrivarono sul mercato enormi quantità di grano americano. Però la crisi che mette in evidenzia l’arretratezza italiana accelera la modernizzazione dell’agricoltura e la concentrazione capitalistica nelle campagne, inducendo i grandi latifondisti ad allearsi con gli industriali.
Il rapporto tra Sud e Nord si precisa come un rapporto coloniale fondato sullo scambio ineguale, prodotti agricoli in cambio di prodotti industriali; si profila la questione meridionale ovvero quel divario nello sviluppo dell’economia e della società civile tra Nord e Sud che è ancora un grave problema dell’Italia attuale.
Sino all’età giolittiana l’Italia resterà un paese fortemente agricolo la cui classe dirigente è composta da grandi possidenti agrari.
Altri problemi fondamentali erano la piemontesizzazione della burocrazia, l’analfabetismo, leva obbligatoria e la tassa sul macinato.
Inoltre i collegamenti tra nord e sud erano difficili a causa della scarsa rete di collegamenti ferroviari. Era difficile per gli uomini del sud raggiungere il triangolo industriale tra le città di Milano, Torino e Genoa

 

Il positivismo e Naturalismo

L’Italia degli anni 70 si stava avvicinando all’industrializzazione e sono 3 i tipi di atteggiamenti degli scrittori nei confronti della modernizzazione:

  1. Atteggiamento apologetico, che inneggia ad essa come realizzazione del progresso
  2. Atteggiamento di rifiuto romantico, in nome dei valori del passato
  3. Atteggiamento che non esalta ne condanna, ma si limita ad un rapporto conoscitivo con quel processo.

Il primo atteggiamento è tipico della cultura Positivistica: si sviluppa prima nell’resto dell’Europa poi nella seconda metà dell’ottocento anche in Italia e alla sua base ci sono:

  • Il capitalismo industriale
  • L’espansione della civiltà borghese
  • Tecnicizzazione del lavoro
  • Le importanti scoperte scientifiche nel campo della termodinamica, dell’elettromagnetismo e della chimica e la applicazioni tecniche del vapore e elettricità
  • Diffusione del sapere e dell’istruzione conseguenza dell’’industrializzazione

L’ottimismo si traduce in un vero e proprio culto della scienza e della tecnica: lo scienziato è una figura mitica oggetto di celebrazione e ammirazione.
L’esaltazione positivistica si posa su alcune convinzioni di base:

  • La conoscenza scientifica è l’unica possibile e il metodo della scienza è l’unico valido, da cui deriva il rifiuto per ogni visione religiosa e metafisica. Il positivista crede che ci si debba fondare solo sui fatti osservabili e dimostrabili
  • Il metodo della scienza essendo valido va esteso a tutti i campi compreso l’uomo e la società
  • La scienza dandoci gli strumenti per spiegare e conoscere il reale, ci consente anche di dominarlo, asservendolo ai bisogni dell’uomo, da cui deriva la fede positivistica nel progresso.

Un esponente tipico di questa fiducia positivistica e Carducci, ma vi è in lui una forte componente romantica che si manifesta come disgusto e paura per la modernizzazione. Per questo Carducci rifiuta il presente e si rifugia in un sogno di eroismo e bellezza proiettato nel passato, nel mondo antico, nel Medio Evo, nel Rinascimento, nella Rivoluzione Francese e nel Risorgimento.
In Verga sopravvivono vistose componenti di anticapitalismo e antimodernismo romantico che si manifestano nel vagheggiamento del mondo arcaico. Dall’altro lato in lui si afferma una visione radicalmente naturalistica della realtà che lo porta a studiare con rigore impassibile i meccanismi della lotta per la vita.
In filosofia De Sanctis pur rifiutando le implicazioni deterministiche e materialistiche dello scientismo positivista invita allo studio dei fatti positivi e concreti come necessario correttivo dell’idealismo. Egli afferma il valore di un mondo spirituale libero dalle leggi deterministiche della natura, ma propone una conciliazione tra mondo ideale e reale attraverso l’uso di un metodo positivo nello studio dei fenomeni.
Il Positivismo nasce in Francia nell’Ecole Politecnique, una scuola scientifica sul modello dell’Illuminismo che voleva potenziare l’istruzione scientifica per preparare i tecnici. Esso è caratterizzato dalla lotta contro la metafisica e dalla fiducia nella ragione umana e nello sviluppo e nella scienza. Il determinismo concepisce ogni avvenimento meccanicamente e necessariamente causato da un altro che lo precede.
Comte, uno dei padri del positivismo diceva che le teorie non sono assolute ma subordinate all’esperienza.
Spencer, filosofo evoluzionista britannico, credeva che l’evoluzione sociale è legata a quella organica, l’ambiente e l’ereditarietà determinano l’evoluzione
Nella corrente del Naturalismo distinguiamo Balzac, che nella prefazione alla Commedia Umana dice che lo scrittore è il pittore dei tipi umani e narratore dinamico: la società somiglia alla natura e fa dell’uomo tanti tipi diversi a seconda degli ambienti: per questo ne esistono tanti quanti le specie nella zoologia.
Zola dice che la storia è simile alla zoologia e la scienza studia l’anima stessa. Il suo metodo consiste nel sostituire la parola medico con romanziere. Lo scrittore è un osservatore e sperimentatore non un inventore.
La differenza tra romanzieri e idealisti è che i primi sono naturalisti che descrivono i fatti umani mentre i secondi sconfinando nel vago indeterminato.
I canoni del naturalismo sono: l’impersonalità, ritrarre direttamente dal vero; la scientificità, ridurre gli elementi umani a quelli fisici e fisiologici dell’ereditarietà e dell’ambiente; il dialetto, modo di parlare dei personaggi.

 

La scapigliatura

La Scapigliatura non è una scuola o un movimento organizzato: è un gruppo di scrittori che vivono nello stesso periodo, gli anni Sessanta-Settanta nell’ambiente di Milano e sono accomunati da un’insofferenza per le convenzioni della letteratura contemporanea, per i principi e i costumi della società borghese e da un impulso di rifiuto e di rivolta. Il termine fu proposto da Cletto Arrighi per designare un gruppo di spostati e ribelli che amavano vivere in maniera eccentrica e disordinata; è un equivalente del termine italiano boheme.
Compare per la prima volta il tema del conflitto tra artista e società che costituiva il romanticismo straniero, mentre nel romanticismo italiano non si era manifestato a causa dell’arretratezza culturale e sociale dell’Italia. Il processo di modernizzazione declassa il ruolo dell’intellettuale. Di fronte agli aspetti salienti della modernità gli scapigliati assumono un atteggiamento ambivalente: da un lato il loro impulso è di repulsione di orrore e dall’altro si rassegnano delusi e disincantati a rappresentare il vero.
Gli scapigliati definiscono questo atteggiamento dualismo: la loro opera è l’esplorazione di questa condizione di incertezza, di perplessità e di disperazione. La scapigliatura riprende i temi dei romantici europei: l’esplorazione  estrema dell’irrazionale e del fantastico, il nero, il macabro, l’esotismo, il culto mistico della bellezza. Il nero romantico era la percezione delle forze terribili che si erano scatenate nel mondo moderno. I loro modelli sono i romantici tedeschi: Hoffmann, Jean Paul, Henie e Baudelaire, il poeta che aveva cantato l’angoscia della vita moderna nelle grandi metropoli; inoltre Poe con i suoi racconti fantastici e orrorosi e con la sua vita disordinata e maledetta suscita fascino.
La scapigliatura apre la strada al movimento del Naturalismo e del Decadentismo. Nella Scapigliatura vi sono le potenzialità di un gruppo di avanguardia, però tali potenzialità non vengono realizzate, per mancanza della necessaria chiarezza di visione, di coraggio e di profondità di pensiero e quindi non arrivano ad aprire nuovi orizzonti conoscitivi.

 

Naturalismo e Verismo

L’immagine di Zola che si diffuse in Italia  fu quella del romanziere scienziato e dello scrittore sociale. Ciò avvenne nei centri culturali milanesi di sinistra, repubblicani e socialisti. A Milano perché era la città più vicina agli ambienti stranieri e più disposta ad accogliere le nuove teorie. La prima traduzione italiana apparve in appendice al giornale La plebe, il brano scelto era la Curee dove si rappresentava la corruzione dell’alta borghesia e il mondo delle speculazioni finanziarie e edilizie.
Felice Cameroni diffuse la conoscenza dell’autore francese: la sinistra milanese ebbe il merito di cogliere subito l’importanza delle nuove tendenze, ma ne rimase prigioniera delle sue aspirazioni confuse e velleitarie. In Italia Capuana  ebbe una funzione fondamentale nel diffondere la conoscenza di Zola, ma il suo è un modo di intendere la letteratura ben diverso da quello del Naturalismo francese, Capuana respinge la subordinazione della letteratura a scopi estrinseci, quali la dimostrazione sperimentale di tesi scientifiche e l’impegno politico e sociale. Il Naturalismo secondo Capuana perde la sua volontà di far scienza e il suo impegno politico diretto e si traduce solo in un modo particolare di fare letteratura. La scientificità non deve consistere nel trasformare la narrazione in esperimento per dimostrare tesi scientifiche, ma nella tecnica con cui lo scrittore rappresenta. La scientificità si manifesta solo nella forma artistica, nella maniera con cui l’artista crea le sue figure e questa maniera si riassume nel principio dell’impersonalità. Secondo la visione di Verga l’impersonalità è la rappresentazione deve possedere l’efficacia dell’essere stato, deve conferire al racconto l’impronta di cosa realmente avvenuta; per far questo deve riportare documenti umani e ciò che viene raccontato deve essere fatto in modo da porre il lettore “faccia a faccia col fatto”, in modo che il lettore lo veda attraverso la “lente dello scrittore”.
Lo scrittore deve dunque eclissarsi, ciò non comparire nel narrato con le sue riflessioni e reazioni. L’autore deve entrare nei personaggi per far si che la sua mano sia invisibile nell’opera e essa deve sembrare essersi fatta da sé. Il lettore deve assistere ai fatti che si svolgono senza che nessuno gli abbia prima spiegato gli antefatti; ciò crea una confusione nelle prime pagine, ma i personaggi con le loro azioni eliminano questa confusione
Questo metodo non è una definizione dell’arte, è un procedimento tecnico per conseguire determinati effetti artistici.
I Veristi ritraggono direttamente il vero, i fatti di cronaca realmente accaduti: la loro materia è la vita contemporanea. L’opera deve risolversi artisticamente bella e scientificamente vera. Dopo aver scelto il fatto questo non doveva essere solamente ritratto, ma anche ricostruito.

 

Verga

Giovanni Verga nacque a Catania nel 1840 e compì i primi studi presso maestri privati. I suoi studi superiori non furono regolari e si iscrisse a 18 anni alla facoltà di legge a Catania, ma non terminò i corsi per dedicarsi al lavoro letterario. La sua formazione irregolare lo distingue dalla tradizione di scrittori letteratissimi. I testi su cui si forma sono quelli di Dumas padre e figlio, Sue e Feuillet. Nel 1865 lascia la provincia e si reca a Firenze allora capitale del Regno d’Italia, perché capisce che per divenire scrittore doveva liberarsi dai limiti della sua cultura provinciale e venire a contatto con la vera società letteraria italiana. Nel 1866 pubblica il romanzo la peccatrice, la storia di un piccolo borghese di Catania che conquista la ricchezza, ma vede inaridirsi l’amore per la donna sognata e adorata e ne causa il suicidio e nel 71 Storia di una capinera, storia di un amore impossibile e di una monacazione forzata.Nel 72 si trasferisce a Milano ed entra in contatto con gli scapigliati e termina il romanzo Eva, storia di un giovane pittore siciliano che brucia le sue illusioni nell’amore di una ballerinetta simbolo della corruzione della società. La sua protesta per la nuova condizione dell’intellettuale, emarginato e declassato, è molto vicina a quella anticapitalistica degli scapigliati. In seguito pubblica Eros, storia del progressivo inaridirsi di un giovane aristocratico corrotto da una società raffinata e vuota e Tigre Reale che analizza la storia di un giovane innamorato di una donna fatale e la sua redenzione e il ritorno alla famiglia. Questi romanzi sono caratterizzati da toni melodrammatici e enfatici con toni sentimentali e lacrimevoli e quindi ancora ancorati alle idee romantiche della letteratura. Nel 74 scrive Nedda in cui descrive la misera vita di un bracciante; anche se sono cambiati gli ambienti i toni sono quelli dei romanzi precedenti e non c’è ancora la svolta che si avrà in seguito.
Dopo un silenzio di tre anni pubblica Rosso Malpelo, la storia di un garzone di miniera che vive in un ambiente duro e disumano, narrata con un linguaggio nudo e scabro che riproduce il modo di raccontare di una narrazione popolare. E’ la prima opera della sua nuova visione verista che segna una svolta, che però non è una vera e propria conversione perché la frattura tra i due momenti non è cosi netta, perché anche prima Verga si proponeva di dipingere il vero, ma non aveva ancora gli strumenti adatti. L’approdo al verismo è frutto di una progressiva chiarificazione di propositi già radicati. Infatti con la conquista del metodo verista Verga non abbandona affatto gli ambienti dell’alta società per quelli popolari, ma studia prima i popolari perché sono meno complicati e tornerà a studiare quelli dell’alta società con gli strumenti di cui si è impadronito. L’Assomoir di Zola, dove la voce narrante diviene l’interprete del coro dei personaggi popolari e riproduce la loro mentalità suggerisce a Verga la tecnica della regressione che egli poi sviluppò con sistematicità ben più rigorosa e in direzione sostanzialmente diversa da quella di Zola. Anche Capuana con la sua diffusione di opere di Zola influì su Verga.
Nei racconti successivi come La lupa, Fantasticheria ecc. viene continuata la sua nuova tecnica narrativa: si ritraggono scene di vita contadina siciliana, c’è l’uso della tecnica dell’impersonalità, che consiste nell’eclisse dell’autore e nella regressione della voce narrante entro il punto di vista del mondo popolare; ma in queste novelle si può ancora trovare traccia di un atteggiamento romantico, di un idoleggia mento nostalgico di quell’ambiente arcaico come di una sorta di paradiso perduto di autenticità e innocenza che è l’antitesi dell’artificiosità della vita borghese. In Verga in questo periodo è in atto una contraddizione tra le tendenze veristiche e romantiche che lo inducono a studiare scientificamente le leggi del meccanismo sociale e a riconoscere che anche il mondo rurale è dominato dalla stessa legge della lotta per la cita che regola la società cittadina.

 

L’ideologia e il verismo di Verga

Verga ritiene che l’autore debba eclissarsi dall’opera perché non ha il diritto di giudicare la materia che rappresenta. Alla base di ciò stanno le posizioni pessimistiche di Verga che vede la società umana dominata dal meccanismo della lotta per la vita; gli uomini sono mossi solo dall’interesse economico, prevale l’egoismo e valori come la pietà e la generosità non esistono. E’ questa una legge di natura universale che governa qualsiasi società ed è soprattutto immodificabile. Per questo se è impossibile modificare l’esistente ogni intervento giudicante appare inutile. Il pessimismo di verga è fortemente conservatore, però Verga coglie con grande lucidità ciò che vi è di negativo nella realtà e lo rappresenta con grande oggettività. Il pessimismo conservatore di Verga gli assicura l’immunità dal mito del progresso e dal mito del popolo che consiste nella pietà sentimentale per le miserie degli umili. In Verga non è neanche presente il populismo romantico proteso verso forme passate di vita, infatti non oppone al progresso la campagna o la civiltà contadina arcaica.
In Zola la voce che racconta riproduce di norma il modo di vedere e di esprimersi dell’autore, del borghese colto, che guarda dall’esterno e dall’alto la materia. Tra il narratore e i personaggi vi è un distacco netto e il narratore lo fa sentire esplicitamente. In Verga ciò non avviene; il narratore basso di Verga si adegua alla mentalità e al linguaggio dei personaggi popolari. In Zola questo avviene sono nel romanzo Assommoir. Per Zola l’impersonalità significa assumere il distacco dello scienziato, che osserva l’oggetto dall’esterno e dall’alto; per Verga significa immergersi nell’oggetto. L’impersonalità di Zola è detta a parte subiecti, mentre quella di Verga a parte obiecti.
Inoltre mentre Zola interviene a commentare e giudicare perché pensa che la scrittura possa cambiare la realtà, per Verga, come ho già detto, la realtà è immodificabile e lo scrittore non ha il diritto di giudicare.
Zola ha fiducia nella letteratura perché vive in una società borghese democratica ed ha di fronte una realtà dinamica in cui esiste una borghesia attiva e un proletariato dalla coscienza sociale matura.
Verga è il tipico galantuomo conservatore del Sud, il proprietario terriero conservatore, che ha ereditato la visione fatalistica di un mondo agrario arretrato e immobile ed ha di fronte a se una borghesia ancora pavida e parassitaria e le masse contadine estranee alla storia: lo scrittore poteva facilmente concludere che nulla era mutato realmente dietro la facciata delle intense trasformazioni e nulla mia può mutare in assoluto nella storia degli uomini.
Però la carica progressiva di Zola è in buona parte responsabile dei difetti della sua narrativa, mentre il pessimismo conservatore di Verga da il valore conoscitivo e critico alla sua narrativa

 

Verga

Verga scrisse un ciclo di romanzi: egli aveva la volontà di tracciare un quadro sociale, di passare in rassegna tutte le classi sociali, dai ceti popolari alla borghesia di provincia all’aristocrazia. Criterio unificante è il principio della lotta per la sopravvivenza: tutta la società, ad ogni livello, è dominata da conflitti di interesse, ed il più forte trionfa schiacciando i più deboli. Verga però rappresenta i vinti che piegano il capo sotto il piede dei vincitori. Nella prefazione al ciclo Verga spiega che nei ceti più bassi il meccanismo sociale è meno complicato e potrà osservarsi con più precisione. Nei romanzi successivi sarà analizzata questa ricerca del meglio nel suo progressivo elevarsi attraverso le classi sociali.
Nei Malavoglia viene rappresentata la vita di un mondo rurale arcaico, chiuso in ritmi di vita tradizionali che si fonda sulla saggezza antica dei proverbi. La storia entra in quel sistema arcaico rompendo negli equilibri e sconvolgendone le concezioni ancestrali. Il romanzo inizia con la partenza di ‘Ntoni per il servizio militare e da li inizia la serie di difficoltà e di sventure che rompono l’equilibrio ed il sistema sociale del villaggio. I Malavoglia a causa delle difficoltà economiche indette dalle trasformazioni in atto sono costretti a diventare negozianti, ma falliscono, diventano nullatenenti e sono costretti ad andare a giornata per vivere. Ma inversamente ci sono anche processi di ascesa sociale come quelli della rivista di don Silvestro che ricorre ad intrighi e ad atti subdoli per arrivare al potere. La tecnica dell’impersonalità ci dà un immagine della realtà statica ma ciò non è così. Un personaggio importante è il giovane ‘Ntoni che è uscito dal paese ed entra a contatto con la realtà della metropoli e quindi non può più adattarsi più ai ritmi di vita paesani. Emblematico è il suo conflitto con il nonno che rappresenta lo spirito tradizionalista. Sotto l’azione di tutte questa forze la famiglia si disgrega; anche se alla fine Alessi riuscirà a ricomporre un frammento dell’antico nucleo familiare non si tornerà alla condizione iniziale. Il romanzo si chiude con la partenza di ‘Ntoni dal villaggio: il personaggio che aveva messo in crisi il sistema arcaico se ne distacca per sempre allontanandosi verso la realtà del progresso; il suo percorso sarà continuato da Gesualdo.
I Malavoglia sono stati spesso interpretati come la celebrazione di un mondo primordiale e dei suoi valori, ma rappresenta al contrario la disgregazione di quel mondo. Il romanzo segna il superamento della componente di nostalgia romantica della realtà arcaica.
La società è dominata al suo interno dalla legge della lotta per la vita, ma Verga proietta in alcuni personaggi certi valori che li rendono immuni dalle sue feroci tensioni. La struttura narrativa è bipolare, si tratta di un romanzo corale ma questo coro si divide in due: da un lato i Malavoglia che sono caratterizzati dalla fedeltà ai valori puri; dall’altro la comunità del paese insensibile fino alla disumanità. L’ottica del paese ha il compito di straniare sistematicamente i valori proposti dai Malavoglia. Quindi Verga si rende conto che essi non trovano posto nella realtà; dall’altro lato il romanzo fornisce un metro di giudizio dei meccanismi spietati che dominano l’ambiente del villaggio.
Tra il primo e il secondo romanzo passano otto anni, nel frattempo scrive un altro romanzo: il marito di Elena, storia di una moglie di un piccolo borghese che porta il marito alla rovina. Scrive inoltre le novelle rusticane che ripropongono ambiente della campagna siciliana. Scrive anche le novelle di per le vie e il dramma cavalleria rusticana. Nel 1889 esce mastro don Gesualdo, storia di un muratore che con la sua intelligenza e la sua energia accumula enormi ricchezze ma va incontro in un tragico fallimento nella sfera degli affetti familiari.
Il livello sociale si è elevato, si tratta un ambiente borghese ed aristocratico; e il narratore si innalza, ma non viene ripristinato il narratore onnisciente, per cui esso rimane interno al mondo rappresentato e non da informazioni sugli antefatti. Solo nel quarto capitolo il personaggio stesso ci racconta uno scorcio della sua storia abbandonandosi ai ricordi con la forma del monologo interiore. Se i Malavoglia erano un  romanzo corale il Gesualdo ha al centro la figura di un protagonista che si stacca dallo sfondo popolato di figure: noi vediamo i fatti attraverso i suoi occhi come li vede lui mediante la tecnica del discorso indiretto che ci riporta i pensieri del protagonista. La bipolarità dei personaggi dei Malavoglia si interiorizza passando all’interno del protagonista Gesualdo. La roba è il fine primario della sua esistenza e lo porta ad essere disumano. A negare i valori è il personaggio stesso che potrebbe esserne il portatore. La logica dell’economicità, dell’interesse egoistico diventa il modello unico do comportamento. I residui di idealismo dei Malavoglia sono scomparsi, il pessimismo è divenuto assoluto. Il frutto della scelta di Gesualdo in favore della logica della roba è una totale sconfitta umana. Dalla sua lotta per la roba Gesualdo non ha ricavato che odio e dolore ma conserva in se una esigenza di affetti e di moti generosi; ciò fa diventare un fallimento il suo ambizioso disegno di vita e tutta la sua esistenza. Verga rappresenta la sua religione della roba in una luce duramente critica e relativa, egli rappresenta sopratutto il rovesci negativo di tutto ciò.
In Gesualdo, eroe tipico del progresso verga riconosce che il processo che lo porta alla modernità è inevitabile fatale e necessario e non indica alternatrice: si limita ad analizzare ciò che è dato con occhi fermo e lucido. Del ciclo dei vinti verga scrive solo il primo capitolo della duchessa di Leyra; l’onorevole Scipioni e l’uomo di lusso non verranno neppure affrontati.

 

Carducci

Giosuè Carducci nacque nel 1835 a Val di Castello da una famiglia borghese. Trascorse l’infanzia in Maremma a contatto con la natura che sentiva affine al proprio carattere e fu poi oggetto di nostalgia poetica. Studiò alla scuola Normale Superiore di Pisa e iniziò la carriera di insegnante. Nel 1860 fu chiamato alla cattedra di letteratura italiana a Bologna che tenne per un quarantennio. Partecipò intensamente alla vita culturale del tempo. Di carattere iroso e battagliero sostenne molte polemiche letterarie e politiche. Mori nel 1907 dopo aver ricevuto il Nobel per la letteratura.
Carducci fu inizialmente di idee democratiche e repubblicane: seguì con entusiasmo le vicende risorgimentali, ma subì una cocente delusione dall’Italia post-unitaria monarchica e governata da politici corrotti. La sua attività poetica si indirizzò contro l’Italia vile del suo tempo. Fu sostenitore dei diritti del popolo mitizzandolo come forza motrice della storia, fu anche massone e anticlericale, andando contro la religione cattolica residuo dell’oscurantismo medievale sconfitto dalla ragione e dal progresso. Questa esaltazione della scienza e del progresso lo rende vicino al Positivismo.
Negli anni più maturi venne gradualmente moderando le sue posizioni: si avvicinò alla monarchia, emblematico l’incontro con la regina Margherita. Fu accanito sostenitore della politica di Crispi. Il suo populismo si trasformò in senso reazionario. Il suo anticlericalismo si attenuò, riconobbe l’importanza del cristianesimo, ma non si convertì.
Negli anni giovanili assunse posizioni antiromantiche e sostenne il gusto classico. Carducci mirò alla restaurazione di un discorso poetico alto, che recuperasse la dignità aulica dei classici.
In anni successivi il poeta ampliò la sua cultura e venne a contatto con la letteratura romantica europea prediligendo Hugo e Heine. Alla poetica giovanile si sostituisce il ripiegamento intimo, l’analisi i momenti di sconforto, la memoria degli anni di infanzia e giovinezza. Compaiono inoltre tendenze evasive e l’abbandono alla fantasticheria. La critica è divisa in 2: alcuni come Croce sostengono che Carducci sia un poeta sano immune dalla malattia romantica ed è stato definito l’ultimo dei classici al contrario degli scrittori del novecento. Altri critici sostengono che sia un poeta tardo romantico che esalta il mondo antico come termine di un evasione di tipo esotizzante dal presente.
Però oggi possiamo riconoscere la mancanza di profondità conoscitiva e critica nella “malattia” romantica di Carducci. Infatti cambiò radicalmente le sue posizioni da battagliere e provocatorie fino a diventare il poeta ufficiale della borghesia conservatrice di fine secolo. La sua poesia divenne il paradigma dell’idea stessa di poesia a cui si rifecero generazioni di italiani di media cultura. La critica attuale però lo ha decisamente ridimensionato, anche se ai suoi tempi aveva un enorme peso culturale ed era al centro della vita intellettuale degli anni 1870-90.
Le prime raccolte di versi, Juvenilia e Levia Gravia riproducono temi amorosi immagini e metri della grande tradizione italiana, in direzione contraria a quella del nostro Romanticismo. Ben altra originalità possiedono i Giambi ed Epodi; il titolo allude alle forme metriche usate dagli antichi. Sono le poesie in cui Carducci sfoga le sue ire di democratico e di anticlericale contro l’Italietta vile e indegna del presente. Vicini a questo clima battagliero è l’Inno a Satana in cui si esprime il violento anticlericalismo.
Le rime nuove nascono da spunti intimi, privati, o dalla sollecitazione della letteratura e della storia: la metrica è quella tradizionale della lirica italiana. Il comune rustico, Faida di comune e sui campi di marengo e i sonetti di Ca ira sono poesie in cui vengono rievocati eventi storici o atmosfere del passato. Nelle odi barbare la rievocazione storica perde il carattere celebrativo e diviene espressione di un’intima esigenza di evasione del poeta.
Nel 1877 esce il primo libro delle odi barbare (seguito da un secondo nel 82 e un terzo nel 89) in cui Carducci cerca di riprodurre i metri classici. L’esperimento metrico suscitò scalpore, ma poi la novità fu assorbita. Queste poesie presentano rievocazioni storiche e patriottiche e spunti autobiografici, ma vi si accentuano le tendenze evasive. L’ultima raccolta rime e ritmi contiene soprattutto le odi celebrative, che consacrano Carducci a poeta ufficiali dell’Italia umbertina. La critica ha rintracciato in questa ultima fase una vena poetica nuova, più rarefatta e sfumata vicina alle tendenze decadenti.

 

Decadentismo

Negli ultimi anni del secolo diciannovesimo la borghesia europea che aveva guidato i moti rivoluzionari per la creazioni di stati nazionali e per l’affermazione delle libertà costituzionali e dei diritti dell’uomo subisce un processo di involuzione. Si affermano la ricerca del massimo profitto, il culto della proprietà privata e dell’affermazione individuale che spingono i grandi stati borghesi d’Europa alle conquiste coloniali, alle grandi guerre per una divisione del mondo e per l’egemonia economica. Questo processo di involuzione è chiamato imperialismo ed è caratterizzato dalla negazione degli stessi valori che la borghesia aveva esaltato nel periodo precedente.
Così al principio della libera concorrenza si sostituiscono i grandi monopoli, enormi concentrazioni di imprese in condizioni di privilegio. Al principio dell’uguaglianza si sostituisce quello della diseguaglianza, da una parte i detentori della ricchezza e del potere, dall’altra le grandi masse lavoratrici mantenute in condizioni di arretramento e di miseria, agglomerate nelle città moderne legate alle fabbriche e alle macchine. Al principio della fratellanza si sostituisce lo sfruttamento coloniale di centinaia di milioni di uomini di altre razze (razzismo). Si affermano i miti della superiorità della razza bianca e di determinati popoli su altri.
Nascono diversi miti: il mito della guerra e i suoi valori, l’esaltazione della forza e della violenza. Il mito del superuomo. Il principio di nazione diviene fanatismo nazionalistico. La rivoluzione industriale è guidata dalla legge del massimo profitto. Si determina anche il mito del macchinismo ed anche l’annullamento dell’uomo di fronte alla macchina e un capovolgimento tra città e campagna. Città come agglomerati urbani, tanto più popolati, tanto più conducevano l’uomo all’isolamento. I grandi ideali dell’800 venivano negati e capovolti ci si trova dinanzi ad una mancanza di valori che diano significato alla vita, l’uomo si sente sradicato e condannato alla solitudine; questa incomunicabilità che porta spesso a forme di rivolta nei riguardi della società e la cultura che si afferma in questo periodo prende il nome di decadentismo.
Intorno al 1880 si creò in Francia il primo raggruppamento decadente. Vi confluirono tutti i poeti francesi che si sentivano eredi del grande Baudelaire e in modo particolare di Rimbaud, Mallarmè e Verlaine ( i poeti maledetti). Nel 1885 si ha la pubblicazione del romanzo “Rebours”(a ritroso) di Huysmans e di alcune riviste come “le decadent”.
Da questo movimento non ben definito si staccò la corrente simbolista con la pubblicazione della rivista “Les Simbolist”. I simbolisti partono dal principio per cui il mondo reale viene interpretato per simboli. Già Baudalaire in un sonetto rappresentava la natura come foresta di simboli dove l’uomo incontra sguardi familiari. Nel simbolo si può ritrovare, in modo intuitivo, quella corrispondenza di soggetto e oggetto che sfugge all’analisi razionale. Il poeta è un veggente che riesce a cogliere i simboli e la tecnica usata è l’analogia. Quindi il simbolismo è diverso dal decadentismo. Nel simbolo si può cogliere il mistero cosmico: la poesia ha l’irrazionale capacità di conoscere l’essenza intima delle cose che sfugge dalla ragione. C’è una particolare cura della parola poetica, una parola che è liberata, depurata da elementi irrazionalistici ma è allusiva e ricca di elementi musicale e pittorici. Per cui questo comporta la rottura degli schemi tradizionali, cioè la divisione tra arte figurativa, poesia e musica.
Nella poesia decadente, poesia, musica e pittura sono strettamente collegate. Notiamo l’uso dell’analogia (avvicinamento di due oggetti del tutto diversi, il cui rapporto può essere colto solo per intuizione). La sinestesia è un’altra figura utilizzata ove si uniscono qualità apparenti e sfere sensoriali diverse (urlo nero, l’urlo si sente e il nero si vede). Il simbolismo fu preceduto in Francia dal movimento Parnassiano (prende il nome da un’antologia di poeti pubblicata dal 1886 chiamato le Parnasse Contemporain, che proclamava la formula dell’arte per l’arte, ossia l’arte fine a se stessa. In Inghilterra dal movimento preraffaellita, che prendeva a modello l’arte precedente a Raffaelo e i poeti del dolce stil novo.
Il Decadentismo non rappresenta un periodo di decadenza artistica ma rappresenta solo l’arte di una società in profonda crisi. La caratteristiche sono:

  • La coscienza esasperata di una frattura profonda tra la nuova arte e quella dell’800
  • Atteggiamento anticonformista di rifiuto delle leggi, dei gusti, dei valori, della società costituita
  • L’esasperazione dell’individualismo in duplice aspetto o l’esaltazione dell’individuo particolarmente dotato che rifiuta la società circostanze e dall’altro la consapevolezza di essere diverso dagli altri e di non riuscire a stabilire il contatto con l’umanità e di qui l’isolamento
  • Culto della violenza sia collettiva, sia politica, sia individuale
  • L’evasione dalla società in cui si vive
  • La sfiducia nella scienza e nella ragione e una rappresentazione soggettiva della realtà
  • Collegamento tra soggetto e oggetto
  • Rifiuto delle tecniche letterarie logiche discorsive e l’affermazione dell’illogicità

 

Pascoli

Giovanni Pascoli nacque il 31 dicembre 1855 a San Mauro di Romagna da una famiglia della piccola borghesia rurale di condizione abbastanza agitata. Il padre Ruggiero era fattore e fu ucciso il 10 agosto del 67 a fucilate probabilmente da un rivale che aspirava a prendere il suo posto da amministratore. Però sicari e mandanti non furono mai individuati e ciò creò in Pascoli un senso di ingiustizia. La morte del padre creò difficoltà economiche alla famiglia. Si seguirono negli anni altri lutti: morirono la madre la sorella e due fratelli.
Studiò prima negli scolopi ad Urbino e nel 73 ottenne una borsa di studio presso l’università di Bologna dove frequentò la facoltà di lettere. Si avvicinò all’ideale socialista e partecipò a manifestazioni contro il governo e fu arrestato. Si laureò nel 1882 e iniziò la carriera di insegnante liceale a Massa. Qui chiamò a vivere con se le due sorelle Ida e Mariù ricostruendo il nido familiare che i lutti avevano distrutto.
L’attaccamento al nido familiare rivela la fragilità della struttura psicologica di Giovanni che cerca nel nido la protezione dal mondo esterno minaccioso e pieno di insidie. A questo si unisce il ricordo delle morti, le cui presenze aleggiano nel nido. Questo legame lo inibisce dal rapporto col mondo esterno e soprattutto con le donne, anche se vorrebbe esercitare la funzione di padre in un vero e proprio nido. La vita amorosa ai suoi occhi ha un fascino torbido, è qualcosa di proibito e di misterioso, da contemplare da lontano con palpiti e tremori. Le esigenze del poeta sono soddisfatte dal rapporto con le sorelle che rappresentano una figura materna.
Il matrimonio di Ida nel 95 fu sentito da pascoli come un tradimento una profanazione del nido che lo fece cadere in depressione. Questa situazione è la chiave per cogliere il carattere turbato della poesia di pascoli.
Nel 95 Pascoli prese in affitto con la sorella Mariù una casa in campagna a Castelvecchio: la campagna ai suoi occhi costituiva un eden di serenità e di pace, di sentimenti semplici e puri.
Intanto ottenne cattedre universitarie a Bologna e a Pisa. All’inizio degli anni 90 aveva pubblicato una prima raccolta di liriche Myricae poi negli anni seguenti diverse poesie in varie e importanti riviste. Nel 97 uscirono i poemetti, nel 1903 i canti di Castelvecchio e nel 1904 i Poemi conviviali.  Al poeta schivo e chiuso si affiancò negli ultimi anni il letterato ufficiale e fece anche una serie di discorsi pubblici tra i quali ricordiamo la grande proletaria si è mossa nel 11 per celebrare la guerra in Libia. Mori per un cancro allo stomaco nel 1912.
La formazione di Pascoli fu essenzialmente positivistica: tale matrice è evidente nei suoi versi dove usa la nomenclatura ornitologica e botanica di impianto positivistico e soprattutto le osservazioni sulla vita degli uccelli che compaiono i molti suoi componimenti. Si rifletto anche in lui la crisi della scienza segnata dall’esaurirsi del positivismo e dall’affermarsi di tendenze spiritualistiche e idealistiche. Al di la dei confini dell’indagine scientifica si apre l’ignoto e il mistero.
Il mondo nella visione pascoliana appare frantumato, disgregato. Non esistono i moduli d’ordine del reale, scompaiono le gerarchie d’ordine tra gli oggetti: ciò che è piccolo si mescola a ciò che è grande. Tutto ciò si riflette sula costruzione formale dei testi.
I particolari si caricano di valenze allusive e simboliche, rimandano sempre a qualcosa che è al di la di essi, all’ignoto di cui sono come messaggi misteriosi e affascinanti. Dare il nome alle cose è come scoprirle per la prima volta, con occhi vergini e stupiti, possederle intimamente, arrivare ad un immedesimazione con esse. Il mondo allora visto attraverso il velo del sogno e perde ogni consistenza oggettiva. Si instaurano cosi legami segreti fra le cose che solo abbandonando le convenzioni della visione corrente, logica e positiva, possono esser colti. La conoscenza del mondo avviene attraverso strumenti interpretativi non razionali. La sfera dell’io si confonde con quella della realtà oggettiva, le cose si caricano di significati umani.
L’idea centrale è che il poeta coincide con fanciullo che sopravvive al fondo di ogni uomo: un fanciullo che vede tutte le cose come per la prima volta con ingenuo stupore. Al pari di Adamo il poeta fanciullino da il nome alle cose e trovandosi come in presenza del mondo novello deve usare una novella parola, un linguaggio che sappia andare all’intimo delle cose e scoprirle nella loro freschezza originaria.
La poesia è una conoscenza aurorale, prerazionale, alogica, una concezione che ha le radici nel romanticismo. Grazie al suo modo di vedere le cose il poeta-fanciullo ci fa sprofondare nell’abisso della verità. L’atteggiamento irrazionale e intuitivo consente quindi una conoscenza profonda della realtà. Non solo il fanciullo scopre nelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose. Il poeta appare come un veggente dotato di una vista più acuta di quella degli uomini comuni,può spingere lo sguardo oltre le apparenze sensibili e esplorare il mistero.
Per Pascoli la poesia non deve avere fini pratici, ma il poeta canta solo per cantare, non vuole assumere il ruolo di consigliatore e di ammonitore. Solo la poesia spontanea e disinteressata può ottenere effetti di suprema utilità morale e sociale. Il sentimento poetico dando voce al fanciullino sopisce gli impulsi violenti e induce alla bontà e alla fratellanza.  Inoltre placa quel desiderio di accrescere i propri possessi che spinge gli uomini a sopraffarsi a vicenda. Nella poesia pura del fanciullino è implicito un messaggio sociale che invita alla fratellanza.
Il rifiuto della lotta tra le classi si trasferisce al livello dello stile; Pascoli ripudia il principio aristocratico del classicismo che esige una rigorosa separazione tra ciò che è alto e ciò che è basso. La poesia è anche nelle piccole cose che hanno un loro sublime particolare.

 

Pascoli

Dai principi letterari di Pascoli affiora una concezione di tipo socialista. Durante gli anni universitari Pascoli subì l’influenza delle ideologie anarco-socialiste, soprattutto per il fascino esercitato da Andrea Costa, agitatore e tribuno attivo in Emilia. L’adesione all’anarchismo e al socialismo era un fenomeno diffuso tra gli intellettuali piccolo-borghesi del tempo. Pascoli proveniente dalla piccola borghesia, declassato e impoverito trasformava la sua rabbia in impulsi ribelli contro la società. Inoltre sentiva gravare il peso di un’ingiustizia, la morte del padre. Aderì all’internazionale nel 1876.
Il movimento anarco-socialista non aveva basi ideologiche rigorosamente definite e si scontrò ben presto con la polizia. Pascoli fu arrestato, processato e tenuto mesi in carcere. Fu per lui un esperienza terribile anche quando fu rilasciato perché assolto. Abbandonò cosi ogni forma di militanza attiva anche perché la sinistra passò dall’utopia di Bakunin al socialismo scientifico di Marx che non piaceva a Pascoli per due motivi. Perché era più un socialista di cuore che era spinto da esigenze ideali e sentimentali e non poteva seguire i programmi politici concreti di Marx; inoltre criticava la teoria marxiana della lotta di classe.
Alla base vi era un pessimismo; Pascoli diceva che sulla terra dominava il male e gli uomini dovevano cessare di farsi male tra di loro. Per Pascoli il dolore perfeziona il nostro animo e la sofferenza ci rende superiori; queste insegnano il perdono. Il poeta erigeva la sua esigenza personale a modello esemplare: lui era un esempio per eccellenza della vittima, ma proprio per questo voleva evitare ogni odio.
Tali principi per lui valevano sia per gli individui che per le classi:il segreto dell’armonia sociale consiste nel fatto che ognuno si contenti per ciò che si ha, che viva felice anche del poco. Pascoli mitizza il mondo dei piccoli proprietari; era un mondo che in realtà stava scomparendo, Pascoli lo sapeva bene, ma innalzava egualmente il suo inno a quella realtà che andava scomparendo rifugiandosi in un passato idealizzato.
Nella sua concezione del nido si colloca il suo nazionalismo: egli sente con tanta partecipazione il dramma dell’emigrazione: l’italiano che è costretto a lasciare il suolo natio è come colui che viene strappato dal nido. Le nazioni povere come l’Italia hanno il diritto di cercare la soddisfazione dei loro bisogni anche con la lotta: per questo Pascoli ammette la legittimità delle guerre coloniali.
La poesia di pascoli è sostanzialmente sincronica: ovvero non esistono svolte radicali nei temi e nelle soluzioni stilistiche nel tempo.
La prima raccolta fu Myricae uscita nella sua prima edizione nel 1891 con 22 poesie dedicate alle nozze di amici. L’opera completa usci nel 1900 nella sua 5 edizione con 156 poesie. Il titolo è una citazione virgiliana (Myricae = tamerici): Virgilio con questa frase nella IV Bucolica voleva innalzare il tono della poesia; Pascoli assume le umili piante come simbolo delle piccole cose che egli vuole porre al centro della poesia. Si tratta di componimenti brevi; i particolari su cui fissa l’attenzione si caricano di significati misteriosi e simbolici. Spesso le atmosfere delle poesie evocano l’idea della morte; uno dei temi ricorrenti è il ritorno dei morti familiari. Pascoli delinea quel romanzo familiare che è il nucleo doloroso della sua visione del reale. Per quanto riguarda le soluzioni formali Pascoli insiste sulle onomatopee, sul valore simbolico del suono, sull’uso del linguaggio analogico.
All’interno dei poemetti si viene a delineare il romanzo georgico, cioè la descrizione di una famiglia rurale di Barga, colta in tutti i momenti caratteristici della vita contadina. Il poeta vuole celebrare la piccola proprietà rurale, presentandola come depositaria di tutta una serie di valori. La vita del contadino appare al poeta come un rifugio rassicurante, un baluardo contro l’incombere di una realtà storica minacciosa. La rappresentazione della vita contadina assume la fisionomia di una utopia regressiva.
I canti di Castelvecchio si propongono intenzionalmente di continuare la linea della prima raccolta. Ritroviamo le immagini della vita contadina, il motivo della tragedia familiare ed i temi più morbosi come il sesso e la morte che appare come un rifugio dolce in cui sprofondare, come in una regressione nel grembo materno. Troviamo inoltre il rimando continuo al nuovo paesaggio di Castelvecchio e a quello dell’infanzia in Romagna. I componimenti si susseguono secondo un disegno segreto che allude al succedersi delle stagioni.

 

Ermetismo e Ungaretti

Lo sviluppo dell’ermetismo ha il suo centro a Firenze, che oltre all’appoggio editoriale, con il caffè delle Giubbe Rosse, offre un punto di incontro divenuto famoso. La definizione del termine “ermetismo”, si può ritenere ufficialmente riconosciuta nel 1936, quando Flora pubblica il libro La poesia ermetica, che riguarda tuttavia solamente delle considerazioni generiche sull’ermetismo. Decisamente più rilevante fu Carlo Bo, che nella Letteratura come vita, propone i fondamenti teorico-metodologici della poesia ermetica. Seguendo l’interpretazione di Bo, l’Ermetismo fa coincidere la poesia con la vita, intesa come la realtà più intima dell’uomo al di fuori di ogni superficiale confusione. Inoltre Bo aggiunge che la storia della letteratura non ha importanza, quello che invece è importa, è il testo, che propone il legame tra l’autore e la sua visione della realtà; proprio in questo contesto, emerge il rifiuto per ogni compromesso della storia. La poesia, è rivolta ad un numero ristretto di persone, ovvero coloro che ne condividono le attese e l’impostazione; lo strumento dell’espressione è l’analogia, che si propone come tramite di un processo che coglie realtà misteriose, trasferendo i dati dell’esperienza ad un piano di situazioni spirituali. La poesia, presentandosi come pura, costituisce la vera e sola realtà, interrogandosi sul senso della vita e offrendo delle risposte sul destino dell’uomo. Il termine ermetismo deriva da Ermete Trismegisto,  che sarebbe stato l’autore di alcuni libri magici, in cui si rivelavano i segreti religiosi capaci di rendere l’uomo partecipe della natura divina; quindi l’Ermetismo, diventa sinonimo della conoscenza esoterica relativa ai valori religiosi, alla quale si riconduce la tradizione orfica, che concepisce la poesia come rivelazione dei misteri della vita. Il rifiuto della storia, diventerà un capo d’accusa nei confronti degli ermetici, i quali però risponderanno che questa chiusura, rappresenta il solo modo di sottrarsi alle scelte del fascismo. Nel decennio che precede la guerra, L’Ermetismo è la tendenza poetica prevalente e i suoi maggiori esponenti sono Quasimodo e Luzi.
Ungaretti nasce nel 1888 ad Alessandria d’Egitto. Nella citta africana, frequenta l’Ecole Suisse Jacot e inizia ad occuparsi intensamente alla letteratura, avvicinandosi a Leopardi e Nietzsche. Nel 1912 si reca a Parigi, dove ha modo di approfondire la conoscenza della poesia decadente e simbolista, da Boudelaire a Mallarmè; e nel 1914, in occasione di una mostra, entra in contatto con i principali esponenti del gruppo fiorentino. Arruolatosi come volontario per partecipare alla guerra, viene inviato a combattere sul Carso, dove compone Il porto sepolto. Nel 1931, pubblica L’allegria, volume che comprende gli scritti della sua prima fase produttiva; e nel 33, pubblica la raccolta Sentimento del tempo. Divenuto uno dei più importanti intellettuali del tempo, la sua figura rappresenterà un punto di riferimento per la poesia ermetica. Nel 36 è chiamato a ricoprire la cattedra dell’Universita di San Paolo in Brasile fino al 42, quando rientrato a Roma, inizia ad insegnare letteratura italiana all’Università di Roma. Le vicende della seconda guerra mondiale e alcuni gravi lutti familiari, ovvero la morte del fratello e del figlio, segnano profondamente la prima raccolta poetica del dopoguerra, intitolata Il dolore.
Ungaretti volle sottolineare il carattere autobiografico delle sue opere; e se le poesie pubblicate su Lacerba, sono di carattere discorsivo, quelle del Porto sepolto, hanno un carattere completamente diverso. Il suo linguaggio poetico, è costituito dalla memoria, che permette all’uomo di portare con se i suoi ricordi, e dall’innocenza, che mette l’uomo in contatto con la dimensione originaria dell’essere. Inoltre Ungaretti propone la distruzione del verso, che con il suo carattere naturalistico, è distratto dal vero obiettivo della ricerca poetica. Resta fondamentale il ruolo della parola, che assume il ruolo di un’illuminazione, infatti viene inserita nei versi o addirittura isolata, con lo scopo di proporla come un’illuminazione nel silenzio. Dal periodo dell’infanzia, sono tratti i temi principali del suo esordio poetico, che sono: il mare, il porto, il viaggio, l’esilio e l’estraneità. Inoltre la guerra, consente ad Ungaretti di stabilire un contatto con la propria gente e di raggiungere una nuova identità, che collega al presente, le esperienze vissute nel passato. Quindi la guerra costringe a vivere nel precario confine tra vita e morte, dove ogni cosa può scomparire all’improvviso: essa quindi propone la “poetica dell’attimo”, che costituisce il fondamento della prima ricerca di Ungaretti. Inoltre il Porto sepolto corrisponde al segreto della poesia che rimane nascosto e indecifrabile nel fondo di un abisso, nel quale deve immergersi il poeta.
Le poesie scritte a partire dal 1919 e inserite nel Sentimento del tempo, rappresentano un cambiamento delle scelte stilistiche: infatti alla poetica del tempo, si sostituisce una nuova concezione del tempo che mira al recupero di una dimensione più complessa dell’esistenza. Sul piano tecnico invece, la sua novità consiste nel recupero delle strutture sintattiche e delle forme metriche tradizionali. Nasce così la poesia del tempo e delle sue metamorfosi, incentrata sul travaglio delle ore e delle stagioni, anche se fino al 1932, la sua attenzione era rivolta principalmente ai paesaggi estivi, essendo l’estate la stagione a lui più congeniale. Inoltre la raccolta il Sentimento del tempo, era suddivisa in 3 momenti: nel 1°  provava a sentire il tempo come profondità storia; nel 2° una civiltà minacciata dalla morte, lo induceva a pensare al destino dell’uomo; nel 3° infine, intitolato L’amore, Ungaretti cominciava a rendersi conto del suo invecchiamento.
La raccolta Terra promessa, pubblicata nel 1950, comprende i frammenti di un progetto rimasto ad uno stadio di abbozzo, che prevedeva la composizione di un melodramma, con personaggi, musica e cori. La vicenda avrebbe dovuto trattare lo sbarco di Enea, le sue imprese gloriose, l’amore di Didone e la morte dell’eroina. Nel 1961 compone Il taccuino del vecchio, che comprende le poesie dal 52 al 60 ed è per la maggior parte composto dagli Ultimi cori per la terra promessa, che stabiliscono un ideale rapporto di continuità con l’opera precedente.

 

Pirandello

Luigi Pirandello nacque nel 1867 a Grigenti (Agrigento) da una famiglia di agiata condizione borghese e di tradizioni risorgimentali e garibaldine. Studiò a Palermo, poi a Roma e infine a Bonn dove si laureò in filologia romanza con una tesi sul dialetto di Grigenti. Entrò in contatto con la cultura tedesca che influenzò le sue teorie sull'umorismo.
Dal 1892 si stabilì a Roma  dove si dedica alla letteratura e sposa Maria Antonietta Portulano. Nel 1903 un allagamento della miniera di zolfo in cui il padre aveva investito il suo patrimonio provocò il dissesto economico della famiglia. A causa di ciò la moglie ebbe una crisi che sfociò in follia. La convivenza con la moglie,molto gelosa, costituì per Luigi un tormento che può essere visto come il germe della sua concezione dell'istituto familiare come trappola. Con la perdita delle rendite P fu costretto ad integrare il suo stipendio di professore con la produzione di novelle e romanzi. La sua vita fu segnata dalla declassazione.
Nel 10 ebbe il primo contatto con il mondo teatrale e da quel momento divenne scrittore per il teatro.
P aveva visto con favore l'intervento in guerra considerandolo come una sorta di compimento del risorgimento: ma suo figlio venne rapito dagli austriaci e non venne mai liberato. Di conseguenza la malattia mentale della moglie si aggravò e venne ricoverata in una casa di cura dove restò fino alla morte.
Nel 20 P cominciò a conoscere il successo del pubblico. Scrisse nel 21 Sei personaggi in cerca d'autore e l'anno dopo lascio la cattedra per dedicarsi al teatro.
Nel 24 dopo il delitto Matteotti si iscrisse al partito fascista e questo gli servì per ottenere appoggi dal regime. La sua adesione al fascismo ebbe però carattereambiguo, perché da una parte vedeva nel fascismo una garanzia di ordine, e dall'altra lo induceva a scoprirvi  l'affermazione di una genuina energia vitale che spazzava via le forme fasulle e soffocanti della vita sociale e dell'Italia postunitaria. Ben presto si staccò dal fascismo.
Negli ultimi anni lo scrittore seguì la pubblicazione delle sue opere: le novelle per un anno e le maschere nude. Nel 34 gli venne assegnato il premio nobel per la letteratura. Attento anche al cinema segui l'adattamento cinematografico della sua opera il fu Mattia Pascal, ma si ammalò di polmonite e morì nel 36.
Alla base della visione del mondo pirandelliana vi è una concezione vitalistica: la realtà tutta è vita, perpetuo movimento vitale, inteso come eterno divenire. Tutto ciò che si stacca dal flusso e assume forma distinta e individuale si irrigidisce e muore. Cosi avviene dell’identità personale dell’uomo. In realtà noi non siamo che parte dell’universale ed eterno fluire della vita, ma tendiamo a cristallizzarci in forme individuali, in una personalità che vogliamo coerente e unitaria. In realtà questa personalità è un illusione.
Non solo noi stessi ci fissiamo in una forma, ma anche gli altri ci vedono secondo la loro prospettiva e ci danno determinate forme. Ciascuna di questa forme è una costruzione fittizia, una maschera che noi stessi ci imponiamo . Sotto questa maschera non c’è nessuno.
L’io si disgrega, si smarrisce, si perde e i suoi confini si fanno labili, la sua consistenza si sfalda, nel naufragio di tutte le certezze. La crisi dell’identità risulta evidente nei processi dell’età contemporanea: l’instaurarsi del capitale monopolistico, che annulla l’iniziativa individuale; l’espandersi dell’industria e dell’uso delle macchine, che meccanizzano l’esistenza e riducono il singolo ad un insignificante rotella di un gigantesco macchinario, priva di relazioni e di coscienza.
L’io si indebolisce, perde la sua identità, si frantuma in una serie di stati incoerenti. Pirandello è uno degli interpreti più acuti di questi fenomeni e li riflette nelle sue costruzioni letterarie.
La presa di coscienza di questa inconsistenza dell’io suscita nei personaggi pirandelliani smarrimento e dolore. Viceversa, l’individuo soffre anche ad essere fissato da altri in forme in cui non può riconoscersi. L’uomo di vede vivere, si esamina dall’esterno nel compiere gli atti abituali che gli impone la sua maschera. Queste forme sono sentite come una trappola. La società gli appare come un enorme pupazzata, una costruzione artificiosa e fittizia, che isola l’uomo dalla vita, lo impoverisce e lo conduce alla morte anche se apparentemente continua a vivere.
Pirandello è in fondo un anarchico, un ribelle insofferente dei legami della società, contro cui scaglia la sua critica impietosa e corrosiva.
Nelle novelle e nei romanzi la critica di Pirandello si appunta sulla condizione piccolo-borghese. L’istituto in cui si manifesta per eccellenza la trappola della forma che imprigiona l’uomo, separandolo dall’immediatezza della vita è la famiglia. P coglie il carattere opprimente della famiglia. L’altra trappola è quella economica costituita dalla condizione sociale e dal lavoro. I suoi eroi sono prigionieri di una condizione misera e stentata. Da questa trappola non si da per Pirandello una via d’uscita storica: il suo pessimismo è totale, non gli consente di vedere altre forme di società diverse. L’unica via di relativa salvezza che si da ai suoi eroi è la fuga nell’irrazionale: nell’immaginazione che trasporta verso un altrove fantastico.
Il rifiuto della vita sociale dà luogo nell’opera pirandelliana ad una figura ricorrente, emblematica: il forestiere della vita, colui che ha capito il gioco, ha preso coscienza del carattere fittizio del meccanismo sociale e si isola, guardando vivere gli altri dall’alto rifiutando di assumere la sua parte, osservando gli uomini intrappolati con un atteggiamento umoristico. E’ quella che Pirandello chiama anche filosofia del lontano: essa consiste nel contemplare la realtà come da un’infinita distanza.
Caratteristico della visione pirandelliana è dunque un radicale relativismo conoscitivo: ognuno ha la sua verità che nasce dal suo modo soggettivo di vedere le cose. Ne deriva un’inevitabile incomunicabilità fra gli uomini che accresce il senso di solitudine dell’individuo che si scopre nessuno e mette in crisi la possibilità di rapporti sociali e ne svela il carattere convenzionale e fittizio.
La realtà non è più una totalità organica, ma si sfalda in una pluralità di frammenti che non hanno un senso complessivo. Il particolare non vibra della vita universale, ma è semplicemente una particella isolata, perché un Tutto non esiste. Anche l’io si frantuma in una serie di frammenti incoerenti.
Il saggio l’umorismo è un testo chiave per penetrare nell’universo pirandelliano; l’opera d’arte secondo Luigi nasce dal libero movimento della vita interiore; la riflessione. Nell’opera umoristica invece la riflessione non si nasconde, non è una forma del sentimento, ma si pone davanti ad esso come un giudice, lo analizza e lo scompone. Di qui nasce il sentimento del contrario. Lo scrittore propone un esempio: se vedo una vecchia signora con i capelli tinti e tutta imbellettata avverto che è il contrario di quello che dovrebbe essere e questo è il comico. Ma se interviene la riflessione non posso più solo ridere: dall’avvertimento del contrario, cioè dal comico, passo al sentimento del contrario, cioè all’atteggiamento umoristico.
La riflessione nell’arte umoristica coglie cosi il carattere molteplice e contradditorio della realtà e permette di vederla da diverse prospettive contemporaneamente. Se coglie il ridicolo di una persona si individua anche il fondo dolente o viceversa: quindi tragico e comico vanno sempre insieme.

 

D’Annunzio

D’Annunzio nacque a Pescara da un’agiata famiglia borghese. Esordi con un libretto di versi Primo vere. Si trasferì a Roma per frequentare l’università, ma abbandonò presto gli studi per frequentare i salotti mondani. Acquisto subito notorietà sia attraverso i suoi versi che spesso avevano contenuti erotici, sia attraverso una vita altrettanto scandalosa. In questo periodo D si crea la maschera dell’esteta, dell’individuo superiore. Questa fase estetizzante attraversò una crisi negli anni Novanta dove lo scrittore si ispirò a Nietzsche e al suo mito del superuomo. Nella realtà D puntava a creare l’immagine di una vita eccezionale sottratta alla norme del vivere comune. Con le sue esibizioni clamorose e i suoi scandali lo scrittore voleva mettersi in primo piano nell’attenzione pubblica, per vendere meglio i suoi prodotti letterari, anche se D ostentava di disprezzare il denaro e le esigenze del mercato. Nel 1897 tentò l’avventura parlamentare, come deputato dell’estrema destra, in coerenza con le sue idee di disprezzo dei principi democratici; nel 1900 passò alla sinistra, ma non bisogna meravigliarsi perché questa scelta è coerente con le idee irrazionali ed estetiche che erano attratte dalle manifestazioni di forza ed energia vitale.
D’annunzio a partire dal 1898 si rivolse anche al teatro. Nel 1910 a causa di creditori fu costretto a lasciare l’Italia per la Francia, ma tornò in occasione della prima guerra mondiale per promuovere l’intervento in guerra. Si arruolò volontario a 52 anni, e nel dopoguerra si fece interprete dei rancori per la vittoria mutilata che fermentavano tra i reduci, capeggiando una marcia di volontari su Fiume dove instaurò un dominio personale sfidando lo Stato italiano. Fu scacciato con le armi nel 1920 e sperò di proporsi come duce di una rivoluzione reazionaria, ma fu scalzato da Benito. Il fascismo lo esaltò come padre della patria, ma lo guardò anche con sospetto confinandolo in una suntuosa villa che Gabriele trasformò in un mausoleo a se stesso dove vi morì nel 1938.
D influenzò profondamente la cultura e la politica italiana.
Le prime raccolte liriche si rifanno a Carducci e a Verga: nel Canto novo ricava da Carducci il senso pagano delle cose sane e forti, ma non manca il vitalismo sfrenato e il fascino della morte. In Terra vergine il modello è Verga: D presenta i paesaggi della sua terra, ma non vi è l’indagine sui meccanismi della lotta per la vita risultante dall’eclisse dell’autore. Troviamo invece un modo idillico e un esplosione di passioni dotto forma di erotismo e violenza.
Nella produzione di versi degli anni Ottanta è evidente l’influsso dei poeti decadenti francesi e inglesi. Queste opere poetiche sono il frutto della fase dell’estetismo che si esprime nella formula il verso è tutto. L’arte è il valore supremo, la vita si sottrae alle leggi del bene e del male e si sottopone solo alla legge del bello e al culto dell’arte e della bellezza.
Il personaggio dell’esteta è una risposta ideologica si processi sociali in atto in Italia che tendevano a declassare l’artista. D vuole il successo e la fama perciò si preoccupa di produrre libri di successo che vendano bene sul mercato e sa utilizzare al meglio la pubblicità che gli deriva dai suoi scandali.
Ben presto D si accorge della fragilità dell’esteta: il culto della bellezza si trasforma in menzogna e l’estetismo entra in crisi. Il suo primo romanzo Il piacere ne è la testimonianza più esplicita. Al centro del romanzo si pone la figura di un esteta, Andrea Sperelli, doppio di D’annunzio in cui l’autore obiettiva la sua crisi e la sua insoddisfazione. In Andrea, uomo dalla volontà debolissima il principio della vita come opera d’arte è una forza distruttrice che lo svuota. La crisi si palesa nel suo rapporto con la donna. Andrea è diviso tra due donne, Elena Muti, la donna fatale e Maria Feres la donna pura. La figura della donna pura è solo oggetto di un gioco erotico fungendo da sostituto di Elena che rifiuta Andrea che finisce per tradire Maria che lo abbandona.
Nei confronti di questo suo doppio D’Annunzio ostenta un atteggiamento critico, facendo pronunciare dalla voce narrante duri giudizi nei suoi confronti, ma questo romanzo non rappresenta il definitivo distacco di D’annunzio dalla figura dell’esteta, visto che risente anche del realismo ottocentesco e del Verismo.
Al Piacere succede un periodo di incerte sperimentazioni detta fase della bontà: questo è un periodo provvisorio. Uno sbocco alla crisi dell’estetismo scaturirà dalla lettura di Nietzsche avvenuta nel 1892.
D coglie alcuni aspetti di Nietzsche forzandoli entro un proprio sistema di concezioni: il rifiuto del conformismo borghese, l’esaltazione dello spirito dionisiaco, il rifiuto dell’etica della pietà e dell’altruismo, l’esaltazione della volontà di potenza e dello spirito della lotta e dell’affermazione di se.
Egli si scaglia violentemente contro la realtà borghese e vagheggia l’affermazione di una nuova aristocrazia che sappia tenere schiava la moltitudine degli esseri comuni ed elevarsi a forme superiori di vita. Il motivo del superuomo è quindi interpretato da D’annunzio nel senso del diritto di pochi esseri eccezionali ad affermare il loro dominio. Il nuovo personaggio del superuomo creato da D’annunzio ingloba la figura dell’esteta conferendole una diversa funzione. Il culto della bellezza è essenziale nel processo di elevazione e l’estetismo diventa uno strumento di una volontà di dominio sulla realtà.
D affida al superuomo una funzione di vate, di guida in questa realtà. Questa figura offre soluzioni che si accordano con le tendenze profonde dell’età dell’imperialismo e del colonialismo.
Il quarto romanzo di D’annunzio il Trionfo della morte rappresenta una fase di transizione. L’eroe Giorgio Aurispa è ancora un esteta che però è travagliato da una oscura malattia interiore e va alla ricerca di un nuovo senso della vita. A causa del conflitto con il padre si identifica con la figura dello zio Demetrio morto suicida. La ricerca insieme con la donna amata, Ippolita Sanzio, lo porta a riscoprire il volto primordiale della sua gente. Da quel mondo barbarico il raffinato esteta è però disgustato. La soluzione gli si affaccia nel messaggio dionisiaco di Nietzsche, ma l’eroe non è ancora in grado di realizzare il progetto anche per la lussuria che consuma le sue forze. Per questo vede nella donna le forze oscure che gli si oppongono: al termine del romanzo Giorgio si uccide trascinando con se nel precipizio la nemica.
Nel romanzo successivo, Le vergini delle Rocce, D non vuole più proporre un personaggio debole, ma un eroe forte e sicuro. L’eroe, Claudio Cantelmo,  sdegnoso della realtà borghese contemporanea vuole portare a compimento in se l’ideale del superuomo, il futuro re di Roma che guiderà l’Italia a destini imperiali. Però è possibile cogliere nell’eroe segrete perplessità e ambiguità. L’eroe si rende conto che le possibilità dell’azione sono lontane e cerca un sostituto nella letteratura. Questi ha raggiunto tale maturità e pienezza che non deve più temere le forze disgregatrici, quelle che avevano portato alla sconfitta di Giorgio nel trionfo. Anzi quelle forze possono alimentare i suoi grandi disegni. Per questo l’eroe va a cercare la donna in una famiglia della nobiltà borbonica in decadenza. In questa scenario della decadenza l’eroe è sicuro di trarne vigore per la sua impresa, ma finisce per restarne prigioniero. Si ripete che Cantelmo non riesce a scegliere tra le tre principesse e che il romanzo si chiude nella perplessità, ma in realtà l’eroe sceglie Anatolia, quella che ha la forza interiore e la maestà di una regina. Ella non può seguire l’eroe perché è legata alla famiglia a cui deve badare. L’eroe soggiace al fascino di Violante, l’incarnazione della donna fatale. Gli eroi dannunziani restano sempre sconfitti e deboli. Le vergini delle rocce doveva essere il primo romanzo di un ciclo detto del giglio, ma gli altri romanzi non furono scritti.
Nel fuoco l’eroe Stelio Effrena medita una grande opera artistica e attraverso di essa vuole creare un nuovo teatro. Si oppongono a lui forze oscure che prendono corpo in una donna, Foscarina Perdita che ostacola l’eroe nella sua opera. Il romanzo si conclude con il sacrificio di Foscarina che lascerà libero Stelio in modo che possa seguire la sua via, ma non si assiste alla realizzazione del progetto dell’eroe. Il romanzo doveva proseguire in un ciclo del melograno ma non sono stati scritti gli altri romanzi.
D ritorna al romanzo con  Forse che si forse che no dove Paolo Tarsis realizza la sua volontà eroica nel volo aereo. Ma alla sublimazione del superuomo si oppone ancora una volta la donna. L’eroe trova un’inaspettata via di liberazione: mentre cerca la morte in un impresa impossibile sicuro di precipitare con l’aereo riesce a compiere questa grande impresa.
Il trionfo della morte va risolutamente nella direzione del romanzo psicologico. Tale impostazione narrativa è richiesta dalla particolare fisionomia dell’eroe che è debole psicologicamente. Il racconto è comunque pervaso da una fitta trama di immagini simboliche.
Ne Le vergini delle rocce la narrazione sfuma in un clima decisamente mitico e favoloso. Nel Fuoco si alternano discussioni e meditazioni del protagonista con episodi densamente simbolici. Il forse che si riprende moduli più romanzeschi anche se prevale la dimensione simbolica.
L’approdo all’ideologia superomistica coincide con la progettazione di vaste e ambiziose costruzioni letterarie. Nel campo della lirica vuole affidare la sua visione a sette libri di Laudi. Nel 1903 erano finiti i primi 3. Un quarto viene pubblicato nel 1912 e il quinto fu pubblicato postumo, ma la raccolta non si concluse.
Il primo libro Maia non è una raccolta di liriche ma un lungo poema di oltre ottomila versi. D usa il verso libero: il suo intento è quello del poema totale da cui deriva un discorso poetico tenuto su tonalità costantemente enfatiche e declamatorie. Il poema è la trasfigurazione mitica di un viaggio in Grecia realmente compiuto da D’Annunzio nel 1895. Il viaggio è l’immersione nel passato mitico alla ricerca di un vivere sublime, divino, all’insegna della forza e della bellezza. Dopo questa iniziazione il protagonista si re immerge nella realtà moderna: l’orrore della civiltà moderna equivale alla bellezza dell’Ellade e i mostri del presente divengono luminose entità mitiche. Il poeta arriva cosi ad inneggiare gli aspetti della modernità poiché racchiudono in se possenti energie che possono essere utilizzate per fini eroici e imperiali. In Maia si ha una svolta che consiste nella celebrazione della modernità che nasconde la paura e l’orrore del letterato umanista dinanzi alla realtà industriale che tende ad emarginarlo. Paura e orrore sono traditi dal fatto che le realtà moderne, possono entrare nell’ambito poetico solo se debitamente esorcizzate mediante la sovrapposizione di qualcosa, ovvero il mito. Invece di fuggire da ciò che lo spaventa e lo aggredisce D esorcizza la paura autoinvestendosi di un ruolo nuovo: cantare e celebrare la realtà che lo minaccia.
Il prezzo pagato da D’annunzio è alto: in primo luogo egli assume la figura del propagatore dei miti più oscurantisti e reazionari e in secondo luogo la sua opera gonfia e retorica appare oggi insopportabile e illeggibile. Nello scegliere quella strada D fa forza alle proprie tendenze più genuine e profonde: il D autentico è quello decadente, quello che interpreta il senso di un fine di un mondo e di una cultura, che tocca i temi della perplessità e dell’ambiguità che si avventura ad esplorare le zone della psiche dove fermentano gli impulsi più oscuri.
Nel secondo libro Elettra troviamo l’oratoria della propagande politica diretta. Qui vi è un polo positivo rappresentato da un passato che si contrappone ad un polo negativo, il presente da riscattare. Una parte cospicua del volume è costituita dalla serie delle liriche sulle città del silenzio. Sono le antiche città italiane che conservano il ricordo di un passato di grandezza guerriere e artistica. Medioevo e Rinascimento italiano sono alla pari dell’Ellade di Maia.
Il terzo libro Alcyone è lontano dagli altri. Troviamo il tema lirico della fusione con la natura. Il libro è come il diario ideale di una vacanza estiva: le liriche si ordinano quindi in un disegno organico che segue la parabola della stagione. La stagione estiva è vista come la più propizia ad eccitare il godimento sessuale: l’io del poeta si fonde con il fluire della vita del Tutto, si identifica con le varie presenze naturali, animali, vegetali, attingendo ad una condizione divina. Sul piano formale troviamo una ricerca di sottile musicalità che tende a dissolvere la parola in sostanza melodica con l’impiego dell’analogia. Alcyone è stata vista come poesia pura sgombra dal peso dell’ideologia superomistica e delle sue finalità pratiche. L’esperienza cantata dal poeta non è altro che una manifestazione del superomismo, solo al superuomo, creatura d’eccezione, è concesso di passare da uomo a natura e attingere ad una vita superiore. Solo la parola magica del poeta superuomo può cogliere l’armonia segreta della natura e raggiungere e rivelare l’essenza segreta delle cose. Il peso dell’ideologia superomistica non guasta interamente il libro che offre i risultati più altri della poesia dannunziana.
Dopo Forse che si D non scrive più romanzi: nei primi decenni del novecento si sperimentano nuove forme di prosa.
Si tratta di poesia lirica: D scrive una serie di queste liriche diverse tra loro, ma accumunate dal taglio autobiografico, memoriale e dal registro stilistico più misurato, meno proteso verso i culmini del sublime. Per questo furono salutate con favore dalla critica: un D’annunzio finalmente genuino e sincero, al pari di Alcyone, senza le solite maschere fastidiose. Queste prose presentano una materia nuova: ricordi di infanzia, sensazioni fuggevoli, confessioni soggettive. Anche la struttura è nuova: il frammento un procedere per libere associazioni, un fondere presente e passato attraverso gli andirivieni della memoria.
Quest’ultima fase viene detta notturna dal titolo della più significativa di queste prose: il Notturno, composto nel 16 in un periodo in cui lo scrittore era costretto ad una assoluta immobilità per il distacco della retina. A causa della cecità tutta l’esperienza vitale si concentra sugli altri sensi o nell’ascolto della propria interiorità. Impressioni, visioni e ricordi vengono annotati rapidamente lungo strisce di carta.
Queste prose rivelano ancora una presenza massiccia di pose narcisistiche, di autocelebrazioni, tutti aspetti che rimandano all’ideologia superomistica e non manca spesso la gonfiezza retorica.

 

Montale

Eugenio Montale nasce a Genova il 12/10/1896 figlio di un proprietario di una piccola ditta commerciale. Frequenta le scuole tecniche e ha una grande passione per la musica. Partecipa alla prima guerra mondiale e in seguito stringe rapporti di amicizia con i poeti liguri. In questo periodo frequenta la giovane Anna degli Uberti. Nel 22 esordisce come poeta sulla rivista Primo tempo e nel 25 pubblica il saggio Stile e tradizione, importante per capire i fondamenti della sua poesia. Montale rifiuta le esperienze di avanguardia ribadendo l’esigenza di uno sforzo verso la semplicità e la chiarezza. Nell’articolo omaggio a Italo Svevo egli segnala per la prima volta in Italia l’importanza dello scrittore triestino, fino ad allora ignorato. Nel 25 esce la prima raccolta di versi Ossi di Seppia e nello stesso anno firmo il manifesto degli intellettuali antifascisti. Collabora con importanti riviste e nel 1939 appare la sua seconda raccolta poetica Le occasioni. Avvia intanto per sopperire alle esigenze economiche un’intensa attività di traduttore. Dal 1939 vive con Drusilla Tanzi che diventerà sua moglie. Nel 43 esce la prima serie delle poesie di finisterre che confluiranno nella raccolta La bufera e altro nel 56. Si iscrive al partito d’azione e nel 45 fonda il quindicennale il Mondo che dura circa un anno. Nel 48 si trasferisce a Milano e inizia la sua attività di redattore per il Corriere della Sera. Nel 48 pubblica il Quaderno di traduzioni, in cui interpreta e traduce alcuni dei maggiori poeti antichi e moderni soprattutto inglesi. Nel 71 pubblica i versi di Satura che segnano una svolta nella sua poetica. Nel 75 riceve il nobel per la letteratura e muore nel 81.
Le poesie degli Ossi di Seppia si segnalano per il timbro di una risentita originalità che nasce da un intima rielaborazione. Al contrario di Ungaretti che muove dalla distruzione del verso tradizionale per riscoprire la forza autonoma della parola che è capace di attingere alle fonti dell’assoluto Montale dice che tra l’uomo e l’assoluto c’è una realtà ineliminabile che Ungaretti trascura. La parola per Montale non può aspirare a raggiungere direttamente l’assoluto, ma deve prima confrontarsi col reale, una barriera nella quale resta inevitabilmente impigliata e che tutta via costituisce il solo banco di priva consentito. Diventa cosi impossibile l’uso dell’analogia nel senso proposto dal Simbolismo. La parola di Montale indica con precisione oggetti definiti e concreti stabilendo fra questi una trama di relazioni complesse. La poetica di Montale è una poetica delle cose: si può vedere chiaramente quanto sia forte l’atteggiamento polemico nei confronti della tradizione poetica autentica.
La scelta di Montale cade sulle piccole cose, sugli elementi di una realtà povera e comune che l’uomo può in ogni momento trovare intorno a se, soprattutto nella natura. Ma Montale non guarda a questa natura con gli occhi ingenui del fanciullino.
Gli oggetti, le immagini e le voci della natura diventano per lui degli emblemi in cui è trascritto il destino dell’uomo, nelle sue rare gioie e speranze, ma soprattutto nell’infelicità di una condizione esistenziale. È un destino che l’uomo non può accettare, ma contro il quale non può nemmeno ribellarsi. In esso si riflette il senso di estraneità dell’uomo contemporaneo. Nonostante gli sforzi e le sollecitazioni dell’uomo, la natura conserva dentro di se la sua oscura ragione di essere. Alla poesia non resta che rispecchiare questa condizione di aridità. Anche per Montale le cose diventano simboli, ma di versi da quelli del Simbolismo. A differenza dell’analogia ungarettiana Montale usa il correlativo oggettivo, in quanto anche i concetti e i sentimenti più astratti trovano la loro definizione ed espressione in oggetti ben definiti e concreti. Il correlativo oggettivo è stato usato da Eliot, con cui la ricerca monta liana presenta convergenze significative a livello tematico e strutturale. Il simbolismo di M è una forma tutta nuova di allegoria, nella misura in cui gli elementi della natura rappresentano condizioni spirituali e morali. E’ questa la concezione medievale di Dante ( amato sia da M che da Eliot). Alla Provvidenza di un mondo che cerca sollievo ai dubbi e alle inquietudini in una fede religiosa, M sostituisce la sua divina indifferenza che resta passiva e insensibile di fronte alle gioie e ai dolori degli uomini. La poesia si apre a un tono discorsivo e colloquiale che presuppone la presenza del lettore quell’interlocutore spesso presente nel tu dei versi di M.
Egli rifiuta l’immagine tradizionale del poeta vate e ogni concezione della poesia come fonte di educazione e di elevazione spirituale.
Di fronte all’impossibilità di sciogliere il mistero della vita, Montale non può che proporre una poesia come forma di conoscenza in negativo, priva di certezze e di ipotesi propositive. La funzione della poesia è quella di indagare la condizione dell’uomo novecentesco assumendo il valore di una insostituibile testimonianza. M non si abbandona a cedimenti vittimistici o a suggestioni irrazionali. Pur senza speranza resta intatta in lui una vigile fiducia nella ragione. In questo senso la sua poesia riacquista una preciso significato morale.
Montale resta fedele a una nozione di stile che si identifica con la lucidità della ragione e con la dignità dell’uomo: egli concede ampi spazi ai metri tradizionali e il linguaggio comune può facilmente elevarsi. Il rigore e l’equilibrio cercati da M rappresentano l’esigenza di un controllo dell’intelligenza contro l’irruzione del caos.
Gli ossi di seppia del primo volume simboleggiano l’aridità dell’universo montaliano, di ciò che resta dopo l’azione di erosione e di logoramento della natura. Essi alludono anche al carattere povero dell’ispirazione che appare per lo più concentrata su brevi momenti dell’esistenza. Le cose rinviano a una incessante vicenda di vita e di morte, di gioia e di dolore che costantemente ritorna e lascia come unico conforto una speranza di felicità. Neppure la memoria, oscurata e cancellata dall’inesorabile scorrere del tempo, riesce a recare conforto.
Ne le occasioni il titolo allude all’accadere di eventi di un particolare rilievo, in quanto potrebbero mutare il corso uniforme e monotono dell’esistenza; ma il miracolo non può compiersi per il poeta il quale affida a enigmatiche figure femminili la sua speranza.
Il titolo La bufera e altro allude allo sconvolgimento della prima guerra mondiale che reca una tragica conferma al pessimismo montaliano nei confronti della storia. Privo di ogni fiducia nella storia il poeta non crede che essa possa recare speranze di salvezza. Nelle due ultime raccolte si complica la sintassi e il significato degli oggetti. L’oggetto può cosi trasformarsi in un talismano cui è affiato il compito di mediare il rapporto tra il mondo sensibile e l’inconoscibile.
Al tu di un generico interlocutore si sostituisce la presenza di una figura femminile che diventa il destinatario privilegiato all’interno del testo. Queste figure corrispondono a persone realmente vissute care al poeta. Ma il riferimento biografico è privo di ogni connotazione realistica e riveste unicamente una funzione emblematica. Le donne sono cantate solo dopo la loro scomparsa: la donna in Montale diventa cosi una specie di Beatrice che accompagna il poeta nel suo viaggio tra il conoscibile e l’inconoscibile. Anche quello di Montale può essere considerato come una specie di viaggio fra la storia e l’aldilà, tra il mondo sensibile e quello ultraterreno. Per M non esiste una spiegazione o giustificazione di natura ultraterrena che di un senso al rapporto fra l’uomo e la realtà; alla causalità garantita da una persona superiore si sostituisce la casualità con confonde le intenzioni umane; quindi ne la storia ne la religione possono offrire certezze.
Con le ultime raccolte mutano radicalmente le prospettive del suo discorso poetico. I contenuti restano legati al piano della storia, nei confronti della quale Montale conferma e accentua il suo pessimismo. Ma l’obbiettivo polemico è costituito dal presente; dalla polemica nei confronti della società dei consumi che ha perso i valori fondamentali.
Entra in gioco cosi una componente satirica che si risolve in una sottile ironia che si fa impietosa e sprezzante raggiungendo le punte del feroce sarcasmo. Lo stile risulta di conseguenza aforistico e epigrammatico e nello stesso tempo irridente e sentenzioso.

 

Quasimodo

Nato a Modica nel 1907, trascorre l’infanzia e la giovinezza in Sicilia. Dopo essersi diplomato a19 anni si stabilisce a Roma dove continua la sua formazione leggendo testi letterari e filosofici e studiando le lingue classiche. Durante un soggiorno a Firenze conosce Montale e Bonsanti, quest’ultimo gli pubblica le prime poesie tra cui anche la raccolta acque e terre. Nel 1934 si trasferisce a Milano dove dopo una parentesi giornalistica presso la redazione del Tempo ottime la cattedra di letteratura italiana al Conservatorio. Le nuove poesie confluiscono nel 1942 nella medesima raccolta di E’ subito sera che fa di Quasimodo uno dei maggiori esponenti dell’ Ermetismo. Sul piano stilistico vi è un radicale distacco dalla lingua parlata, la parola si chiude a ogni volontà comunicativa, assumendo un valore assoluto. Per aumentare gli effetti di indeterminatezza vengono usati sostantivi al plurale e rapporti logici confusi.
La nostalgia della terra Siciliana , che ne ricordo diventa un luogo mitico, la casa, la madre e l’ infanzia sono temi ricorrenti in acque e terre; il tema della trasfigurazione del passato data dall’ insoddisfazione del presente è presente in oboe sommerso caratterizzato dalla musicalità del linguaggio e da un lessico ricercato, quest’opera esprime il mito della solitudine dell’uomo nel dolore della vita.
Con le poesie nuove si ha un graduale cambiamento, che sarà più evidente nelle opere del dopoguerra: con il piede straniero sopra il cuore, giorno dopo giorno, la vita non è un sogno dare e avere. Nelle suddette opere il verso si allunga e l’ esposizione è più lineare, i temi8 si ampliano e si arricchiscono di elementi, cosi si va a creare un messaggio più facilmente accessibile e comunicativo.
Quasimodo afferma che la poesia deve prendere delle posizioni nella società, deve avere un ruolo attivo e concreto; parlò cosi al momento della consegna del premio nobel per la letteratura. Muore a Napoli nel 1968.
Va ricordato di questo poeta il suo impegno come critico teatrale, e le sue traduzioni, memorabile tra tutte quella dei lirici Greci.

 

Svevo

Aron Hecror Schmitz (Italo Svevo è uno pseudonimo) nacque a Trieste il 19/12/1861. La sua aspirazione era divenire scrittore e inizia subito a comporre testi drammatici. Nel 1880 in seguito ad un investimento industriale sbagliato, il padre fallì: Svevo conobbe così l’esperienza della declassazione passando dall’agio borghese ad una condizione di ristrettezza. Trova lavoro in banca. Nel 86 strinse amicizie con Umberto Veruda che esercitò profonda influenza su di lui. Nel frattempo scrive il suo primo romanzo, Una vita, che pubblica a sue spese nel 92.
Nel 95 muore la madre a cui era legata. Al suo funerale incontra una lontana cugina, se ne innamora e la sposa nel 96. Il matrimonio segnò una svolta fondamentale nella vita di Svevo: l’inetto pieno di insicurezze trova finalmente un terreno solido su cui poggiarsi. Muta cosi anche la sua condizione sociale, perché la famiglia della cugina era proprietaria di una fabbrica e Svevo diventa un manager industriale. Pubblica Senilità nel 98 che ebbe poco successo (come una vita) e questo lo fa allontanare parzialmente dalla letteratura. L’incontro con Joyce e quello con la psicoanalisi di Freud lo riparano alla letteratura : infatti nel 19 scrive la Coscienza di Zeno che ha poco successo. Montale lo riscopre e gli dedica un ampio saggio nel 1925 riconoscendo la sua grandezza. Muore nel 28 a causa di un incidente d’auto.
Alla base dell’opera letteraria di Svevo ci è una robusta cultura filosofica: egli fu influenzato da Schopenhauer che opponeva il misticismo irrazionalistico al sistema hegeliano, da Nietzsche e da Darwin, l’autore della teoria evoluzionistica. Può stupire che lo scrittore si rifaccia contemporaneamente ad un capostipite dell’irrazionalismo e a uno dei pilastri del positivismo, ma bisogna tenere presente che al di la della sua ammirazione per questi maestri, Svevo tendeva ad utilizzarli in modo critico, come strumenti conoscitivi che fornissero risposte alle sue personali esigenze.
Ad assumere questo atteggiamento critico Svevo fu influenzato anche dal pensiero marxista, tanto da avvicinarsi per un periodo al socialismo. Dal marxismo Svevo trasse la chiara percezione dei conflitti di classe che percorrono la società moderna, ma soprattutto la consapevolezza del fatto che tutti i fenomeni, compresa la psicologia individuale sono condizionati dalla realtà delle classi.
Parimenti problematico fu il rapporto con la psicoanalisi. Egli non apprezzava la psicanalisi come terapia, che pretendeva di portare alla salute il malato di nevrosi, bensì come puro strumento conoscitivo, capace di indagare più a fondo la realtà psichica e di conseguenza come strumento narrativo.
Un importanza particolare ha per Svevo la conoscenza dei romanzieri naturalisti, di Zola in particolare. Il modello zoliano si scorge soprattutto nel primo romanzo, nella ricostruzione minuziosa dell’ambiente della banca.
L’amicizia con Joyce (che apprezzava i lavori di Svevo a differenze della critica) fu molto importante per Svevo: lo scrittore irlandese contribuì a rafforzare nello scrittore triestino la fiducia nelle sue capacità letterarie.
Svevo voleva intitolare il suo primo romanzo Un inetto, ma consigliato dall’editore cambiò il titolo in Una Vita.
Breve sintesi del romanzo:
Alfonso Nitti, trasferitosi dalla campagna a Trieste, trova un impiego in banca, ma non riesce a stabilire contatti umani e vede le sue ambizioni economiche e letterarie frustrate. Vive una relazione prettamente sessuale con Annetta Maller, figlia del proprietario della banca. Potrebbe ricoprire la figura del pater familias sposando Annetta; ma Alfonso, preso dall'inettitudine fugge al paese natale adducendo la scusa di dover dare conforto alla madre gravemente ammalata. In seguito alla morte della madre è convinto di aver trovato finalmente il suo modus vivendi che consiste nel dominare le passioni. In realtà il protagonista è ben presto furia di quest'ultime. Infatti ritornato a Trieste, rivede Annetta e le scrive una lettera, questa però si è sposata con suo cugino Macario scatenando la gelosia di Alfonso. Annetta non risponde a questa lettera e nel frattempo suo fratello vuol fare un duello con Alfonso che continua ad infastidire Annetta. Il protagonista preferisce suicidarsi, conscio del suo fallimento.
Questo è il romanzo della scalata sociale, in cui il giovane provinciale ambizioso si propone di conquistare il successo nella scoietà cittadina, anche se Alfonso si limita a sognare il successo, senza mai muovere un dito per conquistarlo, anzi fuggendo dinanzi alle occasioni che gli si presentano.
Da un altro lato questo è un romanzo di formazione, che segue il processo attraverso cui un giovane si forma alla vita. È ravvisabile l’influsso della scuola naturalista, nella volontà di ricostruire un determinato quadro sociale.
Alfonso è un inetto, come gli altri personaggi di Svevo; l’inettitudine è sostanzialmente una debolezza, un insicurezza psicologica che rende l’eroe incapace alla vita. Alfonso è un piccolo borghese declassato da una condizione originariamente più elevata, ed è un intellettuale, ancora legato ad un tipo di cultura esclusivamente umanistica. Ciò lo rende un diverso. Alfonso è afflitto e paralizzato da questa diversità che è sentita come inferiorità. L’impotenza sociale diventa impotenza psicologica. Cosi il grigio impiegato, timido e incapace di stabilire relazioni con gli altri, nei suoi sogni di megalomane si costruisce una maschera fittizia, un immagine di se consolatoria che lo risarcisce dalle frustrazioni reali.
Dinanzi a lui si ergono degli antagonisti come Maller il padrone cera incarnazione del padre possente e terribile. La figura del rivale è ricoperta da Macario che possiede tutte le doti che non possiede Alfonso: brillante, sicuro di se. È Macario che alla fine sottrae la donna desiderata a Alfonso.
La narrazione è condotta da una voce fuori campo che riferisce ai personaggi in terza persona.
Il secondo romanzo di Svevo è Senilità: Breve sintesi del romanzo:
Emilio Brentani, 35 anni, è conosciuto a livello cittadino per aver scritto un romanzo, e lavora come impiegato in una compagnia di assicurazioni. Vive in un appartamento con la sorella Amalia, che lo accudisce. Emilio conosce Angiolina, di cui si innamora, e ciò lo porta a trascurare la sorella e l'amico Stefano Balli, scultore, che compensa i pochi riconoscimenti artistici con i successi con le donne. Stefano non crede nell'amore, e cerca di convincere Emilio a "divertirsi" con Angiolina, che è conosciuta in città con una pessima fama. Emilio dimostra invece tutto il suo amore nei confronti di questa donna, arrivando anche a trascurare gli indizi degli amici che cercavano di avvertirlo dei suoi numerosi tradimenti. Stefano comincia a frequentare casa Brentani con maggiore assiduità, e Amalia finisce per innamorarsene. Emilio, geloso della sorella, allontana Stefano, e Amalia torna triste e malinconica e comincia a stordirsi con l'etere, finchè non si ammala di polmonite. Emilio segue la sorella malata, ma col pensiero sempre rivolto ad Angiolina, arrivando anche ad abbandonare la sorella più volte per andare ad un appuntamento con lei. Dopo la morte della sorella Amalia, Emilio smette di frequentare Angiolina, pur amandola, e si allontana da Stefano Balli. Viene poi a sapere che Angiolina è fuggita con il cassiere di una banca. Anni dopo, nel ricordo, Emilio vede le due donne fuse in una singola persona, con l'aspetto dell'amata e il carattere della sorella.
Il nuovo romanzo si concentra esclusivamente sui 4 personaggi principali. A differenza di Una Vita non sono affrontati direttamente i problemi di natura sociale. Ciò non significa però che Avevo ignori la dimensione sociale e storica: semplicemente vi arriva per un’altra strada, meno diretta ma non meno penetrante, quella dell’analisi della psiche.
Emilio Brentani è un piccolo borghese che ha subito un processo di declassazione; al tempo stesso è un intellettuale, intriso di letteratura, tanto da interpretare costantemente il reale attraverso schemi letterari. Dal punto di vista psicologico è un inetto che ha paura di affrontare la realtà e per questo si è costruito un sistema protettivo, conducendo un’esistenza cauta che gli garantisce calma e sicurezza, ma implica la rinuncia al godimento. E’ una sorta di limbo, di sospensione vitale, che il titolo del romanzo definisce senilità. Questo sistema protettivo di oggettiva nella chiusura entro il nido domestico, che si compendia nella figura materna della sorella Amalia.
La vita e il godimento assumono ai suoi occhi le sembianze di Angioina, che diventa per lui simbolo di salute e pienezza vitale. Con lei Emilio assapora per la prima volta il piacere. Ebbene proprio la relazione con Angioina è il reagente che fa venire alla luce l’inettitudine di Emilio ad affrontare la realtà. Emilio ha paura della donna e del sesso;infatti nel rapporto con lei rivela soprattutto un bisogno di dolcezza materna. Inoltre Emilio si compiace di recitare un ruolo paterno nei confronti di Angioina, immaginandosela ingenua. In realtà l’immaturità infantile messa in luce nel rapporto con Angioina, denuncia come Emilio non riesca più a coincidere con una certa immagine virile dell’uomo forte.
Per questo Emilio si appoggia all’amico Balli, forte, sicuro di se. In realtà anche Balli dietro l’apparenza della forza, cela un’intima debolezza. Balli rappresenta il tentativo di rovesciare velleitariamente l’impotenza in onnipotenza, mascherando la debolezza con l’ostentazione della forza dominatrice.
Il rapporto sentimentale è solo superficiale nel romanzo. In realtà attraverso di esso Svevo riesce a ritrarre con mirabile acutezza la struttura psicologica di un tipo sociale rappresentativo, l’intellettuale piccolo borghese di un periodo di crisi.
Anche Senilità è un romanzo focalizzato quasi totalmente sul protagonista. In fatti sono filtrati sistematicamente attraverso la sua coscienza e sono presentati come li vede lui. Ma poiché Emilio è portatore di una falsa coscienza e si costruisce continuamente maschere, alibi, autoinganni, la sia prospettiva è deformante, il suo punto di vista è inattendibile. Questa inattendibilità viene denunciata da Svevo fondamentalmente attraverso tra procedimenti narrativi:

  • La voce del narratore interviene nei punti essenziali con commenti e giudizi, spesso secchi e taglienti, a smentire e a correggere la prospettiva del protagonista, a smascherare i suoi autoinganni.
  • Spesso dinanzi alle menzogne e agli alibi di Emilio, il narratore tace, non interviene direttamente a smentire, a chiarire, a correggere, ma una l’ironia oggettiva che scaturisce dalla realtà oggettiva dei fatti. Essa nella sua fredda impassibilità può raggiungere effetti ancora più corrosivi degli interventi espliciti del narratore.
  • La semplice registrazione del linguaggio di Emilio: il linguaggio appare stereotipato come le idee che comunica, zeppo di espressioni enfatiche, melodrammatiche, ad effetto e al tempo stesso banali.

Il terzo romanzo di Svevo La coscienza di Zeno appare 25 anni dopo nel 1923: non c’è da meravigliarsi quindi se appare molto diverso dai due romanzi precedenti. Svevo abbandona il modulo ottocentesco ancora di matrice naturalistica, del romanzo narrato da una voce anonima ed esterna al piano della vicenda. Per gran parte la Coscienza è costituita da un memoriale, o confessione autobiografica, che il protagonista Zeno Cosini, scrive su invito del suo psicanalista Dottor S a scopo terapeutico, come preludio che dovrebbe agevolare la cura vera a propria. E lo scrittore finge che il manoscritto di Zeno venga pubblicato dal Dottor S per vendicarsi del paziente che si è sottratto alla cura frodando al medico il frutto dell’analisi. Al testo del memoriale si aggiunge una sorta di diario di Zeno, in cui questi spiega il suo abbandono della terapia e si dichiara sicuro della propria guarigione in coincidenza con i successi commerciali ottenuti durante la guerra con fortunate speculazioni.
Nuovo ed originale è il trattamento particolare del tempo, quello che Svevo chiama tempo misto. Il racconto nonostante l’impostazione autobiografica non presenta gli eventi nella loro successione cronologica lineare, ma in un tempo tutto soggettivo che mescola piani e distanze in cui il passato riaffiora continuamente e si intreccia con infiniti fili al presente. La ricostruzione del proprio passato operata da Zeno si raggruppa attorno ad alcuni temi fondamentali a ciascuno dei quali è dedicato un capitolo. La narrazione va continuamente avanti e indietro nel tempo, seguendo la memoria del personaggio, che si sforza per obbedire al suo psicanalista di ricostruire il proprio passato. Breve sintesi del romanzo:
II romanzo si apre con la Prefazione, lo psicanalista "dottor S." induce il paziente Zeno Cosini, vecchio commerciante triestino, a scrivere un'autobiografia come contributo al lavoro psicanalitico. Poiché il paziente si è sottratto alle cure prima del previsto, il dottore per vendicarsi pubblica il manoscritto.
Nel preambolo Zeno racconta il suo accostamento alla psicanalisi e l'impegno di scrivere il suo memoriale, raccolto intorno ad alcuni temi ed episodi. Il fumo racconta dei vari tentativi attuati dal protagonista per guarire dal vizio del fumo, che rappresenta la debolezza della sua volontà. In La morte di mio padre è raccontato il difficile rapporto di Zeno con il padre, che culmina nello schiaffo dato dal genitore morente al figlio. In Storia del mio matrimonio Zeno si presenta alla ricerca di una moglie. Frequenta casa Malfenti e si innamora di una delle figlie del padrone di casa, Ada la più bella delle quattro figlie; costei però lo respinge. Dopo essere stato rifiutato da un'altra delle ragazze, viene accettato dalla materna e comprensiva Augusta.
Nel capitolo La moglie e l'amante, Zeno rievoca la relazione con Carla; egli non sa decidersi fra l'amore per la moglie e quello per l'amante, finché è quest'ultima a troncare il rapporto.
Il capitolo Storia di un'associazione commerciale è incentrato sull'impresa economica di Zeno e del cognato Guido. Sull'orlo del fallimento, Guido inscena un suicidio per impietosire i familiari, ma muore. Ada parte per Buenos Aires.
Qui terminano i capitoli del memoriale. Zeno, abbandonato lo psicanalista, scrive un altro capitolo, intitolato Psico-analisi. Egli spiega i motivi dell'abbandono della cura e proclama la propria guarigione. Il protagonista indica l'idea che lo ha liberato dalla malattia: "La vita attuale è inquinata alle radici"; in definitiva la capacità di convivere con la propria malattia è come una persuasione di salute.
Il finale è duplice: il primo comporta la dichiarazione di Zeno di essere "guarito" perché è un uomo ricco e di successo (conclusione a lieto fine). Il secondo è contenuto nelle due pagine conclusive del romanzo e sembra non avere un collegamento con il personaggio "Zeno". Pertanto ci si affida a delle interpretazioni. Due sono quelle ricorrenti: Il mondo sarà distrutto da una "deflagrazione universale": un esplosivo collocato al centro della terra. Esso verrà fatto esplodere. Sarebbe il simbolo dell'impossibilità di risolvere il problema esistenziale dell'uomo. Una seconda interpretazione sarebbe di tipo socio-politico, di impronta marxiana: quel mondo è la classe borghese che cadrà su se stessa.
Il narratore della Coscienza, l’inetto Zeno, è chiaramente un narratore inattendibile, di cui non ci si può fidare. Lo denuncia subito il dottor S (nella prefazione). L’autobiografia contenuta nel memoriale è tutta un gigantesco tentativo di auto giustificazione di Zeno, che vuole dimostrarsi senza colpa nei rapporti con il padre, con la moglie, con l’amante. In realtà traspaiono ad ogni pagine i suoi impulsi reali che sono regolarmente ostili ed aggressivi, addirittura omicidi. Sono autoinganni determinati da processi profondi ed inconsapevoli, con i quali Zeno cerca di tacitare i sensi di colpa che tormentano il suo inconscio.
Per cui la Coscienza appare il primo luogo una cattiva e falsa coscienza. Anche qui poi la realtà oggettiva dei fatti si incarica spesso di farci dubitare delle motivazioni adottate da Zeno, per cui egli appare avvolto da un alone di ironia oggettiva al pari del protagonista di Senilità.
Non vi è solo l’ironia oggettiva che pesa su Zeno: il romanzo è anche percorso dal distacco ironico con cui Zeno guarda il mondo che lo circonda. La diversità di Zeno, la sua malattia funziona da strumento straniante nei confronti dei cosiddetti sani e normali. La malattia porta alla luce l’inconsistenza della pretesa sanità degli altri. Zeno nella sua imperfezione di inetto è inquieto e disponibile alle trasformazioni, a sperimentare le più varie forme dell’esistenza, mentre i sani sono cristallizzati in una forma rigida, immutabile.
In Zeno vi è un disperato bisogno di salute, ci normalità. Il suo sguardo di estraneo corrode quel mondo, ne mina alle basi le certezze indiscusse, mai sottoposte dai suoi rappresentanti al dubbio critico. Zeno finisce in tal modo per scoprire che la salute atroce degli altri è anch’essa malattia, la vera malattia. Zeno fa parte del mondo che sottopone a critica e ne presenta i limiti, in primo luogo nella sua opacità a se stesso, nell’incapacità di capire i meccanismi profondi che dirigono i suoi atti: ma paradossalmente in quanto inetto, malato e diverso, porta alla chiarezza la realtà degli altri.
Dinanzi ad una realtà totalmente aperta e ambigua, in cui forza e debolezza, salute e malattia sono sconvolte nelle loro gerarchie abituali, non si possono più dare punti di riferimento stabili, non è possibile l’intervento di una voce che giudichi in nome di valori certi e determinati. Per questo abbandonato il narratore fuori campo, la narrazione viene affidata al personaggio. La voce narrante inattendibile di Zeno è quindi cosa ben diversa dalla prospettiva inattendibile di Alfonso e di Emilio: mentre questi ultimi possono essere smentiti dalla voce esterna; Zeno no è l’unica fonte del narrare. Ciò che dice Zeno può esser verità o bugie o entrambi e nessun punti di riferimento permette di distinguerlo con definitiva certezza.

 

Poesia Pura, Crepuscolari e futuristi

La poesia pura è una corrente letteraria che ebbe il suo apice tra le due guerre. Essa portava a maturazione la poetica simbolista opponendosi alla retorica dannunziana e pascoliana. Il termine pura sta ad indicare un'essenzialità della parola. Gli elementi della poesia pura sono:


  • Ripudia l’effusione romantica
  • Ricerca dell’essenzialità espressiva
  • Svalutazione della realtà oggettiva
  • La parola assume una funzione evocativa
  • Irrazionalità, oscurità e mistero
  • Rifiuto di ogni continuità logico discorsiva
  • Il frammento, espressione sintetica, ma intensa
  • Ricerca della parola nuda
  • Crisi dei valori della società contemporanea
  • Dio appare o presenza problematica o tragica assenza
  • Uso dell’analogia

La definizione di poeti crepuscolari risale ad una recensione pubblicata nel 1909 sul quotidiano la Stampo di Borgese che parlò di una voce crepuscolare, la voce di una gloriosa poesia che si spegne. Questi poeti rappresentano l’esaurirsi di un’intera tradizione che aveva annoverato fra gli ultimi prestigiosi esponenti Carducci e D’Annunzio. I crepuscolari contrappongono l’amore per le piccole cose, con le atmosfere più grigie e comuni della vita quotidiana, rievocate attraverso un linguaggio dimesso e prosaico, tendenzialmente vicino al parlato. Mutano radicalmente la concezione e il significato della poesia, che non ha più messaggi eccezionali da proporre, ma si mimetizza nell’opacità dell’esistenza borghese. La nozione di crepuscolarismo non indica una programma rigorosamente formulato che faccia capo ad un gruppo preciso.
Gozzano: c’è in Gozzano un atteggiamento ironico che conduce ad uno straniamento sottile ed ambiguo nei confronti della materia rappresentata. Gozzano considera oramai l’arte come artificio, in un senso tipicamente decadente che tuttavia non promette la creazione di paradisi artificiali o di mondi alternativi, attraverso una ricerca di lavori estetizzanti. La poesia nasce per lui da un paradosso: la consapevolezza della sua inutilità coincide con l’estrema espressione del suo alto valore. Gozzano mescola espressioni comuni alla sapiente ripresa di termini e citazioni della più nobile trazione letteraria; ma questi riferimenti sono inseriti in un contesto straniante, che li sottrae ai suoi significati originari. Di qui la carica demistificante e corrosiva della sua poesia, che riguarda sia i valori della società borghese, sia i loro travestimenti letterari.
Nel manifesto del futurismo, pubblicato sul quotidiano parigino Le Figaro il 20 febbraio 1909, Filippo Tommaso Marinetti formula il suo programma di rivolta contro la cultura del passato e tutti gli istituti del sapere tradizionale, proponendo un azzeramento sui cui elevare una concezione della vita estremamente rinnovata. I valori su cui intende fondarsi la visione del mondo futurista sono quelli della velocità e del dinamismo, dello sfrenato attivismo, considerati come distintivi della moderna realtà industriale che ha il suo emblema nel mito della macchina. Il culto dell’azione violenta ed esasperata respinge fin d’ora ogni forma esistente di organizzazione politico-sindacale nel nome di un individualismo assoluto. Di qui l’adesione all’ideologia nazionalista e militarista, che celebra la guerra come sola igiene del mondo. Anche l’uomo il sui significato si risolve interamente nell’azione finisce per ridursi a un essere meccanico e dinamico. Di qui la polemica si estende alla sensibilità romantica e decadente.
Il futurismo respinge ogni forma consueta di causalità e consequenzialità, sostituendo all’impianto logico del pensiero una forma più sintetica e abbreviata, quella dell’analogia. L’analogia accosta fra loro realtà diverse e lontane. L’analogia costituisce la forma più essenziale e sintetica della similitudine e della metafora. Marinetti la definisce come sostantivo doppio.
La parola perde la funzione di indicare concretamente l’oggetto al quale si riferisce; il suo significato diventa allusivo e evocatore. In questo senso viene rifiutata ogni forma di soggettivismo sentimentale e romantico.
Il futurismo di proponeva di distruggere la sintassi tradizionale che riflette l’ordine logico di un pensiero rigorosamente concatenato. Vengono aboliti i tradizionali elementi di interpunzione. Per rafforzare questi effetti Marinetti propone l’uso del verbo all’infinito che indica il senso della durata e della continuità.
Alla distruzione della sintassi si sostituisce la teoria delle parole in libertà, che consiste nel disporre i sostantivi a caso, come nascono. Notevole rilievo assume la forma grafica delle parole che sottolinea effetti particolari. La parola vale non solo per l’immagine mentale che può produrre, ma anche come segno concretamente visibile, destinato a sua volta a suggerire impressioni acustiche o tattili.

 

Introduzione all’Umanesimo e al Rinascimento

L’Umanesimo, al contrario del Medioevo che viene considerato un’età di pregiudizi e di superstizioni, propone una nuova immagine dell’uomo che si fonda sulla dignità umana. La discussione su questo tema è una delle più significative del quattrocento e vi fanno parte figure come Pico della Mirandola e Marsilio Ficino. In questo periodo l’uomo è considerato artefice del mondo, un essere che sta fra la terra e il cielo, capace di dominare la realtà e creare nuove figure. Questa visione di tipo antropocentrico che colloca al centro dell’universo l’uomo si contrappone la visione teocentrica medievale che riconosce nella divinità il fine degli interessi umani e considera il destino dell’uomo come realizzabile solo nella vita ultraterrena.
La cultura si basa sull’humanae litterae, le opere classiche che sono lo strumento per la formazione dell’uomo.
I signori Quattrocenteschi si ricoprirono di artisti, intellettuali per dare lustro alla propria casata, mecenatismo. Essi ricorrevano agli intellettuali per educare i figli e per aprire biblioteche pubbliche. L’intellettuale partecipava al consolidamento del potere in cambio di ingenti somme di denaro. Gli artisti però si tenevano fuori dalle questioni politiche anche perché i Signori non gli permettevano di interessarsi a ciò. C’era comunque una separazione tra il mondo culturale e quello politico. Possiamo affermare che questa è l’età delle corti poiché in esse si decretava la moda e anche la fama, destino degli intellettuali. Purtroppo questa civiltà era riservata solo a pochi, poiché la massa continuava a vivere nella miseria e nell’alfabetismo.
Nella letteratura Petrarca può essere considerato un preumanista. I motivi che lo portano ad essere un uomo dell’umanesimo sono la riscoperta dei classici, mette al centro la figura dell’uomo, vaga per le corti dove avviene mecenatismo, da valore ai beni terreni anche se è un uomo pieno di contraddizioni poiché rimane legato comunque alla visone cattolica cristiana della vita che lo fa rimanere uomo del medioevo.
La letteratura cinquecentesca conserva evidenti legami con la cultura dell’Umanesimo, anche perché si prolungano gli influssi del neoplatonismo, che esalta le doti intellettuali e spirituali dell’ individuo, offrendogli di partecipare ad una forma di esistenza superiore, attraverso la contemplazione della bellezza e l’esperienza dell’amore. Nel Rinascimento arrivano i primi segni di una mentalità scientifica col metodo sperimentale proposto prima da Leonardo da Vinci, perfezionata poi da Galileo Galilei nel Seicento. A questo progetto contribuì la filologia, lo studio della lingua che si proponeva di riportare alla propria forma originale i testi  classici. La storia smette di essere considerata una creazione divina risualtando una creazione dell’uomo.
La riscoperta dei classici inserita in una prospettiva storica aiuta a comprendere meglio la contemporaneità.
Il termine Rinascimento indica la straordinaria fioritura delle lettere e delle arti e la consapevolezza di essere gli eredi di una somma di valori: quelli della latinità e della tradizione italiana che occorre riproporre e perfezionare. Si cerca di imitare gli scrittori classici che vengono considerati la perfezione a discapito della natura che viene considerata disordine. Pietro Bembo individua i due modelli fondamentali: Petrarca per quanto riguarda la poesia, mentre Boccaccio per la prosa. Si aggiungono anche delle regole identificate nell’insegnamento di Aristotele come l’unità di tempo, di luogo e di azione che riprendono l’età antica della tragedia e della trilogia.
Proprio questo insieme di regole portano all’alterazione del quadro letterario poiché l’individuo e lo scirittore si troveranno chiusi in un ragnatela di impedimenti e legami; nasce così il Manierismo, la crisi del Cinquecento che prelude alle nuove espressioni dell’età barocca. Il Manierismo si svoiluppa soprattutto nell’ambito artistico, ma la figura del Tasso viene considerata dominante nell’ambito letterario. Tipico del Manierismo è un nuovo senso di inquietudine esistenziale e una ricerca  di un’espressione più problematica tesa a rivelare una visione ambigua del reale. Nell’arte la fanno da padrone la linea spezzata e il colore mirante ad effetti surreali, mentre nella letteratura la variazione, la combinazione e la propensione per la bizzarria.
Il Cinquecento può essere diviso in 3 fasi: la prima rappresentata da Machiavelli (Principe 1513-23), Ariosto (Orlando Furioso 1516-32) e Caastiglione caratterizzata da una libertà creativa; la seconda con la crisi delle corti e col Concilio di Trento si colloca nella metà del secolo ed è caratterizzata dallintroduzione e dalla codificazione di rigide regole; la terza dopo il 1563 contraddistinta dalla Controriforma all’insegna del Manierismo.

 

Le strutture politiche economiche e sociali del Cinquecento

Con la morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492 ha termine quella politica di pace e di equilibrio. Nel 1494 scnde in Italia Carlo VIII chiamato da Ludovico il Moro che era riuscito a impadronirsi del ducato di Milano. Carlo VIII riuscì ad arrivare fino a Napoli ma il suo successo fu di breve durata. Questa invasione rivelò la volubilità e la fragilità degli Stati della penisola. Inizia quel processo che vide la perdita della libertà per la maggior parte degli dell’Italia. Dopo Carlo VIII i francesi scendono di nuovo in Italia e si impadroniscono del Ducato di Milano, mentre la Spagna si insedia nella parte meridionale.  La contesa viene vinta dalla Spagna e Carlo V si fa incoronare re e imperatore d’Italia dal papa Clemente VII. Nel 1527 i lanzichenecchi, le truppe mercenarie spagnole, saccheggano Roma; questo e il momento rivelatore della grande crisi della storia italiana.
Lo Stato della Chiesa rivela una debolezza profonda. Il figlio di Alessandro VI, Cesare Borgia cerca di creare una stato nell’Italia centrale con l’appoggio del padre, ma il suo progetto, che ha ispirato il Principe di Machiavelli, naufragherà con la morte del papa.
Firenze cerca di opporsi alla situazione esistente; il passaggio di Carlo VII provoca una reazione popolare che conduce alla cacciata di Piero de Medici, alla proclamazione di una repubblica di tipo democratico con a capo Girolamo Savonarola, ma la condanna e la scomunica di quest’ultimo portano al ritorno dei Medici.
Vi è anche la crisi degli stati minori, poiché le corti perdono il potere politico e sono sempre più indebolite. Gli stati Italiano mancano soprattutto di eserciti propri e quindi sono costretti ad assoldare mercenari.
Il Rinascimento nasce all’interno di queste contraddizioni e di questa crisi dell’Italia.
Con la pace di Cateau-Cambresis a partire dal 1559 la situazione si stabilizza. La Spagna che ha sconfitto la Francia estende il suo predominio in Italia occupando Milano Napoli la Sicilia e la Sardegna.

 

Pietro Bembo

Pietro Bembo nacque a Venezia nel 1470 in una nobile e influente famiglia. Crebbe sotto l’amore paterno per le lettere e ebbe a disposizione una ricca biblioteca. Tra il 1478 e il 1480 si trasferì a Firenze, dieci ani dopo Bernardo lo portò a Ferrara sotto la corte estense. Nel 1505 uscì la sua prima opera gli Asolani. Tra l 1506 e 1512 si trasferì prima a Urbino poi a Roma, dove si dedicò alla vita mondana e allo studio. Nel 1522 si stabilì a Padova, dove, in una villa non lontana dal centro, creò un ritrovo di intellettuali. Qui condusse a termine le Prose della volgar lingua. Fu proclamato cardinale da Paolo III , e morì a Roma nel 1547 proprio quando correva voce che potesse diventare papa.
Le convinzioni di Bembo sono esposte nell’opera le “Prose della volgar lingua”, un trattato di tre libri caratterizzato dal dialogo, in cui compaiono Carlo Bembo, Gianluca de Medici, Ercole Strozzi, Federico Fregoso. La discussione si apre con una parola detta da Gianluca de Medici. Strozzo coglie l’occasione  per denigrare la lingua volgare  come vile  e povera, suscitando una reazione di Carlo Bembo. Segue una distinzione tra la lingua parlata e scritta , che viene definita ”parlar pensatamente”. In seguito viene tracciata una breve storia cronologica del  volgare.   Nasce una un problema sul volgare letterario,  in cui si dice che non si potrà fare una mescolanza di tutti i volgari che porterebbe ad una lingua ibrida, non avvalorata da nessuna tradizione letteraria. Carlo Bembo afferma che la lingua che dovrebbe essere parlata da tutti e intesa da tutti gli italiani dovrebbe essere il fiorentino. Ad un’opposizione degli altri Carlo ribadisce che non si dovrebbe usare il fiorentino parlato tra la gente ma  quello degli intellettuali. La superiorità del fiorentino è confermata anche dagli scritti di Petrarca e Boccaccio, con cui la lingua italiana ha raggiunto un perfezione che non è mai stata eguagliata. Nel secondo libro si  occupano della scelta delle parole, della metrica e dello stile che deve essere raffinato ed elevato. Il terzo libro abbozza una grammatica dell’italiano.

 

Baldesar Castglione

Castiglione nacque a Mantova nel 1478, condusse gli studi a Milano dove ebbe una raffinata preparazione umanistica studiando il greco. Visse nelle corti di Ludovico il Moro e Francesco Gonzaga. Soggiornò soprattutto presso Guidobaldo da Montefeltro alla corte di Urbino. Morì nel 1529.
La sua opera più importante è “Il cortegiano” che scrisse ad Urbino ed è in forma dialogica: tra gli interlocutori più importanti troviamo Giuliano de Medici. Nei capitoli iniziali viene scelto l’argomento: come si possa formare con parole un perfetto cortigiano. Dopo aver elencato le virtù del vero cortigiano: essere nobile d’animo, muoversi con grazie in ogni rapporto sociale, essere eccellente nelle armi e nei tornei, vestirsi con eleganza. Castiglione invita ad evitare l’affettazione e a usare la spezzatura, la pratica che dissimula lo sforza facendo apparire normale i gesti più ricercati. C. si oppone all’uso del fiorentino letterario e parlato. Il dialogo prosegue con l’affermazione della superiorità delle lettere sull’esercizio delle armi.
Nel secondo libro prosegue l’analisi delle qualità e delle virtù che deve avere il perfetto cortigiano. Nel terzo libro si intende formare la donna di corte rispettando le stesse regole che valgono per il cortigiano. Il quarto libro tratta il rapporto del cortigiano con in potere mettendo a nudo l’ambizione del principe che si fa dominare dalla falsità e dalla corruzione e non dalle verità e virtù; per questo segue il bene proprio e non quello dei sudditi

 

Ludovico Ariosto

Ariosto rappresenta la tipica figura dell’intellettuale cortigiano del rinascimento. Il poeta proveniva da una nobile famiglia: il padre era funzionario al servizio dei duchi d’Este. Ariosto Nacque a Reggio Emilia  l’8 settembre del 1474 e in tale città Ludovico intraprese i primi studi. Tra il 15 e il 20 anni frequentò corsi di diritto all’università di Ferrara, contro la sua vocazione, soltanto per obbedire al padre. Lasciati gli studi poco graditi , si dedicò ad approfondire  la sua formazione letteraria e umanistica. A Ferrara soggiornò per un breve periodo Pietro Bembo, ed Ariosto ne subì l’influenza, indirizzandosi verso la poesia volgare. Entrò in una cerchia di cortigiani stipendiati . la morte improvvisa del padre, nel 1500, lo mise di fronte alle necessità della vita: dovette occuparsi del patrimonio familiare, dovette assumere la tutela dei fratelli minori e cercare di accasare le sorelle. Per far fronte alle necessità familiari dovette accettare cariche ufficiali da parte degli Estensi, e fra il 1501 e1503 fu capitano della rocca di Canossa. Nell’autunno del 1503  entrò al servizio del cardinale Ippolito con incarichi molto vari , come afferma il poeta stesso nelle SATIRE, questo tipo di incarichi gli sembravano disdicevoli alla sua dignità di letterato. Assunse anche la veste di chierico, prendendo gli ordini minori , in modo da poter godere di benefici ecclesiastici. A causa dei rapporti tesi tra il nuovo duca Alfonso I, ed il papa Giulio II, Ariosto dovette recarsi più volte a Roma come ambasciatore , correndo anche rischi per il carattere irascibile e violento del pontefice. Nel frattempo strinse rapporti con ambienti fiorentini ed in particolare con il cardinale Giovanni de Medici. Ariosto si preparava uno sbocco nella carriera pensando di passare dalla provinciale Ferrara alla splendida corte di Roma, però quando Giovanni de Medici divenne papa col nome di Leone X, Ariosto credette che fosse giunta l’occasione  di ottenere gli incarichi ambiti, ma le sue aspettative andarono deluse , e dovette adattarsi a restare a Ferrara, con un piccolo beneficio in più.  Intanto a Firenze aveva stretto un legame con una donna sposata, Alessandra Benucci. Nel 1515 il marito morì, ma Ariosto costretto al celibato dagli ordini minori , no poté mai convivere con lei e la sposò in segreto solo anni più tardi. Nel 1516 pubblicò la prima edizione dell’Orlando furioso e la dedicò al cardinale Ippolito. Nel 1522 gli venne affidato un compito difficile,dal duca Alfonso, cioè quello di governatore della Garfagnana, regione appenninica infestata da banditi , qui Ludovico  dette prova di capacità politiche. La lontananza dalla sua città però gli pesava, ma soprattutto gli causavano fastidio gli incarichi che gli impedivano di dedicarsi alle occupazioni più amate come la poesia e gli studi. Tornato a Ferrara nel 1525 , riprese ad occuparsi degli spettacoli di corte, scrivendo una nuova commedia la LENA. Morì nel 1533 per complicazioni polmonari. Ariosto stesso si è compiaciuto di lasciare di sé un’immagine di un uomo amante della vita sedentaria, placida e contemplativa . ma si tratta di un’immagine letteraria, non rispondente alla realtà.

 

Le satire

Intorno al 1520 Ariosto scrisse 7 satire in forma dialogica indirizzate a parenti e amici prendendo ispirazione da Orazio. Non ne curò la stampa e la prima edizione uscì dopo la sua morte. La satira è un componimento che permetteva di toccare vari argomenti senza un ordine prefissato in cui l’autore può toccare gli argomenti più diversi.

  • Nella Satira I spiega le ragione per cui ha rifiutato di seguire in Ungheria il cardinale Ippolito
  • La Satira II contiene una rappresentazione critica e polemica della corte papale.
  • Nella Satira III descrive la sua condizione al servizio del duca Alfonso
  • Nella Satira IV scrive della sua difficoltà nel governare la Garfagnana e la nostalgia della vita da letterato della sua città e della sua donna.
  • La Satira V è una disamina dei vantaggi e degli svantaggi della vita matrimoniale.
  • Nella Satira VI il poeta chiede consigli a Bembo sull’educazione del figlio Virginio e rimpiange di non aver studiato greco
  • Nella Satira VII il poeta esprime il suo rifiuto di andare a Roma ed esprime amore per il suo “nido” Ferrara.

In questi scritti il poeta dialoga continuamente con se stesso con i destinatari e con altri interlocutori immaginari. I temi centrali sono la condizione dell’intellettuale cortigiano, i limiti che essa pone all’individuo, l’aspirazione ad una vita quieta dedita agli studi e agli affetti familiari, il fastidio per le incombenze pratiche, e la follia degli uomini che inseguono le cose vane.
L’atteggiamento dell’autore è ironico, ma raramente ha punte dei asprezza polemica, anche se dietro atteggiamenti bonari e sorridenti si cela uno sguardo acuto nel cogliere le contraddizioni e i nodi problematici della società contemporanea. La visione è pessimistica e amara della vita dei tempi.
Lo stile è colloquiale, i versi si avvicinano molto alla prosa. Questa spezzatura è voluta e ha dietro di se uno studio letterario finissimo.
Le Satire costituiscono una chiave preziosa per entrare nel mondo dell’Orlando Furioso e hanno quell’atteggiamento ironico che è proprio del capolavoro.

 

L’Orlando Furioso

Ariosto interruppe l’Obizzeide, un poema epico, nel 1505 per scrivere un poema cavalleresco, l’Orlando Furioso. Questa materia era molto amata dalla corte ferrarese, infatti pochi decenni prima Boiardo scrisse l’Orlando Innamorato. L’opera di Ariosto è il seguito dell’opera di Boiardo. Una prima edizione usci nel 1515, una seconda nel 1521 e la terza e definitiva nel 1532. Nell’ultima ci fu una totale revisione linguistica poiché al posto di usare la lingua cortigiana del tempo di Boiardo basata sul toscano con elementi latini e padani, adeguò il linguaggio ai canoni classicistici fissati da Bembo nella sua opera: una lingua pura che si rifaceva al fiorentino dei classici trecenteschi. La revisone però riguardò anche i contenuti, perché furno aggiunte parti di capitoli che resero l’opera più lunga e determinarono un clima diverso, più cupo con pessimismo sulla Fortuna e l’azione umana e caratterizzato da tematiche negative secondo la direzione assunto dalla crisi dell’Italia del cinquecento. Inoltre Ariosto inserì riferimenti alla condizione dell’Italia del tempo.
Ariosto scrisse anche i Cinque Canti che poi non mise nell’opera poiché ritenne che potessero alterare l’equilibrio dell’opera. I canti furono pubblicati dal figlio Virgilio e narrano il tradimento di Gano e l’avventura di Ruggiero nella balena.
Ariosto riprende la materia cavalleresca del Boiardo anche perché ebbe molta fortuna sul suolo italiano. Ariosto dimostra la conoscenza di tutta la tradizione cavalleresca medievale e anche dei classici, come un perfetto uno Rinascimentale, unendo lo stile carolingio, arturiano e riferimenti o interi episodi ripresi direttamente da Virgilio o Ovidio. Questa affermazione potrebbe far capire che il poema di Ariosto sia solo un insieme di copiature qua e la ma non è cosi, questi sono solo spunti che poi Ariosto rilegge anche in chiave moderna rendendo l’opera profondamente originale.
Il pubblico del poema, come dice anche l’autore, è un insieme di Signori e persone nobili d’animo che che cercano diletto nelle cose d’armi e d’amore di cui Ariosto parla. Il pubblico è oramai la corte ideale di tutti i letterati italiani perché con la stampa le copie delle opere non erano solo quelle menoscritte ma erano molte di più e potevano viaggiare ed essere pagate a poco prezzo.
Anche Ariosto con la sua metafora della navigazione come scrittura dell’opera immagina la nave che arriva presso un porto dove lo aspettano tutti i letterati d’Italia che formano la corte ideale.

 

L’intreccio dell’Orlando Furioso

Nel Furioso si intrecciano le vicende di numerosi personaggi; Ariosto spesso interrompe bruscamente la narrazione in un momento cruciale, per passare a narrare la vicenda in un altro personaggio. Questo procedimento è stato chiamato entrelacement da uno studioso francese (Lot).
Inoltre vi sono delle novelle narrate dai personaggi. Vi sono anche episodi in cui si profetizzano eventi futuri che servono ad Ariosto per celebrare i suoi signori o per raccontare avvenimenti contemporanei. Infine ogni canto presenta un esordio in cui la voce narrante fa delle considerazioni morali sul comportamento umano in generale. I principali fili narrativi sono:

  1. La guerra tra il re africano Agramente e Carlo Magno sul suolo francese.
  2. L’amore di Orlando per Angelica e la ricerca della donna amata
  3. Le vicende di Ruggiero e Bradamante.

Però si può dire che non esiste un vero e proprio centro di narrazione. Inoltre uno spazio molto ampio è occupato dalle avventure degli altri personaggi.
Anche nell’Orlando Furioso vi è l’inchiesta che muove la vicenda e le imprese dei personaggi; ma mentre nei romanzi medievali la ricerca era carica di senso religioso, nel Furioso è di carattere laico e profano. Tutti i personaggi desiderano e ricercano qualcosa ma alla fine vi è sempre la delusione, l’inchiesta risulta sempre fallimentare. Questa inchiesta inconcludente si traduce in un movimento circolare  che non approda mai ad una meta e ritorna su se stesso. Questo rende metaforicamente il senso della ricerca inappagata. Questo porta all’errore che può essere errore in senso materiale, l’errare, o in senso morale e intellettuale: il desiderio ossessivo e insoddisfatto si trasforma in follia.
Un funzione essenziale ha nel poema l’organizzazione dello spazio: esso è vastissimo, occupa tutta l’Europa, il medio Oriente e l’Africa. Prendendo la Divina commedia ci accorgiamo che lo spazio è verticale, il viaggio di Dante è dal basso verso l’alto, ad indicare il percorso di liberazione dal peccato. Nell’Orlando lo spazio è del tutto orizzontale, perfino il viaggio sulla Luna di Astolfo è sullo stesso piano dei movimenti degli altri cavalieri.
Il movimento circolare e intricato nello spazio aperto lo fa diventare labirintico e frustrante, in esso non domina il disegno divino ma la Fortuna. Lo spazio intricato che viene chiamato selva è fatto di infiniti sentieri in cui i personaggi si muovono mossi ad arbitrio dalla Fortuna. La selva è il mondo intricato e labirintico. Anche il tempo non è lineare ma labirintico, aggrovigliato che torna costantemente su se stesso poiché l’autore intreccia eventi contemporanei a passati, interrompe la narrazione ad un punto per riprenderla più indietro con un altro personaggio.
Tutti questi fattori danno origine ad una struttura narrativa divagante digressiva che gioca sulla sospensione e sull’attesa e rimanda sempre il suo compimento. La materia romanzesca tende ad espandersi all’infinito senza mai arrivare ad una conclusione. Anche da questa struttura narrativa emerge l’immagine di un reale labirintico, infinitamente vario e molteplice, infinitamente mutevole e imprevedibile. Ma l’impressione che il poema rende non è quella del disordine, ma quella di un cosmo perfettamente ordinato e armonico. In primo luogo l’entrelacement, l’intrecciarsi delle vicende narrate, da il senso di un accostamento sempre inserito in un disegno organizzativo rigoroso. Afferma infatti che nel compiere la grande tela a cui lavora, per stimolare l’interesse del lettore, gli occorrono molte e varie fila. Il poeta stesso nel corso del racconto più volte enuncia il principio dell’unità che si ci deve essere nella molteplicità. Mantiene pertanto, nella stesura dell’opera, un’armonizzazione concertante delle varie vicende e delle varie materie trattate:nella sua opera è come Dio nel mondo, perfetto dominatore della sua creazione.
Le intricate vicende della trama si vengono a comporre in equilibrate geometriche simmetrie. Una simmetria si istituisce tra i percorsi di Orlando e Ruggiero. Per Orlando si tratta di un percorso di degradazione, dal positivo al negativo, per Ruggiero è invece un percorso di elevazione, dal negativo al positivo. Un’altra simmetria si instaura tra Orlando e Rodomonte: entrambi, delusi dalle loro donne, cadono in preda ad una forma di follia. Le simmetrie, dirette o rovesciate, si determinano anche tra i personaggi femminili. Pur essendo un groviglio di fili narrativi, tutti le storie principale arrivano a conclusione: Angelica si sposa, Orlando riacquista il senno, Ruggiero sposa Bradamante e diventa fondatore di una dinastia illustre, Rinaldo rinuncia al suo amore per Angelica e la guerra tra cristiani e mori ha fine. Alla struttura aperta del romanzo cavalleresco che non arriva mai ad una vera conclusione, ad un certo punto dell’intreccio comincia a sostituirsi una struttura completamente diversa, quella chiusa e compatta che è propria dell’epica classica.
L’entralacement nella seconda parte del poema, dopo aver toccato il culmine con la follia di Orlando, si fa più raro: predominano sequenze narrative lunghe ed ininterrotte. Anche l’inchiesta muta carattere, non è più ricerca di un oggetto, ma ricerca intellettuale. Il momento culminante della trasformazione della struttura romanzesca aperta in struttura epica chiusa è la conversione di Ruggiero, che segna la fine del continuo errore. Ma il poeta, creando il mondo fantastico del poema, costituisce un simulacro, un modello del mondo, che è dominabile intellettualmente. Se il mondo è caos, il poema che ne è il simulacro, può essere ridotto all’ordine, chiusa in una struttura simmetrica. L’unico ordine possibile per Ariosto è la letteratura, solo questa consente un dominio simbolico del reale. Se nella realtà l’uomo è soggetto a forze capricciose, nell’universo della finzione l’uomo artista è appunto come dio, che può esercitare un controllo totale sulla sua creazione.

 

La materia cavalleresca e l’ironia

Nell’Orlando Innamorato, Boiardo celebra la cavalleria, credendo che i valori cortesi potessero rivivere nella società cortigiana, invece Ariosto non crede più in quieta attualizzazione del mondo cavalleresco: anche la civiltà cortigiana è in crisi e in declino. La cavalleria per Ariosto è un mondo ormai remoto, che può essere raccontato con nostalgia e con distacco. Nell’Orlando di Ariosto vi è il piacere di narrare e abbandonarsi al mondo meraviglioso e fantastico. Questo permette comunque una riflessione su tutta una serie di temi centrali della civiltà rinascimentale. Le avventure cavalleresche però non si riducono a semplici pretesti di facciata, svuotati al loro interno, anzi conservano tutti il loro fasciano ed offrono al poeta uno spazio per la sua riflessione etica.
Dietro le avventure si manifesta un aggancio alla realtà che rivela un atteggiamento critico ne confronti degli uomini e della società. Il Furioso inoltre trasforma il poema cavalleresco in un romanzo contemporaneo dove l’Ariosto è un acuto osservatore della realtà.
Vi è un improvviso mutamento nella prospettiva da cui è presentata la materia, nell’allontanarla e guardarla con occhio estraneo in modo da impedire l’immedesimazione emotiva nel mondo narrato. Ovvero uno straniamento della materia cavalleresca. Vi sono anche tipici interventi della voce narrante con commenti e giudizi che spezzano l’illusione narrativa, anche se il narratore presenta una imperfetta conoscenza dei fatti, non essendo onnisciente. Questi procedimenti sono alla base dell’ironia ariostesca che implica una forma di distacco dalla materia, uno sguardo da lontano, sornione e disincantato. Un altro procedimento simile allo straniamento è l’abbassamento, che abbassa la dignità epica degli eroi ma non arrivando alla burla o alla parodia come farà Cervantes nel Don Chisciotte.

 

Machiavelli

Niccolò Machiavelli nacque a Firenze nel 1469 da una famiglia borghese di modesta agiatezza: il padre, Bernardo, era l’autore di un libro di Ricordi famigliari, Bartolomea de' Nelli, era autrice di rime sacre.
Niccolò ebbe  un'educazione umanistica, basata sui classici la­tini, ma non apprese il greco, Un prezioso documento della sua formazione culturale è una copia di suo pugno del De rerum natura di Lucrezio, che testimonia il suo interesse per una cultura materialistica ed epi­curea negli anni in cui a Firenze trionfava lo spiritualismo di Sa­vonarola: sin dagli anni giovanili si coglie perciò il suo indirizzo fortemente laico. La prima notizia sicura sulle sue attività con­ferma la sua collocazione tra gli oppositori di Savonarola Poté ottenere la carica di segretario solo dopo la cadu­ta del frate. La sua posizione implicava mis­sioni diplomatiche presso Stati italiani e stranieri.. I 14 anni del­la segreteria furono preziosi per Machiavelli, perché gli consentirono di accu­mulare un'esperienza diretta della realtà politica e militare del tempo, da cui egli poté trarre lo spunto per le riflessioni, le teorie e le analisi trasferite poi nelle sue opere.
Nel 1499 fu a Pisa, per seguire delle operazioni militari. Nel 1500 fu in Francia pres­so il re Luigi XII, e cominciò a conoscere la forte monarchia francese e la struttura dello Stato assoluto moderno, per cui ebbe poi sempre ammirazione, additandolo come un modello per uno Stato italiano. Nel giugno del 1502 compì una missione presso Cesare Borgia, il duca Valentino, che, con l'appoggio del padre, papa Alessandro VI, si era impadronito del Du­cato di Urbino, e restò molto colpito dalla sua figura di politico audace e spregiudicato.
Nel Principe la figura del Valentino viene assunta comq quella di un principe nuovo, che riesca a costruire un forte Stato italiano. Fu di nuovo pres­so Cesare Borgia in Romagna, e poté seguire la politica con cui il duca ri­portò l'ordine in quella zona travagliata da conflitti ancora feudali tra i signori locali. Nell'estate del 1503 muore il papa Alessandro VI, e il successore, Pio III, muore a sua volta dopo soli due mesi. In ottobre Machiavelli è a Roma per seguire il conclave, da cui uscirà papa Giulio II, e può assistere alla rovina della costruzione politica di Cesare Borgia, che, perduto l'appoggio del padre, non rie­sce neppure ad evitare l'elezione del suo più accanito nemico. Dopo poco tempo la parabola del duca Valentino si conclude con la sua stessa morte.
Nel frattempo Machiavelli si dedicò anche all'attività letteraria, e scrisse in versi una cro­naca delle vicende italiane fra il 1494 e il 1504 dove sosteneva la necessità di evitare le infide milizie mercenarie e di creare un esercito perma­nente, alle dirette dipendenze dello Stato, composto non di soldati di ventura ma di cittadini in armi. Viaggio in Francia e in Germania. Nel settembre 1511 si profila lo scontro tra la Francia con Firenze, e la Lega Santa capeggiata dal papa; con la battaglia di Ravenna i Francesi sono sconfitti dagli Spagnoli: la Repubblica ca­de, i Medici tornano a Firenze e Machiavelli viene licenziato da tutti i suoi incarichi.
L'esclusione dalla vita politica fu per lui un colpo durissimo. Nel feb­braio 1513 fu sospettato d'aver preso parte ad una congiura antimedicea, torturato e te­nuto in prigione. Liberato in occasione dell'ascesa al pontificato di Giovan­ni de' Medici (Leone X), si ritirò, in una sorta di esilio forzato, nel suo podere dell'Albergaccio. Lì, si dedicò agli studi, tenendo però i contatti con la vita politica attraverso la corrispondenza con Francesco Vettori, ambasciatore a Roma. In questo periodo scrisse il Principe (1513) e probabilmente iniziò i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e la Mandragola. La lontananza dalla vita politica attiva era però per lui intollerabile, quindi cercò un riavvici­namento ai Medici, al fine di riottenere qualche incarico. Con questo intento il Principe fu dedicato nel 1516 a Lorenzo de' Medici,. Tuttavia i Medici continuarono a guar­darlo con diffidenza. Si avvicinò ad un gruppo di giovani intellettuali aristocraticia cui dedicò i Discorsi. Nel 1519, morto Lorenzo, il governo della città fu assunto dal cardinale Giulio de' Medici, più favo­revole a Machiavelli, che gli procurò l'incarico, da parte dello Studio fiorentino, di stendere una storia di Firenze. Nel 1523 Giulio de' Medici divenne papa a sua volta con il nome di Clemente VII, ed a lui, nel 1525, Machiavelli offrì le Istorie fiorentine. Cominciò a poco a poco a riottenere vari incarichi. Nel 1527 i Medici vengono di nuovo scacciati e si ristabilisce la Repubblica: Machiavelli spera di riottenere l'antica segrete­ria, ma viene guardato con sospetto e ostilità per il suo riavvicinamento alla signoria me­dicea. Ammalatosi all'improvviso, muore nel 1527.

 

Il pensiero politico di Machiavelli

Le concezioni politiche di Machiavelli scaturiscono dal rapporto diretto con la realtà storica, in cui egli è impegnato in prima persona grazie agli in­carichi che ricopre nella Repubblica fiorentina.
Il suo pensiero si presenta così come una stretta fusione di teoria e prassi: la teoria nasce dalla prassi e tende a risolversi in essa. Alla base di tutta la riflessione di Machiavelli vi è la coscienza lucida e sofferta della crisi che
l'Italia contemporanea sta attraversando. Per Machiavelli l'unica via d'uscita da una così straordinaria «gravità de' tempi» è un principe dalla straordinaria «virtù», capace di organizzare le energie che po­tenzialmente ancora sussistono nelle genti italiane e di costruire una compagine statale ab­bastanza forte da contrastare le mire espansionistiche degli Stati vicini. Ma­chiavelli elabora una teoria che aspira ad avere una portata universale, a fondarsi su leggi va­lide in tutti i tempi e tutti i luoghi. Le radici pratiche immediate danno al suo pensiero quel ca­lore, quella passione che lo rendono affascinante e che conferiscono alle sue opere uno straordinario valore letterario.
Concordemente, Machiavelli è stato indicato come il fondato­re della moderna scienza politica. Innanzitutto egli delimita nettamente il campo di tale scienza, poiché la teoria politica nel Medio Evo, ed ancora nell'età umanistica, era subordi­nata all'etica. Si è visto come gli specula principis medievali e i trattati umanistici offrissero ai regnanti un modello di comportamento ideale, proponendo tut­te le virtù più raccomandabilie con­dannando i vizi ad esse contrari.
Machiavelli rivendica invece vigorosamente l'autonomia del campo dell'azione politica: essa possiede delle proprie leggi specifiche, e l'agire degli uomini di Stato va studiato e valutato in base a tali leggi. È una teoria di sconvolgente novità, veramente rivoluzionaria nel contesto della cultura occidentale.
Il metodo di Machiavelli è quello di partire sempre dall'indagine sulla realtà con­creta, empiricamente verificabile, mai da assiomi universali e astratti. Solo mettendo insieme tutte le varie esperienze si può poi giungere a costruire princìpi generali.
L'esperienza per Machiavelli può essere di due tipi: quella diretta, ricavata dalla parteci­pazione personale alle vicende presenti, e quella ricavata dalla lettura degli autori anti­chi che le definisce rispettivamente «esperienzia del­le cose moderne» e «lezione delle antique». Si tratta però solo apparentemente di due forme diverse. Alla base di questo modo di accostarsi alla storia vi è una concezione tipicamente natu­ralistica: Machiavelli è convinto che l'uomo sia un fenomeno di natura al pari di altri, e che quindi i suoi comportamenti non variino nel tempo, come non variano il corso del sole e del­le stelle o i cicli delle stagioni. Per questo ha fiducia nel fatto che, studiando il comportamento umano attraverso le fonti storiche o l'esperienza diretta, si possa arrivare a formulare delle ve­re e proprie leggi di validità universale, applicabili infallibilmente ad ogni situazione.
Da questa visione naturalistica scaturisce la fiducia di Ma­chiavelli in una teoria razionale dell'agire politico, che sappia individuare le leggi a cui infatti politici rispondono necessariamente, e quindi sappia suggerire le sicure linee di con­dotta al politico

 

Il principe

Il 10 dicembre 1513 Machiavelli finiva di scrivere il Principe. Per quanto riguarda i rapporti con i discorsi, si è pensato che la stesura di tale opera sia iniziata precedentemente del 1513. si è cercato di cogliere il punto in cui i Discorsi sarebbero stati interrotti  , e lo si è individuato al capitolo XVIII del libro I, in cui si parla della decadenza degli stati , qui può inserirsi appunto la trattazione del principe, che viene a fornire una soluzione ad una simile situazione attraverso la sua straordinaria  virtù, che può dar forma ad uno Stato nuovo. In un primo momento Machiavelli intendeva dedicare il trattato a Giuliano de Medici, più tardi invece la dedica fu indirizzata a Lorenzo. La dedica sembra testimoniare la volontà da parte dello scrittore  di cercare un avvicinamento ai Medici e di offrire la sua collaborazione in un momento in cui la famiglia aveva acquistato una pozione di grande potere  e mirava a costituire un forte dominio  nell’Italia centrale. Nel medioevo erano molto diffusi trattati intesi a tracciare il modello del principe e le virtù che doveva possedere. Veniva chiamati specula principis , specchi del principe, perché dovevano fornirgli lo “ specchio” in cui riflettersi e conoscersi. Tutti questi trattati miravano a fornire un’immagine ideale ed esemplare del regnante, consigliandogli di praticare le più lodevoli virtù, mentre Machiavelli proclama di voler guardare <la verità effettuale delle cose>, e quindi non propone al principe le virtù morali, ma quei mezzi che possono consentirgli effettivamente La conquista e essere anche non buono, quando le esigenze dello Stato lo impongono. Il principe è un operetta breve, ma densissima di pensiero. Si articola in 26 capitoli. I capitoli I-XI esaminano i vari tipi di principato e mirano a individuare i mezzi che consentono di conquistarlo  e di mantenerlo. Machiavelli distingue  tra principati ereditari ( secondo capitolo ) e nuovi; questi ultimi a loro volta possono essere  misti, aggiunti come membri  allo Stato ereditario  di un principe(capitolo 3) o nuovi del tutto (capitolo IV-V), che a loro volta questi possono essere acquistati con la virtù e con armi proprie (capitolo VI), oppure basandosi sulla fortuna e su armi altrui(capitolo VII esempio del duca Valentino). Il capitolo VIII tratta di coloro che giungono al principato attraverso scelleratezze, e qui Machiavelli distingue tra la crudeltà< bene e male usata>, la prima è quella impiegata  solo per assoluta necessità, quella male usata è quella che cresce col tempo anziché cessare, ed compiuta esclusivamente dal tiranno. Nel capitolo IX  si affronta il principato <civile>, in cui il principe riceve il potere per mezzo dei cittadini; nel X capitolo si esamina come si debbano misurare le forze dei principati. I capitoli da XII a XIV sono dedicati al problema delle milizie. Machiavelli giudica  negativamente l’uso di eserciti mercenari, in quanto essi combattendo solo per soldi sono infidi, e di conseguenza per lui la forza di uno stato consiste soprattutto nel poter contare su armi proprie, su un esercito composto dagli stessi cittadini in armi. Dai i capitoli XV al XXIII trattano dei modi di comportarsi del principe con i sudditi  e con gli amici. Machiavelli va dietro alla< verità effettuale della cosa>, poiché gli uomini sono malvagi e il principe che è costretto ad agire tra di essi non può seguire in tutto le leggi morali, ma deve imparare anche ad  essere <non buono> e deve imparare a guardare al fine , che è vincere e mantenere lo Stato.  Il capitolo  XXIV esamina le cause per cui i principi italiani hanno perso i loro Stati. La causa per lo scrittore è essenzialmente  l’ignavia dei principi. Di qui scaturisce l’argomento del capitolo XXV, il rapporto tra virtù e fortuna, cioè la capacità, che deve essere propria del politico, l’ultimo capitolo, il XXVI è invece un’appassionata esortazione ad un principe nuovo, che sappia porsi a capo del popolo italiano e liberare l’Italia dai barbari.

 

Il pensiero politico di Machiavelli (2°parte)

Machiavelli ha una visione pessimistica dell’uomo, in quanto dice che tutti gli uomini sono malvagi: non esamina le cause perché non le conosce, si limita a constatare ciò. Gli uomini sono attaccati alle cose materiali. Il principe deve per forza agire di conseguenza: vivendo in un mondo di non buoni, non tutte le sue azioni devono essere buone, ma le deve adattare alla situazione. Machiavelli dice che il principe deve essere centauro: mezzo uomo e mezza bestia. Però non bisogna identificare in Machiavelli una persona subdola e priva di scrupoli, come ce l’hanno presentata il teatro elisabettiano o il romanzo gotico del fine settecento. Egli sa che alcuni atteggiamenti sono sbagliati moralmente, ma c’è un netto distacco tra politica e morale. Alcuni comportamenti sia buoni che cattivi sono indispensabili per mantenere lo stato. Machiavelli distingue i principi dai tiranni: i primi sono quelli che anche commettendo azioni malvagie operano per il bene dello Stato; i secondi sono quelli crudeli senza necessità, che operano solo a proprio vantaggio.
Solo lo Stato può costituire rimedio alla malvagità dell’uomo; solo la repubblica può porre fine all’egoismo poiché porterebbe l’uomo a fare il bene della cosa pubblica. Per mantenere lo Stato sono indispensabili certe virtù civili: come l’amore per la patria e la libertà, la solidarietà e l’onesta. Per radicare queste virtù in uomini non buoni c’è bisogno della religione, delle leggi e delle milizie:

  • La religione intesa come strumento di governo obbliga i cittadini a rispettarsi gli uni con gli altri e a essere onesti.
  • Le leggi disciplinano il comportamento dei cittadini, inibiscono i loro istinti bestiali.
  • Le milizie devono essere composte da cittadini in modo tale da essere fedeli e valorose.

La migliore forma di governo è la repubblica: però Machiavelli  dice che il principato è una forma transitoria e d’eccezione indispensabile solo in determinate situazioni.
Machiavelli delinea due concezioni della virtù: quella del politico-eroe, e quella del buon cittadino, che sono sullo stesso piano. Machiavelli ha fiducia nella forza dell’uomo, ma riconosce i suoi limiti. Questi limiti assumono il volto della fortuna. Machiavelli ammette la presenza nel mondo della provvidenza intesa come disegno divino indirizzato ad un fine. Egli afferma che l’uomo può fronteggiare vittoriosamente la fortuna, infatti ritiene che sia arbitra solo del 50% delle cose umane e lasci regolare l’altra metà agli uomini. Ma Machiavelli ammette anche l’occasione: infatti le doti di un politico restano potenziali se non trova l’occasione adatta per sfruttarle e può accadere anche che l’occasione resti insfruttata se il politico non ha le virtù per approfittarne. La virtù di Machiavelli è un complesso di varie qualità che sono ricavate dall’esperienza personale e dalla “lezione” del passato. Il principe deve anche sapere adattare il proprio comportamento alle esigenze oggettive e che via via si presentano durante le varie situazioni; ovvero riscontrarsi con i tempi.

 

Guicciardini

Francesco Guicciardini nacque nel 1483 a Firenze , dove studiò giurisprudenza, dal 1500 soggiornò a Ferrara per due anni poi a Padova. Rientrato a Firenze nel 1505 esercitò l’incarico di istituzioni di diritto civile, compiacendosi per il proprio successo accademico, che culminerà, con il brillante esame di laurea in diritto civile e l’inizio della carriera dell’avvocatura. Nel 1506 l’attività accademica fiorentina si spense con la chiusura dello Studio; nel frattempo Francesco si era sposato, contro il volere paterno, con Maria Salviati, appartenente ad una famiglia politicamente esposta. Ma Guicciardini considerava soprattutto il prestigio e la reputazione dei parenti della moglie, che avrebbero potuto avere nella sua vita un ruolo importante. Al matrimonio fa seguito l’inizio di una carriera pubblica rapida e brillante: con l’aiuto del suocero fu nominato tra i capitani dello Spedale del Ceppo. Nel 1508 si occupa dell’istruttoria contro il podestà Piero Lodovico da Fano, iniziando la stesura delle storie fiorentine e delle ricordanze, un testo autobiografico. Nel 1509, in occasione della guerra di Pisa, è chiamato per la prima volta <a pratica> dalla Signoria ed ottiene inoltre l’avvocatura del capitolo di Santa Liberata. Questi progressi verso una posizione sempre più eminente hanno il loro coronamento nell’incarico  di ambasciatore presso il re Spagna, che porta Guicciardini ad uscire dalla stretta cerchia dell’ambiente giuridico fiorentino per entrare nell’ambito della grande diplomazia internazionale. Dall’esperienza spagnola nasce la Redazione di Spagna(1514), un’analisi lucida e nitida delle condizioni sociali e politiche della penisola iberica. Nel 1513 torna a Firenze, dove da circa un anno erano rientrati i Medici  con l’appoggio dell’esercito ispano-pontificio. Qui trascorre tre anni di sostanziale inattività politica. Nel 1514 fa parte degli Otto di Balia e nel 1515 della Signoria; il suo appoggio alla famiglia dei Medici sfocia nell’elezione ad avvocato concistoriale e governatore di Modena(1516) quando al soglio pontificio sale Giovanni de Medici , con il nome di Leone X. Il suo ruolo di primo piano nella politica romana si consolida con l’elezione, nel 1517, a governatore di Reggio e Parma, e la sua autorità morale ed intellettuale influisce sugli orientamenti generali dell’opinione durante il conflitto franco-imperiale. Nominato nel 1521 commissario generale dell’esercito pontificio alleato di Carlo V contro i Francesi, Guicciardini  si trova ad agire in prima persona nel campo politico e diventa egli stesso un protagonista. In questi anni va accumulando quell’esperienza diretta che arricchirà il suo patrimonio di scrittore durante la composizione dei Ricordi e della Storia d’Italia. Alla morte di Leone X, Guicciardini si trova a Parma a fronteggiare l’assedio dei Francesi. Nel 1523 viene inviato da Clemente VII a governare la Romagna, terra tradizionalmente turbolenta e agitata dalle lotte fra i potenti locali. Qui aumenta il proprio prestigio confermando le doti diplomatiche e mostrando uno spiccato senso di giustizia sociale. Per contrastare lo strapotere di Carlo V, propugnò un’alleanza fra gli stati italiani e la Francia, nella convinzione che questo fosse il solo modo per salvare almeno in parte l’indipendenza della penisola. L’accordo venne sottoscritto a Cognac(1526), ma la lega fu ben presto sconfitta, mentre a Firenze si instaurò la terza ed ultima repubblica. Coinvolto in queste vicende, e guardato con sospetto dai nuovi governanti per i suoi trascorsi medicei, preferì rifugiarsi nella sua villa di Finocchieto. Compose due orazioni (l’oratio accusatoria e defensoria) e una lettera (Consolatoria), in cui espone le accuse che potevano essere mosse al suo operato e le confuta, fingendo poi di ricevere da un amico espressioni di solidarietà e di conforto. Durante questo ozio forzato scrive anche le Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sopra la prima deca di Tito Livio. Nel 1529 lasciò Firenze per mettersi di nuovo al servizio di Clemente VII, che gli offrì un incarico diplomatico a  Bologna. Con il ritorno dei Medici( 1531), rientrò nella sua città, dove fu scelto come consigliere del granduca Alessandro; il successore di questo ,Cosimo I(1537), non gli riconfermò la fiducia, lasciandolo in disparte. Guicciardini si ritirò allora nella villa di Arretri, dove trascorse gli ultimi anni dedicandosi all’attività letteraria: riordinò i Ricordi politici e civili, raccolse i Discorsi politici e attese alla stesura della Storia ditali. Morì nel 1540.

 

Le opere di Guicciardini

Dai ricordi emerge come Guicciardini respinga qualunque visione utopica o conosolatrice della realtà. Non si fa storia con immagini ideali di una patria libera e di una popolazione moralmente rinnovata. Secondo lui ciò non è attuabile e lo considera cosa non ragionevole. Ad esempio la resistenza di Firenze all'assedio del papa e dell'imperatore viene valutata positivamente, non tanto come virtù in sé, ma in considerazione del fatto che le cose del mondo sono sottoposte a casi e accidenti e nel tempo può nascere un aiuto inatteso.
Solo in quest'ottica Guicciardini valuta positivamente la fede, poiché la fede fa ostinazione e il tempo la fortuna degli ostinati. Sotto altri aspetti della religione guasta il mondo perché effemina gli animi e li distoglie da imprese generose. Parole molto dure sono rivolte all'istituzione ecclesiastica; vi è il richiamo all'essenza e alla semplicità del messaggio evangelico. In generale l'atteggiamento è di sostanziale indifferenza.
Guicciardini sottolinea la varietà di casi e accidenti di fronte alla quale gli uomini sono impotenti: perciò non è necessaria una dottrina sistematica ma decidere volta per volta, caso per caso, senza appellarsi a principi immutabili, ma sfruttando la saggezza che viene dall'esperienza.
Guicciardini elogia il particulare, l'interesse proprio come unico scopo perseguibile dal savio. Infatti il suo interesse non è la ricchezza, ma quello di non rinunciare all’attività politica, essendo l'unico modo per poter giovare alla città.

 

Torquato Tasso

Torquato Tasso nacque a Sorrento l’11 marzo 1544. La madre era una nobildonna toscana, il padre Bernardo era bergamasco autore di un poema cavalleresco.Torquato studiò a Napoli presso i gesuiti, poi andò a Roma e infine alla corte dei della Rovere a Urbino. Ne 59 seguì il padre Venezia degli a soli 15 anni e iniziò un poema epico sulla prima crociata. Nel 60 passò a Padova dove iniziò a studiare filosofia e letteratura. Tasso gettò le basi della sua cultura filosofica in questo periodo. Nel 62 scrisse il Rinaldo e rime d'amore per alcune donne dell'epoca. Tasso aveva già esperienza in varie corti italiane e si era inserito in quel mondo di eleganza mondana e di raffinata cultura. Nelle accademie di Padova formò la sua attività intellettuale. Nel 65 si trasferì a Ferrara da Luigi d’Este, il poeta si inserì agevolmente nei rituali cortigiani e fu apprezzato delle sue doti poetiche e per l'eleganza mondana. Nel 77 passò al servizio diretto del duca Alfonso come gentiluomo stipendiato senza incombenze precise: ebbe così la possibilità di dedicarsi alla poesia.
In quel periodo (75)  scrisse il poema epico sulle crociate (La Gerusalemme liberata)e l’Aminta. Alla sua opera egli guardava con inquietudine e insoddisfazione e aveva lo scrupolo di renderla aderente ai canoni letterari vigenti. Si recò a Roma per sottoporla al giudizio di letterati che la criticarono che lo resero più incerto. Nel 76 compose l'allegoria dove tentava di giustificare gli episodi amorosi non conformi ai suoi intenti morali. Fu assalito anche da scrupoli religiosi sulla fede cattolica. A questi sintomi inquietanti si univano manie di persecuzione: fu fatto rinchiudere nel convento di San Francesco mani fuggì e andò dalla sorella sotto mentite spoglie, annunciando la proprio morte per mettere alla prova il suo amore fraterno. Viaggiò in questo periodo per l'Italia fino a quando fu rinchiuso dal duca nell'ospedale di Sant'Anna come pazzo dove rimase per sette anni. Da un periodo di isolamento gli fu concessa una relativa libertà che gli permise di rendere l'attività letteraria. Il suo stato d'animo oscillava tra manie di persecuzione e tendenze autopunitive. Non fu mandato via da Alfonso, perché il duca voleva evitare che si proiettasse sulla sua corte un qualunque sospetto di eresia, che poteva essere pericoloso in quegli anni di oppressione. Gli scrupoli maniacali del poeta potevano essere il pretesto per accuse del genere. Negli anni di reclusione La Gerusalemme fu pubblicata senza il suo senso, in un'edizione incompleta e scorretta e questo lo turbò profondamente. Scrisse allora un'”apologia della Gerusalemme liberata” e si dedicò a una revisione dell'opera. Nell'86 Vincenzo Gonzaga di Mantova ottenne che il poeta fosse affidata la suo storia. In seguito soggiorno a Roma è a Napoli. Nel 93 ripubblicò col titolo di Gerusalemme conquistata il suo poema. Tasso morì nel 95 dopo che il Papa Clemente VIII gli propose l'incoronazione a Roma.
Tasso incarna esemplarmente la figura del poeta cortigiano del 1500, perché al contrario di Ariosto e gli riteneva che solo nella corte potesse essere consacrata la fama da grande poeta. Tuttavia il tasso è lasciato da profonde contraddizioni poiché non rimane mai fermo in una corte ma vaga da un centro all'altro senza mai trovare una sistemazione.

 

L’Aminta

L’Aminta è un testo drammatico del genere della favola pastorale, un genere particolarmente affermato nella Ferrara del tempo. Le opere pastorali parlano di vicende ambientate nel mondo dei pastori: grandi scrittori scrissero opere di questo tipo come Virgilio o più recente Lorenzo de Medici. L’Aminta fu scritta e rappresentata nel 1573 e pubblicata nel 80. Il genere differisce dalla commedia in quanto non presenta situazioni comiche e differisce dalla tragedia in quanto non raggiunge il livello sublime nei personaggi e nello stile e si conclude sempre col lieto fine.

La vicenda è distribuita in 5 atti: e si incentra su un rapporto amoroso difficile; il pastore Aminta ama la ninfa Silvia, ma lei non ricambia questo sentimento. Dafne amica di Silvia consiglia al giovane di recarsi alla fonte dove Silvia è solita bagnarsi per riuscire a conquistarla. Un satiro sorprende Silvia alla fonte e fa violenza su di lei fino a quando arriva Aminta che salva la ragazza che però non è grata al suo salvatore e fugge nel bosco. Aminta in seguito trova un pezzo di vestito di Silvia sporco di sangue e pensa che la sua amata donna sia stata uccisa dai lupi e per disperazione si getta dal burrone. Silvia però è viva e venuta a sapere di quello che Aminta ha fatto per amore, cambia idea sul suo conto e inizia a ricambiare l’amore. Silvia corre a cercare il corpo di Aminta e quando lo trova si mette a piangere pensando che sia morto. Invece la caduta è stata attutita dai cespugli e Aminta riprende i sensi e la vicenda si conclude col matrimonio tra i giovani

 

Introduzione al barocco

Il seicento è un secolo di aspri conflitti e di profonde trasformazioni. Equilibri secolari vengono incrinati e distrutti:emerge una nuova concezione del mondo. Sul piano politico lo scontro vede l'impero spagnolo contro Francia, Olanda ed Inghilterra. La pace dei Pirenei segna il declino della Spagna e l'ascesa della Francia. Gli Stati italiani seguono il destino dell'impero Spagnolo. La controriforma mette in discussione ogni proposta di rinnovamento rispetto al sistema difeso dalla chiesa. La condanna di Galilei ad opera del santo Uffizio segna la fine della libertà di proporre nuove tesi. Essere vincitori o sconfitti dipende dalla capacità di rinnovarsi. Nei Paesi protestanti il principio di tolleranza religiosa da origine ad una serie di norme di tutela dei diritti dell'uomo che stanno alla base della moderna concezione liberale dello Stato. Un elemento comune della cultura del seicento e la coscienza della crisi degli antichi modelli, condizione indispensabile per la formulazione di proposte innovative.
L'elaborazione delle forme del barocco letterario ed artistico sono le ultime occasioni in cui gli intellettuali italiano partecipano in modo originale e decisivo alla creazione di tendenze di pensiero destinate ad avere peso sulla storia degli uomini. La scoperta di Galilei da un colpo definitivo alla cosmologia tradizionale: i satelliti di Giove e i rilievi lunari dimostrano l'omogeneità tra i corpi celesti, l'annullamento della distinzione tra cielo e terra ed eliminano la distinzione tra alto e basso, tra umano e divino. La letteratura barocca, in parallelo, abbandona la distinzione tra generi alti e generi bassi dando vita a generi inconcepibili nell'ordinamento letterario tradizionale; il barocco propone una poesia animata e giustificata, cioè di un'esperienza umana terrena e soggettiva. L'indagine di Galilei fa scoprire all'uomo di non essere al centro dell'universo: le strutture letterarie trasportano questa nuova concezione dell'uomo che si ritrova a vivere all'interno e non al centro dell'universo. Ogni aspetto della vita e della cultura barocca nasce dallo scontro tra due visioni del mondo: quella rinascimentale tradizionale e quella barocca dinamica e aperta al mutamento. La lenta decadenza della Spagna porta una profonda trasformazione del quadro geo-politico del mondo della concezione del potere e dei rapporti tra individuo e società. La scarsità delle risorse alimentari, il pericolo di carestie e pestilenze, furono all'origine di vaste e sanguinose rivolte popolari (Manzoni, Promessi Sposi). La necessità di far fronte a queste emergenze porta ad una trasformazione nei rapporti tra i ceti sociali e il sovrano. Il seicento porta il termine rivoluzione. Gli esempi di soluzione positiva vanno ricercati nei vincitori dello scontro: Olanda, Inghilterra e Francia.
La vita economica si era basata fin dall'età comunale sulle attività commerciali e finanziarie, sull'importazione di materie prime e sull'esportazione di manufatti. Nel seicento l'Italia si limitava ad esportare solo pochi prodotti agricoli. La conquista delle colonie americane e l'apertura delle nuove rotte delle Indie avevano spostato l'asse del commercio: le marinerie italiane si ritrovarono ad operare su un settore secondario dello scacchiere mondiale. Essi non riuscirono a tenere testa alla concorrenza degli altri paesi europei. La riduzione del commercio italiano fu resa inarrestabile dall'aumento del costo di produzione dei manufatti di lana che costituivano il motore dell'economia italiana. In Italia i capitali si riversarono sull'acquisto di proprietà agricole: questo tipo di investimento blocca la circolazione della ricchezza e scoraggia ogni iniziativa di innovazione a questo contribuì anche la soggezione della Spagna. Specialmente nel Mezzogiorno aumenta il numero dei contadini privi di terra e delle rivolte che vengono represse violentemente. Ci allarga la distanza tra le classi sociali.

 

Le idee e le visioni del mondo

In paesi come la Spagna e l’Italia le esigenze di rinnovamento si esprimono indirettamente attraverso una profonda trasformazione della sensibilità e del gusto,che va sotto il nome della tendenza artistica e letterari che prende il nome di barocco. Può essere molto utile rifarsi all’origine del termine, che secondo alcuni deriverebbe dal portoghese “barroco”, indicante una perla irregolare, non sferica. Secondo altri l’origine va ricercata nel termine “baroco”, usato nella filosofia scolastica per indicare un tipo particolare di procedimento logico apparentemente corretto ma intaccato da una sottile debolezza interna. Il termine “barocco” iniziò ad essere riferito all’arte e alla sensibilità del seicento soltanto un secolo più tardi, con evidente intento polemico, per mettere in evidenza il suo amore per la bizzarria. L’età barocca scopre nel disegno ordinato della natura l’anomalia, l’eccezione, e su di essa concentra la sua attenzione. Sulla consapevolezza della finzione e sul senso della vista sono basate non soltanto i fastosi e complessi cerimoniali civili e religiosi ma anche la vasta e straordinaria produzione teatrale che si sviluppa in Spagna, Inghilterra, Francia. Dall’evidenza visiva  dipende la dimostrazione  della fondatezza delle scoperte celesti di Galilei. La ricerca delle somiglianze nascoste costituisce la nuova rete di collegamenti, le coordinate di una nuova mappa del mondo ce offra all’individuo una possibilità almeno di orientamento. Soltanto il simbolo pare adatto a spiegare fenomeni sfuggenti; soltanto i collegamenti forniti dalla metafora e dall’allegoria, permettono all’artista e al letterato di intuire ciò che i sensi e la ragione non sono più in grado di decifrare con chiarezza. La Scienza Nuova di Galilei si basa sulla trasposizione del metodo matematico a una realtà (quella fisica)  alla quale non era mai stato applicato in precedenza attribuire alla matematica il compito di spiegare fenomeni della realtà materiale, è un’innovazione rivoluzionaria che soddisfa l’esigenza dell’età barocca di rinvenire una chiave d’interpretazione unitaria alla realtà materiale. L’acutezza d’ingegno ricercata dal letterato e posta alla base dell’operazione artistica si presta certamente a giustificare elaborazioni gratuite di concetti e collegamenti che non riescono a superare i limiti della bizzarria individuale e che sono destinati ad essere  ripudiati dal pubblico nell’arco di qualche decennio. Così l’attenzione alla tecnica può scadere in tecnicismo fine a se stesso, incoraggiato dalla condizione di separatezza in cui il letterato tenta si salvare la propria identità. La riflessione critica costringe lo scrittore barocco a riconoscere il collegamento tra gli strumenti  impiegati e la concezione del mondo.

 

Giovan Battista Marino

Nato a Napoli nel 1569, Giovan Battista Marino fu avviato dal padre agli studi legali, che abbandonò a vent’anni per dedicarsi interamente all’attività letteraria. Fu imprigionato sotto l’accusa di aver falsificato documenti per scagionare un amico dall’imputazione di omicidio, Marino riuscì a fuggire dal carcere e a raggiungere Roma nel 1600. La pubblicazione a Venezia delle Rime gli valse un impiego, dal 1604, presso il cardinale Pietro Aldobrandini, dopo un soggiorno a Ravenna passò nel 1608 alla corte torinese di Carlo Emauele I. Un panegirico scritto in lode del duca di Savoia gli valse il titolo di cavaliere dell’ordine dei santi Maurizio e Lazzaro. L’aspra contesa che contrappose Marino al poeta di corte Gasparo Murtola, dimostrò le sue eccezionali doti di polemista. Marino celebrò il proprio trionfo su di lui intercedendo a suo favore presso il duca, di cui divenne nel 1610 il poeta ufficiale. Accusato di essere l’autore di un componimento satirico lesivo della dignità del signore, fu imprigionato a sua volta nell’aprile del 1611 e posto in libertà nel 1612. ai tre anni successivi, appartengono le liriche della lira, pubblicate nel 1614 con una lettera prefatoria, che presenta l’autore come l’iniziatore e il maestro della nuova poesia italiana. Nel 1615  Marino fu accolto alla corte parigina di Maria de Medici; osannato come il più grande poeta vivente, ottenne una lauta pensione che non comportava alcun obbligo cortigiano e che gli permise di dedicarsi pienamente alla revisione e alla pubblicazione delle numerose opere intraprese negli anni precedenti.  Tra queste  spiccano per importanza la galeria, la sampogna e l’Adone. Rientrò in Italia nel giugno del 1623. a Napoli, dove trascorse gli ultimi anni, Marino condusse una vita dispendiosa e brillante. Le sue ultime energie furono dedicate alla polemica che accompagnò la pubblicazione del poema e ne accrebbe notevolmente la diffusione e la notorietà. Morì nel 1625.

 

Giambattista Vico

Nato a Napoli nel 1668 da un modesto libraio studiò dapprima nel collegio dei gesuiti dove studiò logica e metafisica tradizionale anche se presto lascio questi studi ma si dedico a letture di Platone, Lucrezio, dei classici del Trecento, di Cartesio e dei filosofi francesi del tempo da autodidatta. Nel 1699 ottenne la cattedra di retorica con i cui proventi cambiò casa, apri una scuola privata e mantenne la famiglia. Dal 1723 elaborò il suo capolavoro i Principi di una scienza nuova. L’opera propone un’interpretazione generale della storia delle attività umane, dei principi fondatori della società e della sua evoluzione nel tempo dalle origini prime. La ricostruzione del passato comporta la definizione delle costanti del divenire storico, analizzato in tutte le sue espressioni culturali di fondo e spiegato come l’alternarsi progressivo di fasi successive della civiltà umana, alle quali l’autore fa corrispondere una concezione del mondo.
La soluzione che permette a Vico di superare il dilemma, se sia possibile spiegare razionalmente l’irrazionale, emerge nel principio del verum factum: è accertabile solo ciò che è stato fatto. All’uomo compete soltanto la conoscenza delle proprie creazioni concrete. Compito della filosofia è mettere a punto strumenti concettuali razionali. Vico si dimostra erede del mondo scientifico inaugurato da Galileo. Egli lo estende al mondo dell’uomo. La sua nuova visione dell’esperienza umana presenta analogie con la  rivoluzione copernicana del secolo precedente.

 

La concezione di Vico 

Rifiutando Cartesio, Vico rifiuta di accettare il predominio del metodo matematico, rivendicando la centralità delle discipline umanistiche che avevano perduto negli ultimi decenni il predominio. Lo studio delle scienze matematiche finirebbe per distogliere l’attenzione dell’uomo dallo studio  di tutta una serie di funzioni psichiche che non operano secondo principi matematici (fantasia) e delle attività culturali che si esprimono secondo modi di tipo non logico (arte) che sono fondamentali nell’orientare il comportamento dell’uomo.
Cartesio aveva detto che l’unica conoscenza sicura era quella offerta dal metodo matematico, ma per alcune cose (educazione, racconto) essa non va bene. Vico recupera questa difficoltà metodologica e rida all’osservazione e all’interpretazione dell’intellettuale tutto il terreno dell”incerto”.
Vico decise di seguire la teoria del giusnaturalismo. L’olandese De Groot e il tedesco Pufendorf identificarono principi giuridici comuni a tutta l’umanità perché basati su esigenze e tendenze comuni a tutti gli uomini.
La storia generale dell’umanità conosce un evoluzione simile a quella del singolo; Vico identifica 3 stadi delle modalità conoscitive a cui fa corrispondere 3 età dell’essere umano, 3 fasi della civiltà e 3 forme di governo.

  • Gli uomini sentono senza avvertirefanciullezzaetà degli dei – vi è il prevalere dei sensi che produce una comunità dominata dal timore degli eventi naturali, con leggi fondate su disposizioni divine e governo teocratico.
  • Gli uomini avvertiscono con animo perturbato e commossogiovinezzaetà degli eroi – che produce una società animata dalla fantasia e dalle passioni, un’organizzazione sociale basata sull’uso della forza con governi di tipo guerriero e aristocratico

Gli uomini riflettono con mente puramaturitàetà degli uomini – che produce una civiltà temperata dall’intelligenza e un diritto dettato dalla ragione umana e governi di tipo umano.

 

Il pensiero di Vico

La ricerca di Vico si spinge fino alle origini prime dell'umanità, prima della produzione dei primi documenti scritti; la ricostruzione dei caratteri originari di essa si fonda sulle tracce non intenzionali trasmesse da quell'età. Vico ricorre frequentemente alle spiegazioni etimologiche; spesso ci sono riferimenti a fatti mitologici, a rituali e al folklore. Da queste infatti Vico fa dipendere lo sviluppo successivo della storia del genere umano. Vengono riportati alla luce e interpretati come documenti della massima importanza per definire la psiche umana nel suo stato originale. La provvidenza divina è la forza che presiede alla trasformazione storica. Nel mondo visto da Vico lo sviluppo è affidato all'iniziativa dell'uomo, spinto dal desiderio di conoscenza e di azione. Vico non presenta interventi diretti di Dio nella sua ricostruzione. Il percorso storico non esclude la possibilità di un regresso, l'instaurarsi di un processo regressito. Il medioevo rappresenta un epoca eroica, dominata dall'uso della forza, paragonabile all'antica Grecia. L'esperienza della creazione poetica raggiunge le sue più potenti realizzazioni nelle due età eroiche, offrendo con le opere di dante e omero la compiuta espressione del vigore umano. La storia civile delineata da Vico presenta uno spessore più accentuato e un interesse più spiccato per la dimensione pre-logica dell'esperienza umana. La religione è un esperienza basilare e decisiva per il sorgere di una dimensione comunitaria, fondata sul matrimonio e sui riti religiosi. Il linguaggio è considerato uno strumento espressivo e conoscitivo. La poesia, collegata alla sensibilità, non è più operazione che assicura la decorazione di un significato concettuale preesistente ed autonomo, ma espressione della sensibilità, strumento di scoperta e di creazione di una nuova visione del mondo.

 

L’illuminismo

Con il termine Illuminismo si intende oggi quel movimento di pensiero, sviluppatosi in Europa nella seconda metà del Settecento, che si propone di lottare contro tutti i residui irrazionali politici e sociali, contro l’ignoranza, i pregiudizi e le superstizioni. L’arma assunta per questa lotta è la ragione; gli illuministi sono convinti del fatto che basti diffondere dei principi razionali, i cosiddetti lumi, per eliminare via tutto il vecchio mondo materiale e spirituale che opprime gli uomini e li rende infelici. Il termine illuminismo deriva infatti da questa immagine di luce che doveva scacciare le tenebre dell’ignoranza e del pregiudizio. Secondo gli illuministi bisogna sottoporre all’esame libero e critico della ragione tutte le manifestazione della realtà e accettarle o respingerle a seconde che esse reggano o meno a tale esame. Ilpiù grande filosofo di questa età: Immanul Kant nella prima edizione della Critica della ragion pura dice che Tutto deve sottoporsi alla critica. La ragione comincia ad essere considerata come metro assoluto di giudizio, ma comincia anche ad essere concepita come la facoltà capace di raggiungere la verità in ogni campo con le sue sole forze, senza la guida di alcuna autorità. Infatti, alla domanda che cosa è l’illuminismo, lo stesso Kant risponde che esso è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità, ossia dell’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Gli illuministi guardano al passato, soprattutto al medioevo, come ad una lunga serie di errori e ne sottopongono a critica tutti gli istituti. Dall’altro lato sono convinti che la loro età segni una svolta fondamentale nella storia, perché darà inizio ad un mondo nuovo e migliore, conforme al modello della ragione. La loro è pertanto una visione ottimistica che porta ad un’orgogliosa coscienza delle proprie forze. Dalla convinzione che la ragione sia presente in tutti gli uomini, gli illuministi si aprono verso ogni civiltà e sono disposti ad accettare l’altro nella sua diversità. Questo atteggiamento prende il nome di cosmopolitismo: l’uomo razionale è cittadino del mondo e le barriere nazionali sono convenzioni, che vanno superate mediante la volontà di conoscere ciò che è diverso. A questo atteggiamento è legato il filantropismo, ossia la disponibilità ad amare e a soccorrere gli altri uomini. Da qui scaturisce anche lo spirito di tolleranza verso gli altri, verso le loro opinioni e posizioni. Deriva da qui, infine il rifiuto del dogmatismo e del fanatismo. Vi è anche lo sperimentalismo: la concezione che fonda la scienza esclusivamente sul metodo sperimentale. Si viene inoltre a sviluppare una concezione materialista: Il materialismo è la concezione filosofica per la quale l'unica cosa che può veramente essere è la materia; cioè che fondamentalmente, tutte le cose hanno una natura materiale. Tuttavia, per se il materialismo non dice niente su come la sostanza materiale dovrebbe essere caratterizzata. Inoltre il sensismo sostiene che la conoscenza sia la sensazione stessa e che la realtà sia costituita dall'oggetto della sensazione. Gli illuministi rifiutano ogni religione fondata solo sulla fede. La religiosità deve scaturire da un convincimento razionale: l’idea della divinità si manifesta alla ragione dell’uomo, non alla sua fede il Dio sarà inteso solo come un ordine supremo regolatore del mondo (deismo). L’obbiettivo degli illuministi è la felicità, mentre per gli uomini del medioevo è la salvezza. Cambia la visione della vita
Il posto centrale occupato dalla ragione non dà luogo ad un razionalismo (tutto è sottoposto all’esame della ragione) arido e astratto. Il sentimento comincia ad essere privilegiato ed il razionalismo viene corretto dal sensismo che induce ad un’attenta considerazione di tutte le manifestazioni della sensibilità. Tra sentimenti e ragione gli illuministi non vedono conflitto, ma equilibrio. La vita sentimentale deve venire guidata e regolata dalla ragione. Le radici culturali del movimento sono da ricercare in Copernico, Galilei, Bacone, Newton, Cartesio e nel pensiero empirista inglese. L’illuminismo si sviluppa in un primo periodo soprattutto in Francia, ma gli stessi intellettuali francesi guardano con ammirazione all’Inghilterra borghese. Il movimento illuminista è infatti espressione della classe emergente che si viene sempre più affermando in Europa nel settecento, la borghesia,  che aspira a divenire la classe dirigente. Ciò non vuol dire che tutti gli intellettuali del periodi siano borghesi, spesso anzi sono aristocratici di nascita, che si offrono comunque come portavoce della visione e delle esigenze di quella classe. La nuova classe emergente per affermarsi deve disgregare le vecchie strutture monarchiche e per trasformare il mondo deve porre la propria fiducia della ragione. In effetti la cultura illuministica è la premessa ideologica della Rivoluzione francese. Tuttavia gli illuministi non prevedevano  che le proprie idee avrebbero portato ad uno sconvolgimento così violento: essi auspicavano il trionfo della ragione per via pacifica ed indolore. Per questo la Rivoluzione costituì un trauma per gli intellettuali dell’epoca. La rivoluzione francese infatti manda in crisi i principi dell’illuminismo
La lotta condotta dagli illuministi in questo periodo incide molto sulla fisionomia della letteratura di  questo periodo. Si rifiuta la letteratura oziosa e si afferma l’esigenza di una cultura utile che si offra come veicolo di diffusione dei lumi e come strumento di divulgazione, tutto deve essere utile alla gente e deve trattare una materia che possa constatare che il mondo che ci circonda è perfetto. Siccome l’essere umano è finito è imperfetto, non può aver creato la natura. Ciò ci induce a pensare che esista un entità superiore che però non viene identificato con il Dio cristiano.Per questo l’opera che meglio riassume in sé lo spirito illuministico è l’Enciclopedia di Diderot e D’Alambert che si propone come summa del sapere razionale e scientifico moderno. Nella letteratura di questo periodo prevale dunque un linguaggio limpido, spigliato, immediato ed adatto a propagare i nuovi lumi anche presso un pubblico di non letterati. Si affermano anche generi letterari nuovi, come il saggio, l’articolo di giornale ed il romanzo. Anche il teatro diviene il veicolo delle nuove idee.
In Francia vi è l’assolutismo, abbiamo quindi una monarchia per diritto divino. In Italia, la situazione è ben diversa, qui si sviluppa un dispotismo illuminato. I despoti illuminati erano monarchi che si distinguevano dai precedenti nel modo in cui governavano. I monarchi illuminati governavano in base ai principi dell'Illuminismo. Questo significa che i monarchi governavano con lo scopo di badare allo sviluppo di tutti i loro sudditi, non solo per compiacere la nobiltà. Ciò naturalmente veniva compiuto per impedire le rivoluzioni popolari. Il dispotismo ha portato avanti una politica anti clericale, svecchiava l’aristocrazia e faceva riforme. Ciò avvenne anche nei paesi europei come la Russia, la Prussia e l’Austria

 

Jean-Jacques Rousseau

Rousseau vedeva una divaricazione sostanziale tra la società e la natura umana. Rousseau affermava che l'uomo fosse, in natura, buono  e venisse corrotto in seguito dalla società.,
Il negativo influsso della società su un uomo altrimenti virtuoso, nella filosofia di Rousseau, ruota intorno alla trasformazione dell'amore di sé intenso in senso positivo, nell'amor proprio, visto come negativo. L'amore di sé consiste nell'istintivo desiderio, posseduto dall'uomo come dagli altri animali, di autoconservazione; l'amore proprio, invece, generato dalla società, costringe l'individuo a paragonarsi agli altri esseri umani, portando all'infondata paura di non essere sufficientemente apprezzato, o a trarre piacere dalle debolezze e dal dolore altrui.
Nel Discorso sulle scienze e le arti, Rousseau sostenne che le arti e le scienze non avessero apportato benefici all'umanità, in quanto non erano state prodotte per rispondere alle necessità umane, bensì generate dall'orgoglio e dalla vanità. Inoltre le arti e le scienze creavano occasioni per l'ozio e il lusso, contribuendo così alla corruzione dell'uomo. Rousseau affermava che il progresso delle conoscenze avevano reso i governi maggiormente potenti, schiacciando così le libertà individuali. Concludeva quindi che il progresso materiale minacciasse la possibilità di costruire amicizie sincere, al cui posto subentravano gelosie, paure e sospetti.
Nel successivo Discorso sull'ineguaglianza, illustrò il progresso e la degenerazione dell'umanità da un primitivo stato di natura sino alla società moderna. Rousseau suggeriva che gli uomini primordiali fossero individui isolati, l’unica diseguaglianza che si poteva trovare consisteva nelle condizioni fisiche; gli uomini erano diversi dagli animali unicamente per il possesso del libero arbitrio e per la capacità di perfezionarsi. Questi uomini primitivi erano dominati dall'impulso di autoconservazione ("amore di sé") e da una disposizione naturale alla compassione e alla pietà verso i simili. Quando l'umanità fu costretta a vivere in comunità, a causa della crescita della popolazione, subì una trasformazione psicologica, in seguito alla quale cominciò a considerare la buona opinione degli altri come un valore indispensabile per il proprio benessere. Tuttavia, lo sviluppo dell'agricoltura e della metallurgia, e la conseguente creazione della proprietà privata e della divisione del lavoro, portarono a una crescente dipendenza reciproca degli individui e alla disuguaglianza tra gli uomini. La conseguente condizione di conflitto tra chi aveva molto e chi poco o nulla, fece sì, secondo Rousseau, che il primo Stato fu inventato come una forma di contratto sociale suggerito dai più ricchi e potenti. Difatti i ricchi e i potenti, tramite il contratto sociale, sanzionarono la proprietà privata, lo stato di fatto e quindi istituzionalizzarono la diseguaglianza come se fosse inerente alla società umana. Rousseau concepiva la propria proposta per un nuovo contratto sociale come un'alternativa a questa forma fraudolenta.
Nel Contratto Sociale Rousseau affermava che lo stato di natura, degenerato in una condizione ferina priva di legge o morale, costringeva l'umanità ad adottare delle istituzioni o a perire. Nella fase degenerata dello stato di natura, l'uomo è soggetto a una competizione incessante coi suoi simili e, al contempo, a diventarne progressivamente dipendente. Una duplice tensione che minaccia sia la sua sopravvivenza che la sua libertà. Secondo Rousseau, unendosi grazie al contratto sociale e abbandonando la loro pretesa di diritti naturali, gli individui possono conservare se stessi e al contempo restare liberi. Questo perché, sottomettendosi all'autorità della volontà generale del popolo in quanto entità unitaria, gli individui evitano di diventare subordinati alla volontà di altri individui; inoltre, in questo modo, ci si assicura che obbediranno alle leggi di cui saranno, essi stessi, autori collettivi. Rousseau sostiene che la sovranità deve essere nelle mani del popolo, ma distingue nettamente tra sovranità e governo. Il governo è incaricato di eseguire e far rispettare la volontà generale, ed è composto da un piccolo gruppo di cittadini, definiti "magistrati". Rousseau si opponeva fortemente all'idea che il popolo potesse esercitare la propria sovranità tramite un'assemblea rappresentativa. Piuttosto, gli stessi cittadini dovevano essere i diretti autori delle leggi.
Nell’Emilio Rousseau teorizzò un programma educativo basato sul concetto di "educazione negativa", ossia di un'educazione che non inculca alcuna virtù, ma previene il vizio; non insegna la verità, ma preserva dall'errore consentendo il libero sviluppo della personalità. Obiettivo dell'educazione è come imparare a vivere, e questo si ottiene seguendo un guardiano in grado di mostrare la strada per una vita buona. Solo grazie all’educazione si può arrivare al Contratto Sociale. Rousseau individua l’adolescenza come un passaggio importante per l’educazione del giovane: solo un adolescente educato giustamente può dare origine a rapporti sociali corretti, liberi dalla violenza.

 

Goldoni

Carlo Goldoni nacque a Venezia nel 1707 da una famiglia borghese. Il padre era medico e sempre in movimento tra le città italiane. A Perugia compì i primi studi presso i Gesuiti; poi fu inviato a Rimini per affrontare gli studi superiori, ma di lì fuggì sulla bar­ca di una compagnia di comici per raggiungere la madre a Chioggia. Studiò legge all'Università di Pavia e fu ospite del prestigioso collegio Ghislieri, ma ne fu cacciato in se­guito a una satira  composta sulle donne della città. La morte del padre, nel 1731, lo mise dinanzi alla necessità di provvedere alla madre. Si laureò in Legge a Padova, e si avviò alla professione di avvocato.
Prese piede in lui la vocazione teatrale e conobbe a Verona il capocomico Giuseppe Imer, e grazie a lui ottenne l'in­carico di scrivere i testi per il teatro veneziano di San Samuele. Scrisse nei più vari generi letterari, ma questa è una produzione scarsamente origi­nale. Goldoni si provò presto anche nel genere comico, che gli era più congeniale e avviò una radicale "riforma" del teatro comico. Nel 1743 dovette fuggire da Ve­nezia a causa dei debiti e si trasferì prima a Pisa e poi a Livorno dove conobbe il capocomico Girolamo Me­debac che lo assunse come poeta di teatro e gli assicurò un contratto stabile. Goldoni lasciò cosi definitivamente l’avvocatura. Goldoni rappresenta una figura nuova: Goldoni è lo scrittore che vive dei proventi della sua professione intellettuale. Il teatro è un'im­presa commerciale e i capicomici investono denaro nel teatro, e vogliono ricavarne denaro: lo spettacolo quin­di deve incontrare i gusti del pubblico pagante, deve aver successo e attirare molti spettatori. Goldoni si dovette adattare cercando di compiacere i gusti e le ri­chieste del pubblico.
Goldoni lavorò per la compagnia Medebac, che recitava nel teatro Sant'Angelo, dal 48 al 53. Dopo l'insuccesso di una commedia, al fine di stimolare nuovamente l'interesse del pubbli­co, Goldoni prese con gli spettatori l'impegno di scrivere per la stagione successi ben sedici commedie nuove.
Il mercato implica concorrenza: e Goldoni dovette affrontare quella del suo rivale Pietro Chia­ri, la sfida durò a lungo appassionando il pubblico e suscitando fiere polemiche, che provocarono addirittura l'intervento della censura.
Con la compagnia Medebac però Goldoni entrò in attrito, soprattutto per questioni econo­miche. Nel 1753 passò allora al teatro San Luca, di proprietà del nobile Francesco Ven­dramin. Seguì un periodo difficile in cui Goldoni tentò vie diverse della commedia realistica. Intanto entrò in polemica soprattutto con Carlo Gozzi, che era un sostenitore della tradizionale Commedia dell’Arte.
Nel 1762 si trasferì a Parigi per dirigere la Comedie Italienne. Qui però dovette ricominciare dal principio a lottare con la sua riforma della commedia, ma il pubblico si dimostrò freddo per le novità di Goldoni. Nel 1771 ottenne un buon successo con una commedia in francese (Il burbero benefico). Entrato nelle grazie della corte fu assunto come maestro di italiano delle principesse reali ottenendo un modesto compenso. Nel 1792 l’Assemblea Legislativa sospese il suo compenso e ciò lo fece morire in miseria nel gennaio del 1793.

 

La riforma della commedia

La scena comica del periodo era dominata dalla Commedia dell’Arte barocca, dove gli attori impersonavano le maschere tradizionali e improvvisavano le battute.  I motivi del rifiuto di Goldoni erano:

  • La volgarità buffonesca
  • La rigidezza stereotipata delle maschere
  • La ripetitività della recitazione degli attori
  • La costruzione incoerente e inverosimile degli intrecci

La critica di Goldoni era comunque sulla Commedia dell’arte in sé, sulla visione del reale che esso presupponeva. La riforma si basava sul ripudio della stravaganza e della bizzarria barocca e aspirava alla semplicità, al buon gusto e alla naturalezza. C’erano stati tentativi precedenti a Goldoni di riforma, da parte di alcuni scrittori toscani, ma Goldoni essendo un uomo di teatro e non un letterato conosceva gli umori del pubblico. La sua riforma mira a incidere sullo spettacolo e nei suoi rapporti con la vita sociale. Goldoni dichiara di aver studiato il Mondo e il Teatro e su quello basa la sua riforma. Egli aspira ad una commedia che sia verosimile che rifletta la realtà contemporanea, dove non c’è posto per le maschere tradizionali. La sua commedia vuole rappresentare dei caratteri colti nella loro individualità, irripetibili e inconfondibili. Tra la maschera e il carattere vi è la stessa distanza che separa la maschera (intesa come oggetto materiale ) e il volto. I caratteri sono finiti nel genere, ma infiniti nella specie.
Questa ricerca dell’individualità concreta, è in contrapposizione alla tendenza dell’arte classica antica e rinascimentale, ed è propria dello spirito borghese. I carattere borghese può essere attribuito alla sua condizione sociale.  I caratteri goldoniani sono sempre radicati in un contesto sociale molto concreto e precisamente delineato che incide sulla loro conformazione psicologica. Le commedie goldoniane sono fitte di caratteri individuali sapientemente tratteggiati e ricostruiscono anche ambienti sociali colti in tutte le loro componenti. Nella produzione di Goldoni si distinguono le commedie di carattere, intese a delineare una figura e le commedie d’ambiente intese a descrivere un particolare settore della vita sociale. Ma è una distinzione convenzionale in quanto i due poli non possono mai venire isolati.

 

Parini

Giuseppe Parini nacque il 23 maggio del 1729  a Bosisio. Dopo alcuni studi fu condotto a Milano dalla prozia Anna Maria Lattuada ,che, morendo poco dopo , nel marzo 1740 gli lasciò una piccola rendita annuale, a condizione che divenisse sacerdote: così il giovane, intraprese la carriera ecclesiastica. Nel frattempo a 23 anni  aveva pubblicato una raccolta di liriche , alcune poesie di Ripano Eupilino, che contribuirono a farlo conoscere negli ambienti letterati e gli valsero l’ammissione all’accademia dei trasformati, uno dei centri più importanti della cultura milanese, più aperta alle nuove istanze illuministiche. Così Parini trovò un ambiente culturale che rispondeva a i suoi orientamenti ideologici e letterari. Entrò nel 1754 al servizio del duca Gabrio Serbelloni, come precettore dei figli. Casa Serbelloni era un ambiente culturale molto vivo: la duchessa aveva una relazione con Pietro Verri, era una donna colta, che seguiva con interesse la cultura illuministica francese. In seguito a una discussione con la duchessa si licenziò da casa Serbelloni, e l’anno dopo divenne precettore di Carlo Imbonati. Nel frattempo aveva pubblicato due poemetti satirici, il Mattino e il Mezzogiorno. Il governo austriaco della Lombardia vedeva con favore gli intellettuali di orientamento avanzato e tendeva a offrire loro incarichi di responsabilità. Così il conte Firmian, affidò a Parini, la gazzetta di Milano. Parini si trovò così a contatto con artisti quali il pittore Andrea Appiani e l’architetto Francesco Piermarini, che avevano un orientamento neo-classico. Questa vicinanza agli artisti neoclassici fu decisiva per gli orientamenti poetici della sua ultima stagione. Oltre alla cattedra Parini ebbe vari incarichi ufficiali. Subì il trauma delle riforme radicali di Giuseppe II, che sconvolse tutta una serie di istituzioni. Il poeta, ferito e deluso nelle sue più profonde convinzioni, si allontanò dall’attività intellettuale militante. La rivoluzione francese scoppiata nel 1789, assunse posizioni sempre  più negative. Con l’ingresso dei francesi a Milano fu chiamato a far parte della municipalità , ma ben presto fu allontanato.
Quando nel 1799 tornarono gli austriaci a Milano, Parini fu rispettato per il suo prestigio. Il poeta ormai vecchio si ritirò in un isolamento, morì pochi mesi dopo. Poche ore prima della morte scrisse un sonetto Filistei l’arca di dio, in cui lodava dio di aver restituito Milano all’Austria.

 

Alfieri

Vittorio Alfieri nacque ad Asti nel 1749 da una famiglia della ricca nobiltà terriera. Sin dall’infanzia si manifesta in lui una tendenza alla malinconia e alla solitudine, unità però ad una volontà forte e caparbia che si manifestava in impeti ribelli. A nove anni iniziò a studiare presso la Reale Accademia di Torino, ma più tardi diede durissimi giudizi sulla formazione avuta dicendo si non essere stato educato a sufficienza. Uscito dall’Accademia compi numerosi viaggi per l’Italia e per l’Europa, ma i viaggi di Alfieri non rientravano nei viaggi di tipo illuministico: egli era spinto da una febbrile mania di movimento da un’irrequietezza inappagabile, da un senso di vuoto che non gli permetteva di fermarsi. Questa scontentezza non aveva una causa precisa: era come se inseguisse qualcosa di inafferrabile. Comunque grazie a questi viaggi egli accumulò una grande esperienza delle condizione dell’Europa. Da qui scaturì l’odio per la tirannide monarchica. Ciò che lo affascina sono i paesaggi desolati e orridi come le selve della Scandinavia e il loro indefinibile silenzio che lo ispirano: in questi paesaggi egli proietta romanticamente il suo io.
Tornato a Torino conduce la vita oziosa di un giovane signore, ma la sua depressione è accentuata da un amore triste per la marchesa Gabriella Turinetti che è causa di dolori e angosce da cui non riesce a liberarsi. Egli basa i suoi studi sulle opere di Voltaire Rousseau, Helvetius e soprattutto Plutarco. Nel 1775 avviene la sua conversione letteraria, riuscendo a capire che proiettando i propri sentimenti sulla poesia poteva liberarsi dal dolore come una sorta di catarsi. Da quel momento ritiene di aver trovato lo scopo della sua vita e dedica la sua esistenza alla letteratura. Data l’insufficienza dei suoi studi si dedica allo studio della letteratura e delle lingua italiana per impadronirsi di un linguaggio appropriato per le sue tragedie. A Firenze conosce Louise Stolberg e trova in lei il degno amore per dare l’equilibrio alla sua vita. Muore nel 1803 a Firenze.

 

La politica di Alfieri

Le idee politiche di Alfieri possiedono una matrice illuministica, ma in questo caso lo scrittore si stacca dalla cultura dei lumi e si colloca su posizioni personali. Il suo esasperato individualismo e egocentrismo lo inducono a scontrarsi con la situazione storica e politica in cui vive. Il Piemonte sabaudo  caratterizzato da un assolutismo paternalistico che esercita un rigido controllo su tutte le forme di vita associata suscita in lui un radicale rifiuto.
Infatti Alfieri si scontra con il clima opprimente dell’assolutismo monarchico e con l’ancient regime, ma anche con le forze nuove, le forze borghesi che, nel suo aristocratico individualismo, non si possono identificare nei suoi ideali e tantomeno Alfieri può seguire i loro programmi politici e la loro mentalità pratica, utilitaristica e razionale. Alfieri si trova in urto con ciò che esiste e con ciò che è destinato a sostituirlo, da qui deriva il suo senso di sradicamento temporale, uno spaesamento totale che termina in solitudine.
L’odio per la tirannide è il rifiuto del potere in sé, in senso assoluto e astratto, in quanto ogni forma di potere è crudele e oppressiva. Per questo Alfieri non ha da contrapporre alcune concreta alternativa politica. Anche il concetto di libertà non possiede precise connotazioni politiche, ma resta astratto e indeterminato. Anche i suoi 3 modi per liberarsi dalla tirannide: uccidere il tiranno, isolarsi o suicidarsi non sono risolutivi.
Alfieri si esalta per le rivoluzioni del tempo nel loro primo slancio insurrezionale che distrugge il vecchio ordine dispotico, ma appena si assestano in un nuovo ordine egli assume atteggiamenti disillusi e sdegnosi.
Nel pensiero di Alfieri non si scontrano due concetti politici (tirannide e libertà), ma due entità mitiche e fantastiche: da un lato il bisogno dell’affermazione dell’io e dall’altro le forze che si oppongono a questa espansione. Si delinea dunque il titanismo alfieriano, l’infinita libertà e l’infinita grandezza si scontrano con tutto ciò che le limita e le ostacola. In questa immagine dell’io che vuole spezzare ogni limite è implicita la sconfitta poiché è impossibile affermare totalmente la grandezza dell’io al di la di ogni limite. Al sogno titanico si accompagna la consapevolezza pessimistica dell’effettiva miseria e insufficienza umana. Ma titanismo e pessimismo sono due facce della stessa medaglia. La tensione esasperata della volontà oltre i limiti umani si accompagna con la coscienza della propria impossibilità e genera un senso di sconfitta e impotenza, che si rovescia in angoscia e sgomento.

 

Foscolo

Niccolò Foscolo nacque a Zante nel 1778 da padre medico e madre greca. L’essere nato in terra e da madre greca rivestì molta importanza per Foscolo che si sentì legato alla cultura classica. Si trasferì prima a Spalato e dopo la morte del padre a Milano. Conoscendo poco la lingua italiana si gettò negli studi e scrisse i primi versi. Politicamente era entusiasta degli ideali della rivoluzione francese e per questo ebbe noie col governo di Venezia e si rifugiò sui colli Euganei. Nel frattempo le armate napoleoniche avanzavano in Italia e Foscolo andò a Bologna, si arruolò e pubblicò un’ode a Bonaparte liberatore. Tornò a Venezia dopo che si era formato un governo democratico, ma quando Napoleone cedette la Repubblica veneta all’Austria lasciò di nuovo Venezia e andò a Milano. Il tradimento di Napoleone fu un trauma che segnò profondamente l’esperienza di Foscolo.
A Milano conobbe Parini e Monti e formò un giornale, il Monitore Italiano. In questo periodo ebbe delle relazioni con Isabella Roncioni e per Antonietta Fagnani Arese. Nel 1804 seguì la spedizione di Napoleone contro l’Inghilterra andando in Francia. Tornato in Italia si recò a Venezia per rivedere la madre e un incontro con Ippolito Pindemonte gli offrì lo spunto per i Sepolcri. Nel 1808 ottenne la cattedra di eloquenza all’Università di Pavia, ma la cattedra fu presto soppressa dal governo. Dopo la sconfitta di Napoleone a Lipsia tornò a Milano riprendendo il suo posto nell’esercito, ma dopo la definitiva sconfitta di Waterloo, il generale Bellegarde gli offrì la direzione di una rivista chiamata la Biblioteca Italiana, con cui il nuovo regime cercava di conquistare il consenso degli intellettuali, ma rifiutò per coerenza. Fuggì allora da Milano e andò in esilio in Svizzera e a Londra. Ma le sue condizioni economiche si fecero molto gravi e morì nei sobborghi di Londra nel 1827. Nel 1871 i suoi resti furono portati in Italia.
La prima opera di Foscolo fu Le ultime lettere di Jacopo Ortis. In principio doveva chiamarsi Laura. Lettere nel 1796. Fu parzialmente stampato nel 1798, ma restò interrotto per le vicende belliche. Il romanzo fu ripreso e ripubblicato nel 1802 e nel 16 a Zurigo e nel 17 a Londra, con ritocchi e aggiunte. Si tratta di un romanzo epistolare: il racconto si costituisce attraverso una serie di lettere che il protagonista scrive all’amico Alderani. Il modello a cui Foscolo guarda è soprattutto I dolori del giovane Werther di Goethe. Chiaramente ispirato da Goethe è l’intreccio: un giovane che si suicida per amore di una donna già destinata come sposa ad un altro. Goethe aveva colto per primo la situazione di conflitto tra intellettuale e società e aveva avuto l’idea di rappresentarlo attraverso una vicenda privata in ambito amoroso. La vicenda:
Jacopo è un giovane patriota che si rifugia sui colli Euganei per sfuggire alle persecuzioni. Qui s’innamora di Teresa che è già destinata a Odoardo che è l’esatta antitesi di Jacopo. La disperazione amoroso spinge Jacopo in giro per l’Italia e la notizia del matrimonio lo riporta nel Veneto dove rivede l’amata, visita per l’ultima volta la madre e si suicida.
Il dramma di Werther è quello di non potersi identificare con la sua classe di provenienza e quello di Jacopo è la mancanza della patria, un tessuto politico e sociale in cui inserirsi. Dietro Werther c’è la Germania dell’assolutismo principesco e in Jacopo c’è la disperazione che nasce dalla delusione rivoluzionaria. L’unica via per uscire dalla situazione negativa è la morte intesa in termini materialistici, come distruzione totale o nulla eterno. Nell’Ortis troviamo anche valori positivi: la famiglia, gli affetti, la tradizione culturale italiana, l’eredità classica e la poesia. Con l’Ortis Foscolo vuole trasferire in Italia un modello di romanzo moderno diffuso in Europa, ma non vi è ancora un autentico interesse narrativo, ma prevale la spinta lirica. Più che un racconto, pare un lungo monologo con meditazioni filosofiche e appassionate orazioni.
Foscolo cominciò a scrivere sin da ragazzo e raccolse, dopo una cernita, due odi e dodici sonetti in un opera chiamata le Poesie. Le due odi sono: A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All’amica risanata, che presentano tendenze opposte anche se hanno entrambe una matrice neoclassica: la prima conserva maggiormente un carattere di omaggio galante e settecentesco della bella donna; la seconda vuole essere un discorso filosofico sulla bellezza ideale. In entrambe vi è comunque il vagheggiamento della bellezza femminile. I sonetti sono più vicini alla materia autobiografica e hanno un forte impulso soggettivo, con influenze di Alfieri di Petrarca e di altri poeti. I più importanti sono: alla sera, a Zacinto e in morte del fratello Giovanni. Nei sonetti vi è la ripresa dei temi centrali dell’Ortis: la proiezione del poeta in una figura eroica e sventurata e tormentata, il conflitto con il reo tempo presente e il nulla eterno come unica alternativa.

 

I Sepolcri

I Sepolcri sono un poemetto scritto sotto forma di epistola poetica indirizzata all’amico Ippolito Pindemonte. L’occasione fu una discussione originata dall’editto napoleonico di Saint Cloud con cui si imponevano le sepolture fuori dei confini delle città e si regolamentavano le iscrizioni sulle lapidi. Pindemonte sosteneva il valore della sepoltura individuale, mentre Foscolo aveva negato l’importanza delle tombe, poiché la morte produce la fatale dissoluzione dell’essere. Foscolo riprese quella discussione ribadendo le sue tesi materialistiche sulla morte. Il carme ha al centro il motivo della morte: ma superata l’idea che essa sia solamente un nulla eterno, ma le contrappone l’illusione di una sopravvivenza sopra la morte. La tomba assume un valore fondamentale nella civiltà umana: è il centro degli affetti familiari e la garanzia della loro durata dopo la morte, è il centro dei valori civili e tramanda la memoria dei grandi uomini e delle azioni eroiche spingendo alla loro imitazione. I sepolcri sono dunque una densa meditazione filosofica e poetica: essa però è esposta attraverso una serie di figurazioni e miti. Il carme ha una struttura rigorosa e armonica e la prospettiva spazio temporale è estremamente mossa. Si passa dallo spazio ristretto e appartato della tomba alla prospettiva immensa della terra e del mare in cui la morte semina le infinite ossa degli uomini. Il linguaggio è elevato e aulico; il lessico rimanda alla tradizione della poesia classicheggiante.

 

 

 

Autore: Federico Ferranti

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Italiano riassunti

Riassunto italiano

Alessandro Manzoni è un poeta vate; nasce a Milano nel 1785 dal conte Pietro e da Giulia Beccaria, figlia del filosofo illuminista Cesare Beccaria. Studia in collegi religiosi e acquisisce una cultura umanistica e una padronanza della lingua latina, allontanandosi dal cristianesimo. Alla morte di Carlo Imbonati nel 1805, va a trovare la madre a Parigi, dopodiché frequenta circoli illuministici; nel 1808 sposa Enrichetta Blondel con rito calvinista. Dal 1810 inizia una nuova carriera letteraria: vero x oggetto, interessante x mezzo e utile x scopo. Fino al 1822 rimane a Milano e scrive varie opere: 12 inni sacri, 2 tragedie, 2 odi civili e 1 romanzo. I 12 inni sacri sono dedicati alle festività cristiane, ma riesce a scriverne solo 5. Le 2 odi sono Marzo 1821 e Il Cinque Maggio. Le 2 tragedie sono Il Conte Carmagnola e Adelchi; le tragedie sono romantiche perché risaltano il medioevo e c’è il coro (cantuccio) x commentare i fatti. La prima tragedia è un flop e viene contestata dal pubblico perché viola tutte le convenzioni classiche; Manzoni spedisce una lettera al critico Chauvet x chiarire la differenza tra vero storico e vero poetico: lo storico deve raccontare i fatti, mentre il poeta deve scoprire i sentimenti dei protagonisti.

Il Cinque Maggio

Manzoni scrive questa ode nel 1821, esattamente 5 giorni dopo la morte di Napoleone Bonaparte. Lo scopo di questa poesia è l’esaltazione della fede che ha salvato Napoleone. Inizialmente Manzoni descrive tutte le azioni e le conquiste di Napoleone, per poi passare a una riflessione personale sui sentimenti del protagonista. Manzoni dice che Napoleone è morto cristianamente; ha aspettato la sua morte per dedicargli questa ode, quando era “in auge”, cioè quando regnava incontrastato, non ha mai scritto nulla sulle sue gesta. Manzoni ripercorre le sue tappe più importanti: dall’Italia all’Egitto, dalla Spagna alla Germania, dalla Sicilia alla Russia. Ricorda le grandi imprese di Napoleone, che nessuno si sarebbe mai immaginato potessero realizzarsi; le fughe e le vittorie, gli esili nell’isola d’Elba e a Sant’Elena. Si è incoronato da solo nella notte di Natale e ha segnato i due secoli successivi, dopodiché scomparve, colui che era stato odiato e invidiato da molti e amato da altri. Qui finisce il vero storico e inizia il vero poetico: Manzoni lo paragona al naufrago, soppresso dall’onda della sua disperazione. Napoleone cerca di scrivere la sua storia per i posteri, ma la stanca mano cade. Passa giornate inerti, senza fare nulla, e pensa ai fasti di un tempo, alle battaglie, ai suoi soldati. Dio gli riporta la fede, che lo purifica da ogni cattiveria e lo porta in cielo.

Marzo 1821

Manzoni la scrive in occasione dei primi moti carbonari, ma è stata pubblicata nel 1848, dubito dopo le 5 giornate di Milano. Qui viene evidenziato il pensiero politico manzoniano: lui vuole un’Italia unita e appoggia la guerra contro gli austriaci perché santa, ma non accetta la guerra civile. Questa ode è dedicata al soldato tedesco Teodoro Koerner, che rappresenta coloro che sono morti per la patria.

"Alla illustre memoria di Teodoro Koerner poeta e soldato della indipendenza germanica morto sul campo di Lipsia il giorno 15 ottobre 1813 nome caro a tutti i popoli che combattano per difendere o per riconquistare una patria."

Manzoni immagina il giuramento degli italiani di non avere mai più un’Italia divisa, inclusi coloro che facevano parte delle società segrete; o morti o liberi. Manzoni dice che solo colui che può scindere le acque degli affluenti del Po da quest’ultimo può dividere un popolo misto. Manzoni vuole un’Italia dalle Alpi al mare, con la stessa religione, storia, razza e cuore. Il Lombardo vive triste sul suo suolo dominato dagli stranieri, doveva servire e tacere. Manzoni accusa i tedeschi di non avere tenuto fede al loro giuramento: quando erano attaccati da Napoleone, hanno giurato di non attaccare più nessuno. Manzoni avvisa i tedeschi della forza di Dio, che chiuse il mar Rosso agli egiziani e che guidò la mano di Giaele. Manzoni si riferisce all’Italia in prima persona, che è dolente ma non ha ancora perso la speranza; Manzoni incita i suoi concittadini a combattere x la libertà. Infine si riferisce a colui che non potrà partecipare alla loro vittoria, che verrà a sapere dalla bocca altrui (ultima 4 strofe dedicate all’Italia).

Il Conte di Carmagnola

Il protagonista è Francesco di Bussone (il conte), il contesto è la guerra tra i veneziani e i milanesi; Francesco è un personaggio veramente esistito, è un capitano di ventura, di truppe mercenarie. Francesco lavorava per i milanesi, ma si scontra con il signore di Milano e passa a Venezia (la Serenissima governata dal doge). C’è uno scontro tra le due fazioni (battaglia di Maclodio) e Manzoni la trasforma in un coro: la vede come vergognosa, i fratelli hanno ucciso i fratelli, questa orrenda novella vi do. I milanesi vengono sconfitti, ma Francesco è generoso con loro e Venezia lo considera un traditore e lo condanna a morte. La storia dice che è stato un traditore, mentre Manzoni lo rende un martire.

ADELCHI

Racconta fatti storici; i protagonisti sono Carlo Magno, re del Sacro Romano Impero, e Desiderio, l’ultimo re dei Longobardi. Desiderio vuole occupare Ravenna, che fa parte dell’Esarcato bizantino, sotto il papato; il papa si oppone e chiede aiuto a Carlo Magno, che scende e dichiara guerra ai Longobardi. Manzoni dice che Carlo Magno ha sposato Ermengarda, figlia di Desiderio e sorella di Adelchi. Scoppia la guerra e Ermengarda viene ripudiata, viene esiliata nel convento di Brescia e lì muore (eroina romantica). Adelchi muore in battaglia convinto di combattere una guerra giusta. Ci sono 2 cori: Dagli atrii muscosi e La morte di Ermengarda.

Dagli atrii muscosi

I Franchi incalzano sui Longobardi; i Franchi vengono descritti come cani disciolti e i Longobardi come belve dalle fulve criniere. Gli italiani per tutto il coro non vengono mai nominati, un volgo disperso che nome non ha. I Longobardi stanno scappando e gli italiani sentono la guerra e hanno speranza nella fine della loro schiavitù attraverso i Franchi; Manzoni li chiama stupidi perché cambierà solo il nome dei loro padroni. Bisogna smettere di aspettare aiuto dagli altri. C’è un climax ascendente, con verbi sempre più forti. I Franchi hanno lasciato le loro terre, i loro cari non solo per scacciare i Longobardi, ma per conquistare nuove terre, mentre il loro pensiero è sempre rivolto verso gli amati. Manzoni fa una domanda retorica agli italiani. Alla fine i Franchi divideranno i servi e le terre.

La morte di Ermengarda

Ermengarda rappresenta l’eroina romantica x antonomasia. La storia dice che muore nel convento di Brescia, Manzoni racconta che soffre e pensa di trovare conforto avvicinandosi a Dio, ma non riesce a dimenticare Carlo. Manzoni fa una similitudine tra lei e una piantina: come la piantina viene uccisa dalla vampa del sole, lei viene uccisa dal ricordo del marito; la piantina trova conforto nella rugiada del mattino, lei lo trova nella preghiera. C’è il concetto della provvida sventura (ossimoro): il dolore la porta ad avvicinarsi a Dio e muore insieme alle altre donne come lei; questa è la spiegazione di Manzoni riguardo la sofferenza dell’uomo. Ermengarda ha i capelli sciolti e gli occhi azzurri; muore guardando il cielo, circondata dal compianto delle suore che si trasforma in una preghiera per i morti. Manzoni la invita a morire serena, lei era ignara del suo destino e ripensa a quando era regina. Si ricorda di una battuta di caccia dove suo marito Carlo uccide un cinghiale, lei si preoccupava per lui. La provvida sventura l’ha rimossa dalla stirpe cattiva dei Longobardi (oppressori) e l’ha collocata tra gli oppressi. Finisce con il pensiero per il contadino, che spera nel domani una giornata serena.

I PROMESSI SPOSI

Manzoni è il padre della lingua italiana: il problema della lingua è stata affrontata da Dante (1300 De vulgari eloquentia), da Trissino e Bembo (1500 Petrarca x la poesia e Boccaccio x la prosa), dall’Accademia della Crusca (1700 Carlo Imbonati) e da Manzoni (1827 I beni parlanti fiorentini), quando sciacqua i cenci in Arno. I Promessi Sposi è un romanzo storico, cioè parte da una base storica e contiene personaggi immaginari; con questa opera Manzoni esalta la famiglia, cardine del Romanticismo. I protagonisti sono due umili del popolo e il romanzo si svolge nella Lombardia del ‘600. Renzo e Lucia sono gli oppressi, subiscono delle ingiustizie e si separano. Lucia rappresenta la grazia per l’Innominato, mentre don Abbondio e la monaca di Monza sono delle false vocazioni; fra Cristoforo libera Lucia dal suo voto con la Madonna, don Rodrigo rappresenta la figura dello spagnolo. Manzoni parla della fede, che può portare alla salvezza.

IL RUOLO DEL POETA NEL PRIMO ‘800 (BERCHET) E NEL SECONDO ‘800 (BAUDELAIRE)

Il Romanticismo in Italia si è affermato dal 1816 in poi, l’ha portato Madame de Stael: contessa ginevrina figlia del banchiere Necker, viene esiliata da Napoleone e porta il Romanticismo in Italia. Inizialmente non viene accettato perché hanno una concezione classica. Il primo poeta romantico è il milanese Giovanni Berchet, che rivolge la sua poesia al popolo; x lui il romanticismo è fantasia e sentimento. L’arte non può essere percepita per due motivi: i Parigini (aristocratici), pieni di stimoli e incapaci di recepire correttamente la poesia; gli Ottentotti (contadini), senza nessuno gusto per l’arte e con sole esigenze materiali. Rimane il popolo, costituito da individui intellettualmente ed emotivamente sani (borghesia). La letteratura classicista x loro è inadeguata, hanno bisogno di riferimenti moderni. I nuovi autori sono Goethe, Schiller, Buerger, Schlegel e Madame de Stael; gli autori italiani sono Vico e Beccaria (italiani e tedeschi perché sono gli unici stati senza l’indipendenza). Il manifesto di Berchet si basa sulle esigenze della borghesia lombarda e vuole: il riconoscimento della letteratura romantica come moderna; la concezione della poesia come sentimento, fantasia e cuore; il poeta si deve rivolgere al popolo. La poesia di Berchet diventa uno strumento politico per scacciare gli stranieri dall’Italia.

Negli anni 1860-70 (Piemontesizzazione) si afferma la conclusione e la crisi del Risorgimento, nasce il movimento letterario la Scapigliatura, a Milano e a Torino. La Scapigliatura milanese è un fenomeno di costume (segna il cambiamento di un’epoca) contro il Risorgimento e il Romanticismo; gli scapigliati sono intellettuali, artisti, musicisti e poeti. Sono giovani borghesi che avvertono il cambiamento dei tempi e si rendono conto dell’errore politico del Risorgimento, affermano la loro intolleranza nei confronti dei modelli borghesi. Vivono x l’arte, si danno all’alcool e alle droghe (assenzio e etere), vivono fuori dalle regole, non esaltano la fede e parlano del Demonio e dei vampiri; denigrazione dei valori romantici: patria e famiglia non ci sono più, Dio è morto. I poeti romantici vengono contestati, le donne sono perfide e orribili, ma affascinanti e utilizzano il sesso. Il padre del movimento è il francese Charles Baudelaire, nato da una famiglia ricca, il padre muore giovane e gli lascia il patrimonio, la madre si risposa con un generale, che lo cresce. Baudelaire si reca in India per viaggiare e vive sensazioni nuove, torna in Francia segnato dalla ribellione; viene interdetto dalla madre e vive ai margini della società (vita zingara = boémien). Scrive I Fiori del Male, che viene considerato un libro atroce perché evidenzia aspetti della vita mai trattati in poesia. Lui è convinto di essere un Darcine (diverso, emarginato); si paragona ad un Albatro, un uccello marino. Baudelaire racconta di avere perso l’aureola dopo essere uscito da un bordello; gli cade nel fango e lui la lascia lì, dicendo che qualcun altro la prenderà.

I testi di Baudelaire rappresentano la trasformazione radicale della figura del poeta nella seconda metà dell’800, che perde l’aureola (desacralizzazione). È un avulso, un asociale, non ha un ruolo nella società del tempo; quando il poeta scrive è il padrone del mondo, mentre quando è fra gli uomini è incompreso e deriso. Nel mondo moderno non c’è tempo e posto per la poesia, quindi il poeta rimane emarginato; la vita di questi scrittori non ha scopo, è banale. Il poeta è un veggente laico, cioè percepiscono cosa gli altri non riescono.

I fiori del male raccoglie più di cento liriche scritte a partire dagli anni Quaranta. Con il titolo allude alla bellezza che solo l’arte può realizzare tramite i fiori mentre la parola male da un senso di degrado e volgarità della società.

L’ALBATRO

La lirica è composta da due parti. Nella prima parte viene presentato l’albatro catturato dai marinai e ridotto a una goffa incapacità di ribellione. Nella seconda parte dice che come l’uccello marino, anche il poeta è capace di volare in alto, con la mente e con la fantasia, e di sovrastare gli altri uomini, ma è al tempo stesso un essere solitario e indifeso quando si trova fuori dal suo ambiente. Proprio le qualità che lo rendono superiore agli altri, gli sono d’impaccio nelle banalità dell’esistenza quotidiana.

SPLEEN

Ne scrive quattro. Lo spleen rappresenta la noia, il vuoto, il male di vivere. Nell’ultima il poeta paragona la terra ad una prigione. Il cielo è come un coperchio, la terra un’umida cella, nella quale la pioggia rappresentano le sbarre. La speranza è rappresentata da un cieco pipistrello impazzito. Anche il suono delle campane è un orribile frastuono, un urlo feroce di fantasmi. Secondo il poeta la speranza è stata vinta e l’angoscia pianta sul cranio del poeta la sua bandiera vittoriosa. Il ragno è il simbolo del delirio.

CORRISPONDENZE

È il manifesto della poesia simbolista. La natura è vista come un luogo sacro e misterioso che rivela messaggi poco chiari all’uomo. È piena di simboli. I sensi sono portati all’esasperazione. In questa poesia sono riassunte le teorie dell’autore riguardo alla sua concezione della realtà, dell’immaginazione e della figura del poeta come essere eccezionale.

Altri manifesti: 1816 Barchet: lettera semiseria al figlio crisostoro; 1822 Manzoni: lettera a Chaviet.

IL VAMPIRO

È una poesia d’amore dedicata all’attrice mulatta Jeanne Duval con la quale l’autore ebbe una lunga relazione a partire dal 1842. Il sentimento per Duval appare trasformato in un’esperienza dolorosa e di schiavitù. La donna, dopo aver vestito per secoli i panni dell’essere angelico in grado di elevare l’amante verso sfere celesti, si rivela un demonio che affonda in abissi di abiezioni sottraendogli ogni volontà e forza di agire. Non ha il coraggio di uccidersi perché lei lo resusciterebbe.

La scapigliatura si diffuse tra il 1860 e il 1890. Questo termine indica uno stile di vita anticonformista. I poeti scapigliati vivevano una vita disordinata, dedita all’alcol e all’assenzio. La scapigliatura espresse la crisi della cultura romantica risorgimentale. Tra gli esponenti maggiori della scapigliatura troviamo:

  • Emilio Praga (1839-1875), pittore e poeta milanese morto giovane in miseria e distrutto dall’alcol. Nacque a Gorla da ricca famiglia di industriali. Fece numerosi viaggi. Alla morte del padre iniziarono i suoi problemi economici. Cercò di risolverli abusando di alcol e droghe. Nella poesia Preludio, considerata una sorta di manifesto della scapigliatura, sono contenuti il rifiuto della tradizione, della noia, e l’interesse per la realtà desolata della vita moderna.

  • Igino Ugo Tarchetti (1839-1869), romanziere e poeta piemontese, anticonformista e solitario. Nacque nel 1839 a San Salvatore Monferrato. Fu tormentato dalla povertà e dalla tubercolosi. La sua opera più importante è Fosca, rimasto incompiuto e portato a termine dall’amico Farina.

  • Arrigo Boito (1842-1918), musicista e poeta veneto. La sua produzione in versi è caratterizzata da un umorismo macabro e grottesco.

  • Camerana, poeta piemontese colto e raffinato, morto suicida. Dossi, poeta e prosatore lombardo.

PRELUDIO (Praga)

È il manifesto della poesia scapigliata. Venne pubblicata all’inizio della raccolta Penombre e ha la funzione di introduzione di essa. Praga presenta se stesso come parte di un gruppo (gli scapigliati), ma anche come rappresentante di un’intera generazione che si trova a vivere in una società in via di mutamento. Esordisce dicendo che siamo figli di padri ammalati. Fa un riferimento biblico. Riferendosi a Manzoni, gli dice di morire. Canta la noia, il malessere, i peccati capitali, le ebrezze dei bagni turchi. Canta la realtà.

LEZIONI DI ANATOMIA(Boito)

Durante questa lezione di anatomia, vi è un cadavere d una donna giovane e bella, che viene sezionato. Il poeta respinge la profanazione apportata dalla scienza sull’anima di quella fanciulla che è morta durante i sogni di adolescenza. Ma la scienza ha ragione. Si trova un feto. Quindi la donna non è più dolce e purissima come nella fantasia del poeta.

FOSCA(Tarchetti)

A cinque anni di distanza, Giorgio, militare di carriera, decide di affidare alla carta le memorie di un periodo particolarmente doloroso della sua vita, caratterizzato dall'amore per due donne dai caratteri antitetici: Clara e Fosca. I ricordi iniziano quando il giovane militare, in congedo per malattia, decide di abbandonare il suo odiato villaggio natio per recarsi a Milano, a far visita a un amico. Qui Giorgio incontra Clara, una giovane donna ricca di bellezza e virtù con la quale intrattiene una tenera relazione amorosa (Clara è però sposata con un impiegato di un'amministrazione governativa). L'idillio dura solo due mesi, quando Giorgio viene promosso capitano e destinato ad un nuovo incarico. Di stanza in un piccolo villaggio, Giorgio è spesso ospite nella casa del colonnello, comandante della guarnigione. È proprio in questa casa che il giovane fa conoscenza con la cugina del colonnello, Fosca, descritta dal proprio medico come «la malattia personificata, l'isterismo fatto donna, un miracolo vivente del sistema nervoso». Fosca è una donna di rara bruttezza affetta da una grave malattia, ma allo stesso tempo dotata di un'acuta sensibilità e di una raffinata cultura: Giorgio presto inizia a subirne l'oscuro fascino, tanto da non riuscire ad evitarla e da essere costretto ad instaurare con la donna un morboso legame sentimentale. Da questa relazione Fosca sembra trarre nuovo vigore e quasi guarire dalla sua malattia, a scapito però di Giorgio, che si sente deperire e avvicinare alla morte. Con la complicità del medico, il giovane riesce a ottenere un trasferimento provvisorio a Milano, che in seguito dovrà diventare definitivo. Tuttavia, negli ultimi giorni di soggiorno in casa del colonnello succede l'irreparabile: Fosca, alla fine del romanzo, muore logorata dalla malattia in seguito ad una morbosa nottata trascorsa con l'amato, mentre Giorgio, sfidato a duello dal colonnello, è colto da un malore e si rende conto di essere vittima della stessa malattia della donna. (rapporto uomo donna, repulsione e attrazione)

MEMENTO(Tarchetti)

Nel baciare il labbro profumato della fanciulla, non può fare a meno che pensare al bianco cranio che vi è sotto. La stessa cosa gli succede quando la abbraccia, pensa allo scheletro. Ovunque tocca pensa alle fredda ossa di un morto.

Dal 1870 al 1900 si manifesta una nuova cultura, il positivismo. Il positivismo considera l’arte come una rinnovata esigenza di realismo. L’intellettuale dà voce alle problematiche sociali e politiche (nasce la figura dello scienziato e del professionista). I valori del positivismo sono il progresso, la ragione e la laicità, che sono a base della scienza e della tecnica. Il metodo scientifico e sperimentale viene applicato alla società e all’uomo tramite la sociologia, psicanalisi e teoria dell’evoluzione. La poesia non c’è più. Gli scrittori scrivono in prosa e parlano della realtà, dei problemi. Lo scrittore diventa quindi uno scienziato, è assente o esterno e narra in maniera oggettiva. Il modo di scrivere è sperimentale. C’è un’attenta descrizione del contesto e della situazione. Si limita a descrivere come se fosse una fotografia. In Francia prende il nome di naturalismo (Zolà, Moupassant, Flaubert). In Inghilterra Realismo. In Russia populismo (Dostoyeski, Tolstoi). In Italia verismo (Verga).

Naturalismo

Emile Zolà nacque a Parigi nel 1840 e alla morte del padre dovette cominciare a lavorare. Si dedicò al giornalismo ed emerse la sua vocazione letteraria. Descrive i problemi della piccola borghesia come utilizzando una macchina fotografica, la condizione dell’uomo del suo tempo. Celebre l’intervento politico di Zola in difesa dell’ufficiale ebreo Dreyfus, accusato ingiustamente di spionaggio, in realtà perseguitato per antisemitismo. L’articolo J’accuse! Costò a Zolà un anno di prigione e un breve esilio in Inghilterra. Zolà esposte le sue teorie nel saggio Il romanzo sperimentale. Zolà morì nel 1902 in circostanze non chiare, forse asfissiato dalle esalazioni di una stufa.

ASSOMMOIR

Il nome assommoir (ammazzatoio) deriva dal nome della taverna dove si recano gli uomini che cercano di annegare le loro sventure nell’alcol. Gervasia, uno dei personaggi della famiglia Macquart, è stata per lunghi anni l’amante del cappellaio Lantier, da cui ha avuto due figli: Claudio e Stefano (Germinal). Essi si trasferiscono a Parigi, nella speranza di guadagnare qualcosa. Gervasia lavora come lavandaia e stiratrice, mentre il suo compagno Lantier, sfaticato e libertino, finisce per lasciarla. Gervasia continua a sacrificarsi per amore dei figli, poi incontra l’operaio Coupeau e si lascia convincere a sposarlo. Coupeau si ferisce gravemente cadendo da un tetto e Gervasia lo cura, dando fondo a tutti i suoi risparmi, ma poi anche Coupeau diventa pigro e indolente e si abbandona al vizio dell’alcol. Goujet, un operaio segretamente innamorato di lei, cerca di aiutarla, ma Gervasia lo respinge. Dietro l’esempio del marito, per dimenticare la miseria condizione in cui vive, anche Gervasia comincia a bere e finisce per prostituirsi. Coupeau muore all’ospizio, seguito, dopo poco tempo, da Gervasia, che viene trovata morta di fame e di stenti in un sottoscala.

Nanà, la ragazza di tutti, viene dal basso e cerca il rispetto nella società parigina; figlia di Gervasia e Copeau, riscuote successo a teatro, ma non sa cantare e recitare (è bella). Poi si dedica a rubare il patrimonio dei suoi amanti, non sa amare, neanche il figlio Luigino; fa marcire tutto quello che tocca. Sfigurata dal vaiolo, muore in una camera d’albergo mentre nasce lo sciovinismo dei parigini per la guerra dichiarata alla Prussia.

Protagonista del Germinal è Etienne Lantier (Stefano), licenziato dal lavoro di macchinista per aver malmenato il capo, a causa dell’alcol. Va in una miniera di carbone del Nord e inizia a fare il minatore; incita gli altri a fare sciopero, ma poi vengono sconfitti e soppressi. Il romanzo termina con Etienne che parte e spera che un giorno i lavoratori si potranno liberare dalla oppressione. Il nome Germinale indica un mese del calendario parigino rivoluzionario (1792); il popolo che adesso si trova in basso un giorno rinascerà.

IL ROMANZO SPERIMENTALE

È considerato il manifesto del Naturalismo. In esso l’autore sostiene che il romanzo deve far proprio il metodo sperimentale delle scienze, per applicarlo alla conoscenza della vita passionale e intellettuale dell’uomo. Il poeta deve essere come lo scienziato, deve osservare e sperimentare; l’arte è la riproduzione oggettiva della realtà.

Guy de Maupassant (1850-1893) nacque in Normandia, da una famiglia della piccola nobiltà provinciale. Alla separazione dei genitori rimase con la madre, donna colta e amica di Flaubert, che incoraggiò le inclinazioni letterali del figlio. Scrisse numerose opere tra cui Bel-ami. Tentò il suicidio, ma fallì e venne ricoverato in clinica psichiatrica, dove morì nel 1893.

BEL AMI

È un romanzo realista di Maupassant pubblicato nel 1885; racconta l’ascesa sociale di Georges Duroy, ambizioso e seduttore, che da povero militare in congedo e impiegato nelle ferrovie diventa un uomo di successo della società parigina, grazie al giornalismo e alla sua capacità di manipolare le donne potenti. L’amico Forestier gli offre il lavoro di giornalista; intanto conosce sua moglie Madaleine e la signora de Marelle. Quando Forestier muore, Duroy sposa la moglie, pur avendo un rapporto segreto con la signore de Marelle, che lo chiama bel ami. Madaleine ritiene il matrimonio un contratto (sgretolamento della famiglia). Il modo di scrivere di Duroy è simile a quello di Forestier (è la moglie che scriveva). Dopo che divorzia da Madaleine, si risposa con una ragazza Suzanne, ma continua a pensare alla prima amante.

Gustave Flaubert nacque a Rouen, in Francia, nel 1821 da padre chirurgo e madre nobile. Nel 1843 iniziò a scrivere l’Educazione sentimentale. In seguito a una malattia si ritirò nella casa di campagna dove rimase per il resto della sua vita. Morì nel 1880. Scrisse: Tentazione di Sant’Antonio, Madame Bovary e altre opere.

MADAME BOVARY

È la storia di una giovane donna, Emma Rouault, figlia di un piccolo proprietario terriero che, dopo l’educazione in collegio, si fidanza con Carlo Bovary, sognando una vita romantica e avventurosa. Dopo il matrimonio, invece, la sua esistenza si rivela piatta e monotona: il marito le appare un uomo meschino, privo di ambizioni, il paese in cui vivono gretto e soffocante, i suoi abitanti volgari e pettegoli. L’unica evasione dalla vita quotidiana è rappresentata per Emma dalla lettura di romanzi sentimentali che finiscono per spingerla, in maniera ossessiva, a cercare a tutti i costi di vivere in prima persona quelle intense passioni amorose che legge nei libri, confondendo la realtà con il sogno di un amore romantico. Dopo il corteggiamento di Leon, un giovane notaio, Emma cede alla seduzione di Rodolfo Boulanger, un signorotto di campagna, in cerca di una facile avventura, che dopo poco l’abbandona. Emma, molto provata, cerca di riscattarsi riallacciando una relazione con Leon, ma anche quest’ultimo si allontanerà ben presto da lei. Madame Bovary, ormai delusa dai suoi amanti e sconvolta da una situazione economica disastrosa, decide di suicidarsi ingerendo del veleno per topi.

Verismo

Giovanni Verga nacque nel 1840 a Catania da una famiglia di proprietari terrieri di origine nobiliare e di tradizioni liberali; riceve una formazione storico-romantica. Si iscrisse alla facoltà di legge, ma presto abbandonò gli studi, preso dalle vicende legate all’unificazione d’Italia. Si trasferisce prima a Firenze e scrive ai familiari che Firenze è il centro della vita politica e intellettuale d’Italia, poi a Milano, dove legge Maupassant, Flaubert e Zolà. Nel 1874 scrive Nedda (bozzetto siciliano), poi pubblica Rosso Malpelo e Fantasticheria. Scrisse: “Storia di una capinera”, “Nedda”, “Rosso Malpelo” e “Vita dei campi”. Nel ciclo dei vinti e le Rusticane scrisse “I Malavoglia”, “Mastro-don Gesualdo”, e “Novelle Rusticane”, tra cui “Libertà”.

ROSSO MALPELO

Rosso Malpelo è il protagonista, è un bambino cresciuto senza affetto: la madre non si fida di lui e la sorella lo picchia; il padre Mastro Misciu era l’unica persona che gli voleva bene, ma muore in miniera mentre lavora con Malpelo. È considerato cattivo perché ha i capelli rossi (simbolo della diversità). C’è il concetto dello straniamento: ciò che è diverso è considerato strano. Lavora nella stessa cava di rena rossa del padre, dove viene maltrattato; conosce Ranocchio, un bambino malato e zoppo e a sua volta lo maltratta. Malpelo lo picchia perché vuole farlo crescere, ma in realtà è bravo. Maltratta anche l’asino perché sostiene che se lui potesse picchiare, pesterebbe Malpelo e Ranocchio. Un giorno, mentre lo picchia, Ranocchio sputa sangue e Malpelo è preoccupato per lui. Gli regala i pantaloni del padre, che era la cosa che teneva di più al mondo. Alla morte di Ranocchio, Malpelo rimane solo. La madre e la sorella si allontanano da lui. Secondo il concetto di ereditarietà, Malpelo non può riscattarsi dal suo destino, infatti si perderà nella cava e morirà come il padre.

FANTASTICHERIA

È l’introduzione dei Malavoglia; è una lunga lettera indirizzata a un’amica di Verga con la quale aveva trascorso due giorni ad Aci Trezza e non colse la bellezza del posto, paese dove si ambienta I Malavoglia. Parla della monotonia della vita sociale, Verga spiega il punto di vista della gente povera che vi abita, dove è impossibile sopravvivere senza i compaesani (società delle formiche). È forte il contrasto tra il mondo borghese e quello degli umili, c’è una visione pessimistica della condizione umana: impossibilità di riscatto dalla miseria. Presenta i personaggi che incontra e sono: la Longa (donna che chiedeva l’elemosina, vendendo le arance), padre N’Toni (vecchietto al timone della barca che morirà in ospedale tra dei lenzuoli bianchi mentre masticherà del pane), Lia (creatura fragile e impulsiva che abbandonerà la casa e sarà destinata alla perdizione), N’Toni (incarcerato nell’isola di Pantelleria per contrabbando), Luca (morto sulla corrazzata Re d’Italia, affondata a Lissa) e Bastianazzo (muore in mare durante una violenta tempesta). Verga sostiene che gli uomini sono come le dita della mano, ovvero si devono aiutare ed il dito grosso deve fare da dito grosso e il dito piccolo deve fare da dito piccolo. È descritto l’ideale dell’ostrica, ovvero come l’ostrica può vivere finché rimane abbarbicata allo scoglio, così coloro che restano legati alle tradizioni patriarcali e alla religione della famiglia non si perdono.

I MALAVOGLIA

È il romanzo più conosciuto di Verga; è stato pubblicato nel 1881 e narra la storia di una famiglia di pescatori che lavora ad Aci Trezza, un paese vicino a Catania, e possiede una casa (la casa del nespolo) e una barca (la Provvidenza). La famiglia Toscano è chiamata Malavoglia; padron ‘Ntoni vive col figlio Bastiano (Bastianazzo), sposato con Maruzza (la Longa perché di piccola statura). Bastianazzo ha cinque figli: N’Toni, Luca, Mena, Alessi e Lia ‘Ntoni parte per il servizio militare. Padron N’Toni per affrontare le difficoltà compra a credito dall’usuraio zio Crocefisso un carico di lupini, per rivenderli a un paese vicino. Ma una tempesta fa naufragare la barca e muore Bastianazzo perdendo il carico di lupini. C’è un declino della famiglia e la casa viene pignorata per pagare il debito. Luca muore nella battaglia di Lissa. In questa morte c’è un disprezzo nei confronti dello stato che non avvisa la famiglia della morte del loro caro, ma, anzi, quando Maruzza chiese le condizioni di suo figlio ad un impiegato dello stato, questo le disse che era morto da quaranta giorni, domandandole se non lo sapesse già. Maruzza muore di colera. Dopo la morte della Longa, ‘Ntoni vende la barca Provvidenza e al suo ritorno, si da al contrabbando e finisce in prigione. Nel frattempo Lia abbandona il paese e si dà alla prostituzione. Alla fine si ricompone la famiglia con Alessi e ‘Ntoni parte per sempre, lasciandosi indietro il passato.

LA ROBA

La roba è simbolo di benessere economico, non di denaro ma di pascoli, terre, fattorie, animali, ecc. Mazzarò con sacrificio, abnegazione è riuscito ad accumularne tantissima e quando sente che è arrivata la sua ora, il suo egoismo lo spinge a distruggerla per portarsela con sé. Mazzarò è un uomo gretto, avaro e meschino. È la preparazione di Mastro-don Gesualdo. I temi principali sono l’illusione di ricchezza e la sconfitta esistenziale del personaggio. Per Mazzarò tutto si tramuta in denaro, anche la morte della madre (12 tari). Uomo senza pace e senza gloria.

MASTRO-DON GESUALDO

Gesualdo Motta è un arrampicatore sociale, cioè sfrutta le debolezze altrui per farsi notare nella società. Era un muratore e si era fatto un buon patrimonio. Aveva il rispetto degli altri. Diventa prima imprenditore, poi si sposa con una nobildonna per entrare a far parte della nobiltà. Abbandona così la compagna della sua vita. Inizia così l’isolamento, disprezzato da coloro che non hanno avuto lo stesso successo e dai nobili. Bianca (la moglie) era incinta (forse di suo cugino Ninì Rubiera) e alla nascita della figlia, muore. Mastro-don Gesualdo cresce la figlia, ma verrà disprezzato anche da questa. L’unica cosa che gli rimane è la roba. È vinto perché non viene accettato né dai nobili né dalla sua ex famiglia. Tenta di distruggere la roba (compagna della sua solitudine). Sul punto di morte chiede alla figlia (infelice del matrimonio da lui imposto) di dare qualcosa verso delle persone cui aveva degli obblighi.

LIBERTA’

Questa novella fu pubblicata nel 1882 fra le Novelle Rusticane. Essa prende spunto da un episodio realmente accaduto: una violenta rivolta contadina a Bronte (Catania), nell’agosto 1860, scoppiata alla notizia delle vittorie di Garibaldi che veniva a portare in Sicilia la libertà e che da Palermo, suo quartiere generale, aveva decretato la spartizione dei terreni di proprietà comunale. Nella prima parte della novella vengono rappresentate le numerose uccisioni per le strade, mentre nella seconda racconta la notte dopo la strage, di come coloro che parteciparono alla sommossa hanno incominciato a pentirsi. Nella terza parte Nino Bixio, inviato da Garibaldi per sedare la rivolta, la trovò già placata, ma attuò ugualmente una durissima repressione. Uccise qualche uomo e ne fece condannare altri. Questa novella termina con la figura del carbonaio che non capisce il senso della sua condanna (non ci avevano promesso la libertà?).

Populismo

Il populismo è il positivismo russo ed è un movimento storico, letterario e politico (con Lenin e Kulisciof); per i russi i populisti sono poeti vati che raccontano la loro situazione. I comunisti si dividevano in Menscevichi (moderati) e Bolscevichi (razionali).

Doltoyesky nasce a Mosca nel 1821, padre medico, appartengono alla alta borghesia. La madre muore e il padre si abbandona all’alcol. Si laureerà e abbraccia le teorie social-comuniste. Per questo verrà condannato a morte. Prima di morire gli viene scontata la pena a 4 anni di lavori forzati in Siberia. Scrive le sue memorie e Delitto e Castigo e altri (Un’idiota, il Giocatore).

DELITTO E CASTIGO

Raskòl'nikov (cui la sorella era disposta a sposare un uomo spregevole per salvare la famiglia dalla miseria) è un giovane studente ossessionato dall'idea della libertà assoluta, cui ha diritto, secondo lui, l'uomo superiore, al quale tutto è lecito. Si convince così che per uscire dalla miseria in cui vive è giusto uccidere l'usuraia Aljona, essere inferiore, che sfrutta la disperazione altrui e la cui esistenza è del tutto inutile. Riesce a realizzare il suo piano criminale, ma è costretto ad uccidere anche la mite Lizavèta (l’uccisione di questa fa riflettere Raskòl'nikov), sorella della vittima. Presto l'esaltazione (superuomo) cede all'angoscia e il tormento spirituale non gli permette di essere libero come pensava. Comincia a frequentare i più miserabili ambienti di Pietroburgo. Incontra l'ubriacone Marmeladov e sua figlia Sonja, una creatura pura nonostante sia costretta a prostituirsi per sostenere la famiglia. Di fronte alla morale evangelica del sacrificio e alla legge dell'amore che Sonja gli propone, crolla definitivamente la fede che Raskòl'nikov nutriva in se stesso. Con lei trova il coraggio di confessarsi e di costituirsi. In Siberia dove Sonja gli resta accanto, Raskòl'nikov comprende che solo attraverso il castigo e la sofferenza riuscirà a liberarsi del senso di colpa e a trovare quella libertà tanto cercata, raggiungibile solo attraverso l'amore e la disponibilità verso il prossimo.

Lev Tolstoj nasce nel 1828, figlio di un principe. Ha un forte senso della religione: incide sulla sua vita. Avrà 13 figli ma morirà da solo. Tolstoj è il primo fondatore di una scuola attiva. Voleva che i contadini si istruissero. Fece una scuola senza regole, assoluta libertà. Fu un fallimento. Tolstoj fu un pedagogo. Alla morte voleva dare i suoi soldi ai contadini. Scrive:

  • Guerra e pace: parla dell’invasione napoleonica in Russia. Rappresenta la fine di un’epoca ed emerge la figura del principe. È un romanzo di formazione. Il nobile capisce cos’è la fame; Pierre è Tolstoj. Si distinguono il principe Andrej Bolkonskij, il conte Pierre Bezuchov, suo amico, e Natasa Rostov, ciascuno in cerca di una risposta alla sua inquietudine esistenziale. Andreij si arruola e combatte ad Austerlitz. Quando torna e la moglie muore dandogli un figlio, sente finita la propria vita. L'amore per Natascia, allegra e dolcissima, riaccende in lui l'entusiasmo e la voglia di vivere, ma Natascia si lascia sedurre dal fascino di Anatolij Kuragin e rompe il fidanzamento. Ritrova Andreij mortalmente ferito a Borodino e lo assiste con amore mentre lo trasportano durante la ritirata che precede l'incendio di Mosca. In punto di morte Andreij trova la serenità a lungo cercata nella fede cristiana, perdona Anatolij, che ferito ha subito l'amputazione di una gamba, e così interiormente pacificato muore. Pierre, corteggiato per la sua ricchezza dalle fanciulle del bel mondo, ha sposato la bella e infedele Elena, sorella di Anatolij, che morirà misteriosamente. Il matrimonio è infelice e Pierre è anche costretto a battersi in duello col rivale Dolochov. Quando, all'arrivo dei Francesi, Mosca viene data alle fiamme dagli abitanti pur di non consegnarla al nemico, Pierre s'illude di risolvere la situazione da solo e medita di uccidere Napoleone. Finisce in carcere, dove incontra un misero contadino Platonov Karataev che gli fa capire che tutti siamo fratelli e che la legge più importante è quella del perdono. Karataev muore, mentre Pierre viene salvato dai partigiani russi e portato a Mosca. Incontra Natascia che egli aveva sempre amato e che ora accetta di sposarlo. Maria Bolkconsky sposa il fratello di Natascia, Nikolaj Rostov.

  • Resurrezione: un principe che fa il giudice di un caso (una donna stuprata). Lui riconosce in lei una cameriera che aveva sedotto. Durante il viaggio in Siberia si redime.

  • Anna Karenina: storia d’amore, Anna (giovane, bella, moglie esemplare e madre perfetta) sposata con un funzionario, si innamora di un conte. Prima è un amore segreto, poi quando rimane incinta vanno a vivere a Venezia. Si convince che il conte non l’ama più e torna in Russia. Lo scandalo è di dominio pubblico. Il marito la rinnega e non le permette di rivedere i figli e lei si butta sotto un treno. Il conte, incapace di trovare un senso alla vita senza Anna, andrà a morire nella battaglia di Crimea. Si uccide per vergogna quando l’amore finisce. Mentre Madame Bovary fece tutto per noia e si uccise per debiti, Anna Karenina ama il conte, ma quando la passione finisce chiede perdono a Dio e si uccide per vergogna. (Nel film Greta Garbo  prima Anna). Anna decide di uccidersi in una stazione perché li incontra Vronskis e le dichiara il suo amore.

Zola, Flaubert e Maupassant fecero un romanzo di costume (analizza la storia della città).

il Verga fece un romanzo simili a quello francese, ma con valori diversi (famiglia).

Tolstoj e Doltoyesky fecero un romanzo di costume con indagine psicologica.

 

Fonte: http://pitonsblack.altervista.org/s/italiano.doc

Sito web da visitare: http://pitonsblack.altervista.org

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