Livio traduzione da latino in italiano

 


 

Livio traduzione da latino in italiano

 

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Livio traduzione da latino in italiano

 

Tito Livio  (Padova, 59 a. C. - 17 d. C)

Vita.La vicenda biografica di Livio si situa nella fase acuta della crisi che porta al cambiamento politico ed istituzionale: la lunga fase delle guerre civili, il secondo triumvirato e l'ascesa di Augusto. Eppure lo storico non partecipò alla vita pubblica: i suoi interessi si rivolsero dapprima alla filosofia, ma ben presto (27-25 a.C.) si concentrarono interamente sulla sua opera storica. Seppure non si abbiano notizie sulla condizione della sua famiglia, tuttavia dalla vita che condusse, priva di preoccupazioni materiali, si può dedurre che fosse di condizione agiata. Padova, la sua città natale, era nota per l’austerità dei costumi e per le sue tendenze conservatrici. Asinio Pollione gli rimproverava la sua “patavinitas” sia per l’uso di termini dialettali sia soprattutto per il suo spirito conservatore. Egli rimase sempre legato agli ideali della antica repubblica: lodava Bruto e Cassio e si chiedeva se quella di Cesare fosse vera gloria. Nonostante le sue idee repubblicane (Augusto lo definiva scherzosamente “pompeiano”) a Roma si guadagnò notevole prestigio, divenendo amico di Augusto e poi precettore di Claudio. Ma, nonostante i contatti con la corte augustea, egli rimase sempre legato alla antica res publica: pur ammirando il principe per l’abilità con la quale aveva instaurato una nuova epoca di pace, per il fatto di aver attuato una restaurazione morale e religiosa in tutto l’impero e soprattutto per aver dissipato i timori di leggi popolari di riforma che avrebbero minacciato le proprietà delle classi abbienti, tuttavia il suo atteggiamento nostalgico repubblicano non gli permise mai di accettare un regnum inteso come potere assoluto di un solo individuo al di sopra delle magistrature e degli organi costituzionali.  Mentre in un primo tempo si era lasciato influenzare dai propositi di Augusto di restaurare la res publica (gli unici accenni elogiativi di Augusto si trovano nei primi libri della sua opera storica), ben presto prese coscienza dell’inconciliabilità tra libertà e principato e della impossibilità di ricreare l’assetto costituzionale di un tempo.

L’Opera:L’opera per la quale è famoso (a parte la composizione di alcuni dialoghi filosofici di cui nulla ci è pervenuto) è la composizione della monumentale Storia di Roma in 142 libri intitolata secondo la tradizione manoscritta Ab Urbe condita libri ma dallo stesso autore chiamata "Annales" che prendeva le mosse dalla fondazione di Roma fino al 9 a.C. La scelta di Livio di abbandonare lo schema monografico (inaugurato da Sallustio) per riprendere quello annalistico (cfr. gli Annales di Ennio) prova il suo profondo attaccamento e rispetto per la gloria del passato di Roma e per le sue tradizioni.

Il lavoro venne successivamente diviso per decadi (ovvero, per gruppi di 10: tale scansione forse rispettava le fasi di pubblicazione), delle quali sono a noi pervenute:

la I (dalla venuta di Enea alla III guerra sannitica, 293 a.C.);

la III (sulla II guerra punica, 218-200 a.C.);

la IV (fino alla morte di Filippo il Macedone, 179 a.C.);

la prima metà della V (fino al trionfo di Paolo Emilio sulla Macedonia, 167 a.C.).

A tutta l'opera fu poi premessa una "praefatio" generale, che ne illustra le idee ed i caratteri fondamentali.

Il contenuto dei libri perduti è, infine, noto attraverso brevi estratti ("epitomae") e riassunti (le "Perìochae") e commenti (fra cui quello di Floro), che all'opera stessa ben presto seguirono.

Considerazioni.La narrazione di Livio, non priva di difetti e di errori dal punto di vista storiografico, si segnala per il vivo senso drammatico e per il colorito poetico ed il piacere della lettura pare davvero essere l'obiettivo primario: preoccupazione, persino passione della verità, ma anche desiderio di comporre opere in grado di competere, in quanto a bellezza e perfezione, con i prodotti della poesia e dell'arte.

L’opera, tesa a glorificare la "virtus" romana e l’ideale della "pax augusta", attraverso il punto di vista di un nostalgico degli ideali repubblicani (solo il grande passato di Roma indica per lui la via a chi intendesse rinnovare i fasti dell’Urbe), si presenta più che come un’opera storica in senso stretto, come un grande poema epico in prosa, a sfondo morale in quanto concede largo spazio agli elementi appunto epici, come l’eroismo, la volontà degli dei, la missione di Roma, a scapito, spesso, dell’esame puntuale dei fatti. Egli riporta fatti storici reali e comprovati accanto ad antiche leggende e racconti di prodigi: anche le leggende fanno parte della storia di un popolo e lui non se la sente di dare giudizi critici su di esse anche quando la ragione lo porterebbe a dubitare della veridicità di interventi soprannaturali e di fatti miracolosi. Livio non si propone di fare un’opera critica ma di raggiungere un fine di edificazione morale, paragonando le virtù degli antichi con la decadenza attuale. Nella PRAEFATIO dell’opera egli afferma chiaramente di voler ricercare con quali virtù i Romani abbiano creato ed ingrandito l’impero e di additare le loro virtù come modello da imitare in un’epoca in cui prevalgono i vizi e la corruzione dei costumi.

Il fatto che non si proponesse di compiere un’opera di interpretazione storica, non presuppone che Livio non fosse uno storico fondamentalmente "onesto”. Ciò che dà vita all’opera di Livio è, più che una fede politica, un patriottismo profondo, un amore incondizionato per Roma. Sotto questo aspetto, egli è uno degli scrittori che più efficacemente hanno contribuito a diffondere e a far accettare, nelle province di lingua latina, un'immagine "romana" di Roma, esaltante e, per ciò stesso, unificante. Sono i grandi uomini a fare la storia, è la virtù del singolo che si distingue e guida e muta il corso degli eventi: la massa del popolo rimane sullo sfondo, emergono i grandi uomini dotati di virtù eccezionali. Ogni forma di virtù non deve essere finalizzata alla realizzazione personale ma deve essere subordinata al principio fondamentale della salus rei publicae: l’eroismo più alto consiste nel sacrificio di se stessi per il bene dello stato.

Le fonti. Livio nella sua ricerca storica non si cura di prendere visione o conoscenza delle fonti dirette o dei documenti anche di facile consultazione. Le sue fonti sono i libri degli autori precedenti, che sceglie ed elabora in base all’argomento, al periodo storico trattato o dei suoi fini patriottico-nazionalisti. La stessa scelta di comporre un’opera annalistica e di scegliere fonti diverse non solo non permette di avere una visione d’insieme dei fatti narrati, ma spesso in molti punti dell’opera si riscontrano errori, descrizioni geografiche sbagliate, anacronismi. Inoltre tende ad isolare gli eventi e spesso i fatti narrati accadono all’improvviso senza che siano spiegate le cause che hanno portato all’evento o le sue conseguenze.

Comunque, le fonti di un'opera così immensa dovettero essere necessariamente numerosissime; gli studiosi sono soliti distinguere: a) le fonti storiche latine, quali le "Origines" di Catone e le opere degli annalisti (Valerio Anziate); b) le fonti storiche greche, soprattutto le opere di Polibio; c) le fonti letterarie, quali le opere poetiche (poemi epici e "fabulae praetextae") di Nevio, di Ennio e di altri poeti, e gli scritti eruditi di Varrone Reatino; d) le fonti orali, ossia le tradizioni sia popolari che colte, a cui è da aggiungere anche qualche indagine antiquaria personale.

Il filo narrativo è spesso interrotto da discorsi, ed è difficile dire se sono un prodotto di pura fantasia o se trovano sostegno in qualche fonte documentaria più o meno fedele. Si può ipotizzare che la proporzione fra verità e invenzione varia secondo le date dei discorsi. Le opere più antiche, probabilmente, non si fondano su documenti davvero autentici, mentre è probabile che le orazioni più recenti, pronunciate da questo o quell'illustre personaggio del II o anche del III secolo a.C., fossero conservate più fedelmente. Lo stesso vale per gli avvenimenti. Il quadro dei primi secoli di Roma è più “ricostruito” ma è anche più semplice e, in una certa misura, più direttamente epico di quello riguardante la storia più vicina.

Lo stile. Nella scrittura, Livio si contrappone alla tendenza di Sallustio, avvicinandosi piuttosto allo stile di Cicerone: la "lactea ubertas" - come la definì Quintiliano - consisteva così in una prosa ampia e fluida, senza artifici e restrizioni, di limpida chiarezza ("candor"). Un periodare destinato al piacere della lettura.

Ma Livio sa conferire al proprio stile anche duttilità e varietà: dal gusto arcaicizzante della I decade (dettato dalla vetustà degli eventi) ad una sempre maggiore coloritura drammatica del racconto, se non addirittura "tragica", soprattutto nella descrizione dei personaggi (Lucrezia, Virginia, Sofonisba, Coriolano, Camillo, Fabio Massimo, Scipione…), e "impressionistica" nella presentazione degli avvenimenti, verso cui spesso Livio tradisce sentimentale e profonda partecipazione.

 

LIVIO, Ab urbe condita libri – PRAEFATIO –

Non so se valga davvero la pena raccontare fin dai primordi l'insieme della storia romana. Se anche lo sapessi, non oserei dirlo, perché mi rendo conto che si tratta di un'operazione tanto antica quanto praticata, mentre gli storici moderni o credono di poter portare qualche contributo più documentato nella narrazione dei fatti, o di poter superare la rozzezza degli antichi nel campo dello stile. Comunque vada, sarà pur sempre degno di gratitudine il fatto che io abbia provveduto, nei limiti delle mie possibilità, a perpetuare la memoria delle gesta compiute dal più grande popolo della terra. E se in mezzo a questa pletora di storici il mio nome rimarrà nell'ombra, troverò di che consolarmi nella nobiltà e nella grandezza di quanti avranno offuscato la mia fama. E poi si tratta di un'opera sterminata, perché deve ripercorrere più di settecento anni di storia che, pur prendendo le mosse da umili origini, è cresciuta a tal punto da sentirsi minacciata dalla sua stessa mole. Inoltre sono sicuro che la maggior parte dei lettori si annoierà di fronte all'esposizione delle prime origini e dei fatti immediatamente successivi, mentre sarà impaziente di arrivare a quegli avvenimenti più recenti nei quali si esauriscono da sé le forze di un popolo già da tempo in auge. Io, invece, cercherò di ottenere anche questa ricompensa al mio lavoro, cioè di distogliere lo sguardo da quegli spettacoli funesti di cui la nostra età ha continuato a essere testimone per così tanti anni, finché sarò impegnato, col pieno delle mie forze mentali, a ripercorrere quelle antiche vicende, libero da ogni forma di preoccupazione che, pur non potendo distogliere lo storico dal vero, tuttavia rischierebbe di turbarne la disposizione d'animo. Le leggende precedenti la fondazione di Roma o il progetto della sua fondazione, dato che si addicono più ai racconti fantasiosi dei poeti che alla documentazione rigorosa degli storici, non è mia intenzione né confermarle né smentirle. Sia concessa agli antichi la facoltà di nobilitare l'origine delle città mescolando l'umano col divino; e se si deve concedere a un popolo di consacrare le proprie origini e di ricondurle a un intervento degli dèi, questo vanto militare lo merita il popolo romano perché, riconnettendo a Marte più che a ogni altro la propria nascita e quella del proprio capostipite, il genere umano accetta un simile vezzo con lo stesso buon viso con cui ne sopporta l'autorità. Ma di questi aspetti e di altri della medesima natura, comunque saranno giudicati, da parte mia non ne terrò affatto conto: ciascuno, questo mi preme, li analizzi con grande attenzione e si soffermi su che tipo di vita e che abitudini ci siano state, grazie all'abilità di quali uomini, in pace e in guerra, l'impero sia stato creato e accresciuto; quindi consideri come, per un progressivo rilassamento del senso di disciplina, i costumi abbiano in un primo tempo seguito l'infiacchirsi del pensiero, poi siano decaduti sempre di più, e in séguito abbiano cominciato a franare a precipizio fino ad arrivare ai giorni nostri, nei quali tanto il vizio quanto i suoi rimedi sono intollerabili. Ciò che risulta più di ogni altra cosa utile e fecondo nello studio della storia è questo: avere sotto gli occhi esempi istruttivi d'ogni tipo contenuti nelle illustri memorie. Di lì si dovrà trarre quel che merita di essere imitato per il proprio bene e per quello dello Stato, nonché imparare a evitare ciò che è infamante tanto come progetto quanto come risultato. E poi, o mi inganna la passione per il lavoro intrapreso, o non è mai esistito uno Stato più grande, più puro, più ricco di nobili esempi, e neppure mai una civiltà nella quale siano penetrate così tardi l'avidità e la lussuria e dove la povertà e la parsimonia siano state onorate così tanto e per così tanto tempo. Perciò, meno cose c'erano, meno si desiderava: solo di recente le ricchezze hanno introdotto l'avidità, e l'abbondanza di piaceri a portata di mano ha a sua volta fatto conoscere il desiderio di perdersi e di lasciare che ogni cosa vada in rovina in un trionfo di sregolata dissolutezza. Ma, all'inizio di un'impresa di queste proporzioni, siano messe al bando le recriminazioni, destinate a non risultare gradite nemmeno quando saranno necessarie: se anche noi storici, come i poeti, avessimo l'abitudine di incominciare con buoni auspici, voti e preghiere rivolte a tutte le divinità, preferirei un attacco del genere, pregandoli di concedere grande successo alla mia impresa.

 

Fonte: http://www.istituto-santanna.it/Pages/LiceoScientifico/Materiale/Tito_Livio.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

Livio traduzione da latino in italiano

 

Livio

Ab Urbe Condita, I, 8
Latino
Rebus divinis rite perpetratis vocataque ad concilium multitudine quae coalescere in populi unius corpus nulla re praeterquam

legibus poterat, iura dedit; quae ita sancta generi hominum agresti fore ratus, si se ipse venerabilem insignibus imperii

fecisset, cum cetero habitu se augustiorem, tum maxime lictoribus duodecim sumptis fecit. Alii ab numero auium quae augurio

regnum portenderant eum secutum numerum putant. me haud paenitet eorum sententiae esse quibus et apparitores hoc genus ab

Etruscis finitimis, unde sella curulis, unde toga praetexta sumpta est, et numerum quoque ipsum ductum placet, et ita

habuisse Etruscos quod ex duodecim populis communiter creato rege singulos singuli populi lictores dederint.

Crescebat interim urbs munitionibus alia atque alia appetendo loca, cum in spem magis futurae multitudinis quam ad id quod

tum hominum erat munirent. Deinde ne uana urbis magnitudo esset, adiciendae multitudinis causa vetere consilio condentium

urbes, qui obscuram atque humilem conciendo ad se multitudinem natam e terra sibi prolem ementiebantur, locum qui nunc

saeptus descendentibus inter duos lucos est asylum aperit. Eo ex finitimis populis turba omnis sine discrimine, liber an

seruus esset, auida novarum rerum perfugit, idque primum ad coeptam magnitudinem roboris fuit. Cum iam virium haud paeniteret

consilium deinde viribus parat. Centum creat senatores, sive quia is numerus satis erat, sive quia soli centum erant qui

creari patres possent. Patres certe ab honore patriciique progenies eorum appellati.

 

 

Italiano
"Compiute secondo il rito le sacre cerimonie e radunata in assemblea la moltitudine che in nessun modo se non con le leggi

poteva unirsi a formare un solo fissò le norme del diritto pensando che queste leggi sarebbero state sacre per quelle genti

primitive solo se avesse ispirato rispetto con le insegne del comando accrebbe la sua maestà sia con l\'abbigliamento sia con

l\'assumere 12 littori. Alcuni ritengono che Romolo abbia adottato quel numero dal numero degli uccelli che con il loro

augurio gli avevano offerto il regno. Io preferisco invece essere nella sentenza di coloro secondo i quali gli apparitori di

questo genere provengono dalla vicina Etruria da cui furono importati la sella curula da cui la toga pretesta e il numero

stesso fu tratto dagli Etruschi e così gli Etruschi ritennero questo numero per il fatto che da 12 popoli insieme una volta

creato il re i singoli popoli davano un littore. Frattanto la città cresceva inglobando sempre nuovi spazi dentro le

fortificazioni, poiché costruivano mura più con la speranza di una popolazione futura che in relazione al numero effettivo

degli abitanti. Poi affinché non rimanesse vana la grandezza della città, volendo aumentare la popolazione, secondo l\'antico

metodo dei fondatori delle città, i quali con l\'attirare a se una folla umile e oscura fingevano poi che la loro discendenza

era nata dalla terra, Romolo aprì un luogo come asilo che ora per chi sale tra due boschi viene visto circondato da siepi.
La si rifugiò ogni tipo di gente, libero o schiavo che fosse, ma purché avida da realizzare qualcosa di nuovo e questo fu il

primo impulso all\'incipiente grandezza. Essendo ormai soddisfatto delle forze prepara poi la saggezza per le forze. Crea 100

senatori, sia perché questo numero era sufficiente, sia perché erano solo 100 coloro che potevano essere eletti senatori. Di

certo furono chiamati padri per la natura della carica e patrizi i loro discendenti." 

italiano
Se compirò un'opera pregevole, se riferirò la storia del popolo romano dalle origini della città, non lo so abbastanza, né se

lo sapessi oserei dirlo, poiché vedo che la storia è non solo antica ma anche diffusa, mentre gli scrittori contemporanei

credono o di offrire qualcosa di più certo nel racconto dei fatti o di superare la rozza antichità con l'arte di scrivere.

Comunque sarà, tuttavia mi gioverà avere contribuito anch'io al ricordo delle imprese del popolo più grande del mondo secondo

le mie possibilità; e se in tanta moltitudine di scrittori la mia fama dovesse rimanere oscura, io sia confortato dalla

nominanza e dalla grandezza di coloro che offuscheranno il mio nome. La storia è inoltre di immensa estensione, poiché la

storia risale ad oltre settecento anni e Roma partita da piccoli inizi crebbe a tal punto, che ormai è oppressa dalla sua

stessa mole; e non dubito che le prime origine e gli avvenimenti vicinissimi alle origini offriranno scarso diletto alla

maggior parte dei lettori, frettolosi di conoscere le vicende recenti, nelle quali le forze del potentissimo popolo già da

tempo da se stesse vanno esaurendosi. Io, invece, anche questo premio della mia fatica cercherò di ottenere, di distogliermi

dalla presenza dei mali che la nostra età er tanti anni ha visti, almeno fino a quando non rievoco con la mente tutte quelle

antiche età, libero da ogni preoccupazione che passa, anche se non distrarre l'animo dello scrittore dalla verità, renderlo

tuttavia inquieto. I fatti avvenuti prima della fondazione di Roma o prima che dovesse essere edificata, che sono tramandati

abbelliti da leggende piuttosto che fondati su documenti autentici delle vicende storiche, non ho intenzione né di

confermarli, né di contestarli. Questo si concede agli antichi, di rendere più auguste le origini della città mescolando le

cose umane con le divine; e se vi è un popolo a cui è opportuno permettere di consacrare le proprie origini e attribuirle

agli dei come promotori, il popolo romano ha tale gloria di guerra che, quando vanta a preferenza degli altri dei Marte come

suo progenitore e come padre di Romolo, le umane genti così di buon animo accettano anche questo come ne accettano il

dominio. Ma di queste e di altre cose simili a queste, comunque saranno considerate e giudicate, di certo non me ne importerà

molto: a queste cose ciascuno a modo suo rivolga intensamente per me l'attenzione, (per capire) quale vita, quali costumi ci

siano stati, per quali uomini e con quali mezza in pace e in guerra sia nato e cresciuto il potere (di Roma); quindi mentre

la moralità a poco a poco vacilla rivolga l'attenzione dapprima a come i costumi siano diventati oziosi, poi a come siano

peggiorati sempre più, quindi (a come) abbiano iniziato a precipitare, finché si è giunti a questi tempi, in cui non si

possono sopportare né i nostri vizi, né i rimedi. Questo soprattutto è quello che vi è di salutare e di utile nella

conoscenza della storia, che tu hai davanti agli occhi testimonianze di esempi di ogni genere riposte in un'illustre

tradizione; di qui puoi attingere esempi da imitare per te e per lo stato, di qui ciò che devi evitare perché turpe nei

moventi e negli effetti. Del resto o l'amore dell'opera intrapresa mi trae in inganno, o non ci fu mai nessuno stato né più

grande né più virtuoso né più ricco di buoni esempi, né ci fu alcuna città in cui l'avidità e la lussuria penetrarono tanto

tardivamente, e dove ci fu tanto a lungo onore per la povertà e la parsimonia: perciò quanto meno cose c'erano, tanto meno

c'era la cupidigia; di recente le ricchezze e i piaceri smodati hanno trascinato con sé l'avidità e il desiderio di rovinarsi

e di rovinare tutto attraverso la smodatezza e la dissipazione. Ma le lamentele, che non saranno neppure gradite quando

saranno forse necessarie, stiano lontane almeno dall'esordio di un'opera così importante; se, come i poeti, avessimo

l'abitudine, cominceremmo piacevolmente con buoni auspici, voti e preghiere per gli dei e per le dee, affinché diano a noi

che abbiamo intrapreso un'opera così grande prosperosi successi.

 

Ad Urbe Condita, II, 4
Latino
Vitelliis Aquiliisque fratribus primo commissa res est. Vitelliorum soror consuli nupta Bruto erat, iamque ex eo matrimonio

adulescentes erant liberi, Titus Tiberiusque; eos quoque in societatem consilii auunculi adsumunt. Praeterea aliquot nobiles

adulescentes conscii adsumpti, quorum uetustate memoria abiit. Interim cum in senatu uicisset sententia quae censebat

reddenda bona, eamque ipsam causam morae in urbe haberent legati quod spatium ad uehicula comparanda a consulibus sumpsissent

quibus regum asportarent res, omne id tempus cum coniuratis consultando absumunt, euincuntque instando ut litterae sibi ad

Tarquinios darentur: nam aliter qui credituros eos non uana ab legatis super rebus tantis adferri? Datae litterae ut pignus

fidei essent, manifestum facinus fecerunt. Nam cum pridie quam legati ad Tarquinios proficiscerentur cenatum forte apud

Vitellios esset, coniuratique ibi, remotis arbitris, multa inter se de nouo, ut fit, consilio egissent, sermonem eorum ex

seruis unus excepit, qui iam antea id senserat agi, sed eam occasionem, ut litterae legatis darentur quae deprehensae rem

coarguere possent, exspectabat. Postquam datas sensit, rem ad consules detulit. Consules ad deprehendendos legatos

coniuratosque profecti domo sine tumultu rem omnem oppressere; litterarum in primis habita cura ne interciderent.

Proditoribus extemplo in uincla coniectis, de legatis paululum addubitatum est; et quamquam uisi sunt commisisse ut hostium

loco essent, ius tamen gentium ualuit.

 

 

Italiano
testo
Dapprima l\'affare fu affidato ai fratelli Vitelli e Aquili. Una sorella dei Vitelli era stata sposata dal console Bruto, e

già vi erano figli giovani da quel matrimonio, Tito e Tiberio; gli zii materni prendono a parte della congiura anche essi.

Inoltre (furono) accolti alcni giovani nobili consapevoli, il ricordo dei quali è scomparso per l\'antichità. Frattanto

poichè nel Senato aveva prevalso il parere che riteneva i beni doversi restituire, e gli ambasciatori avevano come motivo di

trattenersi in città quello appunto, che cioè avevano ottenuto dai consoli un tempo a preparare i carri sui quali portassero

via i beni del Re, consumano tutto quel tempo a consultarsi con i congiurati e insistendo riescono ad ottenere che delle

lettere siano date ad essi per i Tarquini: poichè altrimenti come mai quelli avrebbero creduto che cose non vane venivano

recate dagli ambasciatori circa cose così importanti? Le lettere date perchè fossero pegno di lealtà, resero manifesta

l\'azione folle. Infatti essendosi pranzato per caso in casa dei Vitelli il giorno prima che gli ambasciatori partissero ai

Tarquini, e i congiurati là, fatti allontanare i presenti, avendo trattato a lungo fra di loro, come avviene, circa il nuovo

consilio, uno dei servi, il quale già prima s\'era accorto di ciò che si tramava, intese il discorso loro, ma aspettava il

momento, che venissero date agli ambasciatori le lettere che intercettate potessero confermare la cosa. Quando si accorse che

erano state date, denunciò il fatto ai consoli. I consoli partiti da casa per sorprendere gli ambasciatori e i congiurati

soffocarono l\'intera congiura senza tumulto; innanzitutto si ebbe cura delle lettere, che non andassero perdute. Gettati

subito in carcere i traditori si restò dubbiosi un poco riguardo gli ambasciatori; e sebbene appariva manifesto che avevano

agito da essere in luogo di nemici tuttavia il diritto delle genti prevalse. 

 

Ad Urbe Condita, II, 4
Latino
Vitelliis Aquiliisque fratribus primo commissa res est. Vitelliorum soror consuli nupta Bruto erat, iamque ex eo matrimonio

adulescentes erant liberi, Titus Tiberiusque; eos quoque in societatem consilii auunculi adsumunt. Praeterea aliquot nobiles

adulescentes conscii adsumpti, quorum uetustate memoria abiit. Interim cum in senatu uicisset sententia quae censebat

reddenda bona, eamque ipsam causam morae in urbe haberent legati quod spatium ad uehicula comparanda a consulibus sumpsissent

quibus regum asportarent res, omne id tempus cum coniuratis consultando absumunt, euincuntque instando ut litterae sibi ad

Tarquinios darentur: nam aliter qui credituros eos non uana ab legatis super rebus tantis adferri? Datae litterae ut pignus

fidei essent, manifestum facinus fecerunt. Nam cum pridie quam legati ad Tarquinios proficiscerentur cenatum forte apud

Vitellios esset, coniuratique ibi, remotis arbitris, multa inter se de nouo, ut fit, consilio egissent, sermonem eorum ex

seruis unus excepit, qui iam antea id senserat agi, sed eam occasionem, ut litterae legatis darentur quae deprehensae rem

coarguere possent, exspectabat. Postquam datas sensit, rem ad consules detulit. Consules ad deprehendendos legatos

coniuratosque profecti domo sine tumultu rem omnem oppressere; litterarum in primis habita cura ne interciderent.

Proditoribus extemplo in uincla coniectis, de legatis paululum addubitatum est; et quamquam uisi sunt commisisse ut hostium

loco essent, ius tamen gentium ualuit.

 

 

Italiano
testo
Dapprima l\'affare fu affidato ai fratelli Vitelli e Aquili. Una sorella dei Vitelli era stata sposata dal console Bruto, e

già vi erano figli giovani da quel matrimonio, Tito e Tiberio; gli zii materni prendono a parte della congiura anche essi.

Inoltre (furono) accolti alcni giovani nobili consapevoli, il ricordo dei quali è scomparso per l\'antichità. Frattanto

poichè nel Senato aveva prevalso il parere che riteneva i beni doversi restituire, e gli ambasciatori avevano come motivo di

trattenersi in città quello appunto, che cioè avevano ottenuto dai consoli un tempo a preparare i carri sui quali portassero

via i beni del Re, consumano tutto quel tempo a consultarsi con i congiurati e insistendo riescono ad ottenere che delle

lettere siano date ad essi per i Tarquini: poichè altrimenti come mai quelli avrebbero creduto che cose non vane venivano

recate dagli ambasciatori circa cose così importanti? Le lettere date perchè fossero pegno di lealtà, resero manifesta

l\'azione folle. Infatti essendosi pranzato per caso in casa dei Vitelli il giorno prima che gli ambasciatori partissero ai

Tarquini, e i congiurati là, fatti allontanare i presenti, avendo trattato a lungo fra di loro, come avviene, circa il nuovo

consilio, uno dei servi, il quale già prima s\'era accorto di ciò che si tramava, intese il discorso loro, ma aspettava il

momento, che venissero date agli ambasciatori le lettere che intercettate potessero confermare la cosa. Quando si accorse che

erano state date, denunciò il fatto ai consoli. I consoli partiti da casa per sorprendere gli ambasciatori e i congiurati

soffocarono l\'intera congiura senza tumulto; innanzitutto si ebbe cura delle lettere, che non andassero perdute. Gettati

subito in carcere i traditori si restò dubbiosi un poco riguardo gli ambasciatori; e sebbene appariva manifesto che avevano

agito da essere in luogo di nemici tuttavia il diritto delle genti prevalse. 

 

Ad Urbe Condita, I, 4
Latino
Sed debebatur, ut opinor, fatis tantae origo urbis maximique secundum deorum opes imperii principium. Vi compressa Vestalis

cum geminum partum edidisset, seu ita rata seu quia deus auctor culpae honestior erat, Martem incertae stirpis patrem

nuncupat. Sed nec di nec homines aut ipsam aut stirpem a crudelitate regia vindicant: sacerdos vincta in custodiam datur,

pueros in profluentem aquam mitti iubet. Forte quadam divinitus super ripas Tiberis effusus lenibus stagnis nec adiri usquam

ad iusti cursum poterat amnis et posse quamuis languida mergi aqua infantes spem ferentibus dabat. Ita velut defuncti regis

imperio in proxima alluuie ubi nunc ficus Ruminalis est—Romularem vocatam ferunt—pueros exponunt. Vastae tum in his locis

solitudines erant. Tenet fama cum fluitantem alveum, quo eiti erant pueri, tenuis in sicco aqua destituisset, lupam sitientem

ex montibus qui circa sunt ad puerilem vagitum cursum flexisse; eam submissas infantibus adeo mitem praebuisse mammas ut

lingua lambentem pueros magister regii pecoris invenerit— Faustulo fuisse nomen ferunt—ab eo ad stabula Larentiae uxori

educandos datos. Sunt qui Larentiam volgato corpore lupam inter pastores vocatam putent; inde locum fabulae ac miraculo

datum. Ita geniti itaque educati, cum primum adolevit aetas, nec in stabulis nec ad pecora segnes venando peragrare saltus.

Hinc robore corporibus animisque sumpto iam non feras tantum subsistere sed in latrones praeda onustos impetus facere

pastoribusque rapta dividere et cum his crescente in dies grege iuvenum seria ac iocos celebrare.

 

 

Italiano
Ma l\'origine di una così grande città si doveva come penso ai fatti e l\'inizio di un grandissimo impero secondo solo alle

opere degli dei. Violentata la vestale avendo dato un parto gemello sia perché così pensasse sia perché era più decoroso un

dio autore della colpa attribuì a Marte padre della discendenza. Ma ne gli dei ne gli uomini sottrassero lui o la stirpe

dalla crudeltà del re: la sacerdotessa legata fu gettata in prigione e il re ordinò che i figli fossero gettati in acqua

corrente. Per un qualche caso voluto dagli dei il Tevere straripato in tranquilli stagni non poteva essere raggiunto fino al

letto normale e dava a coloro che portavano i bambini la speranza che essi potessero essere sommersi nell\'acqua anche se

stagnante. Così convinti di aver adempiuto all\'ordine del re depongono i fanciulli sullo stagno più vicino dove ora vi è il

fico Ruminale dicono si chiamasse Romulare allora in quei luoghi vi era una vasta campagna disabitata. Si racconta che avendo

l\'acqua bassa lasciato a secco sulla terra il cesto galleggiante in cui erano riposti i fanciulli una lupa assetata dai

monti circostanti rivolse il passo verso il pianto infantile; (si racconta che) dopo essersi abbassata offrì il seno ai

bambini così mite che un pastore del gregge regio- dicono avesse il nome Faustolo- la trovò che lambiva i fanciulli e da lui

furono dati da allevare alla moglie Laurenzia presso le stalle. Alcuni ritengono che Laurenzia facendo commercio del proprio

corpo fosse chiamata dai pastori lupa e che da qui si è dato spazio alla leggenda miracolosa. Così generati e così educati

non appena l’età divenne maggiore non rimanevano oziosi nelle stalle ma cacciando percorrevano le selve. Da qui avendo

fortificato il corpo e l\'animo non solo affrontavano le fiere ma assalivano i predoni che erano carichi di bottino

dividevano il bottino con i pastori e crescendo di giorno in giorno il numero dei giovani seguaci presenziavano a tutte le

iniziative comuni serie e giocose. 

Ad Urbe Condita, I, 6
Latino
Numitor inter primum tumultum, hostes inuasisse urbem atque adortos regiam dictitans, cum pubem Albanam in arcem praesidio

armisque obtinendam auocasset, postquam iuvenes perpetrata caede pergere ad se gratulantes vidit, extemplo advocato concilio

scelera in se fratris originem nepotum, ut geniti, ut educati, ut cogniti essent, caedem deinceps tyranni seque eius auctorem

ostendit. Iuvenes per mediam contionem agmine ingressi cum auum regem salutassent, secuta ex omni multitudine consentiens vox

ratum nomen imperiumque regi efficit.
Ita Numitori Albana re permissa Romulum Remumque cupido cepit in iis locis ubi eiti ubique educati erant urbis condendae. Et

supererat multitudo Albanorum Latinorumque; ad id pastores quoue accesserant, qui omnes facile spem facerent paruam Albam,

parvum Lavinium prae ea urbe quae conderetur fore. Intervenit deinde his cogitationibus avitum malum, regni cupido, atque

inde foedum certamen coortum a satis miti principio. Quoniam gemini essent nec aetatis verecundia discrimen facere posset, ut

di quorum tutelae ea loca essent auguriis legerent qui nomen novae urbi daret, qui conditam imperio regeret, Palatium

Romulus, Remus Aventinum ad inaugurandum templa capiunt.

 

 

Italiano
Così affidata la sovranità di Alba a Numitore il desiderio di fondare una città nei luoghi in cui erano stati esposti e in

cui erano stati allattati prese Romolo e Remo. La popolazione di Albani e Latini era sovrabbondante; ad essi si erano

aggiunti anche i pastori i quali tutti senza esitazione speravano che Alba sarebbe stata piccola Lavinia sarebbe stata

piccola in confronto a quella città che avrebbero fondato. Sopraggiunse poi a tali pensieri il male di sempre la brama del

potere e di lì nacque una lotta crudele da un mite inizio. Poiché erano gemelli né il rispetto per l\'età poteva costituire

un criteri di precedenza affinché gli dei sotto la cui tutela erano quei luoghi indicassero con auspici chi dovesse dare il

nome alla nuova città chi dovesse reggerne il dominio una volta fondata presero come luoghi per l\'osservazione Romolo il

Palatino Remo l\'Aventino. 

 

Ad Urbe Condita, I, 7 1-3
Latino
Priori Remo augurium venisse fertur, sex voltures; iamque nuntiato augurio cum duplex numerus Romulo se ostendisset, utrumque

regem sua multitudo consalutauerat: tempore illi praecepto, at hi numero auium regnum trahebant. Inde cum altercatione

congressi certamine irarum ad caedem vertuntur; ibi in turba ictus Remus cecidit. Volgatior fama est ludibrio fratris Remum

novos transiluisse muros; inde ab irato Romulo, cum verbis quoque increpitans adiecisset, "Sic deinde, quicumque alius

transiliet moenia mea," interfectum. Ita solus potitus imperio Romulus; condita urbs conditoris nomine appellata.
Palatium primum, in quo ipse erat educatus, muniit. Sacra dis aliis Albano ritu, Graeco Herculi, ut ab Evandro instituta

erant, facit.

 

Italiano
Si dice che a Remo per primo giunse il presagio cioè 6 avvoltoi e questo augurio era stato annunciato essendo apparso a

Romolo un numero doppio i suoi seguaci avevano salutato l\'uno e l\'altro come re: gli uni in base alla priorità del tempo

gli altri in base al numero degli uccelli reclamavano il regno. Quindi dopo essersi scontrati a parole nell\'ardore dell\'ira

si volsero al massacro; qui nella folla colpito Remo cadde. È versione più diffusa che in segno di scherno verso il fratello

Remo abbia varcato con un salto le mura recenti poi sia stato ucciso da Romolo irato il quale urlando avrebbe aggiunto queste

parole:così (sarà ucciso) in seguito chiunque oltrepasserà le mie mura. Così Romolo solo si impadronì del potere; la città

appena fondata fu chiamata con il nome del fondatore. Fortificò dapprima il Palatino in cui egli stesso era stato educato.

Compì riti religiosi agli altri dei secondo il rituale albano ed Ercole secondo quello greco come erano stati stabiliti da

Evandro. 

 

Ad Urbe Condita, II, 1
Latino
Liberi iam hinc populi Romani res pace belloque gestas, annuos magistratus, imperiaque legum potentiora quam hominum peragam.

Quae libertas ut laetior esset proximi regis superbia fecerat. Nam priores ita regnarunt ut haud immerito omnes deinceps

conditores partium certe urbis, quas nouas ipsi sedes ab se auctae multitudinis addiderunt, numerentur; neque ambigitur quin

Brutus idem qui tantum gloriae superbo exacto rege meruit pessimo publico id facturus fuerit, si libertatis immaturae

cupidine priorum regum alicui regnum extorsisset. Quid enim futurum fuit, si illa pastorum conuenarumque plebs, transfuga ex

suis populis, sub tutela inuiolati templi aut libertatem aut certe impunitatem adepta, soluta regio metu agitari coepta esset

tribuniciis procellis, et in aliena urbe cum patribus serere certamina, priusquam pignera coniugum ac liberorum caritasque

ipsius soli, cui longo tempore adsuescitur, animos eorum consociasset? Dissipatae res nondum adultae discordia forent, quas

fouit tranquilla moderatio imperii eoque nutriendo perduxit ut bonam frugem libertatis maturis iam uiribus ferre possent.

Libertatis autem originem inde magis quia annuum imperium consulare factum est quam quod deminutum quicquam sit ex regia

potestate numeres. Omnia iura, omnia insignia primi consules tenuere; id modo cautum est ne, si ambo fasces haberent,

duplicatus terror uideretur. Brutus prior, concedente collega, fasces habuit; qui non acrior uindex libertatis fuerat quam

deinde custos fuit. Omnium primum auidum nouae libertatis populum, ne postmodum flecti precibus aut donis regiis posset, iure

iurando adegit neminem Romae passuros regnare. Deinde quo plus uirium in senatu frequentia etiam ordinis faceret, caedibus

regis deminutum patrum numerum primoribus equestris gradus lectis ad trecentorum summam expleuit, traditumque inde fertur ut

in senatum uocarentur qui patres quique conscripti essent; conscriptos uidelicet nouum senatum, appellabant lectos. Id mirum

quantum profuit ad concordiam ciuitatis iungendosque patribus plebis animos.

 

 

Italiano
"Da questo punto narrerò le imprese del popolo Romano ormai libero, compiute in pace e in guerra, le magistrature annuali e i

comandi delle leggi più efficaci che dagli uomini. La superbia dell\'ultime re aveva fatto sì che questa libertà fosse più

gradita. Infatti i primi regnarono in modo che non ingiustamente tutti uno dopo l\'altro sono ritenuti fondatori almeno di

parti della città, che essi stessi aggiunsero come nuove sedi della popolazione da loro accresciuta; nè si dubita che il

medesimo Bruto, che si guadagnò tanta gloria per avere cacciato il re Superbo, avrebbe fatto ciò con grandissimo danno dello

lo Stato, se per desiderio della libertà non ancora matura avesse tolto il regno a qualcuno dei primi re.
Che cosa infatti sarebbe accaduto, se quella accozzaglia di pastori e malfattori, fuggitiva dalle loro popolazioni, ottenuta

o la libertà o almeno l\'immunità sotto la protezione dell\'asilo inviolabile, libera dal timore del re, avesse cominciato ad

agitarsi nei tumulti tribunizi e a seminare lotte coi patrizi in una città straniera prima che i legami di coniugi e figli e

l\'amore per la stessa, a cui ci si abitua dopo lungo tempo, avesso reso socievoli gli animi loro? Lo stato non ancora adulto

sarebbe stato, abbattuto dalla discordia, mentre lo rinvigorì la tranquilla mitezza del governo e (lo) portò rafforzando(lo)

a punto che potè produrre buon frutto di libertà quando le forze (furono) ormai mature.
Inoltre potresti stabilire l\'origine della libertà più da ciò che il governo dei consoli fu fatto annuale, che prchè di

qualcosa fu diminuito il regio potere.
I primi consoli mantennero tutti i diritti, tutte le insegne; solo fu evitato questo, che sembrasse raddopiata la paura, se

entrambi portavano i fasci. Bruto ebbe per primo i fasci col consenso del collega; ed egli non era stato rivendicatore della

librtà più deciso di come ne fu custode. Innanzi tutto impegnò con giuramento il popolo, geloso della nuova libertà, che,

acciò non potesse poi lasciarsi piegare da preghire o doni, del re, non avrebbe permesso che alcuno regnasse in Roma. Poi,

per dare maggior forza al Senato anche col numero dell\'assemblea, accrebbe il numero di senatori che era stato diminuito

dalle stragi del re(Superbo) fino alla somma di trecento avendo scelto i primi dell\'ordine equestre.
Si narra che da allora si tramandò l\'uso che venissero chiamati in Senato quelli che erano patrizi e quelli che erano

coscritti: naturalmente chiamavano coscritti quelli che erano stati scelti per il nuovo senato. Ciò giovò mirabilmente alla

concordia della cittadinanza e a congiungere gli animi della plebe ai patrizi." 

 

Ad Urbe Condita, II, 2
Latino
Rerum deinde diuinarum habita cura; et quia quaedam publica sacra per ipsos reges factitata erant, necubi regum desiderium

esset, regem sacrificolum creant. Id sacerdotium pontifici subiecere, ne additus nomini honos aliquid libertati, cuius tunc

prima erat cura, officeret. Ac nescio an nimium undique eam minimisque rebus muniendo modum excesserint. Consulis enim

alterius, cum nihil aliud offenderet, nomen inuisum ciuitati fuit: nimium Tarquinios regno adsuesse; initium a Prisco factum;

regnasse dein Ser. Tullium; ne interuallo quidem facto oblitum, tamquam alieni, regni, Superbum Tarquinium uelut hereditatem

gentis scelere ac ui repetisse; pulso Superbo penes Collatinum imperium esse. Nescire Tarquinios priuatos uiuere; non placere

nomen, periculosum libertati esse. Hinc primo sensim temptantium animos sermo per totam ciuitatem est datus, sollicitamque

suspicione plebem Brutus ad contionem uocat. Ibi omnium primum ius iurandum populi recitat neminem regnare passuros nec esse

Romae unde periculum libertati foret; id summa ope tuendum esse, neque ullam rem quae eo pertineat contemnendam. Inuitum se

dicere hominis causa, nec dicturum fuisse ni caritas rei publicae uinceret: non credere populum Romanum solidam libertatem

reciperatam esse; regium genus, regium nomen non solum in ciuitate sed etiam in imperio esse; id officere, id obstare

libertati. "Hunc tu" inquit "tua uoluntate, L. Tarquini, remoue metum. Meminimus, fatemur: eiecisti reges; absolue beneficium

tuum, aufer hinc regium nomen. Res tuas tibi non solum reddent ciues tui auctore me, sed si quid deest munifice augebunt.

Amicus abi; exonera ciuitatem uano forsitan metu; ita persuasum est animis cum gente Tarquinia regnum hinc abiturum." Consuli

primo tam nouae rei ac subitae admiratio incluserat uocem; dicere deinde incipientem primores ciuitatis circumsistunt, eadem

multis precibus orant. Et ceteri quidem mouebant minus: postquam Sp. Lucretius, maior aetate ac dignitate, socer praeterea

ipsius, agere uarie rogando alternis suadendoque coepit ut uinci se consensu ciuitatis pateretur, timens consul ne postmodum

priuato sibi eadem illa cum bonorum amissione additaque alia insuper ignominia acciderent, abdicauit se consulatu rebusque

suis omnibus Lauinium translatis ciuitate cessit. Brutus ex senatus consulto ad populum tulit ut omnes Tarquiniae gentis

exsules essent; collegam sibi comitiis centuriatis creauit P. Valerium, quo adiutore reges eiecerat.

 

Italiano
Poi si ebbe cura della religione; e poichè alcune pubbliche cerimonie religiose erano state compiute per mezzo degli stessi

re, istituiscono un re delle sacre cerimonie, affinchè in nessun modo nascesse desiderio dei re. Sottoposero questa carica

sacerdotale al pontefice, affinchè l\'onorifica carica, nonostante fosse stata aggiunta al titolo, non nuocesse in qulache

modo alla libertà, la cui preoccupazione era allora la principale. E non so se eccedettero la misura proteggendola troppo da

ogni parte e nelle minime cose. Infatti, mentre nessun\'altra cosa offendeva, il nome di uno dei due consoli era odioso alla

cittadinanza. I Tarquini si erano troppo assuefatti troppo al regno; l\'inizio s\'era avuto dal Prisco; poi aveva regnato

Servio Tullio; Tarquinio il Superbo non dimenticatosi, neppure nell\'avvenuto intervallo, del regno come cosa altrui, aveva

ripreso col delitto e la violenza come possesso ereditario della famiglia; scacciato il Superbo il comando era in mano a

Collatino. I Tarquini non sapevano vivere da privati; il (loro) nome non era gradito, era pericoloso per la libertà. Quindi

dapprima si diffuse a poco a poco per tutta la cittadinanza la diceria di coloro che provocavano gli animi, e poi Bruto

chiama in adunanza il popolo inquieto per il sospetto. Lì innanzitutto legge il giuramento ad alta voce del popolo che non

permetterà che alcuno regni nè che sia in Roma, da cui venga pericolo per la libertà. Tale giuramento doveva osservarsi con

la massima fermezza nè doveva disprezzarsi alcun mezzo che mirasse a cio\'.
testo
"Egli parlava malvolentieri per riguardo della persona nè avrebbe parlato se l\'amore per la repubblica non lo avesse

costretto, il popolo Romano non credeva che la libertà completa fosse stata riacquistata; la stirpe regia, il titolo di re

non erano solo nella cittadinanza, ma anche al governo; ciò nuoceva, ciò era ostacolo alla libertà. ""tu,- disse-

L.Tarquinnio, allontana questo timore di tua volontà. Ce ne ricordiamo, lo riconosciamo: hai cacciato i re; completa la tua

opera benefica, porta via di qua il nome regio. I concittadini tuoi non solamente restituiranno a te le tue cose per mia

proposta, ma provvederanno generosamente, se qualcosa manca. Allontanati da amico; libera la cittadinanza da un timore forse

vano; così si sono persuasi gli animi, che il regno andra via da qui con la stirpe dei Tarquini"". Dapprima lo stupore per

una cosa così strana e improvvisa aveva impedito la voce al console; poi mentre comincia a parlare i più ragguardevoli della

cittadinanza gli si fanno attorno, pregano nel medesimo senso con molte preghiere. E gli altri invero impressionavano ben

poco; dopo che Sp. Lucrezio, superiore per età e autorità, inoltre suocero di lui stesso, cominciò a raggirarlo variamente

alternativamente pregando e cercando di persuadere, a lasciarsi vincere dal comune sentimento della cittadinanza, il console

temendo che dopo quelle medesime cose accadessero a lui quando fosse uscito di carica (privato) insieme con la perdita dei

beni e con in più qualche altra infamia aggiunta, abdicò al consolato e fatte trasportare tutte le sue cose a Lavinio si

allontanò dalla città. Bruto col consenso del Senato propose al popolo, che tutti quelli della gente dei Tarquini fossero

esiliati; proclamò eletto nei comizi centuriati come suo collega P. Valerio, con il cui aiuto aveva cacciato i re." 

 

Ad Urbe Condita, II, 3
Latino
Cum haud cuiquam in dubio esset bellum ab Tarquiniis imminere, id quidem spe omnium serius fuit; ceterum, id quod non

timebant, per dolum ac proditionem prope libertas amissa est. Erant in Romana iuuentute adulescentes aliquot, nec ii tenui

loco orti, quorum in regno libido solutior fuerat, aequales sodalesque adulescentium Tarquiniorum, adsueti more regio uiuere.

Eam tum, aequato iure omnium, licentiam quaerentes, libertatem aliorum in suam uertisse seruitutem inter se conquerebantur:

regem hominem esse, a quo impetres, ubi ius, ubi iniuria opus sit; esse gratiae locum, esse beneficio; et irasci et ignoscere

posse; inter amicum atque inimicum discrimen nosse; leges rem surdam, inexorabilem esse, salubriorem melioremque inopi quam

potenti; nihil laxamenti nec ueniae habere, si modum excesseris; periculosum esse in tot humanis erroribus sola innocentia

uiuere. Ita iam sua sponte aegris animis legati ab regibus superueniunt, sine mentione reditus bona tantum repetentes. Eorum

uerba postquam in senatu audita sunt, per aliquot dies ea consultatio tenuit, ne non reddita belli causa, reddita belli

materia et adiumentum essent. Interim legati alia moliri; aperte bona repetentes clam reciperandi regni consilia struere; et

tamquam ad id quod agi uidebatur ambientes, nobilium adulescentium animos pertemptant. A quibus placide oratio accepta est,

iis litteras ab Tarquiniis reddunt et de accipiendis clam nocte in urbem regibus conloquuntur.

 

 

Italiano
Mentre non era dubbio per nessuno che una guerra era imminente da parte dei Tarquini, essa invero si ebbe più tardi di quanto

si aspettassero tutti; ma, ciò che non temevano, la libertà fu quasi per inganno e tradimento. Alcuni giovani erano fra la

gioventù romana, e non nati di bassa origine; la cui vita capricciosa era stata troppo dissoluta durante il periodo regio,

coetanei e compagni dei giovani figli di Tarquinio, assuefatti a vivere alla maniera del despota. Desiderando quella vita

licenziosa allora che era uguale il diritto di tutti, si lagnavano tra di loro che la libertà degli altri si fosse convertita

nella loro servitù: il re era un uomo, dal quale si poteva ottenere, sia che ci fosse bisogno di un diritto sia vendetta di

un\'offesa; vi era possibilità di benevolenza, v\'era di benefizio, poteva sia adirarsi sia perdonare; ben conosceva la

differenza fra l\'amico e il nemico; le leggi erano qualcosa di insensibile, d\'inesorabile, più vantaggiosa e migliore per

il debole che per il potente; non avevano nessuna indulgenza nè perdono, se si fosse ecceduto il limite; era pericoloso il

vivere di sola onestà fra tante colpe degli uomini.
testo
Ed ecco quando già gli animi erano scontenti di per sè, degli ambasciatori giungono dalla famiglia reale, a richiedere

soltanto i beni privati senza menzione del ritorno. Dopo di che le parole di essi furono udite nel Senato, la consultazione

su quel fatto occupò per alquanti giorni, che (i beni) non restituiti fossero cagione di guerra, restituiti, materia e mezzo

di aiuto per la guerra. Frattanto gli ambasciatori si adoperavano per altre cose; richiedendo apertamente i beni tramavano di

nascosto dei piani per riconquistare il regno; e come brigando per ciò per cui sembrava che si adoperassero, tentano l\'animo

dei giovani nobili. Consegnano le lettere dai Tarquini a quelli dei quali il discorso è stato accolto favorevolmente e

discutono insieme sul modo di accogliere la famiglia del re di nascosto di notte. 

 

Ad Urbe Condita, II, 5
Latino
De bonis regiis, quae reddi ante censuerant, res integra refertur ad patres. Ibi uicit ira; uetuere reddi, uetuere in

publicum redigi. Diripienda plebi sunt data, ut contacta regia praeda spem in perpetuum cum iis pacis amitteret. Ager

Tarquiniorum qui inter urbem ac Tiberim fuit, consecratus Marti, Martius deinde campus fuit. Forte ibi tum seges farris

dicitur fuisse matura messi. Quem campi fructum quia religiosum erat consumere, desectam cum stramento segetem magna uis

hominum simul immissa corbibus fudere in Tiberim tenui fluentem aqua, ut mediis caloribus solet. Ita in uadis haesitantes

frumenti aceruos sedisse inlitos limo; insulam inde paulatim, et aliis quae fert temere flumen eodem inuectis, factam; postea

credo additas moles manuque adiutum, ut tam eminens area firmaque templis quoque ac porticibus sustinendis esset. Direptis

bonis regum damnati proditores sumptumque supplicium, conspectius eo quod poenae capiendae ministerium patri de liberis

consulatus imposuit, et qui spectator erat amouendus, eum ipsum fortuna exactorem supplicii dedit. Stabant deligati ad palum

nobilissimi iuuenes; sed a ceteris, uelut ab ignotis capitibus, consulis liberi omnium in se auerterant oculos, miserebatque

non poenae magis homines quam sceleris quo poenam meriti essent: illos eo potissimum anno patriam liberatam, patrem

liberatorem, consulatum ortum ex domo Iunia, patres, plebem, quidquid deorum hominumque Romanorum esset, induxisse in animum

ut superbo quondam regi, tum infesto exsuli proderent. Consules in sedem processere suam, missique lictores ad sumendum

supplicium. Nudatos uirgis caedunt securique feriunt, cum inter omne tempus pater uoltusque et os eius spectaculo esset,

eminente animo patrio inter publicae poenae ministerium. Secundum poenam nocentium, ut in utramque partem arcendis sceleribus

exemplum nobile esset, praemium indici pecunia ex aerario, libertas et ciuitas data. Ille primum dicitur uindicta liberatus;

quidam uindictae quoque nomen tractum ab illo putant; Vindicio ipsi nomen fuisse. Post illum obseruatum ut qui ita liberati

essent in ciuitatem accepti uiderentur.

 

 

Italiano
testo
"La questione riguardo i beni del re, che già prima avevano deciso che venissero restituiti, viene proposta di nuovo ai

senatori. Allora lo sdegno prevalse; vietarono che si restituissero, vietarono che fossero devoluti al pubblico erario.

Furono abbandonati alla plebe perchè fossero saccheggati, affinchè toccata dalla preda dei beni regi perdesse per sempre la

speranza di pace con essi. Il campo dei Tarquini, che si trovava tra la città e il Tevere, consacrato a Marte, fu poi il

campo Marzio. Il frutto del farro si dice che lì per caso fosse allora maturo per la mietitura. Poichè era cosa sacrilega

impiegare quel prodotto del campo, una gran moltitudine di uomini immessa (nel campo) rovesciarono con canestri il frumento

tagliato con lo stelo simultaneamente nel Tevere che scorreva con corrente bassa, come suole nel pieno dei calori estivi.

Così i mucchi di fieno trattenendosi nelle parti basse vi si fermarono avvolti nel limo; poi a poco apoco si formò un\'isola

anche con gli altri (detriti), che il fiume trasporta acso, trascinati nel medesimo posto; più tardi credo che dei macigni

furono aggiunti e che ci si aiutò con il lavoro manuale, in modo che si formasse una superficie alta e solida anche per

sostenere templi e portici. Saccheggiati i beni del re, i traditori furono condannati e la pena capitale fu inflitta, tanto

più insigne in quanto il consolato attribuì il compito di stabilire la pena per i figli al padre, e colui che avrebbe dovuto

essere allontanato come spettatore il caso diede lui stesso esecutore del supplizio. Dei giovani nobilissimi stavano legati

al palo; ma i filgi del conole avevano fatto volgere gli occhi di tutti su di sè dagli altri in quanto condannati ignoti e i

cittadini avevano pietà della pena non più che del delitto, per il quale avevano meritato la pena: essi avevano accolto

mell\'animo di consegnare a chi era stato una volta re superbo, allora esule pericoloso, e proprio in quell\'anno, la patria

divenuta libera, il padre liberatore, il consolato sorto dalla casa Giulia, i senatori, la plebe, tutto ciò che v\'era di

divino e di umano per i Romani.
I consoli avanzarono fino alla loro sede, e i lettori furono mandati ad infliggere il supplizio. Li battono con le verghe

dopo averli denudati e colpiscono con la scure, mentre il padre e il volto e l\'espressione di lui era di spettacolo durante

tutto quel tempo, l\'animo paterno mostrandosi mirabile durante l\'esecuzione della pena pubblica. Subito dopo il supplizio

dei malfattori, affinchè l\'esempio per allontanare i delitti fosse memorabile in entrambi i casi una somma di denaro

dell\'erario, della libertà la cittadinanza furono concesse in premio al denunciatore.
Egli si dice che per primo fu dichiarato libero con la verghetta. Alcuni credono che anche il nome della verghetta fu tratto

da quello; che lui stesso avesse il nome di Vindicio. Si osservò dopo di lui, che coloro che fossero stati liberati a questo

modo venissero considerati come accolti nella cittadinanza." 

 

Capitolo XXIX, 10, 4-8
Latino
Civitatem eo tempore repens religio inuaserat inuento carmine in libris Sibyllinis propter crebrius eo anno de caelo

lapidatum inspectis, quandoque hostis alienigena terrae Italiae bellum intulisset eum pelli Italia uincique posse si mater

Idaea a Pessinunte Romam aduecta foret. id carmen ab decemuiris inuentum eo magis patres mouit quod et legati qui donum

Delphos portauerant referebant et sacrificantibus ipsis Pythio Apollini omnia laeta fuisse et responsum oraculo editum

maiorem multo uictoriam quam cuius ex spoliis dona portarent adesse populo Romano. in eiusdem spei summam conferebant P.

Scipionis uelut praesagientem animum de fine belli quod depoposcisset prouinciam Africam. itaque quo maturius fatis ominibus

oraculisque portendentis sese uictoriae compotes fierent, id cogitare atque agitare quae ratio transportandae Romam deae

esset.

 

 

Italiano
Un’improvvisa superstizione aveva invaso la città in quel tempo, trovato un carme nei libri sibillini, esaminati a causa

della troppo frequente caduta di pietre dal cielo in quell’anno, (cioè che) qualora il nemico straniero avesse portato guerra

alla terra dell’Italia, quello poteva essere cacciato dall’Italia e vinto se la madre Idea fosse stata trasportata a Roma da

Pessinunte. Quel carme trovato dai decemviri tanto più ammonì i senatori che, cosa che anche i legati, che avevano portato un

dono a Delfi, riferivano, e, facendo sacrifici proprio quelli ad Apollo Fizio, tutte le cose erano state liete e era stato

comunicato dall’oracolo il responso che per il popolo romano ci sarebbe stata una vittoria molto più grande di quella dalle

cui spoglie portavano doni. Nella sommità della medesima speranza univano l’animo di Publio Scipione, che quasi presagiva la

fine della guerra perché aveva richiesto la provincia dell’Africa. Perciò, affinché più opportunamente fossero padroni della

vittoria preannunciata dal fato, dai presagi e dagli oracoli, pensava e meditava su quale fosse il mezzo per trasportare a

Roma la dea. 

 

Libro 1, Par. 13
Latino
Tum Sabinae mulieres, quarum ex iniuria bellum ortum erat, crinibus passis scissaque ueste, uicto malis muliebri pauore,

ausae se inter tela uolantia inferre, ex transuerso impetu facto dirimere infestas acies, dirimere iras, hinc patres, hinc

patres, hinc uiros orantes, ne se sanguine nefando soceri generique respergerent, ne parricidio macularent partus suos,

nepotum illi, hi liberum progeniem. "Si adfinitatis inter uos, si conubii piget, in nos uertite iras; nos causa belli, nos

uolnerum ac caedium uiris ac parentibus sumus; melius peribimus quam sine alteris uestrum uiduae aut orbae uiuemus." Mouet

res cum multitudinem tum duces; silentium et repentina fit quies; inde ad foedus faciendum duces prodeunt. Nec pacem modo sed

ciuitatem unam ex duabus faciunt. Regnum consociant: imperium omne conferunt Romam. Ita geminata urbe ut Sabinis tamen

aliquid daretur Quirites a Curibus appellati.

 

Italiano
In quel momento le donne Sabine, delle quali per l’ingiuria era scoppiata la guerra, con i capelli al vento e le vesti a

brandelli, vinto dai mali il timore tipico delle donne, osarono gettarsi fra i dardi che volavano, dividere le schiere

nemiche dopo essersi gettate dai lati, e porre fine alle collere. Da una parte supplicando i padri e dall\'altra i figli, che

non le macchiassero col sangue atroce dei suoceri e dei generi e che i propri figli non lasciassero il marchio del

parricidio, i primi la discendenza dei nipoti, i secondi quella dei figli. «Se vi danno fastidio la parentela che esiste tra

di voi ed il matrimonio, rivolgete le vostre ire contro di noi: noi siamo la causa della guerra, noi (siamo la causa) delle

ferite e delle morti per mariti e genitori. Faremo meglio a morire piuttosto che rimanere con vedove o con orfane di uno o

l\'altro di voi». Questo gesto commuove sia la massa (di soldati) sia i comandanti: scendono improvvisi il silenzio e la

quiete. Poi vengono avanti i comandanti per stipulare un trattato; e non siglano solamente la pace, ma creano un’unica città

da due che erano. Associano i due regni, portano tutto il potere a Roma. Così, resa duplice la città, perché qualcosa fosse

concesso anche ai Sabini, presero il nome di Quiriti dai Curii. 

 

Libro 1, Par. 16
Latino
[1] His immortalibus editis operibus cum ad exercitum recensendum contionem in campo ad Caprae paludem haberet, subito coorta

tempestas cum magno fragore tonitribusque tam denso regem operuit nimbo ut conspectum eius contioni abstulerit; nec deinde in

terris Romulus fuit. [2] Romana pubes sedato tandem pavore postquam ex tam turbido die serena et tranquilla lux rediit, ubi

vacuam sedem regiam vidit, etsi satis credebat patribus qui proximi steterant sublimem raptum procella, tamen velut orbitatis

metu icta maestum aliquamdiu silentium obtinuit. [3]Deinde a paucis initio facto, deum deo natum, regem parentemque urbis

Romanae saluere universi Romulum iubent; pacem precibus exposcunt, uti volens propitius suam semper sospitet progeniem. [4]

Fuisse credo tum quoque aliquos qui discerptum regem patrum manibus taciti arguerent; manavit enim haec quoque sed perobscura

fama; illam alteram admiratio viri et pavor praesens nobilitavit. [5] Et consilio etiam unius hominis addita rei dicitur

fides. Namque Proculus Iulius, sollicita civitate desiderio regis et infensa patribus, gravis, ut traditur, quamuis magnae

rei auctor in contionem prodit. [6] "Romulus" inquit, "Quirites, parens urbis huius, prima hodierna luce caelo repente

delapsus se mihi obuium dedit. Cum perfusus horrore venerabundusque adstitissem petens precibus ut contra intueri fas esset,

[7] "Abi, nuntia" inquit "Romanis, caelestes ita velle ut mea Roma caput orbis terrarum sit; proinde rem militarem colant

sciantque et ita posteris tradant nullas opes humanas armis Romanis resistere posse.[8] " Haec" inquit "locutus sublimis

abiit." Mirum quantum illi viro nuntianti haec fides fuerit, quamque desiderium Romuli apud plebem exercitumque facta fide

immortalitatis lenitum sit.

 

Italiano
[1] Compiute queste opere immortali, mentre teneva un discorso per passare in rassegna l’esercito nel campo Marzio presso la

palude della Capra, una tempesta scoppiata all’improvviso con grande fragore e tuoni, coprì il re di un nembo così denso che

sottrasse la sua vista all’assemblea, né in seguito ci fu sulla terra Romolo. [2] La gioventù romana, sedato alla fine il

timore, dopoché da (dopo) un giorno così torbido ritornò la luce tranquilla e serena, quando vide vuoto il seggio del re

anche se credeva abbastanza ai senatori i quali stava più vicini e che dicevano (ß Sottinteso) che era stato rapito in cielo

da una tempesta, tuttavia come colpita dalla paura per essere rimasta orfana, per un certo tempo conservò un mesto silenzio.

[3] Poi seguendo l’iniziativa di pochi (fatto inizio da pochi)Salutano tutti insieme Romolo Dio, nato da un Dio, re e padre

della città di Roma. Chiedono la pace con le preghiere affinché benevolo e propizio sempre protegga la sua progenie. [4] Ci

furono –credo- , già allora alcuni i quali pur senza dirlo apertamente sostenevano che il re fosse stato fatto a pezzi dalle

mani dei senatori. Si diffuse infatti anche questa diceria, anche se in forma assai confusa quell’altra versione mobilitarono

l’ammirazione per l’uomo e lo sgomento di allora. [5] E anche per l’accorgimento di un solo uomo si dice che la cosa acquistò

credito (fu data fama alla cosa). Infatti Giulio Proculo, mentre la popolazione era inquieta per il rimpianto e ostile ai

senatori per la perduta del re, testimone autorevole, come si dice, sebbene di un fatto eccezionale, si avanza per parlare in

assemblea. [6] Romolo disse: “Quirite, padre di questa città, oggi all’alba, sceso all’improvviso dal cielo, lui si fece

incontro essendomi io fermato, pervaso da terrore e in atto di venerazione chiesi con le preghiere di poterlo guardare in

viso ed egli disse: [7] “Va annuncia ai Romani che i celesti così vogliono, che la mia Roma sia capital del mondo, perciò

coltivino l’arte militare e sappiano e trasmettano ai posteri che nessuna potenza umana può resistere alle armi Romane”. [8]

Dopo aver detto queste parole se ne andò in alto (verso l’alto del cielo) e straordinario quanto si prestò fede all’uomo che

annunciava queste cose e quando si attenuò il rimpianto di Romolo presos la plebe e l’esercito una volta formatasi al

convinzione della sua immortalità. 

 

Libro 1, Par. 46
Latino
Servius quamquam iam usu haud dubie regnum possederat, tamen quia interdum iactari voces a iuvene Tarquinio audiebat se

iniussu populi regnare, conciliata prius voluntate plebis agro capto ex hostibus viritim diviso, ausus est ferre ad populum

vellent iuberentne se regnare; tantoque consensu quanto haud quisquam alius ante rex est declaratus. Neque ea res Tarquinio

spem adfectandi regni minuit; immo eo impensius quia de agro plebis adversa patrum voluntate senserat agi, criminandi Servi

apud patres crescendique in curia sibi occasionem datam ratus est, et ipse iuvenis ardentis animi et domi uxore Tullia

inquietum animum stimulante. Tulit enim et Romana regia sceleris tragici exemplum, ut taedio regum maturior veniret libertas

ultimumque regnum esset quod scelere partum foret. Hic L. Tarquinius, Prisci Tarquini regis filius neposne fuerit parum

liquet; pluribus tamen auctoribus filium ediderim, fratrem habuerat Arruntem Tarquinium mitis ingenii iuvenem. His duobus, ut

ante dictum est, duae Tulliae regis filiae nupserant, et ipsae longe dispares moribus. Forte ita inciderat ne duo violenta

ingenia matrimonio iungerentur fortuna, credo, populi Romani, quo diuturnius Servi regnum esset constituique civitatis mores

possent. Angebatur ferox Tullia nihil materiae in viro neque ad cupiditatem neque ad audaciam esse; tota in alterum aversa

Tarquinium eum mirari, eum virum dicere ac regio sanguine ortum: spernere sororem, quod virum nacta muliebri cessaret

audacia. Contrahit celeriter similitudo eos, ut fere fit: malum malo aptissimum; sed initium turbandi omnia a femina ortum

est. Ea secretis viri alieni adsuefacta sermonibus nullis verborum contumeliis parcere de viro ad fratrem, de sorore ad

virum; et se rectius viduam et illum caelibem futurum fuisse contendere, quam cum impari iungi ut elanguescendum aliena

ignauia esset; si sibi eum quo digna esset di dedissent virum, domi se propediem visuram regnum fuisse quod apud patrem

videat. Celeriter adulescentem suae temeritatis implet; Arruns Tarquinius et Tullia minor prope continuatis funeribus cum

domos vacuas novo matrimonio fecissent, iunguntur nuptiis, magis non prohibente Seruio quam adprobante.

 

Italiano
Servio sebbene senza dubbio fosse già in possesso del regno, tuttavia, poiché talvolta sentiva che si spargevano voci da

parte dl giocatore Tarquinio secondo le quali egli regnava contro il volere del popolo conciliatosi prima la benevolenza

della plebe con una divisione fra i cittadini del territorio preso ai nemici, osò portare davanti al popolo la scelta se

volessero e decidessero che fosse lui il re e fu proclamato re con un consenso così grande quanto nessun altro prima aveva

avuto. Né quella cosa diminuì in Tarquinio la speranza di conquistare il regno; anzi tanto più ardentemente perché
si era accorto che la distribuzione di terre era stata attuata contro il parere dei senatori. Ritiene che gli fosse data

l’occasione di accusare Servio presso i senatori e di crescere in influenza nel senato e egli stesso giovane di animo ardente

e in casa la moglie Tullia stimolando il suo animo inquieto. Infatti anche la reggia di Roma offrì l’esempio di un delitto

tragico affinché per fastidio dei re venisse più in fretta la libertà e ultimo fosse il regno che era stato procurato come

delitto. Questo Lucio Tarquinio è poco chiaro se fosse il figlio o il nipote del re Tarquinio Prisco; Secondo molti autori

direi che era il figlio che aveva un fratello Arrunte Tarquinio, giovane di indole mite. A questi due come si è detto sopra

andarono spose due Tullie figlie dei re e anch’esse molto diverse di indole. Per caso era accaduto che non si unissero in

matrimonio i due caratteri violenti grazie alla fortuna credo del popolo romano, perché il regno di Servio durasse più a

lungo e le istituzioni cittadine potessero consolarsi. Era addolorata la Tulia fiera del fatto che suo marito non c’era

tendenza né all’ambizione né all’audacia; volta totalmente verso l’altro ammirava Tarquinio, quello chiamava uomo e nato di

sangue reale; disprezzava la sorella perché avendo trovato un marito che era un vero uomo, era priva dell’audacia femminile.

In breve tempo la somiglianza li unì come in generale accade: il male si accorda col male; ma l’inizio del turbamento di ogni

cosa venne da una donna. Costei presa l’abitudine di aver colloqui segreti con quell’uomo non suo non risparmiava parole

oltraggiose sul conto del proprio marito al fratello di lui, sul conto della propria sorella al di lei marito; e affermava

che sarebbe stato meglio che restassero lei senza marito e lui celibe, piuttosto che fossero uniti con un coniuge indegno

così da dover trascinare una vita così misera per l’ignavia dell’altro. Se gli dei avessero dato un marito del quale era

degna avrebbe visto presto quel potere regale che ora vedeva nella casa del padre. Rapidamente trasfonde nel giovane la sua

audacia. Arrunto Tarquinio e Tullia minore con due omicidi a breve distanza, avendo reso la casa vuota per un nuovo

matrimonio sono uniti in nozze senza il divieto di Servio, più che col suo consenso. 

 

Libro 1, Par. 48
Latino
[1] Huic orationi Seruius cum intervenisset trepido nuntio excitatus, extemplo a vestibulo curiae magna voce "Quid hoc"

inquit, "Tarquini, rei est? qua tu audacia me uiuo vocare ausus es patres aut in sede considere mea? [2] " Cum ille ferociter

ad haec - se patris sui tenere sedem; multo quam seruum potiorem filium regis regni heredem; satis illum diu per licentiam

eludentem insultasse dominis-, clamor ab utriusque fautoribus oritur et concursus populi fiebat in curiam, apparebatque

regnaturum qui vicisset. [3] Tum Tarquinius necessitate iam et ipsa cogente ultima audere, multo et aetate et viribus

ualidior, medium arripit Seruium elatumque e curia in inferiorem partem per gradus deiecit; inde ad cogendum senatum in

curiam rediit. [4] Fit fuga regis apparitorum atque comitum; ipse prope exsanguis cum sine regio comitatu domum se reciperet

ab iis qui missi ab Tarquinio fugientem consecuti erant interficitur. [5] Creditur, quia non abhorret a cetero scelere,

admonitu Tulliae id factum. Carpento certe, id quod satis constat, in forum inuecta nec reuerita coetum virorum euocavit

virum e curia regemque prima appellavit. [6] A quo facessere iussa ex tanto tumultu cum se domum reciperet pervenissetque ad

summum Cyprium vicum, ubi Dianium nuper fuit, flectenti carpentum dextra in Urbium cliuum ut in collem Esquiliarum

eueheretur, restitit pavidus atque inhibuit frenos is qui iumenta agebat iacentemque dominae Seruium trucidatum ostendit. [7]

Foedum inhumanumque inde traditur scelus monumentoque locus est - Sceleratum vicum vocant - quo amens, agitantibus furiis

sororis ac viri, Tullia per patris corpus carpentum egisse fertur, partemque sanguinis ac caedis paternae cruento vehiculo,

contaminata ipsa respersaque, tulisse ad penates suos virique sui, quibus iratis malo regni principio similes propediem

exitus sequerentur. [8] Servius Tullius regnavit annos quattuor et quadraginta ita ut bono etiam moderatoque succedenti regi

difficilis aemulatio esset; ceterum id quoque ad gloriam accessit quod cum illo simul iusta ac legitima regna occiderunt. [9]

Id ipsum tam mite ac tam moderatum imperium tamen quia unius esset deponere eum in animo habuisse quidam auctores sunt, ni

scelus intestinum liberandae patriae consilia agitanti intervenisset.

 

Italiano
[1] Durante questo discorse essendo sopravvenuto Servio sollecito da un nunzio trepidante subito dal vestilo della curia a

gran voce disse: “Che è questo, Tarquinio? Con quale audacia mentre io sono vivo hai osato convocare i senatori o sederti sul

mio trono?” [2] Avendo quello risposto a queste parole insolentemente che egli occupava il trono di suo padre e che il figlio

di un re è un erede al trono molto migliore di uno schiavo e che lui già abbastanza a lungo avendo calpestato i veri padroni

facendosi impudentemente gioco di loro, il clamore si levò dei fautori di entrambi e c’era l’accorrere del popolo nella curia

e appariva chiaro che avrebbe regnato chi avesse vinto. [3] Allora Tarquinio costretto ormai dalla necessità ad osare

l’estrema violenza, molto più robusto per età e per forze, prende (afferra) Servio alla vita e portatolo fuori lo scaraventa

nella parte inferiore giù dalla scalinata; Quindi ritornò in Senato per trattenere i Senatori. [4] Si verifica allora la fuga

degli appartori (guardie del re) e di quelli che lo accompagnavano: egli stesso, quasi esangue, mentre si trascinava verso

casa quasi dissanguato insieme al seguito reale, da coloro che erano stati inviati da Tarquinio. Raggiunto lui (raggiuntolo)

viene ucciso. [5] Si crede, poiché anche questo non è dissimile dagli altri delitti, che sia stato concesso per istigazione

di Tullia. Di certo, per quello che è abbastanza noto, trasportata su un carro nel foro, e senza vergogna di quel consesso di

uomini, chiamò il marito fuori dalla curia e fu la prima a chiamarlo re. [6] E da lui ordinata da tanto tumulto mentre si

recava a casa e essendo giunta in cima al vico Cipro, fino a poco tempo prima c’era un tempietto di Diana, mentre lei faceva

voltare a destra il cocchio verso la costa Urbia per essere portata al colle Espulino, si fermò pavido e trattenne le redini

con cui guidava i giumenti (cavalli) e mostrò alla padrona il corpo di Servio trucidato a Terra. [7] Si tramanda a questo

punto un delitto orrendo e inumano, ed il ricordo è conservato dal luogo: Lo chiamano vico Scellerato dove fuori di sé,

sconvolta dalle furie della sorella e del marito, si dice che tutta trasportasse per mezzo di un carro il corpo del padre

ucciso insanguinò il veicolo e che ella stessa contaminata e macchiata lo portò fino ai suoi penati e del marito, la causa

della cui ira a questo cattivo inizio del regno seguì ben presto una fine consimile. [8] Servio Tullio regnò quarantaquattro

anni in modo tale che sarebbe stato difficile emularlo anche per un successore virtuoso e moderato. Ma in realtà egli

aggiunse alla sua gloria anche questo che con lui contemporaneamente finirono i regni giusti e legittimi. [9] Questo stesso

impero così mite e moderato tuttavia per il fatto che era nelle mani di un solo, alcuni riferiscono che egli aveva avuto in

animo di deporre se una discordia intestina non fosse intervenuta contro di lui che meditava di concedere la libertà alla

patria. 

 

Libro 1, Par. 58, 4-15
Latino
Ubi obstinatam videbat et ne mortis quidem metu inclinari, addit ad metum dedecus: cum mortua iugulatum seruum nudum

positurum ait, ut in sordido adulterio necata dicatur. Quo terrore cum vicisset obstinatam pudicitiam velut vi victrix

libido, profectusque inde Tarquinius ferox expugnato decore muliebri esset, Lucretia maesta tanto malo nuntium Romam eundem

ad patrem Ardeamque ad virum mittit, ut cum singulis fidelibus amicis veniant; ita facto maturatoque opus esse; rem atrocem

incidisse. Sp. Lucretius cum P. Valerio Volesi filio, Collatinus cum L. Iunio Bruto venit, cum quo forte Romam rediens ab

nuntio uxoris erat conuentus. Lucretiam sedentem maestam in cubiculo inveniunt. Adventu suorum lacrimae obortae, quaerentique

viro "Satin salue?" "Minime" inquit; "quid enim salui est mulieri amissa pudicitia? Vestigia viri alieni, Collatine, in lecto

sunt tuo; ceterum corpus est tantum violatum, animus insons; mors testis erit. Sed date dexteras fidemque haud impune

adultero fore. Sex. est Tarquinius qui hostis pro hospite priore nocte vi armatus mihi sibique, si vos viri estis, pestiferum

hinc abstulit gaudium." Dant ordine omnes fidem; consolantur aegram animi avertendo noxam ab coacta in auctorem delicti:

mentem peccare, non corpus, et unde consilium afuerit culpam abesse. "Vos" inquit "uideritis quid illi debeatur: ego me etsi

peccato absoluo, supplicio non libero; nec ulla deinde impudica Lucretiae exemplo uiuet." Cultrum, quem sub ueste abditum

habebat, eum in corde defigit, prolapsaque in volnus moribunda cecidit. Conclamat vir paterque.

 

Italiano
Dove la vedeva ostinata e non essere piegata nemmeno dal timore della morte, aggiunse la vergogna al timore: disse che egli

avrebbe collocato accanto a lei morta un servo sgozzato nudo affinché si dicesse uccisa in turpe adulterio. Con questo

terrore la libidine come vincitrice avendo vinto l\'ostinata pudicizia, e il fiero Tarquinio essendosene partito di qui ed

essendo stato espugnato il decoro della donna, Lucrezia mesta in tanto dolore mandò lo stesso nunzio al padre a Roma e al

marito ad Ardea, affinché venissero ciascuno con un amico fidato; c\'era bisogno che fosse fatto così e subito, era accaduta

una cosa atroce. Spurio Lucrezio venne con Valerio figlio di Voleso, Collatino con Lucio Giunio Bruto, dal quale per caso

ritornando a Roma era stato incontrato dal messaggero della moglie. Trovarono Lucrezia mentre sedeva mesta nella stanza.

All\'arrivo dei suoi spuntarono le lacrime, e al marito che chiedeva "Stai bene?" rispose "Niente affatto; che cosa, infatti,

è salvo in una donna che ha perduto l\'onore? Nel tuo letto, Collatino, ci sono le tracce di un altro uomo: solo il mio corpo

è stato violato, il mio cuore è puro e te lo proverò con la mia morte. Ma giuratemi che l\'adultero non rimarrà impunito. Si

tratta di Sesto Tarquinio: è lui che ieri notte è venuto qui e, restituendo ostilità in cambio di ospitalità, armato e con la

forza ha abusato di me. Se siete uomini veri, fate sì che quel rapporto non sia fatale solo a me ma anche a lui.» Uno dopo

l\'altro giurano tutti. Cercano quindi di consolarla con questi argomenti: in primo luogo la colpa ricadeva solo sull\'autore

di quell\'azione abominevole e non su di lei che ne era stata la vittima; poi non è il corpo che pecca ma la mente e quindi,

se manca l\'intenzione, non si può parlare di colpa. Ma lei replica: «Sta a voi stabilire quel che si merita. Quanto a me,

anche se mi assolvo dalla colpa, non significa che non avrò una punizione. E da oggi in poi, più nessuna donna, dopo

l\'esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!» Afferrato il coltello che teneva nascosto sotto la veste, se lo piantò nel cuore

e, piegandosi sulla ferita, cadde a terra esanime tra le urla del marito e del padre. 

 

Libro 1, Par. 9
Latino
[1] Iam res Romana adeo erat valida ut cuilibet finitimarum civitatum bello par esset; sed penuria mulierum hominis aetatem

duratura magnitudo erat, quippe quibus nec domi spes prolis nec cum finitimis conubia essent. [2] Tum ex consilio patrum

Romulus legatos circa vicinas gentes misit qui societatem conubiumque novo populo peterent: [3] urbes quoque, ut cetera, ex

infimo nasci; dein, quas sua virtus ac di iuvent, magnas opes sibi magnumque nomen facere. [4] Satis scire, origini Romanae

et deos adfuisse et non defuturam virtutem; proinde ne gravarentur homines cum hominibus sanguinem ac genus miscere. [5]

Nusquam benigne legatio audita est: adeo simul spernebant, simul tantam in medio crescentem molem sibi ac posteris suis

metuebant. Ac plerisque rogitantibus dimissi ecquod feminis quoque asylum aperuissent; id enim demum compar conubium fore.

[6] Aegre id Romana pubes passa et haud dubie ad vim spectare res coepit. Cui tempus locumque aptum ut daret Romulus

aegritudinem animi dissimulans ludos ex industria parat Neptuno equestri sollemnes; Consualia vocat. [7] Indici deinde

finitimis spectaculum iubet; quantoque apparatu tum sciebant aut poterant, concelebrant ut rem claram exspectatamque

facerent. [8] Multi mortales conuenere, studio etiam videndae novae urbis, maxime proximi quique, Caeninenses, Crustumini,

Antemnates. [9] Iam Sabinorum omnis multitudo cum liberis ac coniugibus venit. Inuitati hospitaliter per domos cum situm

moeniaque et frequentem tectis urbem vidissent, mirantur tam breui rem Romanam crevisse. [10] Ubi spectaculi tempus venit

deditaeque eo mentes cum oculis erant, tum ex composito orta vis signoque dato iuventus Romana ad rapiendas virgines

discurrit. [11] Magna pars forte in quem quaeque inciderat raptae: quasdam forma excellentes, primoribus patrum destinatas,

ex plebe homines quibus datum negotium erat domos deferebant. [12] Unam longe ante alias specie ac pulchritudine insignem a

globo Thalassi cuiusdam raptam ferunt multisque sciscitantibus cuinam eam ferrent, identidem ne quis violaret Thalassio ferri

clamitatum; inde nuptialem hanc vocem factam. [13] Turbato per metum ludicro maesti parentes virginum profugiunt, incusantes

violati hospitii foedus deumque invocantes cuius ad sollemne ludosque per fas ac fidem decepti venissent. [14] Nec raptis aut

spes de se melior aut indignatio est minor. Sed ipse Romulus circumibat docebatque patrum id superbia factum qui conubium

finitimis negassent; illas tamen in matrimonio, in societate fortunarum omnium civitatisque et quo nihil carius humano generi

sit liberum fore. [15] Mollirent modo iras et, quibus fors corpora dedisset, darent animos; saepe ex iniuria postmodum

gratiam ortam; eoque melioribus usuras viris quod adnisurus pro se quisque sit ut, cum suam vicem functus officio sit,

parentium etiam patriaeque expleat desiderium. [16]Accedebant blanditiae virorum, factum purgantium cupiditate atque amore,

quae maxime ad muliebre ingenium efficaces preces sunt.

 

Italiano
[1] Già lo stato romano era così potente da essere eguale in guerra a qualunque delle città vicine ma per mancanza di donne

la grandezza era destinata a durare una sola generazione poiché non avevamo speranza di prole in patria né matrimonio con i

popoli vicini. [2] Allora su consiglio dei senatori Romolo mandò ambasciatori ai popoli vicini che chiedessero alleanza e

matrimoni per il nuovo popolo: [3] anche le città come le altre non nascono dal piccolo; e poi quelle che sono aiutate dal

proprio valore e dagli dei si conquistarono una grande potenza ed una grande forza. [4] Era ben noto che al sorgere di Roma

avevano assistito gli dei e che a Roma non sarebbe venuto meno il valore: quindi non rifiutassero di mescolare uomini con

uomini, il sangue e la stirpe. [5] In nessun luogo l’ambasciata fu ascoltata con favore; a tal punto disprezzavano e nello

stesso tempo temevano una così grande potenza che cresceva per sé e per i posteri. Gli ambasciatori furono congedati mentre i

più domandavano se avessero aperto un asilo anche per le donne; quello veramente sarebbe stato un matrimonio ben combinato.

[6] I giovani romani non sopportavano questo e la situazione cominciò a volgere decisamente verso una soluzione violenta. Per

offrire ad essa tempo e luogo adatto, Romolo, dissimulando il suo risentimento, prepara a bella posta dei giorni solenni, in

onore di nettuno equestre e li chiama “consuali”. [7] Ordina poi che lo spettacolo sia annunciato ai popoli confinanti e lo

celebrano con tutta la celebrità di cui erano capaci a quei tempi per rendere l’avvenimento splendido ed attraente. [8]

Convennero molti uomini anche per curiosità di vedere la nuova città e specialmente tutti i più vicini, gli abitanti. [9] E

poi tutta la folla sei Sabini venne con figli e le mogli. Invitati ospitalmente casa per casa avendo visto il luogo e le mura

e la città ricca di cose, si stupiscono che in così breve tempo la potenza romana fosse tanto cresciuta. [10] Quando venne il

momento dello spettacolo e volte là gli occhi erano concentratissimi sui giochi, allora secondo quanto stabilito scoppiò un

parapiglio e al segnale convenuto la gioventù romana si slancia da una parte per rapire le vergini. [11] Una gran parte fu

rapita per caso, a seconda di colui in cui ciascuna si imbatteva; ma alcune, le più belle destinate ai senatori, più in

vista, le trasportavano a casa uomini della plebe, ai quali era stato dato quell’incarico [12] Una che spiccava di gran lunga

fra le altre per la bellezza dell’aspetto, poiché molti chiedevano a chi la portassero, rapita dalla squadra di un certo

Talassio, si gridava continuamente perché nessuno la violasse e la portavano a Talassico; di qui è nato questo grido nuziale

[13] Sconvolta la festa dalla paura i mesti parenti delle vergini fuggono via lamentando che fosse stato violato il patto di

ospitalità, invocando il dio alla cui festa e ai cui giochi erano venuti, ingannati contro la religione e la parola data.

[14] Né alle vergini rapite la speranza di sé è migliore o minore immaginazione, ma lo stesso Romolo andava in giro e

spiegava ciò che era avvenuto per superbia dei padri che avevano negato il connuvio coi vicini, esse tuttavia sarebbero state

nel matrimonio, sarebbero state associate nel possesso di tutti di tutti i beni della cittadinanza e dei figli, cosa cui

nulla è più caro al genere umano. [15] Placassero soltanto le ire e a coloro i quali avevo assegnato i corpi dessero gli

animi. Spesso dall’offesa nasce in un secondo tempo l’affetto e avrebbero avuto dei mariti tanto migliori in quanto ciascuno

si sarebbe sforzato per quanto possibile, una volta adempiuto ai doveri del suo ruolo, di non far sentire loro la nostalgia

della patria e dei genitori “. [16] Si aggiungevano le blandizie dei mariti che giustificavano l’accaduto con la loro

passione d’amore, preghiere queste che hanno grande efficacia sull’animo femminile. 

Libro 1, Par.1, 1-5
Latino
[1] Iam primum omnium satis constat Troia capta in ceteros saevitum esse Troianos, duobus, Aeneae Antenorique, et vetusti

iure hospitii et quia pacis reddendaeque Helenae semper auctores fuerant, omne ius belli Achiuos abstinuisse; [2]casibus

deinde variis Antenorem cum multitudine Enetum, qui seditione ex Paphlagonia pulsi et sedes et ducem rege Pylaemene ad Troiam

amisso quaerebant, venisse in intimum maris Hadriatici sinum. [3] Euganeisque qui inter mare Alpesque incolebant pulsis

Enetos Troianosque eas tenuisse terras. Et in quem primo egressi sunt locum Troia vocatur pagoque inde Troiano nomen est:

gens universa Veneti appellati. [4]Aeneam ab simili clade domo profugum sed ad maiora rerum initia ducentibus fatis, primo in

Macedoniam venisse, inde in Siciliam quaerentem sedes delatum, ab Sicilia classe ad Laurentem agrum tenuisse. Troia et huic

loco nomen est. [5] Ibi egressi Troiani, ut quibus ab immenso prope errore nihil praeter arma et naues superesset, cum

praedam ex agris agerent, Latinus rex Aboriginesque qui tum ea tenebant loca ad arcendam vim advenarum armati ex urbe atque

agris concurrunt

 

Italiano
[1] Anzitutto è comunemente accertato che dopo la presa di Troia si infierì contro tutti gli altri troiani; mentre con due

soli i Greci si astennero dall’applicare il diritto di Guerra, Enea e Antenore, e per antico diritto di ospitalità perché

erano sempre stati fautori della pace e della restituzione di Elena. [2]Attraverso vicissitudini varie, poi Antenore con una

moltitudine di Eneti che cacciati dalla Paflagonia, per l’insurrezione cercavano una sede e un re dopo che avevano perso a

Troia il loro Re Pilemone, venne una parte più interna dell’Adriatico. [3] E espulsi gli Euganei che abitavano fra il mare e

le alpi, gli Eneidi e i Troiani occuparono quel Territorio e in un luogo in cui da prima si stanziarono viene chiamato Troia

e di qui quel territorio ha il nome di Troiano, mentre la popolazione nel suo complesso ebbe il nome di Veneti. [4] Enea

profugo da una simile disfatta ma guidato dai fatti a dare inizio a maggiori eventi, dapprima giunse in Macedonia, quindi,

mentre cercava in sicila una nuova sede fu trasportato e dalla Sicilia, con la flotta puntò sul lago Laucentino anche questo

luogo ha il nome di Troia. [5] Come quelli a cui da un errare quasi interminabile non rimaneva nulla tranne le armi e le navi

facendo qui preda nei campi il re latino e gli aborigeni che allora occupavano quei luoghi accorrono dalla città e dalle

campagne per respingere le violenze dei forestieri. 



Libro 2, Par. 12, 8-12
Latino
Vadentem inde qua per trepidam turbam cruento mucrone sibi ipse fecerat viam, cum concursu ad clamorem facto comprehensum

regii satellites retraxissent, ante tribunal regis destitutus, tum quoque inter tantas fortunae minas metuendus magis quam

metuens, "Romanus sum" inquit, "civis; C. Mucium vocant. Hostis hostem occidere volui, nec ad mortem minus animi est, quam

fuit ad caedem; et facere et pati fortia Romanum est. Nec unus in te ego hos animos gessi; longus post me ordo est idem

petentium decus. Proinde in hoc discrimen, si iuvat, accingere, ut in singulas horas capite dimices tuo, ferrum hostemque in

vestibulo habeas regiae. Hoc tibi iuventus Romana indicimus bellum. Nullam aciem, nullum proelium timueris; uni tibi et cum

singulis res erit."

 

Italiano
Mentre se ne andava di lì, facendosi largo da dove egli stesso si era aperto un varco con la spada insanguinata attraverso la

folla impaurita, poiché, accorsa la gente al rumore, le guardie del re lo avevano arrestato, bloccato, lo portarono (lett.

condotto) davanti al seggio del re, perfino allora temibile più che timoroso, in mezzo a così grandi minacce della sorte,

disse: "Sono cittadino romano; mi chiamano Gaio Muzio. Nemico, ho voluto uccidere un nemico, e di fronte alla morte non ho

minor coraggio di quanto ne ebbi di fronte all\'uccisione; tanto compiere quanto subire azioni valorose è degno di Romani. Né

io solo ho concepito questi sentimenti nei tuoi confronti; dopo di me c\'è una lunga fila di nomi che aspirano allo stesso

onore. Perciò preparati a questa prova, se ti piace: a lottare ogni ora del giorno per la tua vita, e ad avere un pugnale

nemico nell\'atrio della reggia. Questa (è) la guerra che noi gioventù romana, ti dichiariamo (lett. Questa guerra la

gioventù romana dichiariamo). Non temere nessun esercito, nessuna battaglia: la cosa si deciderà fra te solo e ciascuno di

noi." 

 

Libro 2, Par. 31
Latino
Dum haec in Volscis geruntur, dictator Sabinos, ubi longe plurimum belli fuerat, fundit exuitque castris. Equitatu immisso

mediam turbauerat hostium aciem, quam, dum se cornua latius pandunt, parum apte introrsum ordinibus firmauerant; turbatos

pedes inuasit. Eodem impetu castra capta debellatumque est. Post pugnam ad Regillum lacum non alia illis annis pugna clarior

fuit. Dictator triumphans urbem inuehitur. Super solitos honores locus in circo ipsi posterisque ad spectaculum datus; sella

in eo loco curulis posita. Volscis deuictis Veliternus ager ademptus; Velitras coloni ab urbe missi et colonia deducta. Cum

Aequis post aliquanto pugnatum est, inuito quidem consule quia loco iniquo subeundum erat ad hostes; sed milites extrahi rem

criminantes ut dictator priusquam ipsi redirent in urbem magistratu abiret inritaque, sicut ante consulis, promissa eius

caderent, perpulere ut forte temere in aduersos montes agmen erigeret. Id male commissum ignauia hostium in bonum uertit, qui

priusquam ad coniectum teli ueniretur, obstupefacti audacia Romanorum, relictis castris quae munitissimis tenuerant locis, in

auersas ualles desiluere. Ibi satis praedae et uictoria incruenta fuit. Ita trifariam re bello bene gesta, de domesticarum

rerum euentu nec patribus nec plebi cura decesserat: tanta cum gratia tum arte praeparauerant feneratores quae non modo

plebem, sed ipsum etiam dictatorem frustrarentur. Namque Valerius post Vetusi consulis reditum omnium actionum in senatu

primam habuit pro uictore populo, rettulitque quid de nexis fieri placeret. Quae cum reiecta relatio esset, "non placeo"

inquit, "concordiae auctor. Optabitis, mediusfidius, propediem, ut mei similes Romana plebis patronos habeat. Quod ad me

attinet, neque frustrabor ultra ciues meos neque ipse frustra dictator ero. Discordiae intestinae, bellum externum fecere ut

hoc magistratu egeret res publica: pax foris parta est, domi impeditur; priuatus potius quam dictator seditioni interero."

Ita curia egressus dictatura se abdicauit. Apparuit causa plebi, suam uicem indignantem magistratu abisse; itaque uelut

persoluta fide, quoniam per eum non stetisset quin praestaretur, decedentem domum cum fauore ac laudibus prosecuti sunt.

 

Italiano
Durante questa campagna contro i Volsci, il dittatore, mette in rotta i Sabini - di gran lunga il nemico numero uno per Roma

- conquistandone l\'accampamento. Lanciatosi all\'attacco con la cavalleria, aveva fatto il vuoto nel centro dell\'esercito

nemico, rimasto troppo scoperto per l\'eccessiva apertura a ventaglio delle due ali. Nel bel mezzo di questo disordine

subentrarono i fanti all\'assalto. Con un solo e unico attacco presero l\'accampamento e misero fine alla campagna. Dopo

quella del lago Regillo, nessun\'altra battaglia, in quegli anni, fu più famosa. Il dittatore tornò a Roma in trionfo. Oltre

agli onori di rito, fu riservato un posto a lui e ai suoi discendenti per assistere ai ludi nel circo, e lì fu sistemata una

sedia curule. A séguito di questa sconfitta i Volsci persero il territorio di Velitra; la città, popolata da coloni inviati

da Roma, divenne colonia. Poco tempo dopo si combatté con gli Equi, anche se il console era contrario perché si trattava di

abbordare il nemico da posizione sfavorevole. Ma i suoi uomini lo accusavano di tirare per le lunghe la cosa per lasciare che

scadesse il mandato del dittatore prima del loro rientro a Roma e far così cadere nel nulla le sue promesse, come era già

prima successo con quelle del console. Quindi lo forzarono a una mossa sconsiderata e del tutto affidata al caso: spingere le

truppe sul versante della montagna di fronte a loro. Fu solo grazie alla codardia dei nemici che questa manovra, di per sé

malcongegnata, ebbe un esito favorevole: i Romani non erano ancora arrivati a distanza di tiro che essi, scoraggiati da una

simile dimostrazione di audacia, abbandonarono il loro accampamento piazzato in una posizione quasi inespugnabile e si

dileguarono nei valloni dell\'altro versante. Si trattò di un bottino non trascurabile e di una vittoria senza perdite.

Malgrado questo triplice successo militare, plebe e senato non avevano smesso di preoccuparsi della soluzione dei problemi

interni. E gli usurai, con un assiduo lavorio da veri esperti, si erano dotati degli strumenti per frustrare le iniziative

non solo della plebe ma anche del dittatore stesso. Infatti Valerio, dopo il rientro del console Vetusio, diede precedenza

assoluta alla causa del popolo vincitore, portandola all\'attenzione del senato e chiedendo un pronunciamento definitivo

sugli insolventi per debiti. Visto che la richiesta non fu approvata, disse: «Io non vi vado a genio perché cerco di

ricomporre la frattura. Tra pochi giorni, ve lo garantisco, desidererete che la plebe abbia dei difensori come me. Per quel

che mi riguarda, non ho intenzione di prendere ulteriormente in giro i miei concittadini né di continuare a fare il dittatore

solo in teoria. Questa magistratura era l\'unica soluzione per uno Stato diviso tra urti interni e una guerra da combattere

all\'esterno: fuori è tornata la pace, mentre in città si fa di tutto per ostacolarla. Interverrò nei disordini da privato

cittadino piuttosto che da dittatore.» Uscì quindi dalla curia e rassegnò le dimissioni. La plebe capì benissimo che un gesto

simile era stato dettato dal risentimento per i torti che essa subiva. E così, come se egli avesse mantenuto la parola - non

era colpa sua se l\'impegno non era stato onorato -, lo seguirono mentre rientrava a casa e gli manifestarono la loro

gratitudine con un lungo applauso. 

 

Libro 2, Par. 32
Latino
Timor inde patres incessit ne, si dimissus exercitus foret, rursus coetus occulti coniurationesque fierent. Itaque quamquam

per dictatorem dilectus habitus esset, tamen quoniam in consulum uerba iurassent sacramento teneri militem rati, per causam

renouati ab Aequis belli educi ex urbe legiones iussere. Quo facto maturata est seditio. Et primo agitatum dicitur de

consulum caede, ut soluerentur sacramento; doctos deinde nullam scelere religionem exsolui, Sicinio quodam auctore iniussu

consulum in Sacrum montem secessisse. Trans Anienem amnem est, tria ab urbe milia passuum. Ea frequentior fama est quam cuius

Piso auctor est, in Auentinum secessionem factam esse. Ibi sine ullo duce uallo fossaque communitis castris quieti, rem

nullam nisi necessariam ad uictum sumendo, per aliquot dies neque lacessiti neque lacessentes sese tenuere. Pauor ingens in

urbe, metuque mutuo suspensa erant omnia. Timere relicta ab suis plebis uiolentiam patrum; timere patres residem in urbe

plebem, incerti manere eam an abire mallent: quamdiu autem tranquillam quae secesserit multitudinem fore? Quid futurum deinde

si quod externum interim bellum exsistat? Nullam profecto nisi in concordia ciuium spem reliquam ducere; eam per aequa, per

iniqua reconciliandam ciuitati esse. Placuit igitur oratorem ad plebem mitti Menenium Agrippam, facundum uirum et quod inde

oriundus erat plebi carum. Is intromissus in castra prisco illo dicendi et horrido modo nihil aliud quam hoc narrasse fertur:

tempore quo in homine non ut nunc omnia in unum consentiant, sed singulis membris suum cuique consilium, suus sermo fuerit,

indignatas reliquas partes sua cura, suo labore ac ministerio uentri omnia quaeri, uentrem in medio quietum nihil aliud quam

datis uoluptatibus frui; conspirasse inde ne manus ad os cibum ferrent, nec os acciperet datum, nec dentes quae acciperent

conficerent. Hac ira, dum uentrem fame domare uellent, ipsa una membra totumque corpus ad extremam tabem uenisse. Inde

apparuisse uentris quoque haud segne ministerium esse, nec magis ali quam alere eum, reddentem in omnes corporis partes hunc

quo uiuimus uigemusque, diuisum pariter in uenas maturum confecto cibo sanguinem. Comparando hinc quam intestina corporis

seditio similis esset irae plebis in patres, flexisse mentes hominum.

 

Italiano
Allora i senatori cominciarono a temere che, congedando l\'esercito, si sarebbe tornati alle riunioni segrete e alle

cospirazioni. Così, pur essendo stati arruolati per ordine del dittatore, tuttavia, siccome avevano giurato nelle mani dei

consoli, si pensava che i soldati fossero ancora legati a quel giuramento. Quindi, col pretesto di una ripresa di ostilità da

parte degli Equi, ordinarono che le legioni venissero condotte fuori città. Ma questo provvedimento accelerò la rivolta.

Sulle prime pare si fosse parlato di assassinare i consoli per svincolarsi dagli obblighi del giuramento. Quando però fu

spiegato loro che non c\'era delitto che potesse liberare da un vincolo sacro, allora le truppe, su proposta di un certo

Sicinio, si ammutinarono all\'autorità dei consoli e si ritirarono sul monte Sacro, sulla riva destra dell\'Aniene, a tre

miglia da Roma. Questa è la versione più accreditata. Stando invece a quella adottata da Pisone, la secessione sarebbe

avvenuta sull\'Aventino. Lì, senza nessuno che li guidasse, fortificarono in tutta calma il campo con fossati e palizzate

limitandosi ad andare in cerca di cibo e, per alcuni giorni, non subirono attacchi né attaccarono a loro volta. Roma era nel

panico più totale e il clima di mutua apprensione teneva tutto in sospeso. La plebe, abbandonata al suo destino, temeva

un\'azione di forza organizzata dal senato; i senatori temevano la parte di plebe rimasta in città, ed erano incerti se fosse

preferibile che essa rimanesse o se ne andasse. E poi, quanto sarebbe durata la calma dei secessionisti? Che cosa sarebbe

successo se nel frattempo fosse scoppiata una guerra con qualche paese straniero? La sola speranza era rappresentata dalla

concordia interna: per il bene dello Stato andava restaurata e a qualunque costo. Si decise allora di mandare alla plebe come

portavoce Menenio Agrippa, uomo dotato di straordinaria dialettica e ben visto per le sue origini popolari. Una volta

introdotto nel campo, pare che raccontò questo apologo con lo stile un po\' rozzo tipico degli antichi: «quando le membra del

corpo umano non costituivano ancora un tutt\'uno armonico, ma ciascuna di esse aveva un suo linguaggio e un suo modo di

pensare autonomi, tutte le altre parti erano indignate di dover sgobbare a destra e a sinistra per provvedere a ogni

necessità dello stomaco, mentre questo se ne stava zitto zitto lì nel mezzo a godersi il bendiddio che gli veniva dato.

Allora, decisero di accordarsi così: le mani non avrebbero più portato il cibo alla bocca, la bocca non si sarebbe più aperta

per prenderlo, né i denti lo avrebbero più masticato. Mentre, arrabbiate, credevano di far morire di fame lo stomaco, le

membra stesse e il corpo tutto erano ridotti pelle e ossa. In quel momento capirono che anche lo stomaco aveva una sua

funzione e non se ne stava inoperoso: nutriva tanto quanto era nutrito e a tutte le parti del corpo restituiva, distribuito

equamente per le vene e arricchito dal cibo digerito, il sangue che ci dà vita e forza». Mettendo in parallelo la ribellione

interna delle parti del corpo e la rabbia della plebe nei confronti del senato, Menenio riuscì a farli ragionare. 

 

Libro 2, Par. 33
Latino
Agi deinde de concordia coeptum, concessumque in condiciones ut plebi sui magistratus essent sacrosancti quibus auxilii latio

aduersus consules esset, neue cui patrum capere eum magistratum liceret. Ita tribuni plebei creati duo, C. Licinius et L.

Albinus. Ii tres collegas sibi creauerunt. In his Sicinium fuisse, seditionis auctorem: de duobus, qui fuerint minus

conuenit. Sunt qui duos tantum in Sacro monte creatos tribunos esse dicant, ibique sacratam legem latam. Per secessionem

plebis Sp. Cassius et Postumius Cominius consulatum inierunt. Iis consulibus cum Latinis populis ictum foedus. Ad id

feriendum consul alter Romae mansit: alter ad Volscum bellum missus Antiates Volscos fundit fugatque; compulsos in oppidum

Longulam persecutus moenibus potitur. Inde protinus Poluscam, item Volscorum, cepit; tum magna ui adortus est Coriolos. Erat

tum in castris inter primores iuuenum Cn. Marcius, adulescens et consilio et manu promptus, cui cognomen postea Coriolano

fuit. Cum subito exercitum Romanum Coriolos obsidentem atque in oppidanos, quos intus clausos habebat, intentum, sine ullo

metu extrinsecus imminentis belli, Volscae legiones profectae ab Antio inuasissent, eodemque tempore ex oppido erupissent

hostes, forte in statione Marcius fuit. Is cum delecta militum manu non modo impetum erumpentium rettudit, sed per patentem

portam ferox inrupit in proxima urbis, caedeque facta ignem temere arreptum imminentibus muro aedificiis iniecit. Clamor inde

oppidanorum mixtus muliebri puerilique ploratu ad terrorem, ut solet, primum orto et Romanis auxit animum et turbauit Volscos

utpote capta urbe cui ad ferendam opem uenerant. Ita fusi Volsci Antiates, Corioli oppidum captum; tantumque sua laude

obstitit famae consulis Marcius ut, nisi foedus cum Latinis in columna aenea insculptum monumento esset ab Sp. Cassio uno,

quia collega afuerat, ictum, Postumum Cominium bellum gessisse cum Volscis memoria cessisset. Eodem anno Agrippa Menenius

moritur, uir omni in uita pariter patribus ac plebi carus, post secessionem carior plebi factus. Huic interpreti arbitroque

concordiae ciuium, legato patrum ad plebem, reductori plebis Romanae in urbem sumptus funeri defuit; extulit eum plebs

sextantibus conlatis in capita.

 

Italiano
Venne allora affrontato il tema della riconciliazione e si giunse al seguente compromesso: la plebe avrebbe avuto dei

magistrati sacri e inviolabili il cui compito sarebbe stato quello di prendere le sue difese contro i consoli, e nessun

patrizio avrebbe potuto avere quest\'incarico. Quindi furono eletti due tribuni della plebe, Caio Licinio e Lucio Albino. A

loro volta essi si scelsero tre colleghi, uno dei quali era Sicinio, il promotore della rivolta. Sui nomi degli altri due ci

sono parecchie incertezze. Alcuni autori sostengono che sul monte Sacro vennero eletti soltanto due tribuni e che lì fu

proposta la legge sull\'inviolabilità. Durante la secessione della plebe, Spurio Cassio e Postumio Cominio erano diventati

consoli. Nel corso del loro mandato fu stipulato un trattato di alleanza con le popolazioni latine. Per concluderlo, uno dei

consoli rimase a Roma. Il suo collega, invece, incaricato di una campagna contro i Volsci, sbaragliò e disperse i Volsci di

Anzio; quindi, costringendoli a rifugiarsi a Longula, li inseguì ed espugnò la città. Subito dopo conquistò Polusca, altra

città dei Volsci. Poi attaccò con estrema decisione Corioli. Tra i giovani nobili c\'era allora arruolato Gneo Marzio, tipo

sveglio e risoluto, che in séguito fu soprannominato Coriolano. Mentre l\'esercito romano era intento all\'assedio di Corioli

e teneva gli occhi puntati sugli abitanti compressi all\'interno delle mura, senza alcuna preoccupazione di un eventuale

attacco dall\'esterno, fu all\'improvviso assalito da un contingente di Volsci partiti da Anzio e contemporaneamente sorpreso

da una sortita degli assediati. Per caso Marzio era di guardia. Con un pugno di soldati scelti non solo tamponò la sortita,

ma ebbe anche il coraggio di buttarsi oltre la porta dove compì un massacro nei quartieri più vicini e, trovandosi del fuoco

per le mani, incendiò gli edifici che sovrastavano il muro. Il panico dei cittadini che, come sempre succede, seguì, misto ai

pianti delle donne e dei bambini, la prima reazione degli assediati, tonificò i Romani e demoralizzò i Volsci, ovviamente

sconsolati dalla resa della città cui eran venuti in soccorso. Così furono sbaragliati i Volsci di Anzio e conquistata la

città di Corioli. L\'impresa di Marzio eclissò la gloria del console al punto che, se il trattato coi Latini, concluso dal

solo Spurio Cassio in assenza del collega, non fosse rimasto inciso a perenne memoria su una colonna di bronzo, nessuno si

ricorderebbe che Postumio Cominio combatté contro i Volsci. Quello stesso anno morì Menenio Agrippa, l\'uomo che in vita era

stato ugualmente caro alla plebe e ai senatori e che dopo la secessione sul monte Sacro fu più caro alla plebe. L\'uomo che

aveva fatto da mediatore e da interprete della riconciliazione tra i cittadini, che era stato l\'ambasciatore del senato

presso la plebe e colui che l\'aveva ricondotta a Roma, non lasciò il denaro sufficiente per pagarsi il funerale: ci pensò

così la plebe, con una sottoscrizione di un sesto di asse a testa. 

Libro 21, Par. 26
Latino
Qui tumultus repens postquani est Romain perlatus et Punicum insuper Gallico bellum auctuni patres acceperunt, C. Atiliuni

praetorem cum una legione Romana et quinque milibus sociorum, dilectu novo a consule conscriptis, auxiliuni ferre Manlio

iubent; qui sine ullo certamine - abscesserant enim metu hostes -Tannetum. pervenit. Et P Cornelius, in locum eius quae missa

cum praetore erat scripta legione nova, profectus ab urbe sexaginta longis navibus praeter oram Etruriae Ligurumque et inde

Salluvium montes pervenit Massiliam et ad proximum ostium Rhodani - pluribus enim divisus amnis in mare decurrit - castra

locat, vixduni satis credens Hannibaleni superasse Pyrenaeos montes. Quem ut de Rhodani quoque transitu agitare animadvertit,

incertus quonam ei loco occurreret necdum satis refectis ab iactatione maritima militibus trecentos interim delectos equites

ducibus Massiliensibus et auxiliaribus Gallis ad exploranda omnia visendosque ex tuto hostes praemittit. Hannibal ceteris

metu aut pretio pacatis iam in Volcarum pervenerat agrum, gentis validae. Colunt autem circa utrainque ripam Rhodani; sed

diffisi citeriore agro arceri Poenum posse, ut flumen pro munimento haberent, omnibus ferme suis trans Rhodanum traiectis

ulteriorem ripam amnis armis obtinebant. Ceteros accolas fluminis Hannibal et eorum ipsorum quos sedes suae tenuerant simul

perlicit donis ad naves undique contraliendas fabricandasque; simul et ipsi traici exercitum levarique quam primum regionem

suam tanta hominum urgente turba cupiebant. Itaque ingens coacta vis navium est lintriunique temere ad vicinalem usum

paratarum; novasque alias primum Galli incoliantes cavabant ex singulis arboribus, deinde et ipsi milites simul copia

materiac, simul facilitate operis inducti, alveos informes, nihil dummodo innare aquae et capere onera possent curantes,

raptim quibus se suaque transveherent faciebant.

 

 

Italiano
Appena questa improvvisa sollevazione fu riferita a Roma, i senatori compresero che alla guerra contro i Cartaginesi si stava

aggiungendo una guerra gallica e allora ordinarono al pretore Gaio Atilio di portare aiuto a Manlio con una legione romana e

cinquemila alleati appena arruolati dal console. Gaio Atilio, senza mai incontrare il nemico che si era allontanato per la

paura, giunse a Tanneto. Inoltre Publio Cornelio, arruolata una legione al posto di quella che era stata inviata agli ordini

del pretore, partì da Roma con sessanta navi da guerra e, dopo aver costeggiato il litorale etrusco e le regioni montuose dei

Liguri e dei SalhiVi, giunse a Marsiglia e pose gli accampamenti presso il braccio più vicino tra i molti con cui il Rodano

sfocia nel mare. In quel momento stentava a credere persino che Annibale avesse superato i Pirenei e ben presto seppe che si

stava adddirittura preparando a passare il Rodano. Incerto su quale zona scegliere per pararglisi contro, poiché i suoi

soldati non si erano ancora ripresi dallo sconquasso del viaggio via mare, prese tempo mandando avanti trecento cavalieri

scelti affinché, assieme a delle guide marsigliesi e a truppe ausiliarie galliche, procedessero ad una ricognizione generale

e osservassero i nemici da un luogo sicuro. Annibale, dopo aver pacificato tutti gli altri popoli ricorrendo non solo alla

paura ma anche al denaro, era giunto nel territorio del forte popolo dei VOICi. Questa popolazione è stanziata su entrambe le

rive del Rodano e nelle regioni circostanti; i Volci disperavano di poter tenere Annibale lontano dalla riva destra del fiume

e allora, per usare il fiume stesso come difesa, portarono al di là del Rodano quasi ogni loro cosa e occuparono in armi

l\'altra riva. Annibale allettò con doni tutte le popolazioni rivierasche (e anche quei Volci che erano rimasti legati alle

loro sedi) ad aiutarlo nel radunare imbarcazioni da ogni parte e a fabbricarle. Del resto quelle popolazioni erano le prime a

desiderare ardentemente che l\'esercito passasse e che la loro regione fosse sollevata dall\'oppressione di una così grande

quantità di uomini. Fu perciò radunato un gran numero di navi e imbarcazioni rozzamente costruite per una navigazione vicina

alla costa. In un primo tempo i Galli si dettero a fabbricarne altre scavando ogni singolo tronco e poi anche gli stessi

soldati, sollecitati dall\'abbondanza del materiale e dalla semplicità dell\'esecuzione, fabbricavano in fretta scafi

grossolani per trasferire se stessi e le loro cose oltre il fiume; non si curavano di nulla: bastava che reggessero l\'acqua

e fossero in grado di portare pesi.

 
Libro 21, Par. 29
Latino
Dum elephanti traiciuntur, interim Hannibal Numidas equites quingentos ad castra Romana miserat speculatuni ubi et quantae

copiae essent et quid pararent. Huic alae equitum missi, ut ante dictuin est, ab ostio Rhodani trecenti Romanoruin equites

occurrunt. Proeliuni atrocius quam pro numero pugnantium editur; nam praeter multa vulnera caedes etiam prope par utrinique

fuit, fugaque et pavor Numidarimi Romanis iani admodum fessis victoriam dedit. Victores ad centum sexaginta, nec orimes

Romani sed pars Gallorum, victi amplius ducenti ceciderunt. Hoc principium simul omenque belli ut summae rerum prosperuin

eventum, ita haud sane incruentam ancipitisque certaminis victoriam Romanis portendit. Ut re ita gesta ad utrumque ducem sui

redierunt, nec Scipioni stare sententia poterat nisi ut ex consiliis coeptisque hostis et ipse conatus caperet, et

Hannibalem, incertuin utrum coeptum in Italiani intenderet iter an cum eo qui primus se obtulisset Romanus exercitus manus

consèreret, avertit a praesenti certamine Boioruin legatorum. regulique Magali adventus, qui se duces itinerum, socios

periculi fore adfirmantes, integro bello nusquam ante libatis viribus Italiani adgrediendam censent. Multitudo timebat

quideni hostem nondum oblitterata memoria superioris belli; sed magis iter immensum Alpesque, reni fama utique inexpertis

horrendam, metuebat.

 

Italiano
Mentre gli elefanti venivano traghettati, Annibale aveva mandato cinquecento cavalieri Numidi in direzione degli accampamenti

romani per una ricognizione: voleva sapere dove fossero le truppe romane, quanto numerose fossero e cosa stessero preparando.

I trecento cavalieri romani fatti partire, come ho raccontato prima, dalla foce del Rodano, si imbatterono in questo reparto

di cavalleria: ne nacque uno scontro più sanguinoso di quanto ci si potesse aspettare dall\'esiguo numero dei combattenti.

Infatti, anche a non tener conto dei molti feriti, vi fu quasi uguale strage sui due fronti e solo la fuga dei Numidi

spaventati diede la vittoria ai Romani già molto stanchi. I vincitori registrarono centoquaranta caduti (non tutti romani ma

anche, in parte, galli), gli sconfitti più di duecento. Questo primo episodio del conflitto - una sorta di presagio

dell\'intera guerra - preannunciò ai Romani l\'esito nel complesso favorevole delle ostilità, ma anche una vittoria non certo

incruenta a conclusione di una contrapposizione a lungo incerta. Dopo questo combattimento i cavalieri fecero ritorno presso

i comandanti: Scipione non aveva altro proposito che prendere a sua volta iniziative sulla base delle decisioni e delle opere

già intraprese dal nemico; Annibale era invece incerto se proseguire il viaggio portandosi in Italia o se venire invece ad

uno scontro con quel primo esercito romano che gli si era parato davanti. Lo distolse dallo scendere subito a battaglia

l\'arrivo degli ambasciatori dei Boi e del loro capo Magalo, i quali affermarono che lo avrebbero guidato nel viaggio e

sarebbero stati suoi compagni nel pericoli, esprimendo il parere che si dovesse giungere in Italia senza aver prima

effettuato azioni di guerra e senza che in nessun caso prima fossero state intaccate le forze cartaginesi. Il ricordo della

guerra precedente non si era ancora cancellato e la massa dei soldati temeva il nemico ma era addirittura terrorizzata dal

lunghissimo viaggio attraverso le Alpi: un\'impresa, si diceva, da mettere i brividi soprattutto a chi non ne aveva mai fatto

esperienza. 

 

Libro 21, Par. 33
Latino
Prima deinde luce castra mota et agmen reliquum incedere coepit. lam montani signo dato ex castellis ad stationem solitam

conveniebant, cum repente conspiciunt alios arce occupata sua super caput imminentes, alios via transire hostes. Utraque

simul obiecta res oculis animisque immobiles parumper eos defixit; deinde, ut trepidationem in angustiis suoque ipsum tumultu

misceri agmen videre, equis maxime consternatis, quidquid adiecissent ipsi terroris satis ad perniciem fore rati, perversis

rupibus iuxta, invia ac devia adsueti decurrunt. Tum vero simul ab hostibus, simul ab iniquitate locorum Poeni oppugnabantur

plusque inter ipsos, sibi quoque tendente ut periculo primus evaderet, quam cum hostibus certaminis erat. Et equi maxime

infestum agmen faciebant, qui et clamoribus dissonis quos nemora etiam repercussaeque valles augebant territi trepidabant, et

icti forte aut vulnerati adeo consternabantur, ut stragem ingentem simul hominum ac sarcinarum omnis generis facerent;

multosque turba, cum praecipites deruptaeque utrimque angustiae essent, in immensum altitudinis deiecit, quosdam et armatos;

et ruinae maxime modo iumenta cum oneribus devolvebantur. Quae quamquam foeda visu erant, stetit partimper tamen Hannibal ac

suos continuit, ne tumultum ac trepidationem augeret; deinde, postquam interrumpi agmen vidit periculumque esse, ne exutum

impedimentis exercitum nequiquam incolumem traduxisset, decurrit ex superiore loco et, cum impetu ipso fudisset hostem, suis

quoque tumultum auxit. Sed is tumultus momento temporis, postquam liberata itinera fuga montanorum erant, sedatur, nec per

otiuni modo sed prope silentio mox omnes traducti. Castellum inde, quod caput eius regionis erat, viculosque circumiectos

capit et captivo cibo ac pecoribus per triduurn exercitum aluit; et, quia nec a montanis primo perculsis nec loco magno opere

impediebantur, aliquantum eo triduo viae confecit.

 

 

Italiano
I Cartaginesi mossero l\'accampamento alle prime luci del giorno e quello che restava dell\'esercito si mise in marcia. Già i

montanari si erano dati il segnale e cominciavano ad affluire dai loro villaggi verso la consueta stazione di guardia, quando

all\'improvviso si resero conto che parte dei nemici aveva occupato la loro roccaforte e incombeva sulle loro teste, mentre

un\'altra parte stava transitando sulla strada più in basso. Questi due fatti, presentafisi all\'improvviso ai loro occhi e

ai loro animi, per qualche istante li tennero immobili; poi, quando videro che in quelle strettoie i Cartaginesi si facevano

prendere dalla confusione e dall\'ansia da soli, soprattutto a causa dello spavento dei cavalli, pensarono che se essi

avessero aggiunto un qualsiasi altro motivo di panico i nemici sarebbero precipitati nel disastro. Cominciarono dunque a

correre giù, ugualmente abituati ai luoghi più impraticabili e inaccessibili, dai dirupi. Ma davvero in quei frangenti i

Cartaginesi dovevano lottare contro i nemici e, insieme, contro le difficoltà del terreno; anzi, il maggior pericolo veniva

dai loro contrasti interni, perché ciascuno cercava di darsi da fare per conto suo per trarsi d\'impaccio prima degli altri.

Ma ad essere pericolosi per l\'avanzata dell\'esercito erano soprattutto i cavalli, i quali si imbizzarrivano, atterriti dai

clamori dissonanti che venivano amplificati dai boschi e dall\'eco delle vallate. Quando poi per caso venivano colpiti o

feriti, il loro spavento aumentava a tal punto che provocavano una grandissima rovina tra gli uomini e nell\'equipaggiamento

di ogni tipo. Uaccalcarsi generale ne fece cadere poi molti (assieme anche a dei soldati) nei profondissimi precipizi, poiché

quelle gole erano, ora su un lato della via ora sull\'altro, dirupate e scoscese. Ma a precipitare con tutto il loro carico,

simili a valanghe, erano soprattutto le bestie da soma. Era certamente uno spettacolo angosciante a vedersi: tuttavia

Annibale per qualche tempo rimase fermo e trattenne anche quelli che erano con lui per non far crescere tumulto e confusione.

Ma quando vide che la colonna si stava spezzando in più tronconi comprese quanto grande fosse il pericolo di far passare

l\'esercito sano e salvo, ma perdendo tutte le salmerie. Allora si precipitò giù dalla posizione sopraelevata e bastò quello

slancio per disperdere i nemici; tuttavia aumentò anche la confusione tra i suoi. Ma questa confusione si placò ben presto,

appena la strada fu libera grazie alla fuga dei montanari. Il resto del passaggio avvenne per tutti non solo in modo

tranquillo, ma perfino quasi silenzioso. Annibale prese poi una cittadella fortificata, che era il centro principale di

quella regione, assieme ad alcuni villaggi dei dintorni; per tre giorni vettovagliò il suo esercito con cibo e bestiame

requisiti. Poi, senza incontrare grandi ostacoli nei montanari, sgominati in quel primo scontro, e nella conformazione del

terreno, nei tre giorni successivi compì un buon tratto di strada.

Libro 21, Par. 37
Latino
Tandem nequiquam iumentis atque hominibus fatigatis castra in iugo posita, aegerrime ad id ipsum loco purgato; tantuni nivis

fodienduni atque egerendum fuit. Inde ad rupern muniendam per quam unam via esse poterat milites ducti, cum caedendurn esset

saxum, arboribus circa immanibus deiectis detruncatisque struem ingentem lignorum faciunt eamque, cum et vis venti apta

faciendo igni coorta esset, succendunt ardentiaque saxa infuso aceto putrefaciunt. Ita torridam incendio rupern ferro pandunt

molliuntque anfractibus modicis clivos ut non iumenta solum sed elephanti etiam deduci possent. Quadriduurn circa rupern

consumptum, iumentis prope fame absumptis; nuda enini fere cacumina sunt et, si quid est pabuli, obruunt nives. Inferiora

valles apricosque quosdarn colles habent rivosque prope silvas et iam humano cultu digniora loca. Ibi iumenta in pabuluni

missa et quies muniendo fessis hominibus data. Triduo inde ad planum descensum et iani locis mollioribus et accolarum

ingeniis.

 

 

Italiano
Uomini e bestie si attardavano in una inutile fatica; alla fine fu posto l\'accampamento sul valico dopo che si era

provveduto a ripulire il terreno a questo scopo: lo sforzo fu grandissimo perché la quantità di neve da scavare e da

asportare era enorme. Quindi i soldati furono portati a rendere praticabile la rupe perché solo attraverso di essa era

possibile proseguire il viaggio. Per spezzare la roccia, furono tagliati e fatti a pezzi degli enormi alberi che sorgevano

nei dintorni; fu innalzato un grande cumulo di legna al quale venne appiccato il fuoco, anche grazie al fatto che era sorto

un forte vento atto a tenere alte le fiamme. In questo modo le rocce incandescenti, su cui viene versato aceto, prendono a

sgretolarsi. Così i soldati cominciano a colpi di piccone ad aprire una via nella roccia surriscaldata dal fuoco,

addolciscono i pendii tracciando curve abbastanza larghe da consentire il passaggio non solo alle bestie da soma ma anche

agli elefanti. Per quattro giorni i Cartaginesi lavorarono attorno alla rupe; i giumenti erano ormai allo stremo per la fame

perché le sommità dei monti sono quasi del tutto spoglie di vegetazione e se c\'è qualcosa che possa fornire pastura la neve

lo ricopre. Più in basso si estendono vallate e alcuni colli soleggiati e i ruscelli lambiscono foreste e luoghi già più

adatti ad insediamenti umani: qui le bestie furono mandate a pascolare e fu concesso un po\' di riposo agli uomini stanchi

per aver aperto la via attraverso la rupe. Nei tre giorni successivi l\'esercito cartaginese scese in pianura, dove i luoghi

erano più miti e più disponibili le indoli degli abitanti.


Libro 21, Par. 4, 3-7
Latino
Plurimum audaciae ad pericula capessenda, plurimum consilii inter ipsa pericula erat. Nullo labore aut corpus fatigari aut

animus vinci poterat. Caloris ac frigoris patientia par; cibi potionisque desiderio naturali, non voluptate modus finitus;

vigiliarum somnique nec die nec nocte discriminata tempora; id quod gerendis rebus superesset quieti datum; ea neque molli

strato neque silentio accersita; multi saepe militari sagulo opertum humi iacentem inter custodias stationesque milituni

conspexerunt. Vestitus nihil inter aequales excellens: arma atque equi conspiciebantur. Equitum pedituinque ideni longe

primus erat; princeps in proelium ibat, ultimus conserto proelio excedebat. Has tantas viri virtutes ingentia vitia

aequabant, inhumana crudelitas, perfidia plus quam Punica, nihil veri, nihil sancti, nullus deum metus, nullum ius iurandum,

nulla religio. Cum hac indole virtutum atque vitiorum triennio sub Hasdrubale imperatore meruit, nulla re quae agenda

videndaque magno futuro ducisset praetermissa.

 

 

Italiano
Era il più audace di tutti nell\'affrontare i pericoli, il più avveduto nel gestirli e non c\'era fatica in grado di

fiaccargli il corpo o piegargli l\'anima; sopportava ugualmente caldo e freddo e, quanto al cibo e alle bevande, seguiva non

il suo piacere ma le semplici esigenze naturali. Dormiva e vegliava non secondo il ritmo dei giorno e della notte, ma

semplicemente riservando al riposo il tempo che i suoi incarichi gli concedevano; non aveva poi bisogno di un morbido

giaciglio o di silenzio e non era infrequente vederlo disteso terra, tra gli avamposti e le stazioni di guardia, avvolto in

un mantello di ordinanza. L\'abbigliamento non lo distingueva affatto dai pari grado, mentre ben evidenti erano i suoi

cavalli e le sue armi. Era di gran lunga il migliore tra i cavalieri, ma anche tra i fanti; il primo ad affrontare la

battaglia, l\'ultimo ad andarsene. Ma in un un uomo di tali qualità e valore, la contropartìta era data da vizi immensi: una

crudeltà mai vista in altra persona, una slealtà che lo rendeva peggiore della sua stessa origine cartaginese, disprezzo per

le cose più vere e più sacre, spregio assoluto per gli dèi, per i giuramenti, per i vincoli religiosi. Con questo patrimonio

di vizi e di virtù, militò per tre anni sotto Asdrubale, senza trascurare alcuna cosa che un futuro grande comandante dovesse

compiere o conoscere.


Libro 29, Par. 16-17
Latino
Omnes deinde alias curas una occupauit postquam Locrensium clades, quae ignoratae ad eam diem fuerant, legatorum aduentu

uolgatae sunt; nec tam Plemini scelus quam Scipionis in eo aut ambitio aut neglegentia iras hominum inritauit. decem legati

Locrensium obsiti squalore et sordibus in comitio sedentibus consulibus uelamenta supplicum, ramos oleae, ut Graecis mos est,

porgentes ante tribunal cum flebili uociferatione humi procubuerunt. quaerentibus consulibus Locrenses se dixerunt esse, ea

passos a Q. Pleminio legato Romanisque militibus quae pati ne Carthaginienses quidem uelit populus Romanus; orare uti sibi

patres adeundi deplorandique aerumnas suas potestatem facerent. Senatu dato, maximus natu ex iis: \'scio, quanti aestimentur

nostrae apud uos querellae, patres conscripti, plurimum in eo momenti esse si probe sciatis et quomodo proditi Locri

Hannibali sint et quomodo pulso Hannibalis praesidio restituti in dicionem uestram; quippe si et culpa defectionis procul a

publico consilio absit, et reditum in uestram dicionem appareat non uoluntate solum sed ope etiam ac uirtute nostra, magis

indignemini bonis ac fidelibus sociis tam indignas tam atroces iniurias ab legato uestro militibusque fieri. sed ego causam

utriusque defectionis nostrae in aliud tempus differendam arbitror esse duarum rerum gratia; unius ut coram P. Scipione, qui

Locros recepit omnium nobis recte perperamque factorum est testis, agatur; alterius quod qualescumque sumus tamen haec quae

passi sumus pati non debuimus. non possumus dissimulare, patres conscripti, nos cum praesidium Punicum in arce nostra

haberemus, multa foeda et indigna et a praefecto praesidii Hamilcare et ab Numidis Afrisque passos esse; sed quid illa sunt,

conlata cum iis quae hodie patimur?

 

Italiano
Quindi una sola fra le altre preoccupazioni occupava tutti i senatori dopo che le stragi dei Locresi, che erano state

ignorate fino a quel giorno, furono rese note all’arrivo degli ambasciatori, non tanto il delitto di Pleminio, quanto

l’accondiscenza o la negligenza di Scipione verso quello suscitò le ire degli uomini. Dieci ambasciatori Locresi coperti di

sudiciume e sporcizie, porgendo rami d’ulivo, com’è d’uso in Grecia, ai consoli che sedevano in comizio, avvolti in bende di

supplici davanti al tribunale si chinarono a terra con un flebile grido. Ai consoli che lo chiedevano i Locresi dissero che

patirono dall’ambasciatore Pleminio e dai soldati romani quelle cose che neanche il popolo romano volesse che i Cartaginesi

subissero; e che pregarono affinché i senatori gli permettessero di affrontare e di piangere le loro tribolazioni. Convocato

il senato, il più grande d’età tra quelli: ”So quanto vengono considerate le nostre lamentele presso di voi, o senatori, e

quanto sia importante in questo momento se sappiate giustamente e in che modo i Locresi siano stati traditi da Annibale e

avendo respinto la guarnigione di Annibale siano tornati sotto il vostro dominio, e anzi, se la colpa delle defezione è

lontana dalla pubblica decisione appaia il ritorno sotto il vostro potere non soltanto per la volontà, ma anche per la nostra

opera e virtù, maggiormente indignatevi che ingiurie tanto indegne e atroci siano state fatte ad alleati buoni e fedeli dal

vostro legato dei soldati. Ma io ritengo che la causa di entrambe le defezioni sia da rimandare in altro tempo per due

motivi: uno affinché si svolga (il processo) alla presenza di Scipione, che liberò Locri ed è testimone delle azioni per noi

rette e ingiuste, l’altro perché qualunque cosa siamo non dovevamo sopportare quelle angherie che abbiamo sopportato. Non

possiamo dissimularle, senatori, che quando noi avevamo nella nostra città il presidio punico, abbiamo subito molte azioni

deplorevoli ed indegne sia dal prefetto del presidio, Annibale, sia dai Numidi e dagli Afri; ma che cosa sono quelle

paragonate a quelle che subiamo oggi? 

Libro 3, Par. 32
Latino
Ab externis bellis quietus annus fuit, quietior insequens P. Curiatio et Sex. Quinctilio consulibus, perpetuo silentio

tribunorum, quod primo legatorum qui Athenas ierant legumque peregrinarum exspectatio praebuit, dein duo simul mala ingentia

exorta, fames pestilentiaque, foeda homini, foeda pecori. Vastati agri sunt, urbs adsiduis exhausta funeribus; multae et

clarae lugubres domus. Flamen Quirinalis Ser. Cornelius mortuus, augur C. Horatius Puluillus, in cuius locum C. Veturium, eo

cupidius quia damnatus a plebe erat, augures legere. Mortuus consul Quinctilius, quattuor tribuni plebi. Multiplici clade

foedatus annus; ab hoste otium fuit. Inde consules C. Menenius P. Sestius Capitolinus. Neque eo anno quicquam belli externi

fuit: domi motus orti. Iam redierant legati cum Atticis legibus. Eo intentius instabant tribuni ut tandem scribendarum legum

initium fieret. Placet creari decemuiros sine prouocatione, et ne quis eo anno alius magistratus esset. Admiscerenturne

plebeii controuersia aliquamdiu fuit; postremo concessum patribus, modo ne lex Icilia de Auentino aliaeque sacratae leges

abrogarentur.

 

Italiano
Se quell\'anno non venne turbato da guerre con paesi stranieri, l\'anno successivo - sotto il consolato di Publio Curiazio e

Sesto Quintilio - fu ancora più povero di conflitti per il lungo silenzio dei tribuni dovuto innanzitutto all\'attesa del

ritorno dei legati che erano andati ad Atene e delle leggi straniere che essi avrebbero portato con sé, e in secondo luogo

per due atroci calamità abbattutesi contemporaneamente, cioè la fame e una pestilenza, funesta tanto per gli uomini quanto

per gli animali. Le campagne si spopolarono, mentre la città si svuota per i continui funerali; molte famose famiglie erano

in lutto. Morì il flàmine di Quirino Servio Cornelio e l\'àugure Gaio Orazio Pulvillo, al cui posto il collegio degli àuguri

nominò con entusiamo Gaio Veturio perché era stato condannato per volere della plebe. Morirono il console Quintilio e quattro

tribuni della plebe. L\'anno fu funestato da molte sciagure ma il nemico rimase tranquillo. I consoli successivi furono Gaio

Menenio e Publio Sestio Capitolino. Neppure quell\'anno vi furono guerre con paesi stranieri, ma scoppiarono disordini

interni. Nel frattempo gli inviati erano tornati con le leggi dell\'Attica. E proprio per questo i tribuni insistevano con

sempre maggiore accanimento affinché si arrivasse finalmente a una codificazione scritta delle leggi. Si decise di nominare

dei decemviri non soggetti al diritto d\'appello e di non avere quell\'anno nessun altro magistrato al di fuori di loro. Se i

plebei avessero dovuto o meno prendere parte alla cosa fu argomento a lungo dibattuto. Alla fine ebbero la meglio i patrizi,

a patto però che non venissero abrogate la legge Icilia riguardante l\'Aventino e le altre leggi sacrate.
Livio 

Libro 3, Par. 33
Latino
Anno trecentensimo altero quam condita Roma erat iterum mutatur forma ciuitatis, ab consulibus ad decemuiros, quemadmodum ab

regibus ante ad consules uenerat, translato imperio. Minus insignis, quia non diuturna, mutatio fuit. Laeta enim principia

magistratus eius nimis luxuriauere; eo citius lapsa res est repetitumque duobus uti mandaretur consulum nomen imperiumque.

Decemuiri creati Ap. Claudius, T. Genucius, P. Sestius, L. Veturius, C. Iulius, A. Manlius, P. Sulpicius, P. Curiatius, T.

Romilius, Sp. Postumius. Claudio et Genucio, quia designati consules in eum annum fuerant, pro honore honos redditus, et

Sestio, alteri consulum prioris anni, quod eam rem collega inuito ad patres rettulerat. His proximi habiti legati tres qui

Athenas ierant, simul ut pro legatione tam longinqua praemio esset honos, simul peritos legum peregrinarum ad condenda noua

iura usui fore credebant. Suppleuere ceteri numerum. Graues quoque aetate electos nouissimis suffragiis ferunt, quo minus

ferociter aliorum scitis aduersarentur. Regimen totius magistratus penes Appium erat fauore plebis, adeoque nouum sibi

ingenium induerat ut plebicola repente omnisque aurae popularis captator euaderet pro truci saeuoque insectatore plebis.

Decimo die ius populo singuli reddebant. Eo die penes praefectum iuris fasces duodecim erant: collegis nouem singuli accensi

apparebant. Et in unica concordia inter ipsos, qui consensus priuatis interdum inutilis est, summa aduersus alios aequitas

erat. Moderationis eorum argumentum exemplo unius rei notasse satis erit. Cum sine prouocatione creati essent, defosso

cadauere domi apud P. Sestium, patriciae gentis uirum, inuento prolatoque in contionem, in re iuxta manifesta atque atroci C.

Iulius decemuir diem Sestio dixit et accusator ad populum exstitit, cuius rei iudex legitimus erat, decessitque iure suo, ut

demptum de ui magistratus populi libertati adiceret.

 

Italiano
L\'anno 302 dalla fondazione segnò per Roma una nuova trasformazione dell\'assetto costituzionale: il potere supremo passò

dai consoli ai decemviri, così come in precedenza era passato dai re ai consoli. Non si trattò di un cambiamento

particolarmente significativo perché fu di breve durata. Dopo un felice inizio tale magistratura conobbe degli eccessi e, di

conseguenza, l\'innovazione tramontò rapidamente, ripristinando così l\'uso di affidare a due uomini il titolo e l\'autorità

di consoli. Decemviri furono eletti Appio Claudio, Tito Genucio, Publio Sestio, Tito Veturio, Gaio Giulio, Aulo Manlio,

Publio Sulpicio, Publio Curiazio, Tito Romilio e Spurio Postumio. A Claudio e a Genucio, dato che erano stati eletti consoli

per quell\'anno, la carica venne assegnata come compensazione dell\'altra. Sestio, uno dei consoli dell\'anno precedente,

ebbe invece la nomina per aver portato l\'iniziativa di fronte al senato nonostante l\'opposizione del collega. Accanto a

essi ebbero il privilegio di questa magistratura i tre senatori inviati ad Atene: la loro nomina non era soltanto il

riconoscimento per una missione in terre tanto lontane, ma anche la garanzia che l\'approfondimento delle leggi straniere

maturato laggiù sarebbe stato di grande utilità nell\'elaborazione di un nuovo sistema giuridico. Gli altri quattro eletti

servirono a completare il numero. Si dice che le ultime nomine vennero affidate a uomini piuttosto anziani perché si

opponessero con meno energia alle misure proposte dagli altri. Grazie al favore della plebe, il collegio dei decemviri era

praticamente guidato da Appio: egli aveva mutato il suo carattere così nettamente che, dopo un passato da violento e

inflessibile avversatore del popolo, da un giorno all\'altro divenne un fedele amico della plebe, attentissimo a captarne gli

alterni umori. A turno, ogni dieci giorni, ciascun magistrato amministrava la giustizia di fronte al popolo: in quel giorno,

chi presiedeva la corte aveva diritto ai dodici fasci, mentre a ciascuno dei suoi nove colleghi toccava un unico messo. Dalla

singolare armonia tra loro - accordo che talvolta non è di alcuna utilità per i privati cittadini - derivava la loro estrema

equità nei confronti degli altri. A riprova di questa moderazione, sarà sufficiente citare un unico esempio. Pur essendo

stati eletti a una magistratura che non prevedeva diritto d\'appello, quando venne rinvenuto e portato di fronte

all\'assemblea un cadavere sepolto nella casa di Lucio Sestio, un patrizio, data l\'atrocità manifesta della cosa, il

decemviro Gaio Giulio citò Sestio in giudizio, accusandolo di fronte al popolo di un reato di cui era giudice legittimo, e

rinunciò così a un suo diritto, che egli tolse al potere del magistrato per accrescere la libertà del popolo.


Libro 3, Par. 34
Latino
Cum promptum hoc ius uelut ex oraculo incorruptum pariter ab iis summi infimique ferrent, tum legibus condendis opera

dabatur; ingentique hominum exspectatione propositis decem tabulis, populum ad contionem aduocauerunt et, quod bonum faustum

felixque rei publicae ipsis liberisque eorum esset, ire et legere leges propositas iussere: se, quantum decem hominum

ingeniis prouideri potuerit, omnibus, summis infimisque, iura aequasse: plus pollere multorum ingenia consiliaque. Versarent

in animis secum unamquamque rem, agitarent deinde sermonibus, atque in medium quid in quaque re plus minusue esset

conferrent. Eas leges habiturum populum Romanum quas consensus omnium non iussisse latas magis quam tulisse uideri posset.

Cum ad rumores hominum de unoquoque legum capite editos satis correctae uiderentur, centuriatis comitiis decem tabularum

leges perlatae sunt, qui nunc quoque, in hoc immenso aliarum super alias aceruatarum legum cumulo, fons omnis publici

priuatique est iuris. Volgatur deinde rumor duas deesse tabulas quibus adiectis absolui posse uelut corpus omnis Romani

iuris. Ea exspectatio, cum dies comitiorum adpropinquaret, desiderium decemuiros iterum creandi fecit. Iam plebs, praeterquam

quod consulum nomen haud secus quam regum perosa erat, ne tribunicium quidem auxilium, cedentibus in uicem appellationi

decemuiris, quaerebat.

 

Italiano
Mentre tutti i cittadini - dal più autorevole al meno in vista e senza alcuna parzialità - accoglievano questa giustizia

tempestiva e incontaminata come se provenisse da un oracolo, i decemviri erano nel contempo alle prese con la rifondazione di

un nuovo codice. Fra la grande attesa della gente, dopo aver esposto dieci tavole, convocarono il popolo in assemblea. E,

augurandosi che ciò fosse buono e fausto per la repubblica, per loro e per i loro figli, ordinarono a tutti di andare a

consultare di persona le leggi proposte. Per quanto era stato possibile alle capacità intellettuali di dieci uomini, dissero

di aver messo sullo stesso piano i diritti di tutti, dai cittadini più altolocati a quelli meno in vista. Certo le menti e le

proposte di molti avrebbero sortito esiti più efficaci. Che si considerasse dunque ogni singolo punto, se ne discutesse e

alla fine si venisse a esporre di fronte a tutti gli eccessi e le inadeguatezze eventualmente riscontrati nei singoli

articoli. Il popolo romano doveva avere delle leggi che sembrassero non solo essere state approvate, ma addirittura proposte

dal consenso unanime della comunità. Quando sembrò che le leggi avessero subito sufficienti emendamenti alla luce delle

opinioni espresse dalla gente sulle singole sezioni, i comizi centuriati approvarono e adottarono definitivamente le Leggi

delle X Tavole, che ancor oggi, in questo immenso guazzabuglio di leggi accatastate caoticamente l\'una sull\'altra, restano

la fonte di tutto il diritto pubblico e privato. In séguito cominciò a circolare la voce che mancassero ancora due tavole,

aggiunte le quali il corpo del diritto romano si sarebbe potuto definire realizzato. Con le elezioni ormai alle porte, la

speranza di completare le leggi fece crescere nella gente il desiderio di eleggere di nuovo dei decemviri. La plebe, al di là

del fatto che detestava il nome dei consoli almeno tanto quanto quello dei re, ormai non andava nemmeno più a cercare

l\'aiuto dei tribuni, visto che in caso di appello i decemviri cedevano reciprocamente l\'uno nei confronti dell\'altro. 

Libro 3, Par. 35
Latino
Postquam uero comitia decemuiris creandis in trinum nundinum indicta sunt, tanta exarsit ambitio, ut primores quoque

ciuitatis--metu, credo, ne tanti possessio imperii, uacuo ab se relicto loco, haud satis dignis pateret--prensarent homines,

honorem summa ope a se impugnatum ab ea plebe, cum qua contenderant, suppliciter petentes. Demissa iam in discrimen dignitas

ea aetate iisque honoribus actis stimulabat Ap. Claudium. Nescires utrum inter decemuiros an inter candidatos numerares;

propior interdum petendo quam gerendo magistratui erat. Criminari optimates, extollere candidatorum leuissimum quemque

humillimumque, ipse medius inter tribunicios, Duillios Iciliosque, in foro uolitare, per illos se plebi uenditare, donec

collegae quoque, qui unice illi dediti fuerant ad id tempus, coniecere in eum oculos, mirantes quid sibi uellet: apparere

nihil sinceri esse; profecto haud gratuitam in tanta superbia comitatem fore; nimium in ordinem se ipsum cogere et uolgari

cum priuatis non tam properantis abire magistratu quam uiam ad continuandum magistratum quaerentis esse. Propalam obuiam ire

cupiditati parum ausi, obsecundando mollire impetum adgrediuntur. Comitiorum illi habendorum, quando minimus natu sit, munus

consensu iniungunt. Ars haec erat, ne semet ipse creare posset, quod praeter tribunos plebi--et id ipsum pessimo

exemplo--nemo unquam fecisset. Ille enimuero, quod bene uertat, habiturum se comitia professus, impedimentum pro occasione

arripuit; deiectisque honore per coitionem duobus Quinctiis, Capitolino et Cincinnato, et patruo suo C. Claudio,

constantissimo uiro in optimatium causa, et aliis eiusdem fastigii ciuibus, nequaquam splendore uitae pares decemuiros creat,

se in primis, quod haud secus factum improbabant boni quam nemo facere ausurum crediderat. Creati cum eo M. Cornelius

Maluginensis M. Sergius L. Minucius Q. Fabius Vibulanus Q. Poetelius T. Antonius Merenda K. Duillius Sp. Oppius Cornicen M\'.

Rabuleius.

 

Italiano
Ma quando venne annunciato che le elezioni dei decemviri si sarebbero tenute il terzo giorno di mercato, si scatenarono a tal

punto le ambizioni che anche i cittadini più in vista - credo per paura che un simile potere, una volta lasciato libero il

campo, potesse finire in mani non sufficientemente degne - cominciarono a sollecitare gli elettori, implorando da quella

stessa plebe, con la quale avevano avuto non pochi scontri, una carica che avevano avversato con ogni mezzo. La prospettiva

di dover lasciare in quel momento la posizione raggiunta, alla sua età, e dopo le cariche occupate, spronava Appio Claudio.

Non si sapeva se annoverarlo tra i decemviri o tra i candidati. A volte si comportava come un aspirante alla magistratura e

non come chi già la deteneva; diffamava gli ottimati, portava alle stelle i candidati più insignificanti e di bassi natali,

andava girando qua e là per il foro in compagnia di ex-tribuni, con Duilii e Icilii, facendosi raccomandare da questi ultimi

alla plebe. Finché anche i colleghi, i quali fino ad allora avevano dimostrato una straordinaria devozione nei suoi

confronti, cominciarono a guardarlo stupiti, domandandosi che cosa gli passasse per la testa. Era chiaro che non agiva

sinceramente: in un\'indole così altezzosa tanta affabilità non era di certo senza scopo. Il suo troppo abbassarsi e il

mescolarsi con privati cittadini non erano tanto gli atteggiamenti di uno ansioso di abbandonare una magistratura, quanto di

uno che cercasse la strada migliore per prorogare la sua carica. Non osando opporsi apertamente alla sua sfrenata ambizione,

cercano di frenarne gli slanci, assecondandolo. Essendo egli il collega più giovane, concordemente gli impongono di convocare

i comizi. Si trattava di uno stratagemma per impedirgli di autoeleggersi, cosa che al di fuori dei tribuni della plebe - e

questo era di per sé il peggiore dei precedenti - non aveva mai osato fare nessuno. Ma Appio, in realtà, pur avendo promesso

con una preghiera augurale di presiedere le elezioni, riuscì a trasformare un ostacolo in un\'occasione propizia. In un primo

tempo, grazie ad alleanze elettorali, mise da parte nella corsa alla candidatura i due Quinzi, Capitolino e Cincinnato, suo

zio paterno Gaio Claudio, da sempre partigiano della causa aristocratica, nonché altri cittadini dello stesso rango. Proclamò

decemviri invece degli individui che per eccellenza di vita non stavano alla pari degli esclusi, e primo se stesso, cosa

questa che i cittadini onesti disapprovarono: nessuno avrebbe creduto che osasse arrivare a tanto. Insieme a lui furono

eletti Marco Cornelio Maluginense, Marco Sergio, Lucio Minucio, Quinto Fabio Vibulano, Quinto Petilio, Tito Antonio Merenda,

Cesone Duilio, Spurio Oppio Cornicino e Manio Rabuleio. 

 

Libro 3, Par. 36
Latino
Ille finis Appio alienae personae ferendae fuit. Suo iam inde uiuere ingenio coepit nouosque collegas, iam priusquam inirent

magistratum, in suos mores formare. Cottidie coibant remotis arbitris; inde impotentibus instructi consiliis, quae secreto ab

aliis coquebant, iam haud dissimulando superbiam, rari aditus, conloquentibus difficiles, ad idus Maias rem perduxere. Idus

tum Maiae sollemnes ineundis magistratibus erant. Inito igitur magistratu primum honoris diem denuntiatione ingentis terroris

insignem fecere. Nam cum ita priores decemuiri seruassent ut unus fasces haberet et hoc insigne regium in orbem, suam

cuiusque uicem, per omnes iret, subito omnes cum duodenis fascibus prodiere. Centum uiginti lictores forum impleuerant et cum

fascibus secures inligatas praeferebant; nec attinuisse demi securem, cum sine prouocatione creati essent, interpretabantur.

Decem regum species erat, multiplicatusque terror non infimis solum sed primoribus patrum, ratis caedis causam ac principium

quaeri, ut si quis memorem libertatis uocem aut in senatu aut in populo misisset statim uirgae securesque etiam ad ceterorum

metum expedirentur. Nam praeterquam quod in populo nihil erat praesidii sublata prouocatione, intercessionem quoque consensu

sustulerant, cum priores decemuiri appellatione collegae corrigi reddita ab se iura tulissent et quaedam, quae sui iudicii

uideri possent, ad populum reiecissent. Aliquamdiu aequatus inter omnes terror fuit; paulatim totus uertere in plebem coepit;

abstinebatur a patribus; in humiliores libidinose crudeliterque consulebatur. Hominum, non causarum toti erant, ut apud quos

gratia uim aequi haberet. Iudicia domi conflabant, pronuntiabant in foro. Si quis collegam appellasset, ab eo ad quem uenerat

ita discedebat ut paeniteret non prioris decreto stetisse. Opinio etiam sine auctore exierat non in praesentis modo temporis

eos iniuriam conspirasse, sed foedus clandestinum inter ipsos iure iurando ictum, ne comitia haberent perpetuoque decemuiratu

possessum semel obtinerent imperium.

 

Italiano
Fu allora che Appio depose la maschera. Da quel momento in poi ricominciò a essere se stesso e a plasmare a sua immagine e

somiglianza i nuovi colleghi, ancor prima che entrassero in carica. Si incontravano tutti i giorni lontano dagli sguardi

indiscreti e mettevano a punto programmi spregiudicati che maturavano in segreto. Ormai non cercavano nemmeno più di

nascondere la loro arroganza, si lasciavano avvicinare di rado e facevano i difficili con chi rivolgeva loro la parola: così

continuarono fino alle Idi di maggio. In quel tempo le Idi di maggio erano la data tradizionale per l\'inizio delle

magistrature. Così, appena assunto il potere, essi resero memorabile il primo giorno di magistratura con un\'iniziativa

terribilmente minacciosa. Infatti, mentre i predecessori nel decemvirato si erano attenuti con scrupolo alla disposizione

secondo la quale soltanto un membro del collegio aveva diritto a portare i fasci e questa insegna regale doveva passare a

turno a ciascuno di loro, i nuovi eletti si presentarono all\'improvviso in pubblico ciascuno con dodici fasci. I 120 littori

avevano invaso il foro brandendo davanti a sé le scuri tenute insieme dai fasci. I decemviri spiegarono che non c\'era

nessuna ragione di rimuovere le scuri perché la magistratura cui erano stati nominati non contemplava il diritto d\'appello.

Sembravano dieci re e ciò accrebbe il terrore non solo nei cittadini più umili, ma anche nei membri più influenti del senato,

i quali sospettavano che i decemviri stessero cercando qualche pretesto per procedere a una strage: se qualcuno avesse osato,

in senato o di fronte al popolo, intervenire in favore della libertà, verghe e scuri sarebbero state sciolte, magari solo per

intimorire il resto della gente. Il popolo non aveva più alcuna garanzia dopo la soppressione del diritto d\'appello; come se

non bastasse, all\'unanimità i decemviri eliminarono anche il diritto di opposizione interna, mentre i predecessori avevano

tollerato che le sentenze da loro emesse venissero modificate su richiesta di un collega, accettando anche che talune cause,

apparentemente di stretta competenza dei decemviri, venissero portate di fronte al popolo. Per un certo periodo il terrore fu

uguale per tutti. Poi, a poco a poco, cominciò a concentrarsi interamente sulla plebe: i patrizi venivano lasciati in pace; i

decemviri infierivano sui più umili con arbitraria crudeltà. Era tutta questione di persone, non di cause, visto che per

quegli individui, invece dell\'equità, contava l\'influenza esercitata dal singolo. Manipolavano in privato le sentenze per

poi andarle a pronunciare nel foro. Se qualcuno si appellava a uno di loro, se ne veniva via da quello a cui si era rivolto,

pentendosi di non aver accettato la sentenza del primo. Nel frattempo si era anche diffusa una diceria di provenienza non

accertata, secondo la quale i decemviri non si sarebbero limitati a concertare un operato criminoso per la sola durata della

carica, ma, grazie a un patto giurato in segreto, avrebbero anche deciso di non tenere le elezioni e di conservare per sempre

il potere conquistato una volta per tutte, protraendo così all\'infinito il decemvirato. 

 
Libro 3, Par. 37
Latino
Circumspectare tum patriciorum uoltus plebeii et inde libertatis captare auram, unde seruitutem timendo in eum statum rem

publicam adduxerant. Primores patrum odisse decemuiros, odisse plebem; nec probare quae fierent, et credere haud indignis

accidere; auide ruendo ad libertatem in seruitutem elapsos iuuare nolle; cumulari quoque iniurias, ut taedio praesentium

consules duo tandem et status pristinus rerum in desiderium ueniant. Iam et processerat pars maior anni et duae tabulae legum

ad prioris anni decem tabulas erant adiectae, nec quicquam iam supererat, si eae quoque leges centuriatis comitiis perlatae

essent, cur eo magistratu rei publicae opus esset. Exspectabant quam mox consulibus creandis comitia edicerentur; id modo

plebes agitabat quonam modo tribuniciam potestatem, munimentum libertati, rem intermissam, repararent; cum interim mentio

comitiorum nulla fieri. Et decemuiri, qui primo tribunicios homines, quia id populare habebatur, circum se ostentauerant

plebi, patriciis iuuenibus saepserant latera. Eorum cateruae tribunalia obsederant; hi ferre agere plebem plebisque res, cum

fortuna, qua quidquid cupitum foret, potentioris esset. Et iam ne tergo quidem abstinebatur; uirgis caedi, alii securi

subici; et, ne gratuita crudelitas esset, bonorum donatio sequi domini supplicium. Hac mercede iuuentus nobilis corrupta non

modo non ire obuiam iniuriae, sed propalam licentiam suam malle quam omnium libertatem.

 

Italiano
Allora i plebei cominciarono a studiare con circospezione i volti dei patrizi, cercando di captare un soffio di libertà

proprio in quella parte di cittadinanza che, per aver fatto loro balenare lo spettro della schiavitù, li aveva portati a

ridurre il paese in quello stato. I capi dell\'aristocrazia odiavano sia i decemviri sia la plebe. Non approvavano certo

quello che si faceva, ma credevano anche che quel che accadeva la gente se lo meritasse. Non avevano alcuna intenzione di

aiutare quanti, lanciati in una corsa dissennata verso la libertà, erano invece scivolati nella schiavitù, non volevano

nemmeno aggiungere altri soprusi, nella speranza che il disgusto per la situazione facesse nascere il desiderio del ritorno

ai due consoli e allo stato delle cose di un tempo. L\'anno era ormai quasi alla fine, alle dieci tavole dell\'anno

precedente se n\'erano aggiunte altre due, né c\'era più alcun bisogno di considerare necessaria al paese quella

magistratura, specie se quelle stesse leggi venivano approvate dai comizi centuriati. Si viveva nell\'attesa che venissero

indette le elezioni dei consoli. La plebe invece aveva un solo pensiero: trovare il modo di ristabilire l\'autorità dei

tribuni, che era la vera roccaforte della sua libertà e che in quel periodo era sospesa. Nel frattempo non si faceva alcun

accenno a possibili elezioni. E i decemviri, che all\'inizio - per la popolarità di un simile gesto - si erano fatti vedere

dalla plebe in compagnia di ex-tribuni, ora si circondavano di giovani patrizi le cui bande stazionavano di fronte ai

tribunali. Trattavano con impudenza la plebe e ne saccheggiavano le proprietà, visto che era sempre il più forte ad avere

ragione, qualunque capriccio gli fosse passato per la testa. Ormai non avevano più rispetto nemmeno per le persone: si

frustava e persino si decapitava. Perché poi la crudeltà non fosse fine a se stessa, all\'esecuzione del proprietario seguiva

la confisca dei beni. Corrotti da questi allettamenti, i giovani nobili non solo non si opponevano ai soprusi, ma

dimostravano di preferire la propria sfrenatezza alla libertà di tutti. 

 

Libro 3, Par. 38
Latino
Idus Maiae uenere. Nullis subrogatis magistratibus, priuati pro decemuiris, neque animis ad imperium inhibendum imminutis

neque ad speciem honoris insignibus prodeunt. Id uero regnum haud dubie uideri. Deploratur in perpetuum libertas, nec uindex

quisquam exsistit aut futurus uidetur. Nec ipsi solum desponderant animos, sed contemni coepti erant a finitimis populis,

imperiumque ibi esse ubi non esset libertas, indignabantur. Sabini magna manu incursionem in agrum Romanum fecere; lateque

populati cum hominum atque pecudum inulti praedas egissent, recepto ad Eretum quod passim uagatum erat agmine castra locant,

spem in discordia Romana ponentes: eam impedimentum dilectui fore. Non nuntii solum sed per urbem agrestium fuga

trepidationem iniecit. Decemuiri consultant quid opus facto sit, destituti inter patrum et plebis odia. Addidit terrorem

insuper alium fortuna. Aequi alia ex parte castra in Algido locant depopulanturque inde excursionibus Tusculanum agrum;

legati ea ab Tusculo, praesidium orantes, nuntiant. Is pauor perculit decemuiros ut senatum, simul duobus circumstantibus

urbem bellis, consulerent. Citari iubent in curiam patres, haud ignari quanta inuidiae immineret tempestas: omnes uastati

agri periculorumque imminentium causas in se congesturos; temptationemque eam fore abolendi sibi magistratus, ni consensu

resisterent imperioque inhibendo acriter in paucos praeferocis animi conatus aliorum comprimerent. Postquam audita uox in

foro est praeconis patres in curiam ad decemuiros uocantis, uelut noua res, quia intermiserant iam diu morem consulendi

senatus, mirabundam plebem conuertit quidnam incidisset cur ex tanto interuallo rem desuetam usurparent; hostibus belloque

gratiam habendam quod solitum quicquam liberae ciuitati fieret. Circumspectare omnibus fori partibus senatorem, raroque

usquam noscitare; curiam inde ac solitudinem circa decemuiros intueri, cum et ipsi suum inuisum consensu imperium, et plebs,

quia priuatis ius non esset uocandi senatum, non conuenire patres interpretarentur; iam caput fieri libertatem repetentium,

si se plebs comitem senatui det et quemadmodum patres uocati non coeant in senatum, sic plebs abnuat dilectum. Haec fremunt

plebes. Patrum haud fere quisquam in foro, in urbe rari erant. Indignitate rerum cesserant in agros, suarumque rerum erant

amissa publica, tantum ab iniuria se abesse rati quantum a coetu congressuque impotentium dominorum se amouissent. Postquam

citati non conueniebant, dimissi circa domos apparitores simul ad pignera capienda sciscitandumque num consulto detractarent

referunt senatum in agris esse. Laetius id decemuiris accidit quam si praesentes detractare imperium referrent. Iubent acciri

omnes, senatumque in diem posterum edicunt; qui aliquanto spe ipsorum frequentior conuenit. Quo facto proditam a patribus

plebs libertatem rata, quod iis qui iam magistratu abissent priuatisque si uis abesset, tamquam iure cogentibus, senatus

paruisset.

 

Italiano
Le Idi di maggio arrivarono. Senza preoccuparsi di far eleggere altri magistrati al loro posto, i decemviri - ora privati

cittadini - apparvero in pubblico facendo capire di non voler assolutamente rinunciare alla gestione del potere, né di

volersi privare delle insegne che erano il distintivo della carica. Senza dubbio il loro sembrava un vero e proprio

dispotismo. Si piange la libertà come perduta per sempre; non c\'è, e sembra che non ci possa essere nemmeno in futuro, chi

sappia rivendicarla. Non si trattava soltanto di uno scoramento generale della popolazione: i paesi dei dintorni avevano

infatti cominciato a disprezzare i Romani, ritenendo indegno che l\'egemonia toccasse a un popolo privo di libertà. I Sabini

fecero un\'incursione in territorio romano con un largo spiegamento di truppe. Dopo aver devastato la campagna in lungo e in

largo, riuscirono a portarsi via il bottino di uomini e bestiame, in tutta sicurezza. Quindi, al termine di varie scorrerie

nel circondario, si andarono a chiudere ad Ereto, dove si accamparono, nella speranza che le discordie a Roma ostacolassero

l\'arruolamento. A creare scompiglio e agitazione non contribuivano soltanto i messaggeri in arrivo, ma anche le masse di

contadini riversatesi in città dalle campagne. I decemviri, abbandonati al loro destino dall\'odio tanto dei patrizi quanto

dei plebei, si interrogano sul da farsi. La cattiva sorte aggiunse un altro motivo di terrore: gli Equi, provenienti da

un\'altra direzione, si andarono ad accampare sull\'Algido e di lì, con rapide incursioni, si misero a devastare la zona di

Tuscolo. Queste notizie arrivarono a Roma con i messaggeri inviati da Tuscolo per implorare aiuto. I decemviri furono così

spaventati - due guerre contemporaneamente incombevano sulla città - che convocarono il senato. Ordinano di far chiamare i

senatori nella curia, pur non ignorando quale ondata di risentimento covava nei loro confronti: tutti li avrebbero ritenuti

responsabili delle devastazioni subite dalle campagne e dei pericoli che incombevano. Ciò avrebbe portato al tentativo di

abolire la loro magistratura, se di comune accordo non avessero opposto resistenza e se, esercitando pesantemente la loro

autorità nei confronti dei pochi veramente accaniti, non avessero represso le velleità degli altri. Quando nel foro si sentì

la voce del banditore convocare i senatori nella curia presso i decemviri come se fosse una novità - l\'usanza di consultare

il senato era stata da tempo abbandonata - questo annuncio attirò una folla stupita che si domandava cosa mai fosse successo

per spingere i decemviri a ripristinare una pratica da tempo desueta. Bisognava dire grazie ai nemici e alla guerra se

succedeva qualcosa di assolutamente normale per una città libera. Si guardava in tutte le parti del foro per individuare dei

senatori, ma raramente se ne vedeva qualcuno. Poi si guardava dentro la curia dove i decemviri se ne stavano tutti soli. Si

interpretava in maniera diversa il fatto che i senatori non si fossero presentati: i decemviri sostenevano che ciò dipendesse

dall\'odio unanime nei confronti della loro carica, mentre la plebe sosteneva che i decemviri, essendo dei privati cittadini,

non avevano il diritto di convocare il senato. Un vero passo avanti coloro che rivendicavano la libertà lo avrebbero fatto se

la plebe avesse collaborato col senato, e se, come i senatori che non si erano presentati in senato, pur essendo stati

convocati, così la plebe avesse rifiutato di arruolarsi. Questo vociferava la gente. Quasi nessuno dei senatori era nel foro,

pochi erano presenti in città. Indignati per la situazione, si erano ritirati in campagna, e si curavano dei loro affari

privati trascurando invece l\'interesse della comunità. I senatori pensavano infatti che tanto più sarebbero stati sicuri

quanto più avessero evitato contatti e rapporti con i tirannici padroni al potere. Quando, nonostante la convocazione, essi

non si presentarono, vennero inviati alle loro case dei pubblici ufficiali con il duplice cómpito di effettuare pignoramenti

a titolo di sanzione e di chiedere se quelle assenze erano deliberate. I messi tornarono riferendo che i senatori erano in

campagna. I decemviri accolsero la notizia con maggiore piacere di quanto ne avrebbero avuto se fosse stato annunciato loro

che si trovavano in città, ma non avevano intenzione di attenersi alle disposizioni. Ordinano quindi una convocazione

generale e fissano una seduta del senato per il giorno successivo; e i senatori vennero più numerosi di quanto essi non

avessero sperato. Ma proprio per questo motivo la plebe pensava che la libertà era stata tradita dai senatori: essi, come se

l\'ingiunzione fosse legale, avevano obbedito a uomini che non erano più magistrati e che, senza l\'uso della forza,

sarebbero stati dei privati cittadini. 

 

Libro 3, Par. 39
Latino
Sed magis oboedienter uentum in curiam esse quam obnoxie dictas sententias accepimus. L. Valerium Potitum proditum memoriae

est post relationem Ap. Claudi, priusquam ordine sententiae rogarentur, postulando ut de re publica liceret dicere,

prohibentibus minaciter decemuiris proditurum se ad plebem denuntiantem, tumultum exciuisse. Nec minus ferociter M. Horatium

Barbatum isse in certamen, decem Tarquinios appellantem admonentemque Valeriis et Horatiis ducibus pulsos reges. Nec nominis

homines tum pertaesum esse, quippe quo Iouem appellari fas sit, quo Romulum, conditorem urbis, deincepsque reges, quod sacris

etiam ut sollemne retentum sit: superbiam uiolentiamque tum perosus regis. Quae si in rege tum aut in filio regis ferenda non

fuerint, quem eadem laturum in tot priuatis? Viderent ne uetando in curia libere homines loqui extra curiam etiam mouerent

uocem; neque se uidere qui sibi minus priuato ad contionem populum uocare quam illis senatum cogere liceat. Ubi uellent

experirentur quanto fortior dolor libertate sua uindicanda quam cupiditas in iniusta dominatione esset. De bello Sabino eos

referre, tamquam maius ullum populo Romano bellum sit quam cum iis qui legum ferendarum causa creati nihil iuris in ciuitate

reliquerint; qui comitia, qui annuos magistratus, qui uicissitudinem imperitandi, quod unum exaequandae sit libertatis,

sustulerint; qui priuati fasces et regium imperium habeant. Fuisse regibus exactis patricios magistratus; creatos postea post

secessionem plebis plebeios; cuius illi partis essent, rogitare. Populares? Quid enim eos per populum egisse? Optimates? Qui

anno iam prope senatum non habuerint, tunc ita habeant ut de re publica loqui prohibeant? Ne nimium in metu alieno spei

ponerent; grauiora quae patiantur uideri iam hominibus quam quae metuant.

 

Italiano
Ma l\'obbedienza dimostrata nel presentarsi in senato fu, a quanto si dice, superiore alla remissività con la quale esposero

il proprio punto di vista. Si racconta che Lucio Valerio Potito, dopo la proposta avanzata da Appio Claudio e prima che i

senatori venissero chiamati in successione a esporre le proprie opinioni, chiese di essere autorizzato a parlare della

situazione in cui versava lo Stato. Ma siccome i decemviri cercavano di impedirglielo ricorrendo all\'intimidazione, Valerio

fece scoppiare un pandemonio dichiarando di volersi presentare di fronte al popolo. Nel dibattito Marco Orazio Barbato non

dimostrò minor veemenza: chiamò i decemviri dieci Tarquini, ricordando loro che erano stati i Valeri e gli Orazi a scacciare

i re. E non era stato il nome di re ciò che allora aveva disgustato la gente, in quanto proprio con quel nome era

consuetudine chiamare Giove, così come Romolo, fondatore della città, e in séguito i suoi successori, e il nome poi si era

mantenuto come titolo solenne in àmbito religioso. No, quello che il popolo aveva detestato nelle persone dei re erano state

l\'arroganza e la crudeltà. E se queste caratteristiche si erano allora rivelate insopportabili in un re o nel figlio di un

re, adesso chi le avrebbe potute tollerare in tanti privati cittadini? Che stessero quindi bene attenti a non privare della

libertà di parola i presenti in curia, costringendoli ad alzare la voce fuori dalla curia. E poi non riusciva a vedere come

fosse meno lecito a lui - un privato cittadino - convocare il popolo in assemblea di quanto non lo fosse a loro costringere

il senato. Avrebbero potuto verificare in qualsiasi momento quanto più forte potesse essere l\'esasperazione di un uomo

chiamato a rivendicare la propria libertà rispetto alla smodata ingordigia di chi difende un potere fondato

sull\'ingiustizia. E loro, i decemviri, venivano poi a parlare della guerra contro i Sabini, come se per il popolo romano

qualunque guerra potesse essere più importante di quella da combattersi contro coloro che, eletti proprio per proporre delle

leggi, non avevano lasciato nemmeno le tracce della legalità all\'interno del paese, spazzando via le regolari assemblee, le

magistrature annue, l\'avvicendamento del potere - unica garanzia di uguale libertà -, arrivando fino a insignirsi delle

fasce e del potere dei re, pur essendo privati cittadini. Dopo la cacciata dei re, c\'erano stati dei magistrati patrizi,

mentre a séguito della secessione della plebe la nomina era toccata anche ai plebei: ma loro, i decemviri - si domandava

Valerio -, di quale parte erano? Popolare? Ma cosa avevano mai fatto per il popolo? O erano forse degli aristocratici? Loro

che, per quasi un anno, non avevano convocato il senato, ora che lo avevano riunito impedivano di dibattere il problema dello

Stato? Che non ponessero troppa speranza nell\'altrui terrore: quello di cui ora soffriva sembrava ormai alla gente più

gravoso di quello che temeva per il futuro. 

 

Libro 3, Par. 40
Latino
Haec vociferante Horatio cum decemuiri nec irae nec ignoscendi modum reperirent nec quo euasura res esset cernerent, C.

Claudi, qui patruus Appi decemuiri erat, oratio fuit precibus quam iurgio similior, orantis per sui fratris parentisque eius

manes ut ciuilis potius societatis in qua natus esset, quam foederis nefarie icti cum collegis meminisset. Multo id magis se

illius causa orare quam rei publicae; quippe rem publicam, si a uolentibus nequeat, ab inuitis ius expetituram; sed ex magno

certamine magnas excitari ferme iras; earum euentum se horrere. Cum aliud praeterquam de quo rettulissent decemuiri dicere

prohiberent, Claudium interpellandi uerecundia fuit. Sententiam igitur peregit nullum placere senatus consultum fieri.

Omnesque ita accipiebant priuatos eos a Claudio iudicatos; multique ex consularibus uerbo adsensi sunt. Alia sententia,

asperior in speciem, uim minorem aliquanto habuit, quae patricios coire ad prodendum interregem iubebat. Censendo enim

quodcumque, magistratus esse qui senatum haberent iudicabat, quos priuatos fecerat auctor nullius senatus consulti faciendi.

Ita labente iam causa decemuirorum, L. Cornelius Maluginensis, M. Corneli decemuiri frater, cum ex consularibus ad ultimum

dicendi locum consulto seruatus esset, simulando curam belli fratrem collegasque eius tuebatur, quonam fato incidisset mirari

se dictitans ut decemuiros, qui decemuiratum petissent--aut soli ii aut maxime--oppugnarent; aut quid ita, cum per tot menses

uacua ciuitate nemo iustine magistratus summae rerum praeessent controuersiam fecerit, nunc demum cum hostes prope ad portas

sint, ciuiles discordias serant, nisi quod in turbido minus perspicuum fore putent quid agatur. Ceterum--nonne enim maiore

cura occupatis animis uerum esse praeiudicium rei tantae auferri?--sibi placere de eo quod Valerius Horatiusque ante idus

Maias decemuiros abisse magistratu insimulent, bellis quae immineant perfectis, re publica in tranquillum redacta, senatu

disceptante agi, et iam nunc ita se parare Ap. Claudium ut comitiorum quae decemuiris creandis decemuirum ipse habuerit sciat

sibi rationem reddendam esse utrum in unum annum creati sint, an donec leges quae deessent perferrentur. In praesentia omnia

praeter bellum omitti placere; cuius si falso famam uolgatam, uanaque non nuntios solum sed Tusculanorum etiam legatos

attulisse putent, speculatores mittendos censere qui certius explorata referant: sin fides et nuntiis et legatis habeatur,

dilectum primo quoque tempore haberi et decemuiros quo cuique eorum uideatur exercitus ducere, nec rem aliam praeuerti.

 

Italiano
Di fronte all\'attacco di Orazio, i decemviri non sapevano se era il caso di indignarsi o di lasciar perdere, e non capivano

quale piega avrebbe preso la cosa. Gaio Claudio, che era lo zio paterno di Appio Claudio, pronunciò un discorso più simile a

un\'implorazione che a una requisitoria. In nome dei Mani di suo fratello, padre di Appio, supplicò il nipote di ricordarsi

del consorzio civile all\'interno del quale era nato piuttosto che dello scellerato patto stipulato insieme ai colleghi.

Questa supplica gliela rivolgeva più nel suo interesse che non in quello del paese. Perché la repubblica avrebbe rivendicato

il proprio diritto contro la loro volontà, se i decemviri non erano in grado di garantirlo spontaneamente. Ma grandi scontri

di solito generano grandi rancori: e Claudio ne temeva gli esiti. Benché i decemviri volessero evitare che il dibattito si

spostasse su temi estranei a quelli posti all\'ordine del giorno, tuttavia non ebbero il coraggio di interrompere Claudio.

Egli quindi espresse il parere che il senato non doveva prendere alcuna decisione. Così tutti compresero che Claudio riteneva

i decemviri privati cittadini. E molti degli ex-consoli si dimostrarono d\'accordo. Un\'altra proposta, apparentemente più

spregiudicata ma di fatto molto meno drastica della precedente, invitava i patrizi a riunirsi per nominare un interré.

Varando infatti un qualsiasi provvedimento, venivano riconosciuti magistrati quelli che avevano convocato il senato, mentre

sarebbero rimasti privati cittadini se invece si accettava la proposta di chi caldeggiava la completa astensione

dall\'attività. Mentre la posizione dei decemviri era sempre più in bilico, Lucio Cornelio Maluginense, fratello del

decemviro Marco Cornelio, cui era stato intenzionalmente riservato l\'ultimo intervento nel dibattito, in un primo tempo si

mise a difendere il fratello e il resto del collegio fingendo di essere in apprensione per la guerra, e poi disse di essersi

curiosamente domandato in base a quale fatalità avesse potuto succedere che contro i decemviri si fossero scagliati -

soltanto o soprattutto - proprio quelli che avevano puntato al decemvirato; e perché mai, mentre nel corso di tutti quei mesi

di pace interna nessuno di loro aveva posto in discussione la legittimità dei magistrati preposti alle più alte cariche, e

soltanto adesso, coi nemici ormai quasi alle porte, si mettessero ad alimentare dissensi tra i cittadini; a meno che non

pensassero che in uno stato di confusione i reali motivi del loro comportamento si sarebbero rivelati meno perspicui. Quanto

al resto, non era forse meglio non pregiudicare una questione tanto importante quando le menti erano occupate da un pensiero

ben più grave? Intorno all\'accusa mossa da Valerio e Orazio secondo la quale i decemviri avrebbero dovuto uscire di carica

prima delle Idi di maggio, Cornelio disse che a suo parere la questione andava dibattuta in senato, non prima però di aver

posto fine alle guerre incombenti e di aver riportato la pace nello Stato. Appio Claudio si tenesse pronto già fin da allora

a rendere conto dei comizi per elezioni dei decemviri che egli stesso, un decemviro, aveva presieduto: se erano stati

nominati per un anno oppure fino a quando non fossero state approvate le leggi mancanti. Quanto poi al presente, l\'opinione

di Cornelio era che ci si dovesse occupare esclusivamente della guerra. Se poi le voci riguardanti la guerra si dimostravano

infondate e i senatori ritenevano che non solo i messaggeri romani ma anche gli ambasciatori dei Tuscolani avessero riferito

delle notizie prive di senso, allora - questo quanto lui suggeriva - sarebbe stato necessario inviare sul posto delle

pattuglie di ricognizione perché riportassero informazioni più sicure dopo aver attentamente esaminato la situazione. Se

invece si prestava fede ai messaggeri romani e agli ambasciatori, si facesse al più presto la leva, i decemviri guidassero

gli eserciti dove sarebbe parso più opportuno a ciascuno di loro; si desse alla guerra la precedenza assoluta su ogni altra

questione. 

 

Libro 39, Par. 40
Latino
In hoc viro tanta vis animi ingeniique fuit, ut quocuinque loco natus esset, fortunam sibi ipse facturus fuisse videretur.

Nulla ars neque privatae neque publicae rei gerendae ei defuit; urbanas rusticasque res pariter callebat. Ad summos honores

alios scientia iuris, alios eloquentia, alios gloria militaris provexit: huic versatile ingenium sic pariter ad omnia fuit,

ut natuin ad id unum diceres, quod cumque ageret: in bello manu fortissimus multisque insignibus claru.S pugnis, idem

postquam ad magnos honores pervenit, summus imperator, idem in pace, sì ius consuleres, peritissimus, si causa oranda esset,

eloquentissimus, nec is tantum, cuius lingua vivo eo viguerit, monumentum eloquentiae nullum exstet: vivit immo vigetque

eloquentia eius sacrata scriptis omnis generis. Orationes et pro se multae et pro aliis et in alios: nam non solum accusando

sed etiam causam dicendo fatigavit inimicos. Simultates nimio plures et exercuerunt eurn et ipse exercuit eas; nec facile

dixeris, utrum magis presserit eurn nobilitas, an ille agitaverit nobilitatem. Asperi procul dubio animi et linguae acerbac

et immodice liberae fuit, sed invicti a cupiditatibus animi, rigidae innocentiae, contemptor gratiae, divitiarum. In

parsimonia, in patientia laboris periculique ferrei prope corporis animique, quern ne senectus quidem, quae solvit omnia,

fregerit, qui sexturn et octogesimum annum agens causam dixerit, ipse pro se oraverit scripseritque, nonagesimo anno Ser.

Galbam. ad populi adduxerit iudicium.

 

Italiano
In questo uomo tanto forti erano l\'animo e l\'indole che appariva chiaro come, qualunque fosse stato il suo rango sociale,

si sarebbe costruito da solo la sua fortuna. Possedeva ogni abilità utile a qualsiasi attività sia nella sfera pubblica che

in quella privata ed era ugualmente esperto dei problemi della vita cittadina come di quelli della vita in campagna. Alcuni

sono stati portati alle più alte magistrature dalla loro conoscenza del diritto, altri dalla loro eloquenza, altri ancora dai

meriti acquisiti in guerra: Catone ebbe invece un ingegno tanto versatile e tanto adattabile ad ogni situazione che,

qualunque fosse ìl settore in cui era impegnato, si sarebbe detto che fosse nato proprio per esercitare quell\'unica

attività. In guerra era un uomo d\'azione e si segnalò in battaglie molto importanti; quando ebbe raggìunto i gradi più alti

si dimostrò validissimo condotticro; e lo stesso fu in periodo di pace: espertissimo giureconsulto e di grandissima eloquenza

quando c\'era da difendere qualcuno; ed egli non fu soltanto un oratore la cui eloquenza seppe imporsi solo finché era vivo

non lasciando dunque alcuna testimonianza della sua abilità oratoria: al contrario, la sua eloquenza è ben viva e valida,

consacrata da scritti di ogni genere. Molte sono le orazioni in difesa propria e degli altri; molte le orazioni con cui

attaccò i suoi avversari: infatti non solo portando accuse ma anche impegnandosi in varie difese seppe sfiancare chi gli si

opponeva. Molte ?troppe anzi ? le inimicizie che lo presero per bersaglio, ma anche lui fu fierissimo avversario di molti e

non sarebbe certo stato facile capire se fosse il patriziato a combattere lui o non piuttosto lui a combattere il patriziato.

Non vi è dubbio: fu di carattere intrattabile, oltre che di lingua aspra ed eccessiva, ma il suo animo non andò mai soggetto

a cupidigie, fu di una rigorosa probità, disprezzò sempre i favoritismi e le ricchezze. Nella sua sobrietà, nella sua

capacità di sopportare fatiche e pericoli, dimostrò di avere corpo e carattere duri come il ferro: nemmeno la vecchiaia, che

dissolve ogni cosa, riusci a spezzarlo, lui che a ottantacinque anni trattò una causa e scrisse e pronunciò un\'orazione in

propria difesa, lui che a novant\'anni citò davanti al popolo Servio Galba.

 

Libro 39, Par. 52
Latino
Scipionem et Polybius et Rutilius hoc anno mortuimi seribunt. Ego neque his neque Valerio adsentior, his, quod censoribus M.

Porcio L. Valerio L. Valerium principem senatus ipsum censoreni lectum invenio, cum superioribus duobus lustris Africanus

fuisset, quo vivo, nisi ut ille senatu moveretur, quam notam nemo memoriae prodidit, alius princeps in locum eius lectus non

esset. Antiatem auctorem refellit tribunus plebis M. Naevius, adversus queni oratio inscripta P. Africani est. Hic Naevius in

magistratuurn libris est tribunus plebis P. Claudio L. Porcio consulibus, sed iniit tribunatum Ap. Claudio M. Sempronio

consulibus ante diem quartum idus Decembres. Inde tres menses ad idus Martias sunt, quibus P. Claudius L. Porcius consulatuin

inierunt. Ita vixisse in tribunatu Naevii videtur, diesque ei dici ab eo potuisse, decessisse autem ante L. Valerii et M.

Porcii censuram.
Trium clarissimorum suae cuiusque gentis virorum non tempore magis congruente comparabilis mors videtur esse, quam quod nemo

eorum satis dignum splendore vitae exitum habuit. lam primuni omnes non in patrio solo mortui nec sepulti sunt. Veneno

absumpti Hannibal et Philopoemen; exsul Hannibal, proditus ab hospite, captus Philopoemen in carcere et in vinculis

exspiravit: Scipio etsi non exsul neque danmatus, die tamen dicta, ad quam non adfuerat reus, absens citatus, voluntarium non

sibimet ipse solum sed etiam funeri suo exsilium indixit.

 

Italiano
Quanto a Scipione, Polibio e Rutili0130 scrivono che mori durante quest\'anno. Io non mi trovo d\'accordo né con questi due

né con Valerio. Non sono d\'accordo con i primi due perché trovo che durante la censura di Marco Porcio e Lucio Valerio fu

eletto a principe del senato lo stesso censore Lucio Valerio, mentre durante i due lustri precedenti aveva ricoperto quella

carica l\'Africano: se questi fosse stato vivo nessun altro sarebbe stato eletto al suo posto a principe del senato, a meno

che egli non fosse stato espulso dal senato, ma nessuno menziona una simile nota di infamia ai suoi danni. La versione

accreditata dall\'Anziate è smentita dal fatto che era tribuno della plebe Marco Nevio, contro il quale è intitolata

un\'orazione di Publio Africano. Questo Nevio, a conipulsare le liste dei magistrati, risulta tribuno della plebe sotto il

consolato di Publio Claudio e di Lucio Porcio, ma entrò in carica quando erano ancora consoli Appio Claudio e Marco

Sempronio, il 10 di dicembre. Da questa data al 15 di marzo, quando entrarono in carica Publio Claudio e Lucio Marcio,

passarono tre mesi. Così è chiaro che era in vita durante il tribunato di Nevio, se costui poté citarlo in giudizio e che

morì prima della censura di Lucio Valerio e Marco Porcio. 

 

Libro 4, Par. 1
Latino
Hos secuti M. Genucius et C. Curtius consules. Fuit annus domi forisque infestus. Nam principio et de conubio patrum et

plebis C. Canuleius tribunus plebis rogationem promulgavit, qua contaminari sanguinem suum patres confundique iura gentium

rebantur, et mentio primo sensim inlata a tribunis ut alterum ex plebe consulem liceret fieri, eo processit deinde ut

rogationem novem tribuni promulgarent, ut populo potestas esset, seu de plebe seu de patribus vellet, consules faciendi. Id

vero si fieret, non volgari modo cum infimis, sed prorsus auferri a primoribus ad plebem summum imperium credebant. Laeti

ergo audiere patres Ardeatium populum ob iniuriam agri abiudicati descisse, et Veientes depopulatos extrema agri Romani, et

Volscos Aequosque ob communitam verruginem fremere; adeo vel infelix bellum ignominiosae paci praeferebant. His itaque in

maius etiam acceptis, ut inter strepitum tot bellorum conticescerent actiones tribuniciae, dilectus haberi, bellum armaque vi

summa apparari iubent, si quo intentius possit quam T. Quinctio consule apparatum sit. Tum C. Canuleius, pauca in senatu

vociferatus, nequiquam territando consules auertere plebem a cura novarum legum, nunquam eos se vivo dilectum habituros,

antequam ea quae promulgata ab se collegisque essent plebes sciuisset, confestim ad contionem advocavit.

 

Italiano
A questi uomini successero i consoli Marco Genucio e Gaio Curzio. Fu un anno difficile, sia in patria sia fuori. Infatti,

all\'inizio dell\'anno, il tribuno della plebe Gaio Canuleio presentò una proposta di legge sul matrimonio tra patrizi e

plebei, con la quale i patrizi pensavano si contaminasse il loro sangue e si sovvertissero i diritti gentilizi. Inoltre, fu

suggerita - prima molto cautamente da parte dei tribuni - un\'altra proposta in base alla quale sarebbe stato lecito che uno

dei consoli fosse di estrazione plebea. Ma la cosa prese in séguito una tale consistenza da spingere ben nove tribuni a

presentare una proposta di legge che garantiva al popolo la facoltà di nominare i consoli scegliendoli sia fra la plebe, sia

tra i patrizi. E questi ultimi credevano che, se ciò fosse accaduto, non solo alla più alta carica avrebbero avuto accesso i

più infimi, ma essa sarebbe stata del tutto tolta agli aristocratici per affidarla ai plebei. Perciò fu per i patrizi un

grande sollievo sentire che il popolo di Ardea si era ribellato per l\'infamia con la quale gli era stata portata via la

terra, che i Veienti avevano messo a ferro e fuoco le campagne alla frontiera romana e che Volsci ed Equi stavano fremendo

per la fortezza di Verrugine: i patrizi preferivano una guerra dall\'esito magari funesto a una pace vergognosa. Perciò,

esagerando ancor più queste notizie - per far cessare, nell\'agitazione di tante guerre, le iniziative dei tribuni -,

ordinano di organizzare le leve e di preparare la guerra e le armi, con il massimo impegno e, se possibile, con ancor

maggiore sollecitudine di quella con cui erano state preparate sotto il console Tito Quinzio. Allora Gaio Canuleio, in poche

frasi, dice ai senatori che i consoli, continuando a spaventare senza motivo, non sarebbero riusciti, né a distogliere la

plebe dal pensiero delle nuove leggi, né a realizzare, finché lui era vivo, la leva militare, almeno non prima che la plebe

avesse espresso il proprio voto sulle proposte di legge presentate da lui e dai suoi colleghi. Detto questo, convocò súbito

l\'assemblea. 

 

Libro 4, Par. 2
Latino
Eodem tempore et consules senatum in tribunum et tribunus populum in consules incitabat. Negabant consules iam ultra ferri

posse furores tribunicios; ventum iam ad finem esse; domi plus belli concitari quam foris. Id adeo non plebis quam patrum

neque tribunorum magis quam consulum culpa accidere. Cuius rei praemium sit in civitate, eam maximis semper auctibus

crescere; sic pace bonos, sic bello fieri. Maximum Romae praemium seditionum esse; ideo singulis universisque semper honori

fuisse. Reminiscerentur quam maiestatem senatus ipsi a patribus accepissent, quam liberis tradituri essent, vel quem ad modum

plebs gloriari posset auctiorem amplioremque esse. Finem ergo non fieri nec futuram donec quam felices seditiones tam

honorati seditionum auctores essent. Quas quantasque res C. Canuleium adgressum! Conluvionem gentium, perturbationem

auspiciorum publicorum privatorumque adferre, ne quid sinceri, ne quid incontaminati sit, ut discrimine omni sublato nec se

quisquam nec suos noverit. Quam enim aliam vim conubia promiscua habere nisi ut ferarum prope ritu volgentur concubitus

plebis patrumque? Ut qui natus sit ignoret, cuius sanguinis, quorum sacrorum sit; dimidius patrum sit, dimidius plebis, ne

secum quidem ipse concors. Parum id videri quod omnia divina humanaque turbentur: iam ad consulatum volgi turbatores accingi.

Et primo ut alter consul ex plebe fieret, id modo sermonibus temptasse; nunc rogari ut seu ex patribus seu ex plebe velit

populus consules creet. Et creaturos haud dubie ex plebe seditiosissimum quemque; Canuleios igitur Iciliosque consules fore.

Ne id Iuppiter optimus maximus sineret regiae maiestatis imperium eo recidere; et se miliens morituros potius quam ut tantum

dedecoris admitti patiantur. Certum habere maiores quoque, si divinassent concedendo omnia non mitiorem in se plebem, sed

asperiorem alia ex aliis iniquiora postulando cum prima impetrasset futuram, primo quamlibet dimicationem subituros fuisse

potius quam eas leges sibi imponi paterentur. Quia tum concessum sit de tribunis, iterum concessum esse; finem non fieri

posse si in eadem civitate tribuni plebis et patres essent; aut hunc ordinem aut illum magistratum tollendum esse, potiusque

sero quam nunquam obviam eundum audaciae temeritatique. Illine ut impune primo discordias serentes concitent finitima bella,

deinde adversus ea quae concitaverint armari civitatem defendique prohibeant, et cum hostes tantum non arcessierint,

exercitus conscribi adversus hostes non patiantur, sed audeat Canuleius in senatu proloqui se nisi suas leges tamquam

victoris patres accipi sinant dilectum haberi prohibiturum? Quid esse aliud quam minari se proditurum patriam, oppugnari

atque capi passurum! Quid eam vocem animorum, non plebi Romanae, sed Volscis et Aequis et Veientibus allaturam! Nonne

Canuleio duce se speraturos Capitolium atque arcem scandere posse? Nsii patribus tribuni cum iure ac maiestate adempta animos

etiam eripuerint, consules paratos esse duces prius adversus scelus civium quam adversus hostium arma.

 

Italiano
Nello stesso tempo i consoli istigavano il senato contro il tribuno, e il tribuno il popolo contro i consoli. Questi ultimi

sostenevano che non era possibile tollerare più a lungo i colpi di testa dei tribuni: si era ormai arrivati a toccare il

limite estremo e c\'erano più focolai di guerra all\'interno della città che all\'esterno. E se adesso le cose stavano così,

la colpa era tanto della plebe quanto del patriziato e tanto dei tribuni quanto dei consoli. In ogni paese si sviluppa col

massimo incremento ciò che viene ricompensato: così, sia in pace che in guerra, si formano i buoni cittadini. Ma a Roma ciò

che aveva maggiore successo erano le sedizioni: da sempre esse tornavano ad onore sia dei singoli che della moltitudine. Che

ricordassero la maestà del senato quale l\'avevano ricevuta dai loro padri e quale l\'avrebbero consegnata ai figli, e come

invece la plebe potesse vantarsi di aver accresciuto la propria autorità e importanza. Né si intravedeva una fine a questo,

nemmeno per il futuro, finché le sedizioni avessero continuato ad aver fortuna e i loro autori avessero continuato a ricevere

tanti riconoscimenti. Quali iniziative aveva preso Gaio Canuleio, e quanto importanti! Cercava di mescolare il sangue delle

famiglie aristocratiche, di creare confusione negli auspici pubblici e privati, perché niente di puro, niente di

incontaminato si salvasse, così che, soppressa ogni distinzione, nessuno potesse essere in grado di riconoscere se stesso e i

suoi. Perché quale altro effetto possono avere i matrimoni misti, se non la diffusione di accoppiamenti, come tra animali, di

patrizi e plebei? Così i figli nascendo non avrebbero saputo qual era il loro sangue, quale il loro culto; sarebbero stati

per metà patrizi e per metà plebei, senza trovare accordo neppure dentro di loro. Ma che fosse completamente sconvolto

l\'ordine delle cose divine e di quelle umane sembrava ancora poco: i sobillatori del volgo puntavano già al consolato. E

mentre in un primo tempo avevano cercato di ottenere solo coi discorsi che uno dei consoli fosse plebeo, ora presentavano la

proposta che fosse il popolo a eleggere, a suo piacimento, i consoli tra i patrizi o tra i plebei. E senza dubbio avrebbero

sempre eletto tra la plebe i più facinorosi: dunque sarebbero diventati consoli dei Canulei e degli Icili. Ma Giove Ottimo

Massimo non avrebbe permesso che una carica investita di regale maestà cadesse così in basso. Essi sarebbero morti mille

volte piuttosto di tollerare che si commettesse una simile infamia. Erano sicurissimi che anche i loro antenati, se avessero

potuto prevedere che, assecondando ogni richiesta della plebe, l\'avrebbero resa non più mite ma solo più dura, e che alle

prime concessioni avrebbero fatto séguito nuove e sempre più ingiuste pretese, all\'inizio avrebbero accettato di affrontare

qualsiasi scontro piuttosto che subire l\'imposizione di quelle leggi. Ma siccome avevano ceduto allora sulla questione dei

tribuni, si dovette cedere altre volte. I cedimenti non potevano aver fine se nella stessa città continuavano a coesistere

tribuni della plebe e patrizi: bisognava eliminare quella classe o quella magistratura; bisognava opporsi - meglio tardi che

mai - all\'arroganza e alla temerarietà. Com\'era possibile che, dopo aver fatto scoppiare le guerre con i vicini a forza di

seminare zizzania, avessero poi impedito alla città di armarsi per difendersi dalle guerre che loro avevano fatto scoppiare?

O ancora che, dopo aver quasi invitato i nemici, in séguito non avessero permesso che si arruolassero gli eserciti per

affrontarli? E che Canuleio fosse così sfrontato da dichiarare in senato che se i patrizi avessero impedito l\'approvazione

delle leggi da lui proposte, come se fossero quelle di un trionfatore, avrebbe impedito la realizzazione della leva militare?

Cos\'altro era quella se non la minaccia di tradire il proprio paese, accettando che subisse un attacco e finisse in mani

nemiche? Quelle parole sì sarebbero state un bell\'incoraggiamento, ma non per la plebe, per Volsci, Equi e Veienti; non

avrebbero forse sperato di salire fino sul Campidoglio e sulla cittadella con Canuleio alla testa? Se insieme ai diritti e

alla dignità i tribuni non avevano sottratto ai patrizi anche il coraggio, allora i consoli erano pronti a guidare la lotta

contro le scelleratezze dei concittadini, prima ancora che contro le armi dei nemici. 

 

Libro 4, Par. 3
Latino
Cum maxime haec in senatu agerentur, Canuleius pro legibus suis et adversus consules ita disseruit: "Quanto opere vos,

Quirites, contemnerent patres, quam indignos ducerent qui una secum urbe intra eadem moenia viveretis, saepe equidem et ante

videor animadvertisse, nunc tamen maxime quod adeo atroces in has rogationes nostras coorti sunt, quibus quid aliud quam

admonemus ciues nos eorum esse et, si non easdem opes habere, eandem tamen patriam incolere? Altera conubium petimus, quod

finitimis externisque dari solet; nos quidem civitatem, quae plus quam conubium est, hostibus etiam victis dedimus;--altera

nihil novi ferimus, sed id quod populi est repetimus atque usurpamus, ut quibus velit populus Romanus honores mandet. Quid

tandem est cur caelum ac terras misceant, cur in me impetus modo paene in senatu sit factus, negent se manibus temperaturos,

violaturosque denuntient sacrosanctam potestatem? Si populo Romano liberum suffragium datur, ut quibus velit consulatum

mandet, et non praeciditur spes plebeio quoque, si dignus summo honore erit, apiscendi summi honoris, stare urbs haec non

poterit? De imperio actum est? Et perinde hoc valet, plebeiusne consul fiat, tamquam seruum aut libertinum aliquis consulem

futurum dicat? Ecquid sentitis in quanto contemptu Vivatis? Lucis vobis huius partem, si liceat, adimant; quod spiratis, quod

vocem mittitis, quod formas hominum habetis, indignantur; quin etiam, si dis placet, nefas aiunt esse consulem plebeium

fieri. Obsecro vos, si non ad fastos, non ad commentarios pontificum admittimur, ne ea quidem scimus quae omnes peregrini

etiam sciunt, consules in locum regum successisse nec aut iuris aut maiestatis quicquam habere quod non in regibus ante

fuerit? En unquam creditis fando auditum esse, Numam Pompilium, non modo non patricium sed ne ciuem quidem Romanum, ex Sabino

agro accitum, populi iussu, patribus auctoribus Romae regnasse? L. deinde Tarquinium, non Romanae modo sed ne Italicae quidem

gentis, Demarati Corinthii filium, incolam ab Tarquiniis, vivis liberis Anci, regem factum? Ser. Tullium post hunc, captiua

Corniculana natum, patre nullo, matre serua, ingenio, virtute regnum tenuisse? Quid enim de T. Tatio Sabino dicam, quem ipse

Romulus, parens urbis, in societatem regni accepit? Ergo dum nullum fastiditur genus in quo eniteret virtus, creuit imperium

Romanum. Paeniteat nunc vos plebeii consulis, cum maiores nostri advenas reges non fastidierint, et ne regibus quidem exactis

clausa urbs fuerit peregrinae virtuti? Claudiam certe gentem post reges exactos ex Sabinis non in civitatem modo accepimus

sed etiam in patriciorum numerum. Ex peregrinone patricius, deinde consul fiat, civis Romanus si sit ex plebe, praecisa

consulatus spes erit? Utrum tandem non credimus fieri posse, ut vir fortis ac strenuus, pace belloque bonus, ex plebe sit,

Numae, L. Tarquinio, Ser. Tullio similis, an, ne si sit quidem, ad gubernacula rei publicae accedere eum patiemur, potiusque

decemviris, taeterrimis mortalium, qui tum omnes ex patribus erant, quam optimis regum, novis hominibus, similes consules

sumus habituri?

 

Italiano
Proprio mentre in senato era in pieno svolgimento il dibattito su questi temi, Canuleio pronunciò questo discorso in difesa

delle sue proposte di legge e contro i consoli: «Quanto i patrizi vi odino, o Quiriti, e come vi considerino indegni di

vivere accanto a loro all\'interno delle mura di una stessa città, a esser sincero mi sembra di averlo già rilevato più volte

in passato. E ora più che mai, poiché i patrizi dimostrano un livore senza precedenti nei confronti delle nostre proposte di

legge; ma noi cosa facciamo con esse se non avvertirli che siamo loro concittadini e che, pur non avendo pari ricchezze,

abitiamo nella medesima patria? Con uno dei provvedimenti chiediamo il diritto a quel matrimonio che si suole concedere ai

popoli confinanti e agli stranieri; noi abbiamo assicurato anche ai nemici vinti la cittadinanza, che è ben più del diritto

al matrimonio. Con il secondo non chiediamo nulla di nuovo, ma ci limitiamo a esigere e rivendicare un diritto del popolo, e

cioè che il popolo romano possa eleggere i candidati che preferisce. Ma allora per quali ragioni i patrizi hanno deciso di

mettere sottosopra cielo e terra? E perché mai poco fa io sono stato quasi assalito in senato? Perché hanno dichiarato di non

voler limitare il ricorso alla forza, minacciando di violare la nostra sacrosanta autorità? Se al popolo romano fosse

garantita la libertà di voto, così che possa affidare il consolato a chi desidera, e se anche il plebeo non fosse privato

della speranza di assurgere ai massimi onori - qualora ne fosse degno -, credete che la stabilità di questo nostro paese

risulterebbe compromessa? È la fine per lo Stato romano? Che un plebeo possa diventare console, equivale forse a dire che un

console diventerà un liberto o un servo? Ma vi rendete conto in mezzo a quanto disprezzo vivete? Se solo potessero, vi

porterebbero via anche parte della luce del giorno! Non sopportano che respiriate, che parliate e che abbiate forma umana, e

arrivano - pensate un po\'! - a definire sacrilega l\'elezione di un console plebeo. Ora, ditemi, anche se noi del popolo non

siamo ammessi alla consultazione dei Fasti e dei libri tenuti dai pontefici, forse per questo ignoriamo quello che anche gli

stranieri sanno, e cioè che i consoli presero il posto dei re e che non hanno alcun diritto o autorità che non siano già

stati dei re? Pensate che nessuno abbia sentito parlare di Numa Pompilio, che, pur non essendo patrizio e nemmeno cittadino

romano, fu chiamato dalle campagne della Sabina per volontà del popolo e regnò su Roma col beneplacito dell\'aristocrazia?

Oppure che in séguito Lucio Tarquinio, il quale non apparteneva a una stirpe romana né italica, figlio di Demarato di Corinto

e immigrato da Tarquinia, fu eletto re, anche se i figli di Anco erano ancora vivi? O che dopo di lui Servio Tullio, figlio

di una prigioniera di Cornicolo, di padre ignoto e con una schiava per madre, riuscì a reggere il regno grazie soltanto al

suo ingegno e al suo valore? Per non parlare di Tito Tazio, associato al potere da Romolo in persona, il padre di questa

città! Quando non si disdegnava alcuna stirpe nella quale brillasse qualche virtù, la potenza di Roma continuò a crescere. E

ora non dovrebbe andarvi a genio un console plebeo, quando i nostri antenati non rifiutarono re venuti da fuori e neppure

dopo la cacciata dei re la città chiuse le porte alla virtù straniera? Prendete la famiglia Claudia che veniva dai Sabini:

dopo la cacciata dei re, non solo l\'abbiamo accolta in città, ma l\'abbiamo anche inclusa nel novero dei patrizi. Dunque uno

straniero può diventare prima patrizio e poi console, e invece un cittadino romano, se proviene dalla plebe, sarà privato

della speranza di arrivare al consolato? Dobbiamo forse ritenere impossibile che un uomo forte e coraggioso in pace e in

guerra, simile a Numa, a Lucio Tarquinio e a Servio Tullio, sia di estrazione plebea? Oppure, se ve ne fosse uno, gli

impediremo di arrivare al timone dello Stato e dovremo avere consoli simili ai decemviri - i più turpi tra gli uomini, pur

provenendo tutti dai patrizi -, invece che simili ai migliori tra i re, anche se venuti dal nulla? 

 

Libro 4, Par. 4
Latino
"At enim nemo post reges exactos de plebe consul fuit. Quid postea? Nullane res nova institui debet? Et quod nondum est

factum--multa enim nondum sunt facta in novo populo,-- ea ne si utilia quidem sunt fieri oportet? Pontifices, augures Romulo

regnante nulli erant; ab Numa Pompilio creati sunt. Census in civitate et discriptio centuriarum classiumque non erat; ab

Ser. Tullio est facta. Consules nunquam fuerant; regibus exactis creati sunt. Dictatoris nec imperium nec nomen fuerat; apud

patres esse coepit. Tribuni plebi, aediles, quaestores nulli erant; institutum est ut fierent. Decemuiros legibus scribendis

intra decem hos annos et creauimus et e re publica sustulimus. Quis dubitat quin in aeternum urbe condita, in immensum

crescente nova imperia, sacerdotia, iura gentium hominumque instituantur? Hoc ipsum, ne conubium patribus cum plebe esset,

non decemviri tulerunt paucis his annis pessimo publico, cum summa iniuria plebis? An esse ulla maior aut insignitior

contumelia potest quam partem civitatis velut contaminatam indignam conubio haberi? Quid est aliud quam exsilium intra eadem

moenia, quam relegationem pati? Ne adfinitatibus, ne propinquitatibus immisceamur cauent, ne societur sanguis. Quid? Hoc si

polluit nobilitatem istam vestram, quam plerique oriundi ex Albanis et Sabinis non genere nec sanguine sed per cooptationem

in patres habetis, aut ab regibus lecti aut post reges exactos iussu populi, sinceram seruare privatis consiliis non

poteratis, nec ducendo ex plebe neque vestras filias sororesque ecnubere sinendo e patribus? Nemo plebeius patriciae virgini

vim adferret; patriciorum ista libido est; nemo invitum pactionem nuptialem quemquam facere coegisset. Verum enimuero lege id

prohiberi et conubium tolli patrum ac plebis, id demum contumeliosum plebi est. Cur enim non fertis, ne sit conubium

divitibus ac pauperibus? Quod privatorum consiliorum ubique semper fuit, ut in quam cuique feminae convenisset domum nuberet,

ex qua pactus esset vir domo, in matrimonium duceret, id vos sub legis superbissimae vincula conicitis, qua dirimatis

societatem civilem duasque ex una civitate faciatis. Cur non sancitis ne vicinus patricio sit plebeius nec eodem itinere eat,

ne idem conuiuium ineat, ne in foro eodem consistat? Quid enim in re est aliud, si plebeiam patricius duxerit, si patriciam

plebeius? Quid iuris tandem immutatur? Nempe patrem sequuntur liberi. Nec quod nos ex conubio vestro petamus quicquam est,

praeterquam ut hominum, ut civium numero simus, nec vos, nisi in contumeliam ignominiamque nostram certare iuvat, quod

contendatis quicquam est ".

 

Italiano
" Ma, in realtà, dai tempi della cacciata dei re nessun plebeo è mai stato console. E allora? Non si deve introdurre nessuna

novità? E ciò che non è ancora stato fatto - e in un paese recente le cose non ancora fatte sono certo moltissime - non

bisogna farlo nemmeno se è utile? Ai tempi del regno di Romolo non esistevano né pontefici né àuguri: fu Pompilio a crearli.

Non c\'era censo né divisione in centurie basata sul censo: li introdusse Servio Tullio. Non c\'erano mai stati dei consoli:

furono creati dopo la cacciata dei re. Il nome e il potere del dittatore non c\'erano: cominciarono a esserci al tempo dei

nostri padri. Non esistevano né tribuni della plebe né edili, né questori: si stabilì di averne. Nell\'arco degli ultimi

dieci anni, abbiamo eletto decemviri incaricati di redigere le leggi e poi li abbiamo allontanati dalla repubblica. Chi

potrebbe dubitare che, in una città fondata per durare in eterno e che cresce smisuratamente, si debbano istituire nuovi

poteri, nuovi sacerdoti e nuovi diritti delle genti e dei singoli uomini? Questo stesso divieto di contrarre matrimoni tra

patrizi e plebei non lo introdussero i decemviri qualche anno or sono, causando pessimi effetti sulla comunità e danneggiando

ingiustamente la plebe? Esiste forse affronto più grande e infamante di questo che considera una parte della popolazione

indegna del matrimonio, come se fosse infetta? Che cos\'è questa se non una segregazione all\'interno delle mura della

propria città? I patrizi fanno di tutto per evitare che intrecciamo rapporti con loro di affinità e di parentela, non

vogliono che si mescoli il sangue. E che? Se un simile contatto è in grado di contaminare questa vostra nobiltà - che la

maggior parte di voi, date le origini albane e sabine, non possiede per lignaggio o per sangue, ma per essere stata cooptata

nel patriziato, o scelta dai re o per volontà del popolo dopo la cacciata dei re -, non potevate mantenerla intatta con

accorgimenti privati, non prendendo in moglie donne plebee e impedendo che le vostre figlie e sorelle sposassero uomini

estranei all\'aristocrazia? Nessun plebeo violenterebbe mai una ragazza patrizia: è una libidine tipica dei nobili. Nessuno

costringerebbe un altro a stipulare un contratto matrimoniale contro la sua volontà. Ma impedire con la legge matrimoni tra

patrizi e plebei, annullare quelli già celebrati, questo sì che è un vero affronto alla plebe! Perché allora non proponete

che non ci sia diritto di matrimonio tra poveri e ricchi? Ciò che sempre e dovunque si è lasciato alla decisione privata -

ossia che una donna andasse in sposa nella casa dove si era convenuto e che l\'uomo potesse prendere moglie dalla casa in cui

aveva stretto l\'accordo - voi volete assoggettarlo ai vincoli di una legge dispotica, per creare una frattura all\'interno

della società, spaccando in due lo Stato. Perché non decretate che il plebeo non possa stare accanto al patrizio, non possa

camminare per la stessa strada, non possa sedersi alla stessa tavola né trovarsi nello stesso foro? Che differenza ci può mai

essere se un patrizio sposa una plebea o un plebeo una patrizia? Contro quale diritto si andrebbe? I figli seguono

naturalmente i padri. Volendoci unire in matrimonio con voi, non chiediamo altro che far parte del consesso umano e civile, e

voi non avete nessuna buona ragione per impedircelo, a meno che vi piaccia gareggiare a chi ci oltraggia e ci umilia di più

". 



 

 

Libro 4, Par. 5
Latino
"Denique utrum tandem populi Romani an vestrum summum imperium est? Regibus exactis utrum vobis dominatio an omnibus aequa

libertas parta est? Oportet licere populo Romano, si velit, iubere legem, an ut quaeque rogatio promulgata erit vos dilectum

pro poena decernetis, et simul ego tribunus vocare tribus in suffragium coepero, tu statim consul sacramento iuniores adiges

et in castra educes, et minaberis plebi, minaberis tribuno? Quid si non quantum istae minae adversus plebis consensum

valerent bis iam experti essetis? Scilicet quia nobis consultum volebatis, certamine abstinuistis; an ideo non est dimicatum,

quod quae pars firmior eadem modestior fuit? Nec nunc erit certamen, Quirites; animos vestros illi temptabunt semper, vires

non experientur. Itaque ad bella ista, seu falsa seu vera sunt, consules, parata vobis plebes est, si conubiis redditis unam

hanc civitatem tandem facitis, si coalescere, si iungi miscerique vobis privatis necessitudinibus possunt, si spes, si aditus

ad honores viris strenuis et fortibus datur, si in consortio, si in societate rei publicae esse, si, quod aequae libertatis

est, in vicem annuis magistratibus parere atque imperitare licet. Si haec impediet aliquis, ferte sermonibus et multiplicate

fama bella; nemo est nomen daturus, nemo arma capturus, nemo dimicaturus pro superbis dominis, cum quibus nec in re publica

honorum nec in privata conubii societas est ".

 

Italiano
" Ma infine il supremo potere appartiene al popolo romano o a voi? La cacciata dei re ha fruttato la tirannide a voi o

un\'uguale libertà a tutti? Al popolo romano, se questo è il suo desiderio, deve essere consentito di votare una legge,

oppure, ogni qualvolta verrà presentata una nuova proposta, voi per reazione indirete una leva militare? E non appena io, in

qualità di tribuno, chiamerò le tribù al voto, tu súbito, in qualità di console, costringerai i più giovani a prestare il

giuramento militare e li porterai al campo, distribuendo minacce alla plebe e ai suoi tribuni? Che cosa succederebbe se non

aveste già sperimentato per ben due volte quanto poco valgano queste minacce di fronte al consenso unanime della plebe? È -

vero che avete evitato di scontrarvi per venire incontro alle nostre esigenze, oppure non si è combattuto perché la parte più

forte era anche la più moderata? Non ci sarà scontro neppure adesso, o Quiriti: i patrizi continueranno sempre a saggiare il

vostro coraggio, ma non arriveranno mai a mettere alla prova la vostra forza. Perciò, o consoli, la plebe è pronta ad

affrontare queste guerre - vere o false che siano -, solo se voi, ripristinato il diritto al matrimonio, finalmente riunirete

questa città; se i plebei potranno fondersi, unirsi e mescolarsi con voi in base a legami privati di parentela; se ad uomini

valorosi e forti sarà data la speranza di accedere alle cariche pubbliche; se sarà consentito a tutti di partecipare alla

gestione della cosa pubblica; se, uguali nella libertà, si avrà l\'opportunità di governare e di obbedire a turno, secondo

l\'avvicendamento annuale delle magistrature. Se qualcuno dovesse respingere queste condizioni, voi consoli potrete parlare

di guerre e moltiplicarle coi vostri discorsi: nessuno di noi andrà a iscriversi, nessuno imbraccerà le armi, nessuno

combatterà per dei padroni arroganti, coi quali non ha nulla in comune: né riconoscimenti nella vita pubblica, né matrimoni

in quella privata ". 

 

Libro 4, Par. 6
Latino
Cum in contionem et consules processissent et res a perpetuis orationibus in altercationem vertisset, interroganti tribuno

cur plebeium consulem fieri non oporteret, ut fortasse vere, sic parum utiliter in praesens Curtius respondit, quod nemo

plebeius auspicia haberet, ideoque decemuiros conubium diremisse ne incerta prole auspicia turbarentur. Plebes ad id maxime

indignatione exarsit, quod auspicari, tamquam inuisi dis immortalibus, negarentur posse; nec ante finis contentionum fuit,

cum et tribunum acerrimum auctorem plebes nacta esset et ipsa cum eo pertinacia certaret, quam victi tandem patres ut de

conubio ferretur concessere, ita maxime rati contentionem de plebeiis consulibus tribunos aut totam deposituros aut post

bellum dilaturos esse, contentamque interim conubio plebem paratam dilectui fore. Cum Canuleius victoria de patribus et

plebis favore ingens esset, accensi alii tribuni ad certamen pro rogatione sua summa vi pugnant et crescente in dies fama

belli dilectum impediunt. Consules, cum per senatum intercedentibus tribunis nihil agi posset, concilia principum domi

habebant. Apparebat aut hostibus aut civibus de victoria concedendum esse. Soli ex consularibus valerius atque Horatius non

intererant consiliis. C. Claudi sententia consules armabat in tribunos, Quinctiorum Cincinnatique et Capitolini sententiae

abhorrebant a caede violandisque quos foedere icto cum plebe sacrosanctos accepissent. Per haec consilia eo deducta est res,

ut tribunos militum consulari potestate promisce ex patribus ac plebe creari sinerent, de consulibus creandis nihil

mutaretur; eoque contenti tribuni, contenta plebs fuit. Comitia tribunis consulari potestate tribus creandis indicuntur.

Quibus indictis, extemplo quicumque aliquid seditiose dixerat aut fecerat unquam, maxime tribunicii, et prensare homines et

concursare toto foro candidati coepere, ut patricios desperatio primo inritata plebe apiscendi honoris, deinde indignatio, si

cum his gerendus esset honos, deterreret. Postremo coacti tamen a primoribus petiere, ne cessisse possessione rei publicae

viderentur. Euentus eorum comitiorum docuit alios animos in contentione libertatis dignitatisque, alios secundum deposita

certamina incorrupto iudicio esse; tribunos enim omnes patricios creavit populus, contentus eo quod ratio habita plebeiorum

esset. Hanc modestiam aequitatemque et altitudinem animi ubi nunc in uno inueneris, quae tum populi universi fuit?

 

Italiano
Anche i consoli si erano presentati a parlare in assemblea e qui, dopo interminabili interventi, il dibattito si trasformò in

un alterco. Al tribuno che chiedeva perché mai un plebeo non dovesse diventare console, Curiazio - forse giustamente, ma poco

opportunamente date le circostanze -, rispose che nessun plebeo aveva il diritto di prendere gli auspici e che per questo i

decemviri avevano vietato i matrimoni misti, perché gli auspici non fossero turbati in caso di discendenza incerta. Di fronte

a queste parole, presa da grande indignazione, la plebe s\'infiammò, perché le si negava la possibilità di trarre gli

auspici, come se fosse in odio agli dèi immortali. Siccome la plebe, che aveva trovato nel tribuno un difensore accanito

della causa comune, gareggiava con lui in ostinazione, lo scontro si concluse solo quando i patrizi cedettero, accettando

finalmente una proposta di legge sul diritto di matrimonio; essi erano pienamente convinti che in tal modo i tribuni

avrebbero abbandonato definitivamente la questione dei consoli plebei o almeno l\'avrebbero rimandata alla fine della guerra,

e che la plebe, soddisfatta per il diritto di matrimonio, sarebbe stata disposta ad arruolarsi. Essendo cresciuto molto il

prestigio di Canuleio per la vittoria sui patrizi e per il favore della plebe, gli altri tribuni, incoraggiati alla lotta, si

impegnano con tutte le forze per far passare la loro proposta e impediscono la leva, benché ogni giorno di più prendano

consistenza le voci di guerra. I consoli, non potendo per il veto dei tribuni far prendere deliberazioni al senato, tenevano

riunioni private con i membri più autorevoli. Era chiaro che sarebbe stato inevitabile lasciare la vittoria o ai nemici o ai

concittadini. Tra gli ex-consoli soltanto Valerio e Orazio non prendevano parte a quelle riunioni. Gaio Claudio parlava di

armare i consoli contro i tribuni, mentre i due Quinzi, Cincinnato e Capitolino, erano assolutamente contrari a uccidere e

usare violenza contro coloro che, in virtù del patto stipulato con la plebe, avevano dichiarato sacri e inviolabili. A

séguito di queste riunioni si arrivò ad accordare l\'elezione di tribuni militari con potere consolare, da scegliersi

indifferentemente tra patrizi e plebei, mentre nulla doveva essere mutato per quanto riguardava l\'elezione dei consoli. Di

questo furono contenti i tribuni e la plebe. Vengono quindi indetti i comizi per l\'elezione di tre tribuni con potere

consolare. Non appena ne fu annunciata la data, tutti quelli che avevano detto o fatto qualcosa di sedizioso (e soprattutto

gli ex-tribuni), cominciarono a sollecitare la gente e, vestiti col bianco dei candidati, andarono in giro per tutto il foro

a caccia di voti. E lo fecero per scoraggiare i patrizi che, in primo luogo non avevano alcuna speranza di raggiungere quella

carica per via dell\'irritazione della plebe, e poi erano indignati all\'idea di dover dividere la magistratura con loro. Ma

alla fine furono costretti dai loro membri più autorevoli a scendere in gara per non dar l\'impressione di aver rinunciato al

controllo della cosa pubblica. L\'esito delle elezioni dimostrò come sia diverso il comportamento degli uomini quando lottano

per la libertà e l\'onore rispetto a quando giudicano a mente fredda gli eventi, una volta deposte le contese. Il popolo

infatti elesse tre tribuni, tutti patrizi, bastandogli che l\'opinione dei plebei fosse stata presa in considerazione. Ma

oggi dove si potrebbe trovare in un solo individuo quel senso di equità, quella moderazione e quella nobiltà d\'animo che

allora erano nell\'intera popolazione? 

 

Libro 5, Par. 41, 4-10
Latino
Galli et quia interposita nocte a contentione pugnae remiserant animos et quod nec in acie ancipiti usquam certauerant

proelio nec tum impetu aut ui capiebant urbem, sine ira, sine ardore animorum ingressi postero die urbem patente Collina

porta in forum perueniunt, circumferentes oculos ad templa deum arcemque solam belli speciem tenentem. inde, modico relicto

praesidio ne quis in dissipatos ex arce aut Capitolio impetus fieret, dilapsi ad praedam uacuis occursu hominum uiis, pars in

proxima quaeque tectorum agmine ruunt, pars ultima, uelut ea demum intacta et referta praeda, petunt; inde rursus ipsa

solitudine absterriti, ne qua fraus hostilis uagos exciperet, in forum ac propinqua foro loca conglobati redibant; ubi eos,

plebis aedificiis obseratis, patentibus atriis principum, maior prope cunctatio tenebat aperta quam clausa inuadendi; adeo

haud secus quam uenerabundi intuebantur in aedium uestibulis sedentes uiros, praeter ornatum habitumque humano augustiorem,

maiestate etiam quam uoltus grauitasque oris prae se ferebat simillimos dis. ad eos uelut simulacra uersi cum starent, M.

Papirius, unus ex iis, dicitur Gallo barbam suam, ut tum omnibus promissa erat, permulcenti scipione eburneo in caput incusso

iram mouisse, atque ab eo initium caedis ortum, ceteros in sedibus suis trucidatos; post principium caedem nulli deinde

mortalium parci, diripi tecta, exhaustis inici ignes.

 

Italiano
I Galli,sia perché,dopo che era trascorsa la notte,avevano placato gli animi dalla tensione della battaglia,e sia perché in

campo non avevano mai combattuto con esito incerto e non conquistavano una città né con un assalto né con la forza, il giorno

dopo entrati in città dalla porta Collina spalancata arrivarono al foro senza ira e senza odio, volgendo gli occhi ai templi

degli dei e alla rocca, unica immagine di guerra. Quindi, lasciato un piccolo presidio, affinché nessuno si lanciasse dalla

rocca o dal Campidoglio su di loro sparsi qua e là, si erano sparpagliati in cerca di bottino per le vie deserte, una parte

irrompeva in massa nelle case più vicine, una parte assaliva quelle più lontane, come se quelle fossero sicuramente intatte e

piene di bottino. Quindi atterriti proprio da quella desolazione, affinché non li colpisse qualche tranello nemico mentre

erano in giro, ritornarono in gruppo nel foro o nelle vicinanze; qui, essendo chiuse le case della plebe e aperti gli atri

dei nobili, li tratteneva quasi una maggior esitazione a invadere quelle aperte che quelle chiuse; talmente come presi da

soggezione osservavano gli uomini seduti nei vestiboli delle case simili agli dei, oltre che per l’abbigliamento e

l’atteggiamento più sovrannaturale che umano anche per la maestà che mostrava il volto e la gravità dell’aspetto. Mentre

stavano davanti a quelli quasi come davanti a delle statue, si dice che Marco Papirio, uno fra loro, scatenò l’ira di un

Gallo che gli accarezzava la barba, che tutti allora portavano lunga, percuotendolo sulla testa con un bastone d’avorio, e da

lì iniziò la strage, tutti furono trucidati sui loro scanni; dopo la strage dei nobili nessuno fu più risparmiato, le case

furono saccheggiate e date alle fiamme. 

 

Libro 5, Par. 47
Latino
Dum haec Veiis agebantur, interim arx Romae Capitoliumque in ingenti periculo fuit. Namque Galli, seu uestigio notato humano

qua nuntius a Veiis peruenerat seu sua sponte animaduerso ad Carmentis saxo adscensu aequo, nocte sublustri cum primo inermem

qui temptaret uiam praemisissent, tradentes indc arma ubi quid iniqui esset, alterni innixi subleuantesque in uicem et

trahentes alii alios, prout postularet locus, tanto silentio in summum euasere ut non custodes solum fallerent, sed ne canes

quidem, sollicitum animal ad nocturnos strepitus, excitarent. Anseres non fefellere quibus sacris lunonis in summa inopia

cibi tamen abstinebatur. Quae res saluti fuit; namque clangore eorum alarumque crepitu excitus M. Manlius qui triennio ante

consul fuerat, uir bello egregius, armis arreptis simul ad arma ceteros ciens uadit et dum ceteri trepidant, Gallum qui iam

in summo constiterat umbone ictum deturbat. Cuius casus prolapsi cum proximos sterneret, trepidantes alios armisque omissis

saxa quibus adhaerebant manibus amplexos trucidat. Iamque et alii congregati telis missilibusque saxis proturbare hostes,

ruinaque tota prolapsa acies in praeceps deferri. Sedato deinde tumultu reliquum noctis, quantum in turbatis mentibus poterat

cum praeteritum quoque periculum sollicitaret, quieti datum est.

 

Italiano
Mentre a Veio succedevano queste cose, intanto la cittadella romana ed il Campidoglio furono in grande pericolo. Infatti i

Galli, sia che avessero notato tracce del passaggio di un uomo dove il messaggero era venuto da Veio, sia che si fossero resi

conto di una roccia adatta alla scalata presso il tempio di Carmenta, durante la notte molto chiara, dopo aver inviato un

uomo che, disarmato, tentasse al via, consegnando poi loro le armi dove ci fosse qualche difficoltà, gli uni con gli altri,

appoggiandosi e sollevandosi a vicenda e trascinandosi l\'uno con l\'altro, come il luogo richiedeva, in tanto silenzio

raggiunsero di nascosto la cima che ingannarono non solo le sentinelle, ma non svegliarono nemmeno i cani, che pure sono

animali che si svegliano facilmente ai rumori notturni. Non ingannarono però le oche che tuttavia, perché sono sacre a

Giunone, anche nella grande penuria di cibo venivano risparmiate. E questo fatto garantì la salvezza. Infatti M. Manlio, che

era stato console tre anni prima, uomo di ottima disciplina militare, svegliato dal loro starnazzare e dal rumore delle ali,

prese le armi, si precipita risoluto chiamando tutti gli altri alle armi e mentre gli altri si preparano in fretta colpisce

con lo scudo e fa precipitare un Gallo che già si era fermato sulla sommità. Mentre la caduta di costui, che era scivolato,

travolgeva quelli più vicini, abbatte altri Galli impauriti che, abbandonate le armi, tentavano di aggrapparsi con le mani e

abbracciavano le rocce alle quali. Ormai aggiuntisi altri procuravano confusione ai nemici con frecce e pietre, e il

contingente dei nemici, travolta dalla caduta, cade al completo a precipizio. Una volta messa fine alla confusione, il resto

della notte fu dedicato al riposo, per quanto era possibile nelle menti sconvolte, poiché il pericolo passato li teneva in

ansia. 

 

Libro XLII, par. 34
Latino
Spurius Ligustinus a consule et a tribunis petiit, ut sibi paucis ad populum agere liceret. Permissu omnium ita locutus

(esse) fertur: "Sp. Ligustinus Crustumina ex Sabinis sum oriundus, Quirites. Pater mihi iugerum agri reliquit et parvum

tugurium, in quo natus educatusque sum, hodieque ibi habito. Cum primum in aetatem veni, pater mihi uxorem fratris sui filiam

dedit, quae secum nihil adtulit praeter libertatem pudicitiamque, et cum his fecunditatem, quanta vel in diti domo satis

esset. Sex filii nobis, duae filiae sunt, utraeque iam nuptae. Filii quattuor togas viriles habent, duo praetextati sunt.

Miles sum factus P. Sulpicio C. Aurelio cunsulibus.
In eo exercitu, qui in Macedoniam est transportatus, biennium miles gregarius fui adversus Philippum regem; tertio anno

virtutis causa mihi T. Quinctius Flamininus decumum ordinem hastatum adsignavit. Devicto Philippo Macedonibusque cum in

Italiam reportati ac dimissi essemus, continuo miles voluntarius cum M. Porcio consule in hispaniam sum profectus. [...] Hic

me imperator dignum iudicavit, cui primum hastatum prioris centuriae adsignaret.

 

Italiano
34. Quando il console ebbe detto quanto voleva, Spurio Ligustino, che faceva parte di coloro che si erano appellati ai

tribuni della plebe, rivolse ai tribuni e al console la richiesta di poter dire poche parole al popolo. A quanto si dice,

ottenuto il consenso di tutti, pronunciò questo discorso: «Quiriti, io sono Spurio Ligustino, appartenente alla tribù

Crustumina e oriundo dalla Sabina. Mio padre mi ha lasciato un iugero di terreno e una casupola in cui sono nato e cresciuto

e in cui abito ancora oggi. Appena ne ebbi l\'età, mio padre mi fece sposare la figlia di suo fratello che niente altro portò

in dote se non la sua condizione di donna libera e il suo onore; oltre a questo, era prolifica quanto sarebbe bastato anche

in una casa ricca. Noi abbiamo sei figli maschi e due figlie, entrambe sposate; dei figli, quattro rivestono la toga virile,

due la pretesta. Ho prestato il mio primo servizio militare sotto il consolato di Publio Sulpicio e Gaio Aurelio. In

quell\'esercito, che fu trasferito in Macedonia, militai contro il re Filippo in qualità di soldato semplice. Il terzo anno,

in riconoscimento del mio valore, Tito Quinzio Flaminino mi fece centurione della decima centuria degli astati. Dopo la

sconfitta di Filippo e dei Macedoni, fummo riportati in Italia e congedati, ma io, senza interrompere il servizio, partii

come volontario per la Spagna agli ordini del console Marco Porcio. Ebbene, questo comandante mi ha giudicato degno di essere

assegnato come primo centurione al primo manipolo degli astati. 

 

Libro, 23, Par. 18, 3-5
Latino
Ibi partem maiorem hiemis exercitum in tectis habuit, aduersus omnia humana mala saepe ac diu duratum, bonis inexpertum atque

insuetum. Itaque, quos nulla mali uicerat uis, perdidere nimia bona ac uoluptates immodicae, et eo impensius quo auidius ex

insolentia in eas se merserant. Somnus enim et uinum et epulae et scorta balineaque et otium consuetudine in dies blandius

ita eneruauerunt corpora animosque ut magis deinde praeteritae uictoriae eos quam praesentes tutarentur uires, maiusque id

peccatum ducis apud peritos artium militarium haberetur quam quod non ex Cannensi acie protinus ad urbem Romanam duxisset;

illa enim cunctatio distulisse modo uictoriam uideri potuit, hic error uires ademisse ad uincendum. Itaque hercule, uelut si

cum alio exercitu a Capua exiret, nihil usquam pristinae disciplinae tenuit. Nam et redierunt plerique scortis impliciti et,

ubi primum sub pellibus haberi coepti sunt, uiaque et alius militaris labor excepit, tironum modo corporibus animisque

deficiebant, et deinde per omne aestiuorum tempus magna pars sine commeatibus ab signis dilabebantur neque aliae latebrae

quam Capua desertoribus erant.

 

 

Italiano
A Capua tenne al coperto per la maggior parte dell\'inverno quell\'esercito, più volte e a lungo provato da tutti i malanni

umani, ma inesperto e non abituato ai piaceri. Insomma, quegli uomini che nessuna avversità e nessuna forza erano riuscite a

sconfiggere, furono abbattuti dall\'eccessivo benessere e dagli smodati piaceri; e il danno fu tanto maggiore, quanto più

essi che non vi erano abituati vi si immersero. Infatti il poltrire a letto, il vino, i banchetti, le prostitute, i bagni,

l\'ozio - sempre più piacevole mano a mano che ci si abituava un giorno dopo l\'altro - a tal punto debilitarono i corpi e

gli animi che in seguito erano più protetti dalle vittorie ottenute nel passato che dalle forze che loro rimanevano. Chi era

esperto di arte militare sosteneva che quel passo falso del comandante era ben più grave di quello commesso quando, dal campo

di battaglia di Canne, non aveva marciato direttamente su Roma. Se quella esitazione sembrava aver semplicemente differito la

vittoria, quello sbaglio dissipò le energie indispensabili per la vittoria. E dunque, per Ercole, quando Annibale usci di

Capua sembrava che fosse a capo di ben altri uomini: ad essi non riusciva ad imporre più l\'antica disciplina: e infatti

moltissimi di loro, che ormai avevano delle relazioni con le prostitute, tornarono indietro; quando riprese la vita sotto le

tende e ripresero anche le marce e tutte le fatiche della vita militare, erano senza energie nel corpo e nell\'anima, quasi

fossero delle reclute. Quindi, per tutto il tempo delle operazioni estive, la maggior parte, anche se priva di licenza, si

allontanava di nascosto dal suo reparto. E ai disertori non si offriva altro nascondiglio che Capua.

 

Fonte:

http://digilander.libero.it/tuttorecensioni/enciclopedia/livio.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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