Latino riassunti

 


 

Latino riassunti

 

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Gli ultimi decenni del II secolo a.c.

Le grandi conquiste del II e II secolo a.C. avevano fatto confluire a Roma grandi ricchezze e schiavi in abbondanza tanto che nell’anno 167 furono abolite le tasse, ma restavano una grande quantità di nodi irrisolti.
I senatori che custodivano i propri latifondi avevano tratto vantaggi dalla rovina della piccola proprietà terriera. I contadini finivano per indebitarsi e confluivano in città dove rappresentavano pericolose masse durante i comizi. Era subentrata una crisi irreversibile poiché vi erano pochi ricchi latifondisti e una maggioranza di poveri nullatenenti; un altro grave difetto della amministrazione romana era l’arroganza dei magistrati.
In questo contesti vi erano 2 schieramenti:

  • Gli optimates ( da optimus = il migliore) ovvero i cittadini della classe più elevata, conservatori, ancorati al culto del mos maiorum
  • I populares (fautori del popolo) che richiedevano: la riforma agraria, l’estensione della cittadinanza agli Italici che avevano combattuto per Roma, l’accesso alle cariche pubbliche da parte dei cavalieri.

La prima riforma fu presentata da Tiberio Gracco, tribuno della plebe nel 133, che prevedeva che nessun cittadino romano potesse detenere più di 500 iugeri di ager publicus, più altri 250 per ogni figlio maschio. Il territorio eccedente doveva essere restituito al popolo in lotti da 30 iugeri. La legge trovò subito una forte opposizione degli aristocratici; Tiberio infatti fu ucciso da Publio Cornelio Scipione Nasica nel 133.
Dieci anni dopo il fratello di Tiberio, Gaio Gracco tribuno della plebe nel 123 e 122, collegò il progetto di Tiberio con una serie di riforme con cui cercava di guadagnarsi il favore dei cavalieri e delle popolazioni italiche, alle quali propose di attribuire la cittadinanza romana e della plebe romana a cui prometteva una distribuzione mensile di grano a prezzo politico.
Il senato rispose con una totale chiusura soprattutto nella figura di Livio Druso. Gaio si fece uccidere da uno schiavo nel 121. Il programma dei Gracchi si risolse in un insuccesso ma loro rappresentano una incarnazione della giustizia sociale.
Dopo i Gracchi ci furono altri tentativi di riforma; il primo fu di Saturnino e Glaucia nel 100 che avevano tentato di contrastare l’oligarchia senatoria con l’appoggio dei cavalieri e avevano proposto una legge frumentaria a favore della plebe. Nel 91 fu dichiarata illegale la proposta di Marco Livio Druso (figlio di Livio) che concedeva la cittadinanza alle popolazioni italiche e apriva il senato ai cavalieri. Nell’89 scoppio la guerra sociale (dei socii = alleati) tra Roma e i popoli dell’Italia che riuscirono con la forza ad ottenere la cittadinanza.
In questo periodo ci fu lo scontro tra Mario capo dei populares e Silla capo degli optimates. Mario era considerato un homo novus che era riuscito ad assicurarsi il favore della plebe e dei cavalieri. Tenne il consolato per 5 anni consecutivi creano un esercito professionale. La guerra civile tra i due scoppio per avere il comando della spedizione contro Mitriade re del Ponto e dimostrò che l’esercito era l’arbitro della politica interna. Silla marciò su Roma nel 88 e scacciò Mario. Silla instaurò una dittatura e volle ripristinare l’autorità del senato. Attuò una violenta repressione, stilò liste di proscrizione consentendo a chiunque di uccidere i suoi nemici. Attuò una riforma costituzionale che toglieva il potere ai tribuni della plebe, i cavalieri dal senato e raddoppiava il numero dei senatori. Silla morì nel 78 e nello stesso anno Lepido cercò di abbattere la costituzione sillana; ci fu anche la rivolta di Sartorio nel 78; quella dei gladiatori guidati da Spartaco nel 73. Nel 63 Catilina che raccoglieva sostenitori promettendo una nuova distribuzione di terre fu sconfitto alla corsa del senato da Cicerone, lo stesso che poi smascherò una sua congiura. Dal 58 al 52 Roma venne sconvolta da un'altra guerra civile tra Clodio e Milone: il primo vicino a Cesare stava dalla parte della plebe cittadina, il secondo era appoggiato dai nobili e da Pompeo.
Grazie ad azioni militari all’estero Pompeo fu investito di una forma di principato concentrando nelle sue mani il controllo dell’esercito della flotta e della diplomazia. Tornato a Roma Pompeo fu spinto dal senato verso il partito democratico di Crasso e Cesare. Pompeo firmò cosi un triumvirato, cioè un accordo privato tra tre cittadini allo scopo di attuare piani politici con la tecnica della spartizione. Cesare ottenne nel 59 il consolato nella Gallia Cisalpina e Narbonese e tentò di acquisire un potere personale da opporre a quello di Pompeo. Nel 53 morì Crasso e rimasero solo Cesare e Pompeo. Cesare marciò su Roma nel 49 e sconfisse Pompeo e il senato in Tessaglia a Farsalo nel 48. Pompeo fuggi in Egitto dal re Tolomeo XIV (che poi fece uccidere Pompeo per ottenere i favori di Cesare)e lasciò libera manovra a Cesare. Cesare rinunciò alla vendetta sugli oppositori e diffuse un idea di se molto clemente (clementia Caesaris).
Cesare fu un dittatore nel 49 poi console fino al 46 quando ottennne la carica di dittatore a vita; ricevette anche il titolo di imperator a vita e la carica di pontefice massimo. Fu ucciso durante una congiura alle Idi di marzo del 44.
Uno dei suoi più feroci oppositori fu Catone l’Uticense, figlio di Catone il censore. La prima opposizione fu nel 63 quando si oppose alla condanna dei complici di Catilina che avea richesto Cesare. Andò contro il primo triunivrato e si schierò dalla parte di Pompeo. Comandò la citta di Utica (vicino Cartagine, da qui il nome Uticense) e non partecipò alla battaglia di Farsalo. Si suicidò per non cadere nelle mani di Cesare nel 46.

 

Lucrezio

Sulla vita di Tito Lucrezio Caro siamo male informati, perché i suoi contemporanei lo ignorarono e lui non amava parlare di se.
Secondo San Gerolamo nacque intorno al 96 e morì suicida nel 52. Gerolamo scrisse anche che fu indotto alla pazzia da un filtro d’amore e per questo motivo si suicidò.
Secondo Donato egli mori nel 55 (stesso anno dell’assunzione della toga virile da parte di Virgilio) e nacque nel 98. Questa seconda ipotesi sembra confermata da Cicerone in una lettera al fratello Quinto dove esaltava le doti del poeta. Cicerone curò la pubblicazione del libro di Lucrezio De rerum natura.
Oggi la notizia della follia di Lucrezio viene giudicata una leggenda cristiana nata per screditare Lucrezio.
La sua formazione spirituale fu conseguita a Roma ma il suo luogo di nascita è sconosciuto. Forse è campano di Pompei. A Ercolano frequentò il circolo di Filodemo dove si accostò alla filosofia epicurea. Le sue esperienze spirituali sono documentate nella sua unica opera De rerum natura che non sappiamo quando sia stata composta.
Il poema “De Rerum Natura” comprende 6 libri riuniti a coppie. I primi due trattano della fisica atomistica, i secondi due si riferiscono all’antropologia e gli ultimi due sono sulla cosmologia e sui fenomeni naturali. Gli epicurei studiavano la natura per conoscere le leggi fisiche che secondo loro avrebbero liberato gli uomini dalle paure e dalle superstizioni. Sembrerebbe mancare una parte dedicata all’etica ma tutto il contenuto è in funzione dell’etica, soprattutto con la spiegazione del clinamen (deviazione casuale nella caduta degli atomi) introduce la libera volontà e l’autonomia della decisione; nel III libro la riflessione sulla morte mira a liberare l’uomo dalla paura dell’aldilà; nel IV la dottrina della conoscenza include un brano sugli effetti devastanti dell’amore; nel V la storia dell’uomo mette in guardia contro i vizi legati al progresso; nel VI la peste è vista sotto l’aspetto del comportamento dell’uomo. Soprattutto nei proemi e nei finali la morale la fa da padrona. L’opera si conclude bruscamente con la descrizione della peste e questo fa pensare che l’opera sia rimasta incompiuta e (secondo Ettore Bignone) manca la parte dedicata agli dei che l’autore aveva premesso nel V libro. Un’altra ragione per cui si pensa all’incompiutezza dell’opera è il fatto che il poema i chiuda con il trionfo della morte nella peste, cosa contraria alla dottrina epicurea. Al contrario ci sono 3 ragioni per cui l’opera sempre finita: la prima è la dichiarazione di chiusura di Lucrezio dell’opera col sesto libro e essendo i libri gia pieni di versi un argomento come quello degli dei non troverebbe spazio; la seconda è la chiusura del libro con incisive sentenze secondo l’abitudine lucreziana; la terza il legame con la meteorologia della peste e la critica all’uomo che di fronte al male si rifugiano nella superstizione.
Si crede inoltre che Lucrezia abbia ricevuto una mano poiché si trovano frequenti ripetizioni di versi e parole, però per altri studiosi queste ripetizioni sono solite nello stile lucreziano per l’opportunità didattica di ribadire concetti importanti. Ulteriori studi hanno mostrato che non si può essere certi sulla compiutezza in quanto i libri antichi passavano di mano in mano prima della pubblicazione e ognuno poteva aggiungere o correggere il testo.

 

Epicureismo di Lucrezio

La filosofia di Epicuro si rifà a quella atomistica di Democrito. Epicuro dice che tutto ciò che esiste è corpo perché solo il corpo può subire o agire. D’incorporeo c’è solo il vuoto che permette il movimento. La morte e la nascita sono la disgregazione e l’aggregazione dei corpi. Ogni corpo è composto di corpuscoli invisibili, atomi, che si muovono nel vuoto. Gli atomi hanno forme diverse ma non sono infiniti. Essi cadono perpendicolarmente e si scontrano tra di loro a causa di deviazioni casuali. Questa deviazione è stata chiamata da Lucrezio clinamen. L’introduzione del clinamen spiega l’aggregazione dei corpi e i concetti di libertà e vita morale che gli altri atomisti negavano.Epicuro dice che l’anima è composta da atomi rotondi e piccoli che avvolgono il corpo. Alla morte gli atomi dell’anima si separano e ogni possibilità di sensazione cessa.
Stupisce nell’epoca che vede la separazione tra filosofia e scienza il recupero del sistema atomistico. In realtà gli epicurei non coltivano ambizioni scientifiche:il loro obbiettivo era di fornire un supporto fisico alla spiegazione razionale della natura , che potesse liberare l’uomo dalle paure e garantirgli la felicità. Per Epicuro e Lucrezio  dai corpi si emanano immagini costituite anch’esse da atomi, i quali spostandosi colpiscono  i sensi dell’uomo dando luogo alla percezione. Dalla connessione di più immagini nasce il pensiero; il carattere della percezione indica che questa sia infallibile, mentre il pensiero può sbagliare nel prefigurare nuove sensazioni.
L’obiettivo fondamentale dell’epicureismo rimane l’etica. L’affermazione dell’atomismo libera la paura degli dei perché implica l’idea che gli dei non sono necessari a garantire la struttura del cosmo e sono indifferenti di fronte alle vicende umane.. il fine dell’uomo è il piacere, inteso come piacere stabile che significa l’assenza di dolore fisico(aponia) e turbamento dell’anima( atarassia.).

 

Le fonti e i modelli di Lucrezio

Molteplici dovettero essere le fonti a cui Lucrezio fece ricorso per la costruzioni di una così maestosa opera. Fondamentale nella stesura di questo, dovette essere la conoscenza  degli scritti di Epicureo, soprattutto la conoscenza del principale, “Sulla natura”, al quale il poema di Lucrezio si ricollega già nel titolo. Ma si colgono qua e là anche riprese dalle epistole epicuree, 3 per l’esattezza, riguardanti la fisica, l’etica e l’astronomia, e dalle massime capitali.
Nell’esporre la dottrina epicurea, Lucrezio mantenne una sostanziale ortodossia: mantenendo, garantendo la rigidità della scuola, intanto il sistema di base, riservando i suoi apporti originali alla presentazione artistica della materia. La conoscenza che Lucrezio dimostra dei naturalisti greci e soprattutto l’ammirazione che professa per Empedocle inducono ad includere tra le sue fonti anche le opere di questi filosofi. In particolare l’opera di Empedocle, Sulla natura, è molto vicino al De rerum natura di Lucrezio non solo naturalmente per il titolo, ma anche per l’argomento, la struttura, il metro, pur essendo molto diverso per quanto riguarda la posizione filosofica. Nel corso di svolgimento dell’opera, appaiono numerosi riferimenti ad altre scuole filosofiche di età ellenistica: tra queste noveriamo quella stoica, in contrasto con il materialismo epicureo in quando provvidenzialistica, e quella cinica, da cui riprende spunti e temi diatribici, facilmente ravvisabili da espressione colorite e dialoghi fittizi.
Dal punto di vista letterario l’opera di Lucrezio denota la conoscenza di Omero, specialmente dell’Odissea e dei tragici: conoscenza riscontrabile nel modo stesso di fare poesia, di inventare situazioni e di svilupparle delineando quella vicenda dai contorni talora epici e talora tragici che è la storia dell’uomo. Un altro modello certamente seguito da Lucrezio fu Tucidide, dal quale ricava importanti descrizioni per la raccontare la peste in Atene. La conoscenza poi dell’Ode di Saffo, della poetica di Callimaco e di Teocrito, dimostra comunque che Lucrezio aveva conoscenza di un po’ tutta la letteratura greca.
Per quanto concerne la letteratura latina, è evidente l’ascendente di Ennio a livello letterario: l’influsso è evidente nella metrica e nell’elaborata struttura e grandiosità dell’opera. Assai più intensi sono i contatti con Catullo e con i poeti neoterici, con i quali Lucrezio condivide la preferenza della tecnica narrativo descrittiva, la poetica fondata sul lepos (la grazia sottile e ricercata) e la concezione della poesia come frutto per veglie. Lucrezio possiede dunque una cultura moderna, nella quale anche i classici greci e gli arcaici latini sono recuperati su base alessandrina a cui porta lo stesso epicureismo.
La poetica lucreziana è esposta nel 1° libro. Il brano si apre con una professione d’originalità che precede la spiegazione con la quale ha scelto di usare la poesia: opporre i versi (lucidi carmina) alle predizione dei profeti per liberare l‘uomo dalle paure come facevano gli epicurei. Lucrezio porge in forma accattivante il sapere di epicuro e lo ripropone in veste inattesa e originale. Egli divulga i contenuti filosofici con estrema naturalezza, con l’aiuto delle Muse, una materia aspra e complessa, facendo il paragone tra i medici che somministrano l’amara medicina con il miele che la rende più dolce e la sua scelta di scrivere la filosofia in poesia.
Ma la scelta di Lucrezio di trasmettere un messaggio filosofico attraverso la poesia è davvero senza precedenti?
Epicuro aveva scritto in prova, forse perché ancora l’epicureismo risentiva del pregiudizio platonico che vedeva nella poesia una forma di mania prossima alla passionalità. (anche se lo stesso Platone ammetteva questa legittima se funzionale al sapere filosofico). Prima dell’epicureismo, l’accordo filosofia-poesia aveva avuto precedenti illustri come Empedocle e Parmenide. Il problema di Lucrezio non era quello di legittimare una scelta innovativa, ma di trovare una forma poetica che fosse all’altezza del compito che si prefiggeva. Di qui nasce la preoccupazione del poeta per la mancanza di un lessico filosofico latino: egli sapeva che un poema oscuro sarebbe divenuto preda esclusivamente per gli eruditi, tagliando fuori un pubblico vasto
Per saldare filosofia e poesia Lucrezio si avvale di dell’analogia, che esprime le somiglianze scoperte nell’immediato e nel quotidiano con una realtà che trascende la misura dell’uomo. L’analogia constituisce anche uno strumento di conocenza razionale poiche secondo la dottrina epicurea, per arrivare a cosa non arrivano le sensazioni si usa l’induzione in base all’analogia con i fatti osservabili. Questo procedere per immagini è legato alla filosofia epicurea e alla sua vocazione poetica.

 

De rerum natura: libro 1

Il librop primo si apre con l’inno a Venere [dea dell’amore: il poeta chiede alla dea la grazie per il canto e la fine delle guerre per dedicarsi alla poesia e perché cosi Memmio possa godere del libro di Lucrezio. Non si capisce il motivo per il quale Lucrezio si riferisca a lei, forse poiché la ritiene una Musa ispiratrice] e la dedica a Gaio Memmio [figlio di Lucio, di famiglia nobile, pretore e tribuno della plebe romano che fu ottimo oratore ma considerato da Cicerone troppo pigro. Non si sa quali rapporti ebbe con Lucrezio, forse si pensa che venga elogiato per la sua condizione sociale superiore o forse Lucrezio fu suo schiavo o liberto o figlio di liberto].
Lucrezio inizia ad illustrare la fisica e la teoria degli atomi. In seguito descrive le teorie degli altri filosofi Eraclito, Empedocle e Anassagora e chiude il primo libro trattando dell’universo.

 

Il movimento preneoterico

La prima manifestazione della lirica in latino si può datare verso la fine del II secolo più tardi rispetto all’epica e al teatro e rinetra nel processo di ellenizzazione. Oltra a questo contribui anche il cambiamento della situazione politica del tempo. In questo periodo contraddistinto dalla rottura della coesione sociale l’interesse per il teatro e per il poema epico venne meno e si affermò una produzione poetica di carattere più leggero ed evasivo all’insegna del soggettivismo, della raffinatezza del gusto e dello sperimentalismo linguisitico. Il poeta viveva nell’otium e il destinatario della poesia diventa una cerchai ristretta di amici. Questo poeti furono chiamati preneoterici cioè che vennero prima dei neoterici. I poeti si raccoglievano all’inizio intorno alla figura di Lutazio Catulo che segna il passaggio dal vecchio al nuovo stile. Fu oratore e uomo politico, scrisse libri di storia e un poema sul suo conosolato, ma anche epigrammi e parafrasi. Levio scrisse sei libri detti “Scherzi d’amore” e alcuni brani mitologici. Ebbe il gusto per lo sperimentalismo linguistico e concepi la poesia come lusus, ovvero come divertimento.

CAPITOLO 7
Il movimento neoterico

Tra il 70 e il 40 a.C. i poetae novi introdussero a Roma una nuova poetica destinata a consolidare la fortuna del genere lirico. Il nome greco neoteroi viene da Cicerone che veolle sottolineare la loro dipendenza dalla poetica greca ellenistica ed esprimere il dissenso nei confronti del disimpegno di tipo epicureo che stava alla base della poesia indifferente ai calori corretti e al mos maiorum.
Questi poeti non costituirono un gruppo organizzato ma nutrirono uguali ideali come il rifuito verso il poema magniloquente e impegnato, la predizione per tematiche individuali e private (amore e amicizia), la scelta di una poesia raffinata e elaborata.
Questo avvicinamento alla letteratura greca portò l’abbandono dell’epica nazionale che favorì liriche d’amore a contenuto mitologico e personale. Inoltre la carica dei neoteri investì anche i modelli e le scelte di vita svelando un universo di valori non più condiviso e l’avvicinamento alla matrice epicurea.

 

Catullo

Secondo Gerolamo Catullo nacque nel 87 e morì nel 58 ma per gli studiosi moderni morì nel 54 sulla base di alcune allusioni presente nei carmi agli avvenimenti di quegli anni. Nacque a Verona, da una famiglia benestante e si recò a Roma dove preparò la propria istruzione e frequentò gli ambienti più in vista.
Frequentò il circolo dei poeti novi che lo distolsero da ogni ambizione politica; anche se fece un viaggio in Bitinia con Gaio Memmio che comunque non segnò l’inizio della sua carriera politica.
L’evento più importante della vita di Catullo fu l’incontro con Lesbia che Apuelio identifica con Clodia. Ella era la sorella di Publio Clodio Pulcro e moglie di Metello Celere; dopo la morte del marito divenne l’amante di Celio Rufo che la stessa Clodia trasse in giudizio con l’accusa di veneficio; Clodio fu scagionato e difeso da Cicerone. Non si sa quando Catullo la conobbe, ma sappiamo che divenne suo amante mentre il marito era ancora in vita, ci fu un seguito turbolento misto di amore e di gelosia che duro fino a che Catullo tornò a Verona per la morte del fratello nel 59. Fu informato che altri amanti lo sostituirono dopo la partenza e anche di Celio. Dopo la separazione con Celio ci fu una riconciliazione tra Lesbia e Catullo, all’insegna dell’odi et amo che descrive nel carme 85. La sua morte fu forse a causa di una malattia che doveva consumare sia lo spirito che il corpo come ci descrive nei suoi carmi.
Il liber catulliano è una raccolta di 115 carmi. E probabile che il libro sia stato pubblicato da altri, forse dall’amico Cornelio Nepote. Questo perché i componimenti sono raggruppati secondo l’ordine metrico e non cronologico, segno dell’ordinamento di un filologo piuttosto che di un poeta. L’opera è divisa in 3 sezioni:

  • I carmi dall1 al 60: le cosiddette nugae (bazzecole) caratterizzate da una certa varietà di versi che trattano dell’amore per Lesbia e dei rapporti con la cerchia dei conoscenti.
  • I carmi dal 61 al 68: i carmina docta, scritti in metri vari caratterizzati dal forte impegno letterario e con complesse tematiche, che talvolta sono contornati da elementi mitologici
  • I carmi dal 69 al 116: detti epigrammata ripropongono le situazioni delle nugae.

La lirica di Catullo si inserisce nel movimento dei poetae novi, un gruppo di amici che costituivano una cerchia esclusiva raffinata e spregiudicata. I componimenti erano legati ad un’occasione concreta che coinvolgeva il gruppo di amici e spesso ne erano i destinatari. I poeti novi vivevano tra poesia e amori liberi con donne che condividevano i loro valori, anche se la loro mentalità e anticonformista, ma indifferente alla politica.
Questo disinteresse deriva dalla crisi civile del periodo. Catullo prova disgusto per Cesare che chiama unicum imperator.
I poetae novi provano disagio, il disagio di chi non se la sente di condividere le antiche virtù, ma neppure di accantonarle nel cassetto. A proposito di questo Mario Labate parla di rifondazione delle antiche virtù che in Catullo occupano un posto non meno centrale che nel sistema de mos maiorum.

 

La concezione amorosa di Catullo

Nella lirica catulliana prevale la tematica amorosa, apprezzata soprattutto per la sua fresca immediatezza e per la sua originalità. La concezione catulliana è quella di un amore passionale, una forza devastante di cui è impossibile scoprirne la logica. Questa vicenda è comunque nata nel segno della contraddizione dove spesso il poeta rinuncia al controllo razionale fatta eccezione di alcuni momenti di riconoscimento del proprio stato. Il comportamento amoroso di Catullo è destinato a influenzare anche le generazioni successive. L’amore è in grado di assorbire tutta la vita dell’uomo e conferisce alla donna un nuovo ruolo, attribuendole una personalità libera ed autonoma. Il rapporto catulliano anche se fondato sull’adulterio soddisfa le esigenze affettive e è pari a quello che lega i coniugi nel matrimonio. Un rapporto amoroso di questo tipo porta al recupero di valori legati al mos maiorum come la fides, la pietas e la castitas. Il rapporto si rispecchia nel modello di fedelissime coppie tratte dal mito. La relazione è un patto da rispettare religiosamente, la fides è la norma più importante. La rivoluzione di Catullo sta nel fatto che ha rifondato la morale dell’amore.

 

La poetica, la lingua e lo stile di Catullo

La poetica di Catullo matura nell’ambiente dei poetae novi, che fanno del disimpegno civile la loro professione di vita e di letteratura che vogliono rifondare una letteratura che si stava inaridendo.
Vi è inoltre l’influsso della poetica ellenistica, soprattutto nella figura di Callimaco che prediligeva una poesia breve elegante e colta. In Catullo è evidente la varietà dei componimenti e dei metri la brevità dei polimetri e degli epigrammata, la lunga elaborazione stilistica e la tecnica della citazione allusiva. Catullo spesso si appropria del testo infondendovi i propri sentimenti rendendo il poema molto soggettivo; ma non è soltanto una libera effusione di sentimenti; la sua poetica non manca di riscontri di carattere emotivo che assicurano una straordinaria immediatezza.
Il linguaggio di Catullo è caratterizzato da una varietà di registri espressivi e dalla perfetta corrispondenza tra la situazione lirica e la soluzione formale. Nel suo liber possiamo trovare un linguaggio colloquiale e familiare con la presenza di diminutivi ed espressioni di uso quotidiano, contrapposti a termini dotti, arcaismi, grecismi.
La sintassi è ben curata e vi è un largo uso di figure retoriche e ritmiche come l’allitterazione.

 

Cicerone

Marco Tullio Cicerone nacque nel 106a.C. ad Arpinio, da famiglia appartenente al ceto  equestre. Insieme al fratello Quinto  fu educato a Roma, dove entrò in contatto con i più famosi oratori e giuristi del tempo. Sul finire degli anni ottanta a.C. esordì come avvocato e pubblicò il suo primo scritto retorico ( DE INVENTIONE). Ma dal 79 al 77 lasciò Roma per un soggiorno di studio in Grecia Tornato a Roma , Cicerone sposò Terenzia e intraprese la carriera politica : nel 75 fu questore nella Sicilia ; nel 69 edile curule; nel 66 pretore. Nel frattempo si era procurato grande fama come oratore soprattutto con le orazioni contro Verre. Eletto console per l’anno 63, si oppose ai progetti di riforma agraria e soprattutto represse la congiura di catilina, facendo condannare a morte i principali responsabili, il suo peso politico declinò di li a poco, in seguito all’alleanza politica nota come primo triumvirato tra Cesare, Crasso e Pompeo, che egli si rifiutò di sostenere. Isolato politicamente, nel 58 dovette prendere la via dell’esilio in seguito all’approvazione di una legge, presentata  da Clodio, essa prevedeva la condanna all’esilio per i responsabili di esecuzioni capitali a danno di cittadini romani avvenute senza appello al popolo. Cicerone fu richiamato in Italia nel 57 per volere di Pompeo, poi prese a difendere in tribunale vari avversari di Clodio; nel 52, quando Clodio fu ucciso in uno scontro fra le rispettive bande armate, difese senza successo Milone dall’accusa di omicidio. Nel 51 fu inviato a governare la provincia di Cilicia e si procurò un piccolo successo militare. Tornato a Roma,Cicerone cercò di impedire lo scoppio della guerra civile, facendosi mediatore tra Cesare e Pompeo; di fronte al fallimento  si schierò alla fine dalla parte di Pompeo e lo seguì in Epiro. Rientrato in Italia, attese a Brindisi  il perdono di Cesare e, ottenutolo, rientrò nel 47 a.C. a Roma cercò di ritagliarsi un ruolo politico ma, di fronte al consolidarsi della dittatura di Cesare e affranto dalle disgrazie familiari si immerse nella composizione di  opere retoriche  e filosofiche. Dopo la morte di Cesare tornò ad impegnarsi nella lotta politica, pronunciando le quattordici orazioni filippiche  contro Antonio. Ma quando Antonio  si accordò con Ottaviano e lepido nel secondo triumvirato, il nome di Cicerone finì nelle liste di proscrizione  e l’oratore fu ucciso dai sicari di Antonio il 7 dicembre del 43a.C. nei pressi della sua villa di Formia.

 

L’attività oratoria

L'attività oratoria di Cicerone si estende sul­l'arco di quasi un quarantennio, dall'esordio nell'81. A noi è pervenuto un corpus di 58 orazioni e vari frammenti. Le orazioni per­venute appartengono in parte al genere giudiziario, in parte a quello politico.
Se nella Pro Quinctio (81 a.C.) e nella Pro Sexto Roscio Amerino (80 a.C.) Cicerone aderisce all'esuberanza stilistica dell'indirizzo asiano, nelle orazioni successive al soggiorno dopo aver frequentato la scuola di reto­rica di Apollonio Molone egli segue un indirizzo, che chiama «rodiota», ispirato a un maggior controllo dei mezzi espressivi e a un uso più moderato degli artifici retorici.
Nel 70, fu chiamato dai Siciliani a patrocinare l'accusa di concussione da loro intentata a Verre, Cicerone fece  sette orazio­ni: la Divinatio in Q. Caecilium, l'Actio prima in Verrem e le cinque che compongono l'Actio secunda. Solo le prime due furo­no pronunciate in quanto Verre preferì partire per l’esilio senza attendere la condanna.
Nel 66, rivestendo la pretura, Cicerone esordì nell'oratoria politica con la Pro lege Manilia, prendendo posizione a favore dell'attribuzione di un imperium proconsulare infinitum maius a Pompeo al fine di portare a termine la guerra contro Mitridate, re del Ponto, il cui protrarsi si era rivelato dannoso per gli inte­ressi romani nella ricca provincia d'Asia.
Nel 63, console in carica, Cicerone pronunciò, due orazioni giudiziarie e quat­tro orazioni De lege agraria contro la proposta di riforma della pro­prietà terriera presentata dal tribuno della plebe Rullo (che fu poi ritirata), e le quattro Catilinarie, due davanti al senato e due davanti al popolo. Con esse denunciò e ottenne i mezzi per reprimere la congiura ai danni dello stato romano ordita da Catilina.
Del 62 è la Pro Archia, nella quale, difendendo il poeta greco accusato di avere usurpato la cittadinanza romana, tesse un elogio della poesia e della cultura umanistica.
Tornato dall'esilio, pronunciò, tra il 57 e il 56, quattro orazioni post reditum, di cui due di ringraziamento, rispettivamente al senato e al po­polo, una Pro domo sua ad pontifices, con cui chiese e ottenne la restituzione del terreno su cui sorgeva la sua casa, fatta abbattere con pubblico decreto da Clodio. Del 56 sono l'orazione politica De provinciis consularibus, con cui appoggiò la proroga del comando proconsolare di Cesare nelle Gallie, prevista dagli ac­cordi di Lucca, e due orazioni giudiziarie: la Pro Sestio, con cui difese e fece assolvere dall'ac­cusa di costituzione di bande armate questo avversario di Clodio, e la Pro Caelio, nella quale difese il giovane Celio Rufo, accusato di reati ai danni di Clodia (la sorella di Clodio, la Lesbia di Catullo).
Nella Pro Milone Cicerone difende Milone dall’accusa di uccisione di Clodio che rimase ucciso in uno scontro tra bande armate sulla via Appia.
Cicerone si schierò con Pompeo ma dopo Farsalo cercò il perdono di Cesare e in quel periodo compone le tre orazione cesariane nelle quali invoca la clemenza del dittatore verso i pompeiani; si avvicina all’indirizzo atticista.
Dopo la morte di Cesare, Cicerone si schiera contro Antonio attaccandolo con le 14 filippiche pronunciate davanti al senato; sono cosi chiamate perché accostate a quelle di Demostene, il più apprezzato oratore attico da Cicerone.
L'eloquenza ciceroniana è alimentata dalla sua vasta cultura umanistica: la storia gli offre gli exempla; la letteratura greca e latina gli suggeriscono le citazioni; la filosofia gli permette di affrontare ogni tema nella sua complessità.
Lo stile presenta la varietà di toni. Egli li domina tutti e sa passare con facilità dall’uno all’altro sempre in funzione della finalità dell’orazione: è capace di informare con chiarezza, descrivere, intrattenere ed essere persuasivo; è abile nel creare effetti patetici. La lingua si caratterizza per l’uso vario e caratterizzato del lessico e ampio e mai fine a se stesso e l’ornamento retorico.

 

Le opere retoriche

Tutte le opere retoriche furono composte da Cicerone a partire dal 55 A.C, usando prevalentemente la forma del dialogo platonico, contrapponendosi all’arida trattistica greco-latina. II De Oratore è composto da 3 libri, ha la struttura di un dialogo che si immagina avvenuto nel 91 A.C. tra Crasso, che incarna le tesi ciceroniane e Marco Antonio, nonche altri personaggi secondari, nella villa di Crasso. Nel primo libro sono tratteggiati due diversi ideali di oratore: a quello di Antonio, fondato sul talento naturale e sulla pratica forense, si contrappone quello di Crasso, che sostiene invece la necessità di un’ampia formazione culturale e filosofica per l’oratore. Solo questa formazione può costituire la garanzia di un uso eticamente e politicamente corretto dell’altrimenti pericolosa abilità oratoria. In tal senso l’oratore ideale diviene un vir bonus che offre la propria tecnica al servizio dello Stato per assicurare il predominio delle classi dominanti. In questo modo il De oratore diviene un dialogo politico, non più un dialogo retorico. Il II e III libro dell’opera hanno un carattere più tecnico, trattando di problemi inerenti alle 5 parti della retorica.
Nell’Orator, approfondendo i problemi dell’elocutio, Cicerone forma la teoria dei 3 stili (esile o tenue, medio o temperato, elevato o sublime) ai quali l’oratore deve saper ricorrere a seconda del discorso, dell’uditoria e delle circostanze della performance. L’oratore non deve perdere mai di vista il triplice obbiettivi di provare, ovvero persuadere col rigore argomentatici, di delectare, ossia di intrattenere piacevolmente l’uditori, e di flectere, cioè di indurre negli ascoltatori determinane reazioni emotiva. Un’altra sua importante opera è certamente il Brutus, ove traccia una storia dell’eloquenza romana che ha come punto di arrivo la produzione oratoria dello stesso cicerone. Nell’opera ssume a proprio modello il vigoroso e passionale Demostene

 

Le opere filosofiche

Al gruppo di opere filosofiche appartengono: due dialoghi di filosofia politica, uno di argomento gnoseologico, parecchi scritti di argomento etico generale o particolare. Cicerone nutrì per tutta la vita un profondo interesse per la filosofia, della quale ebbe una concezione prettamente pratica, considerandola un indispensabile requisito per l’oratore e per il politico ideale, e una maestra di vita e moralità. Tuttavia, si dedico alla composizione filosofica sono nei periodi di amarezza causati dall’emarginazione politica e dalle disgrazie familiari. Immergendosi nella composizione filosofiche Cicerone si prefiggeva due scopi: cercare negli studi liberalia un rifugio e conforto alle disgrazie pubbliche e private, e rendersi comunque utile, in un periodo di forzata inattività politica. Quasi tutte le opere filosofiche di Cicerone hanno la forma di dialogo. In questo Cicerone volle ispirarsi al modello platonico, ma rispetto all’originale allentò di molto la struttura dialogica: i personaggi, più che scambiarsi battute, pronunciano lunghi monologhi. Un altro suo influsso furono le opere essoteriche di Aristotele, ossia le opere destinate a circolare al di fuori della scuola. La struttura dialogica è quella che meglio si adatta alle necessità di Cicerone, il quale fa esporre e confutare ordinatamente, in ogni opera, le opinioni delle principale scuole filosofiche. Solo questo metodo gli permetteva di divulgare la filosofia greca nell’ambiente romano. Da qui deriva dunque l’ecclettismo di Cicerone, un’ecclettismo che accoglie di volta in volta dalle varie scuole, e in particolar modo dallo stoicismo, singoli elementi dottrinali. Ad esclusione dell’epicureismo, combattuto in molte sue opere sia per il suo determinismo atomistico, che abbandonava l’uomo a una cieca casualità, sia perché la sua etica, fondata sul piacere, conduceva al rifiuto dell’impegno politico. Questi ragionamenti non sono tenuti sul piano di un astratto teorizzare, ma si sostanzia di esempla tratti dalla storia politica e culturale del mondo greco e romano.
Il de repubblica, che già dal titolo si rifà all’opera di platone, è un dialogo in 6 libri sul tema dello stato ideale:

  • Nel primo libro è esposta la dottrina aristotelico polibiana delle 3 forme di governo (aristocrazia, monarchia e democrazia), delle loro degenerazioni (tirannide, oligarchia e oclocrazia) e del necessario passaggio dall’una all’altra di esse, evitabile solo dalla stabilità assicurata dalla costituzione mista, che contempera in se gli elementi fondamentali delle 3 forme governative.
  • Nel II libro viene esaminata la costituzione romana
  • Nel III si affronta il tema della giustizia all’interno dello stato e nei rapporti internazionali
  • Nei libri IV e V viene tratteggiata la figura dell’uomo di governo ideali: viene delineato un modello ideale di un uomo politico, che sappia sacrificare ogni interesse personale per il bene della comunità.
  • Nel Vi libro Scipione l’Emiliano rievoca l’apparizione, in un sogno fatto tempo addietro, del nonno adottivo Scipione Africano, che gli addita la piccolezza della terra e la futilità delle cose umana, ma nel contempo gli rivela la ricompensa di eterna beatitudine destinata nell’Aldilà alle anime di chi sulla terra si è prodigato per il bene della propria patria.

Per lungo tempo dell’opera si è conosciuto solo il VI libro, che aveva cominciato a circolare con il titolo di Somnium Scipionis. Solo nel 1820, grazie al cardinale Angelo Mai, è parzialmente ritornato alla luce il testo dei primi cinque libri.
Anche il De legibus, di cui ci sono giunti i primi 3 libri si ispira all’omonima opera platonica. Si tratta di un dialogo tra Cicerone, il fratello Quinto ed Attico, ambientato nella villa di Cicerone.

  • Nel primo libro Cicerone aderisce alla dottrina stoica secondo cui le leggi non sono il frutto di semplici convenzioni, ma hanno il loro fondamento nel diritto naturale, basato sulla ragione innata in tutti gli uomini.
  • Nel II e III delineano la legislazione dello stato ideale prendendo a modella la tradizione giuridica dei romani

Di fronte all’istaurarsi della dittatura cesariana, Cicerone, sentendosi escluso dal gioco politico e affranto dalle disgrazie familiari si immerse totalmente nella filosofia, dedicandosi per circa un biennio a comporre opere che costituiscono i primi scritti di letteratura filosofica in lingua latina.
Tra le sue prime opere filosofiche noveriamo i Paradoxa stoicorum che delineavano la figura del saggio. Poi fu la volta dell’Hortensius, uno scritto di esortazione alla filosofia, e degli Accademica, un dialogo sul problema della conoscenza. In quest’ultima Cicerone aderisce alla dottrina probabilistica dei filosofi neoaccademici, secondo cui la verità esiste, ma non è sempre scientificamente raggiungibile, e si può solo pervenire ad una dottrina più probabile.
Il De finibus bonorum et malorum è invece un dialogo in 5 libri sul problema del sommo bene: vi sono esposte e poi confutate la dottrina epicurea, che identifica il sommo bene del piacere, e quella stoica, che lo identifica nella virtù. Nel V libro è esposta la dottrina del maestro di cicerone che affianca alla virtù anche certi beni esteriori. Le Tuscolane disputationes affrontano il problema della felicità in 5 libri. I temi trattati sono il disprezzo della morte, la sopportazione del dolore, come alleviare la tristezza, le altre passioni, la virtù come condizione necessaria per raggiungere la felicità. In quest’opera è evidente la funzione pratica che l’autore attribuisce alla filosofia, intesa come guida della vita, ricercatrice della virtù e cacciatrice dei vizi.

 

Le opere religiose e le lettere

Tra il 45 e 44 Cicerone approfondi la problematica religiosa in 3 opere. Nella prima di queste, il De natura deorum, si discute sulle differenti concezioni della divinità: da quella epicurea a quella panteistica degli stoici per concludere con il razionalismo scettico dei neoaccademici, secondo i quali la divinità è incerta, ma la religione è utile in politica. Nel De fato, viene esposta e poi confutata la dottrina provvidenzialistica degli stoici, in quanto annulla il libero arbitri dell’uomo escludendo ogni comportamento che non rientri nel piano provvidenziale eternamente preordinato. Nel De divinatione, dialogo tra l’autore e il fratello, si difendono le pratiche divinatorie, sostenendole utili come strumento di esercizio del potere.
La corrispondenza di Cicerone costituisce il più antico epistolario latino a noi pervenuto. Tale corrispondenza fu pubblicata postuma in quattro raccolte distinte in base ai destinatari.

  • 16 libri di Epistulae ad Atticum
  • 16 libri di Epistulae ad familiares
  • 3 libri di Epistulae ad Quintum fratrem
  • 2 libri di Epistulae ad Marcum Brutum

Si tratta di un epistolario reale, costituito da lettere effettivamente inviate dall’autore con finalità comunicative: da questo esigenza derivano i toni genuini e la franchezza di queste lettere. La personalità di Cicerone esce ben delineata dall’ampio epistolario. Qui emerge la sua ideologia politica e sociale, tesa alla conservazione dei privilegi della nobilitas, e la smisurata ambizione personale. Altrettanto si può dire per il suo profondo senso dello stato. Ben delineata appare la personalita di Cicerone anche negli aspetti privati: dalla costituzionale irresolutezza alla pedanteria nel trattare questioni di scarsa rilevanza. Dalle lettere emerge anche il suo sincero attaccamento ai congiunti e a certi amici. L’epistolario riveste un importanza documentaria notevole per la quantità di notizie che ci fornisce.

 

Sallustio

Sallustio nacque nell’86 in Sabina da una famiglia benestante e trascorre la giovinezza a Roma negli ambienti più in vista e il circolo del filosofo neopitagorico Nigidio Figulo. Intraprende la carriera politica appoggiandosi ai populares. In qualità di tribuno della plebe nel 52 conduce una violenta campagna contro Milone e Cicerone che gli fa avere una vendetta da parte degli oligarchici che lo espellono dal senato con l’accusa di immoralità (era stato anche sorpreso nel commettere adulterio). Si schiera a favore di Cesare e prima riottene un posto al senato, poi la pretura e nel 46 il governo della Numidia tolta al re Giuba e diventua provincia col nome di Africa nova. Accumula somme ingenti di denaro che gli permettono di costruire la sua imponente villa (Horti Sallustiani) tra il Pincio e il Quirinale. Viene accusato per questo di malversazione e decide di ritirarsi nella sua villa privata e si dedica all’attività di storiografo fino alla morte nel 35 o 34.
Il de coniuratione catilinae, è una monografia storica dedicata ad un tentativo di eversione. Lucio Sergio Catilina, dopo aver tentato di ottenere il consolato, si vide respinto per i suoi metodi demagogici e violenti. Approfittando del vuoto di potere lasciato dall’assenza di Pompeo, impegnato nella guerra contro i pirati e poi contro Mitridate, decise di tentare l’insurrezione armata sfruttando, sia il disagio tra la plebe sia tra l’aristocrazia. Scoperta la congiura grazie a una delazione(denuncia anonima) Cicerone arrestò e giustiziò i responsabili. Catilina, dopo aver raggiunto il suo luogotenente Manlio a capo di un esercito, affrontò con coraggio la milizia governativa e cadde nella battaglia di Pistoia.
La congiura è una delle più vistose manifestazioni della crisi della repubblica; rientra in una serie di episodi di turbolenza politica legati al malessere generale da cui è affetto lo stato.
L’esito della crisi istituzionale sarà il ridimensionamento dell’autorità del senato, la fine della repubblica e il principato.
Il Bellum Iugurthinum(43-40 a.C.) illustra una tra le manifestazioni della rivalità tra l’oligarchia senatoria e il partito dei populares. Si tratta della guerra contro Numidia Giugurta(tra il 111 e il 105 a.C.), il quale, dopo aver usurpato il regno a danno dei cugini Aderbale e Iempsele , mise a dura prova la classe dirigente romana, divisa tra l’intervento voluto dai ceti popolari e il consenso pagato dall’oro del re. Secondo Sallustio tale vicenda dimostrava la corruzione e la debolezza del senato da un lato, dall’altra vedeva l’esistenza di forze sane della quale era artefice Mario (homo novus) artefice della vittoria. Ma la condanna di Sallustio colpisce il mos partium et factionum,la contesa tra fazioni in lotta che la guerra (contro Giugurta) aveva alimentato e che sarebbe cresciuta fino a diventare un vero regime.
L’Historiae segna il passaggio dalla forma ristretta della monografia alla narrazione storica di ampio respiro. tratta in cinque libri degli avvenimenti della morte di Silla (78a.C.) continuando l’opera di Cornelio Sisenna. Iniziate intorno al 39 e rimaste incompiute per la morte dell’autore, sono giunte a noi solo quattro discorsi e due lettere.
La lettera più nota è quella in cui Mitridate re del Ponto cerca di indurre Arsace, re dei Parti, ad una coalizione antiromana: in essa Sallustio da voce alle rivendicazioni dei nemici di Roma, accogliendo quelle tematiche antiromane. Anche in questa lettera come nelle altre vi è un radicale pessimismo che pervade l’opera, ultimo approdo di un uomo che assisteva impotente alla repubblica.
Quintiliano attribuisce a Sallustio una Invectiva in Ciceronem, ritenuta non autentica dalla maggior parte dei critici, e due Epistulae ad Caesarem senem de re publica, contenenti precetti sul buon governo e sull’opportunità di porre freno alla corruzione arginando lo strapotere oligarchico. Le due epistole riflettono la posizione politica di Sallustio e ricalcano moduli stilistici sallustiani, proprio questa concordanza induce a giudicarle opera di un imitatore. Infine L’Empedoclea sulla dottrina filosofica di Empedocle di Agrigento, il quale autore sembra essere Gneo Sallustio e non il nostro Sallustio.

 

La lingua, il pensiero e la figura di Sallustio

Sallustio persegue un disegno stilistico che affonda le radici nel dibattito sulla retorica diviso tra i fautori dello stile asiano e quello attivista. Le sue scelte sono agli antipodi rispetto a quelle di cicerone, e risentono del modello di Tucidide, uno storico greco dello stile solenne e insolito, arcaico e metaforico, tendente a stupire. L’impronta di Tucidide si manifesta nei tracciati asimmetrici e disarticolati della prosa sallustiana che sono frutto di una scelta consapevole che rifiuta i ritmi puramente riempitivi.
La brevitas è la concentrazione o rapidità espressiva che viene raggiunta grazie alle ellissi, asindeti, brachilogie, uso di termini astratti ecc. L’uso frequente del discorso indiretto e degli infiniti storici o narrativi contribuiscono ad accentuare l’incalzare del ritmo.
La variatio consiste nel rompere la simmetria del periodo per scuotere l’attenzione del lettore stimolandone la collaborazione interpretativa. Sallustio esprime la sua stessa natura inquieta e la drammaticità dei caratteri e delle situazioni. Rientra nella varietà espressiva l’uso di costrutti non comuni di derivazione arcaica o popolare o di semplice gusto sallustiano.
La patina arcaizzante fornisce un riscontro stilistico dell’austerità del giudizio morale e si manifesta nel lessico e nella sintassi.  Sono ricorrenti sia le figure retoriche di parole e quelle di pensiero.
Sallustio cura costantemente l’efficacia delle sue soluzioni espressive con una duttilità che rivela la mano dell’artista. L’equilibrio classico e il senso della natura trovano riscontro in passi nei quali sarebbe stato facile cedere all’esasperazione del pathos, ma lo stile di Sallustio è sempre sorvegliato e si astiene da far leva sull’emotività.
La figura di Sallustio è segnata dalla crisi che pervade la sua epoca, che vede il passaggio dalla repubblica al principato. Silla con le sue modifiche al governo oligarchico non avevo di fatto portato miglioramenti, ma solo tamponato temporaneamente le falle del governo. Sallustio non vive il ricordo degli anni sillani, ma quello degli anni successivi che definisce l’inizio del processo degenerativo dell’epoca con la guerra dei partiti individuata come causa principale del malessere dell’epoca.
Le vicende più importanti del periodo sono la congiura di Catilina, l’esilio di Cicerone, la guerra tra Milone e Clodio fino ad arrivare a Farsalo e alla dittatura di Cesare.
In quel periodo i due diversi partiti in lotta: optimates e populares, avevano scarsa differenziazione ideologica e erano entrambe fazioni nobiliari: mentre i primi cercavano di conservare i propri poteri, i secondi cercavano l’appoggio del popolo per salire al potere. L’antidoto allo strapotere del senato era, secondo Sallustio, non i metodi violenti di Catilina, ma il moderatismo sociale della politica di Cesare, fondata sul rispetto della legge e delle proprietà privata. Anche se la dittatura di cesare lo deluse, soprattutto per il peso eccessivo dato all’esercito che lo storico giudicava un elemento di disturbo in vista del rinnovamento etico-politico in cui credeva.
Nelle due lettere a Cesare di incerta attribuzione Sallustio prima suggerisce a Cesare un programma di riforme inteso a restaurare i boni mores del passato e la libertas dell’antica repubblica, poi nella seconda lettera lo storico appare molto più freddo nei confronti del Cesare diventato dittatore.
Ancora prima della morte di Cesare che lo indusse a ritirarsi dalla vita politica, Sallustio aveva scelto di tenersi in disparte assumendo una posizione che non aveva più nulla dell’uomo politico degli anni passati. Nelle due monografie egli appare più scettico sul futuro di Roma le cui condizioni facevano temere la fine per opera di uno straniero.
Sallustio è stato definito un uomo senza passato e senza futuro; come politico Sallustio è stato definito anche un fallito in quanto non aveva mai conosciuto le acclamazioni della folla e le promesse di una gloria futura in un periodo affollato da troppi importanti uomini politici.
Ma per Sallustio gli intrighi del senato e le convulsioni della repubblica agonizzante costituiscono un appassionante terreno di riflessione.
L’impero andò in contro ad un periodo di tiranni de e di crisi economica: dunque i timori di Sallustio erano tutt’altro che infondati!!!

 

Il quadro storico dell’impero

Il passaggio istituzionale dalla repubblica al principato è una fase cruciale della storia politica e culturale di Roma. La ragione storica più importante era l’insufficienza di governo della nobiltà senatoria. Come data d’inizio possiamo prendere l’uccisione di Cesare del 43 a.C. Dopo la morte di Cesare, Antonio rima se arbitro della situazione adottando una politica vessatoria nei confronti del senato che gli contrappose la figura di Ottaviano che lo sconfisse nel 43 e marciò su Roma per estorcere il consolato al senato. Nonostante la rivalità Ottaviano Antonio e Lepido stipularono il secondo triunvirato e per sconfiggere i cesaricidi stilarono liste di proscrizione che culminarono con la morte di Bruto e Cassio.
Dopo la vittoria emerse il problema della convivenza di Antonio e Ottaviano; i due si spartirono l’impero: Ottaviano l’Italia e la Spagna e Antonio le province orientali. Antonio commise l’errore di lasciare Roma al suo avversario. Nel 40 Ottaviano assediò Perugia dove c’era il partito di Antonio, ma nel 40 a Brindisi i due riconfermarono il triunvirato togliendo poteri a Lepido. Nel 37 a Taranto Ottaviano ottenne libertà d’azione contro Sesto Pompeo che aveva radunato un esercito di repubblicani irriducibili e schiavi per andare contro l’impero. Ottaviano lo sconfisse nel 36 e vide aumentare il suo prestigio politico.
Intanto il prestigio di Antonio si stava indebolendo Ottaviano attuò una massiccia propaganda contro i costumi orientali e a favore dell’Italia con l’aiuto di Mecenate che culminò con la guerra contro Antonio e Cleopatra. Nel 31 lo scontro ad Azio vide la vittoria di Ottaviano e la fuga di Cleopatra e Antonio che si suicidarono l’anno dopo.
Augusto (titolo che Ottaviano ottenne nel 27) riuscì ad avere l’appoggio dei ceti medi italici che da circa un secolo cercavano di entrare a far parte della dirigenza politica. Nessuno aveva da guadagnare dalla prosecuzione della guerra politca e la pace fu uno degli elementi di forza della propaganda augustea. Dopo Azio Ottaviano cerco di mediare le esigenze delle varie classi sociali; anche il senato legittimò il potere augusteo. Egli riusci a travestire la sua monarchia in una nuova repubblica e la sua figura era vista come quella di colui che aveva riportato la repubblica dopo la guerra.
Ottaviano affrontò il problema del potere per tappe successive: prima ottenne il titolo di imperator e di princeps senatus e anche di console, ma il suo potere illimitato era di fatto illegale. Per questo nella seduta del 27 Ottaviano dichiarò di deporre privilegi e poteri, ma il senato gli conferì il controllo dell’esercito (imperium proconsulare) e il titolo di Augustus (sacro). In seguito ottenne a vita la tribunicia potestas, il pontificato massimo e il titolo di pater patriae. Augusto riuscì ad affermarsi come princeps.
Sul piano sociale il principato augusteo comportò l’ascesa dei ceti medi agrari e finanziari italici e questo portò sul piano economico il risanamento della civiltà agricola romana. Inoltre attuò una serie di provvedimenti economici per le popolazioni italiche.
Il ritorno ai valori della tradizione italica portarono a rifondare l’unità delle coscienze. Nel recupero del mos maiorum si inseriscono i rilievi celebrativi dell’Ara Pacis e una serie di leggi sul matrimonio e sul diritto familiare.

 

Il contesto culturale

 La classe senatoria non poteva mostrare grande entusiasmo per i progetti di Augusto. Augusto decise di orientare l’opinione pubblica attraverso la produzione letteraria e grazie alla collaborazione degli intellettuali riuscì a legittimare la sua figura di principe agli occhi dei romani.
A recuperare i migliori intellettuali dell’epoca ci pensò Mecenate che fu un abilissimo organizzatore di cultura. Egli riuscì a raccogliere intorno a sé l’elite intellettuale. Il richiamo del circolo di Mecenate dipendeva dalla nuova identità professionale assunta dalla letteratura che diventò proposta di idee e valori per la comunità. Il circolo di Mecenate costituiva un supporto all’ideologia Augustea. L’obbiettivo di mecenate era quello di far fiorire una letteratura di alto valore che riflettesse le istituzioni politiche del principato. Mecenate legò poeti e artisti intorno a se grazie anche alla concessioni di benefici materiali. Tra i membri del gruppo vigeva un clima disteso e di fraterna amicizia. I poeti anche se elogiavano Augusto non vivevano alla sua corte e a volte si erano schierati politicamente contro di lui come Orazio che aveva militato nelle schiere dei repubblicani.
Gli altri circoli letterari di quel tempo furono quelli di:

  • Messalla Corvino che riuscì a riunire un  cenacolo di poeti tra cui Tibullo e il giovane Ovidio. Il circolo di Messalla si teneva distante dalla politica e preferiva una poesia di evasione nella pace della natura.
  • Asinio Pollone che dopo essere stato oratore e poeta tragico aprì una biblioteca e diffuse la moda delle pubbliche letture. Il suo atteggiamento politico era anticonformista.

 

Virgilio

Le notizie sulla vita di Virgilio ci sono arrivate grazie alla biografia del grammatico Elio Donato, dal commentario di Servio e da alcune opere dello stesso Virgilio.
Publio Virgilo Marone nacque il 15/10/70 a.C. ad Andes nei pressi di Mantova. Figlio di proprietari terrieri di media agiatezza studiò a Cremona ma si trasferì presto a Milano e a Roma. Nella capitale completò la sua formazione retorica e conobbe importanti letterati. Abbandonò presto al sua carriera forense e si volse alla filosofia, poiché a Napoli frequento la scuola dell’epicureo Sirone. Nel 41 il poeta perse il podere paterno a causa della ridistribuzione delle terre voluta da Ottaviano per i veterani; all’inizio perse quelle terre, in seguito le recuperò, forse temporaneamente, grazie all’aiuto di Pollione. Entrò nel circolo di Mecenate e si concentrò nell’impegno letterario in una quiete garantita dell’appoggio da parte del potere. Su invito di Mecenate compose le Georgiche un opera più impegnata di tipo ideologico politico e dal 29 scrisse l’Eneide.
A 52 anni partì per la Grecia per visitare i luoghi del viaggio di Enea, ma si ammalò gravemente forse a causa di un’insolazione e mori poco dopo essere rientrato in patria a Brindisi nel 19. I suoi resti furono portati a Napoli e Augusto affidò a Vario e Tucca la pubblicazione dell’Eneide.

 

L’epoca l’ambiente e la lingua di Virgilio

L’Appendix Virgiliana è il nome di un serie di componimenti che nell’antichità furono attribuiti a Virgilio. In realtà sono quasi tutti componimenti spuri, redatti da autori del I secolo d.C. imitando la fortuna e lo stile virgiliano. Solo 2 componimenti contenuti nel Catalepton forse sono di Virgilio. Sono il V in cui il poeta sostiene la decisione di abbandonare lo studio della retorica per la filosofia e il VIII dove saluta la sua nuova dimora che è la villa del filosofo Fiorone che viene regalata a Virgilio dopo la morte di Sirone. Tra i testi più importanti ricordiamo Culex (la zanzara), Ciris (l’airone) Dirae (Imprecazioni) Copa (l’ostessa) e Moretum (la focaccia).
Il giovane poeta fu testimone delle devastazioni delle guerre civili: prima tra Cesare e Pompeo, poi tra Ottaviano e Antonio. Dopo Azio la grande paura si trasformò in desiderio di pace e ordine che si incarnava nella figura di Ottaviano che si mostrava come figura restauratrice dei valori romani. Nelle Bucoliche viene inserita la vicenda dell’esproprio del proprio podere paterno soprattutto nella I e IX ecloga, essendo l’elaborazione di esse nel pieno periodo di grande incertezza dove al scena politica appariva assai frastagliata a confusa. L’intera opera delle Bucoliche riflette l’atteggiamento di Virgilio  sospeso tra la volontà di sfuggire attraverso l’arte alle devastazioni della storia e l’ansia di pace e rinnovamento.
Quando venne accolto nel circolo di Mecenate, egli aderì con sincerità al programma e compose le Georigiche su invito di Mecenate; quest’opera segna il passaggio ad una poesia ideologicamente più schierata volta a celebrare i valori tipicamente italici e romani, anche se non mancano riferimenti al ricordo della grande paura.
Dopo la vittoria di Azio Virgilio si accinse a scrivere il grande poema epico destinato a celebrare la gloria di Roma e di Augusto anche se non volle eliminare dalla sua opera un implicito dissenso nei confronti del clima facilmente trionfalistico di quegli anni.
Virgilio si cimentò in ambiti letterati profondamente differenziati; egli elabora la fortunata partizione dei tre stili humilis, mediocris e gravis in riferimento alle sue tre opere maggiori. Nelle sue opere vi è la tendenza alla semplicità e all’equilibrata armonia, ma tutto ciò deriva da un lungo travaglio di stile (labor limae). Nel lessico viene prediletto un linguaggio comune  depurato di ogni estremismo colloquiale e vengono inseriti termini tecnici solo quando strettamente necessario. Virglio ama in genere l’uso del termine consueto che si carica con la sua attenta disposizione delle parole nel verso.
Per quanto riguarda la morfologia limita il più possibile le particolarità lasciandole solo ai casi più estremi. Anche la sintassi è limpida e lineare. Nelle Bucoliche prevale la paratassi, nelle Georgiche l’ipotassi e troviamo molti enjambement, mentre nell’Eneide coordinazione e subordinazione si equivalgono con una prevalenza di ipotassi.

 

Orazio

Nacque nel 65 a Venosa, figlio di un liberto proprietario di un modesto podere. Orazio si trasferì a Roma per completare gli studi presso i maestri più in voga. In seguito andò anche ad Atene per approfondire gli studi di filosofia che vennero interrotti a causa degli avvenimenti successivi alla morte di Cesare. Vivendo nella zona dove vi era la base d’operazione dei repubblicani (Bruto e Cassio) Orazio decise di legarsi alla loro causa partecipando alla battaglia di Filippi. Tornato a casa nel 41 trovò confiscato il suo podere.  In questo periodo strinse amicizie con Virgilio e con Vario Rufo, che lo presentarono nel 38 a Mecenate, che poco dopo lo accolse nel suo circolo. Tra i due nacque un amicizia profonda e sincera e non ci furono mai atteggiamenti servili o di rinuncia alla libertà. Orazio alla vita urbana, preferiva una vita di tranquillità nella campagna e l’amico Mecenate gli regalò una villa in Sabina nel 33.
Tra il 35 e il 20 egli scrisse le Satire, le Enodi, tre libri delle Odi e il primo delle Epistole. Nel 17 fu incaricato da Augusto di scrivere un inno celebrativo dei ludi saeculares, il Carmen Saeculare che lo consacrò poeta ufficiale. Negli ultimi anni della sua vita scrisse il secondo delle Epistole e il quarto libro delle Odi; morì nell’8 dopo una lunga malattia.

 

Le opere

L'opera gli Epodi (dal termine greco epodos) è formata da diciassette componimenti, in forma metrica distica, che alterna un verso luogo a uno breve. Orazio li dovette chiamare iambi per due cose che li contraddistinguono: da una parte il metro (che varia ad ogni libro), dall'altra il riferimento alla poesia giambica greca sia di Archiloco e di Ippoinatte caratterizzata dalla violenza dell'invettiva del poeta ellenistico Callimaco. Orazio rivela negli Epodi una passionalità tipicamente giovanile, non ancora decantata attraverso i filtri dell'esperienza di vita e della maturità artistica. Nell'opera gli argomenti sono vari. Un primo gruppo di componimenti si riferisce alle vicende civili: nel 1 in forma di dedica a Mecenate, Orazio si dice disposto a seguire l'amico anche nel pericolo; nel 9 celebra la battaglia di Azio; nel 7 e nel 16 manifesta la sua ansia per le guerre civili. Altri componimenti hanno carattere scherzoso o di invettiva, come il 3, in cui il poeta rimprovera Mecenate di averlo indotto a gustare un pranzo a base di aglio; l8 e il 12 contro una vecchia scostumata; il 5 e il 17 contro la maga Canidia. Il tema amorosa è presente negli epodi 11,14 e 15.
Le satire è composto da 18 componimenti in due libri, dieci nel primo e otto nel secondo. Orazio fissa le tematiche di base di una critica di costume che raggiunge un originale equilibrio tra denuncia del vizio e umana comprensione. I temi trattati sono vari: su una base prevalentemente morale si presentano scelte di vita, esperienze biografiche, personaggi e situazioni. Nel primo libro si distinguono la 1 satira, rivolta a Mecenate, sul tema dell'incontentabilità umana; la 2 contro l'immortalità e gli adulteri; la 3 sull'opportunità di compatire i difetti altrui. La 5 narra il famoso viaggio a Brindisi con Mecenate e gli altri amici del circolo per svolgere una missione diplomatica; nella 6 Orazio presenta i suoi rapporti con Mecenate ed esalta la tranquillità della propria vita modesta; nella 9 è alle prese con un seccatore che gli chiede di essere introdotto nel circolo di Mecenate. Invece tra le otto satire del secondo libro spicca la 1, in forma di recusatio, nella quale Orazio dichiara la propria incapacità di comporre poesie epico-celebrative. La 2 denuncia il vizio della gola; nella 3 lo stoico Damasippo, convertitosi alla filosofia, riferisce una diatriba del filosofo Stertinio contro i vizi; nella 6 Orazio ringrazia Mecenate del dono della villa sabina ed esalta la tranquillità della vita in campagna.

 

Le opere (2° parte)

L’originalità delle Odi di Orazio, considerato da tutti il suo capolavoro, sta nell’aver dato vita a una lirica romana adattando forme metriche di origine greca. Nelle Odi il poeta porta a perfezione e supera decisamente l’esperienza lirica avviata da Catullo.
Fra le 38 odi del primo libro spiccano la I con la dedica a Mecenate, la IV ricavata dal tema lirico dell’avvento della primavera e invita a godersi la vita, la IX che narra dell’inverno del vino e dei piaceri della giovinezza, l’XI con la massima del carpe diem, all’ingenua Leuconoe, intenta a interrogare i numeri babilonesi per conoscere il futuro. Ritornano spesso i temi del vino, l’argomento amoroso e il tema conviviale che compare nelle odi XX, XXVII e XXXVIII. La XXXVII celebra la morte di Cleopatra.
Nelle 20 odi del secondo libro sono frequenti i componimenti dedicati agli amici. La X svolge il concetto della aurea mediocritas.
Le prime 6 odi del terzo libro, che in tutto sono 30, vendono dette odi romane, che esaltano le antiche virtù e le gloriose imprese del principe.
Il quarto libro di 15 odi ritorna su temi gia presentati, rinnovando l’invito a godere del tempo che fugge e l’elogio dell’età augustea e la fine delle guerre civili.
Il Carmen speculare è un inno in diciannove strofi saffiche voluto da Augusto per celebrare l’avvento dell’età dell’oro preannunciata da Virgilio. Il carme presenta uno stile elevato e solenne. L’ austerità rituale si esprime in una serie di invocazioni ad Apollo e Diana, al Sole e ad altri dei, senza concedere spazio a quel soggettivismo lirico che costituisce la parte migliore della poesia oraziana.

 

Le epistole e l’epoca di Orazio

Il primo libro delle epistole contiene 20 epistole in esametri, il secondo contiene 2 epistole.
Nel primo libro la prima epistola, dedicata a Mecenate, giustifica la nuova forma poetica: il poeta intende staccarsi dal lusus letterario per dedicarsi alla ricerca del bene e della verità. La quarta dedicata a Tibullo condensa i principi della sapienza epicurea, invitando l'amico a godere le gioie della vita. Questi sono i temi che si trovano nel libro.
Nel secondo libro si trovano epistole di argomento letterario. Tra di esse spicca l'ars poetica dedicata ai figli del console Lucio Pisone. Si tratta di un manuale in versi nel quale Orazio espone la propria teoria letteraria, che concepisce la poesia come frutto di paziente elaborazione attraverso la quale si esprime il vero talento poetico.
Orazio viene considerato il poeta augusteo poiché le sue opere vedono la luce durante il principato di augusto. La vita del poeta fu segnata dalle guerre civili e dalla disfatta di Filippi che sancì il crollo dell'età repubblicana. L’instabilità politica e la precarietà delle condizioni economiche, alimentarono in lui il senso dell’irrazionalità della storia e dell’imprevedibilità degli eventi che si trovano nei suoi inviti a vivere alla giornata senza fare conto del futuro che è sfuggente. Il periodo precedente all’affermazione del principato fu pervaso da grandi paure: paura di guerre civili, di espropri, di confische, di esili. Questi timori indussero il senato a legittimare il potere di Augusto. Orazio non negò il proprio consenso al regime augusteo, pur facendo ogni sforzo per salvaguardare la libertà delle sue scelte di vita e di poesia.
Il poeta dichiara la propria indipendenza di pensiero, per questo non possiamo trovare nelle sue opere piena adesione ad un sistema filosofico; tuttavia emerge che la morale del poeta è modellata sulla filosofia di Epicuro. Stupisce però che ci siano dei riferimenti ad Aristippo un pirenaico che identificava nel sommo bene il piacere e quest’ultimo era il fine della vita dell’uomo. L’influsso del filosofo greco si trova soprattutto nella volontà di indipendenza del poeta rispetto alle richieste dei suoi potenti protettori, Mecenate e Augusto.
Orazio riprende da Epicuro il concetto di atarassia, ovvero la felicità come assenza di turbamento e di paure, quindi un desiderio di piacere stabile che porta alla serenità. Egli riprende anche la concezione degli dei, anche se non segue Lucrezio nella lotto contro la superstizione, il culto dell’amicizia e l’amore per la campagna e le cose semplici.
Grazie alla diatriba, che era un movimento di opinione ricorrente nella morale dei predicatori, Orazio riesce a intrecciare le varie influenze filosofiche e morali che avevano influenzato l’autore. La diatriba esaltava il vivere secondo natura disprezzando i condizionamenti della civiltà. A questo patrimonio comune appartengono le due idee cardine della morale oraziana:

  • L’autarkeia, ossia l’indipendenza interiore del saggio da tutto ciò che è esterno e si collegava con l’idea epicurea che la felicità si consegue soddisfacendo i bisogni necessari che si identificano con i piaceri stabili.
  • La metriotes, ovvero la morale del giusto mezzo, che è sempre collegata alla concezione epicurea della felicità.

In Orazio possiamo trovare tracce di filosofia stoica per quanto riguarda l’impegno civile, l’imperturbabilità del saggio e il bisogno di virtù e di coerenza. Orazio avverte fortemente il bisogno di una saggezza certa, ma questo bisogno lo spinge a cercare risposte in varie direzioni, adottando una morale provvisoria che gli consenta di servirsi di ogni filosofia senza esserne servo, ancora secondo il principio dell’autarkeia.

 

Properzio

Le notizie sulla vita di Properzio ci vengono dalle sue opere. Properzio nacque ad Assisi tra il 50 e il 48 a.C. da una famiglia agiata, ma perdette il padre giovanissimo; la sua famiglia fu coinvolta in una vicenda connessa con le guerre civili e subì la confisca del podere e alcuni parenti vennero uccisi. Andò a Roma per compiere studi giuridici, ma abbandonò presto gli studi per dedicarsi all’attività poetica.
In totale ci sono giunte 92 elegie divise in 4 libri:

  • I libro: si esalta un sistema di vita trasgressivo che comporta l’abbandono degli impegni civili e politici per rinchiudersi nella vita e nel canto d’amore.
  • II libro: prevale il tema amoroso
  • III libro: prevale il tema letterario e poetico e una decisa adesione al tipo di poesia dotta e raffinata dell’età ellenistica che era stata coltivata da Collimaco; nell’ultima elegia il poeta parla del definitivo distacco da Cinzia e dal tema amoroso
  • IV libro: tratta di antichi miti romani e ha contenuto celebrativo; Properzio mette la sua bravura al servizio di Augusto.

L’avvenimento centrale della vita di Properzio è l’incontro con Cinzia; questa donna si chiamava Hostia, ma Properzio la rinominò con uno pseudonimo greco. Fra le donne cantate dai poeti antichi, Cinzia è la figura più viva e reale. Properzio descrive cosi minuziosamente i suoi tratti e tutti i suoi atteggiamenti. Cinzia era di condizione sociale inferiore rispetto a Properzio, per questo il loro rapporto non poté sfociare in matrimonio, ma è destinato a rimanere esposto alle difficoltà dei legami irregolari. Con la morte del padre e dopo le confische Properzio trovò nell’amore di questa donna uno scopo appagante e tormentoso. Egli si abbandonò a questa donna in un totale servitium amoris rinunciando agli altri legami e trovando in lei ogni ragione di vita.
Il distacco da Cinzia che viene descritto alla fine del III libro è il punto più drammatico del canzoniere e della storia d’amore. Come Catullo Properzio invoca il dio Bacco chiedendo di togliergli le pene d’amore. Properzio abbandona Cinzia con una maledizione vendicativa e liberatoria, con l’immagine di una Cinzia invecchiata, che guarda allo specchio lo spengersi della propria bellezza. Nel IV libro ritorna Cinzia, ma è solo un’ombra, un ricordo con attorno un’atmosfera di morte.
La lingua di Properzio attinge a livelli stilistici assai diversi: dal linguaggio familiare agli arcaismi e grecismi. Vi è il ricorso alla tecnica allusiva, che inspessisce il testo, obbligando il lettore a rimandi e confronti.
L’aspetto che distingue Properzio degli altri elegiaci è l’uso esteso della mitologia: considerato dalla critica una parte morta, il richiamo mitologico costituisce invece in Properzio un modo per esprimere complesse situazioni esistenziali. Egli non rappresenta mai il mito in modo autonomo cioè non racconta mai i fatti a sé, ma li accosta alle vicende personali e li usa con funzioni precise. Tra le funzioni ricordiamo:

  • Funzione nobilitante: il mito eleva situazioni comuni o banali. Il mito parla di dei e di eroi, mentre l’elegia tratta la quotidianità. Il confronto eleva le immagini troppo comuni che altrimenti interesserebbero solo chi scrive. Una donna che dorme finisce ad essere paragonata ad una dea.
  • Funzione illuminante: il confronto col mito può servire a spiegare una situazione accostando alla realtà opaca l’immagine luminosa della vicenda mitica.
  • Funzione esortatoria: il mito è un racconto che contiene un’esortazione: un vero e proprio exemplum cioè una sorta di parabola che presenta una lezione morale. Il raccontare un mito invece che fornire un consiglio è una forma gentile di ammonizione o di rimprovero; l’esortazione acquista un valore più forte dal fatto che già in passato qualcuno ha agito in questo modo.

 

Tibullo

Sulla vita di Tibullo abbiamo poche informazioni: alcune arrivano dalle sue elegie e altre da Ovidio.
Egli nacque nel 50 in una località del Lazio rurale vicino Roma. La famiglia era di ceto equestre, ricca di terre e agiata di mezzi, anche se il patrimonio diminuì a causa delle confische e della ridistribuzione delle terre ai veterani. Incontrò Messalla Corvino che lo fece entrare nel suo circolo: con lui partecipò a una campagna militare in Aquitania e in Oriente, si ammalò e dovette fermarsi a Corcira. Tibullo fu l’unico tra gli elegiaci ad iniziare una carriera militare. Il poeta visse pochi anni dopo essersi ammalato e morì nel 19.
Le elegie di Tibullo sono inserite in una raccolta di quattro libri che va sotto il nome di Corpus Tibullianum diviso in 4 libri dagli umanisti:

  • Il I libro sono 10 elegie. Prevale la figura di Delia una donna bella e capricciosa, desiderosa del lusso e dei piaceri di origine modesta. E’ una relazione di tipo elegiaco, tormentata ed esposta a tradimenti, sostanzialmente inappagante. Ci sono inoltre elegie per il giovane Marato e per il compleanno di Messalla.
  • Il II libro ha per protagonista una donna chiamata Nemesi, una donna più dura di Delia e il suo nome significa Vendetta o Punizione.
  • Il IV libro tratta dell’amore di Sulpicia, nipote di Messalla per il giovane Cerinto.

Tibullo, dopo l’avvio della carriera militare, sceglie una vita isolata nell’amore e nella letteratura. Un sincero amore per la campagna lo distingue dagli altri elegiaci, la campagna simboleggia il rifugio ideale di fronte alle angosce della vita amorosa e alla guerra; i campi rappresentano il luogo dell’amore perfetto e della pace.
L’evasione e il conforto che Properzio cercava nel mito, Tibullo la trova nella campagna, ma sono entrambi luoghi di sogno. La campagna non è un luogo reale, ma un luogo dove sarebbe possibile la felicità. L’ideale della vita autosufficiente lontano dagli sconvolgimenti amorosi e dai combattimenti si fonde col tema della campagna.
Lo stile di Tibullo è semplice e lineare, frutto di un’attenta cura formale e di un controllo stilistico. E’ da notare soprattutto la cantabilità, un ritmo che è solo di Tibullo: i versi formano una serie di suoni e cadenze particolari spesso esaltate anche dalla rima.

 

Ovidio

 

Sulla vita di Ovidio siamo abbastanza documentati, perché egli stesso fece in un’elegia il bilancio della sua vita e anche per le testimonianze degli altri poeti. Nacque a Sulmona il 20 Marzo del 43 a.C.; esattamente un anno prima, alle idi di Marzo, Cesare era stato ucciso dai congiurati. Ovidio pur essendo di poco più giovane di Properzio e di Tibullo, appartiene a un altro momento storico, alla generazione che dell’ultimo periodo delle guerre civili non ha il ricordo diretto né conosce le tensioni, ma si trova completamente immersa nella nuova realtà imperiale. Ora il potere stesso impone nuove e delicate relazione tra i poeti e il principe e crea un rapporto nuovo fra i letterati e la realtà che li circonda; organizza la cultura ufficiale e pretende dai letterati un tipo di poesia celebrativa. L’attività privata dei poeti si svolge sotto il segno delle scuole di retorica. Ovidio negli anni della sua formazione frequentò le migliori scuole retoriche di Roma per avviarsi alla carriera politica e forense, ma iniziò anche una precoce produzione letteraria. Ebbe modo di frequentare i circoli letterari ( in particolare quello di Messalla) dove conobbe i poeti più famosi del tempo. Dopo una rapida esperienza in ambito politico, Ovidio si diede completamente alla sua vocazione letteraria, conquistando una fama precoce con opere di grande successo: come gli Amores, l’Ars amatoria e la Medea. Raggiunti i quarant’anni, Ovidio stabilì che fosse il tempo per imprese letterarie di più alto impegno e si accinse alla composizione di un vasto poema mitologico, le Metamorfosi, e di un’opera celebrativa di riti e miti romani, i Fasti. Al culmine del successo, però, il poeta cadde in disgrazia e fu condannato da Augusto alla relegazione ai confini dell’impero, per aver commesso adulterio con la nipote di Augusto, a Tomi sul Mar Nero. Ovidio non tornerà più a Roma e morirà a Tomi nel 17 d.C.. 
Possiamo dividere la produzione ovidiana in 3 gruppi di opere che rispecchiano i 3 periodi della sua esistenza.

  • Le opere elegiache ed erotico didascaliche: Gli Amores che sono una raccolta di 49 elegie, dove vi è evocata una donna chiamata Corinna che però non ha lo stesso rilievo delle donne di Properzio e Tibullo. Manca infatti negli Amores la centralità dell’esperienza amorosa e prevale un tono distaccato e ironico. L’Ars Amatoria è un vero e proprio manuale sul’arte di amare, sono tre libri in distici elegiaci sulla seduzione e sulla conquista della donna. Il tono è leggero e spregiudicato e questa è forse l’opera che è valsa la condanna di Ovidio. Inoltre ricordiamo i Remedia Amoris che insegnano come liberarsi di un amore che non interessa più e i Medicamina Faciei, consigli sull’uso dei cosmetici. Inoltre le Heroides sono 21 elegie in forma di lettera dove le eroine del mito scrivono ai loro amanti in tono sentimentale.
  • I grendi poemi: L’interesse per il mito diventa centrale nelle Metamorfosi, un opera di 15 libri che racconta le vicende di esseri umani e divini che si trasformano e assumono un altro aspetto. I Fasti sono un opera celebrativa in cui Ovidio doveva compilare un calendario delle feste e delle ricorrenze dell’anno romano scoprendone le origini. Ma l’opera che doveva contenere un libro per ogni mese dell’anno rimase incompiuta al VI libro.
  • Le opere dell’esilio: il poeta si ritrovò in una terra desolata in mezzo ai barbari e a scrivere per se stesso e non per il pubblico. Ci fu cosi un ritorno all’elegia con i Tristia e l’Epistulae ex Ponto: si tratta di elegie più dolorose rispetto alle precedenti, dove troviamo lamenti ricordi e suppliche per ottenere il ritorno.

Con Ovidio l’elegia entra nella fase discendente. Egli si è dedicato ai generi più diversi, ciò è il segno che per lui la vita elegiaca è un ideale insufficiente. Negli Amores, Ovidio si presenta come un poeta che è intento ad una poesia più elevata rispetto all’elegia e solo momentaneamente ha abbracciato questo genere. In realtà Ovidio non accetta fino in fondo le convenzioni dell’elegia: il dramma di Properzio, le malinconie di Tibullo si trasformano in lusus, in gioco letterario; Corinna invece di essere la figura centrale intorno a cui ruotano le elegie diventa una sorta di etichetta. Anche il mito diventa decorativo: mentre in Properzio aveva una figura nobilitante, in Ovidio è quasi un teatro, dove le figure divine ripetono copioni molto umani di amori, di litigi e di riconciliazioni.

 

Lo stile di Ovidio

Questo atteggiamento nei confronti dell’elegia nasce dal fatto che Ovidio appartiene a una nuova epoca; gli altri poeti avevano abbandonato la vita politica per dedicarsi ad una vita dedita all’amore, mentre Ovidio avverte il solco tra la realtà politico-sociale e la produzione letteraria. Ovidio ha la consapevolezza che il poeta possiede uno strumento capace di mediare la realtà e quindi la trasforma e la offre alterata ai suoi lettori.  Si potrebbe dire che mentre gli altri elegiaci rappresentano se stessi in veste di amanti che vivono vicende d’amore Ovidio rappresenta se stesso mentre scrive poesie sulle storie d’amore che dice di aver vissuto come un regista che, invece di riprendere le scene e gli attori di un film, riprendesse se stesso mentre gira il film.
Ovidio non crede che la poesia debba imitare la realtà e cercare di rappresentarla, ma considera oggetto della poesia la dimensione letteraria. Il lusus di Ovidio non è tanto il gioco di provocazione e di irrisione della morale tradizionale, quanto questo tipo di gioco culturale spiritoso e arduo nello stesso tempo. A ciò corrisponde una forma del verso tra le più perfette. Ovidio unisce la grande facilità del versificare con una ricerca accurata di effetti, portando il distico latino al vertice della perfezione ritmica e tecnica. Ovidio esalta l’abilità nell’uso del verso con l’impiego della tecnica retorica della quale è maestro.

 

Tito Livio

Tito Livio nacque a Padova nel 59 a.C. da una famiglia agiata. Si trasferì a Roma dove conobbe Augusto che lo chiamava pompeiano per il suo nostalgico filo repubblicanesimo senza che ciò comunque nocesse alla loro amicizia. Attorno al 27 iniziò a scrivere la sua opera storia Ab Urbe Condita e morì nel 17 d.C. Livio è il primo storico latino non appartenente a una famiglia senatoria o non legato a quell’ambiente.
Da giovane Livio scrisse solo dialoghi storico-filosofici e altre opere filosofiche. Ab urbe condita è un epopea del popolo romana che può essere paragonata per mole, per l’impatto propagandistico, per il peso esercitato sulla tradizione posteriore all’Eneide di Virgilio. Dell’opera liviana ne è arrivata fino a noi solo un quarto.
L’opera trattava in 142 libri la storia romana dalla fondazione (dalle origini troiane) al 9 o a.C. o d.C. Livio pubblicava periodicamente gruppi di cinque o dieci libri detti rispettivamente pentadi e decadi. A noi sono pervenuti 35 libri non consecutivi della prima parte dell’opera. La prima decade tratta del periodo monarchico e dei primi anni della repubblica. La seconda decade (non pervenuta) era dedicata alla guerra contro Pirro e alla prima guerra punica. I libri dal 21 al 55 trattano i 52 anni che videro la grande espansione di Roma sul Mediterraneo.
Possediamo inoltre le Periochae ovvero dei riassunti molto scarni scritti tra il III e il IV secolo. La narrazione si fa via via più dettagliata più ci si avvicina all’età contemporanea per la maggiore quantità di documenti disponibili e per un maggiore interesse dell’autore per la storia recente.
Livio rimette in auge la tradizione della storiografia annalistica realizzando il grandioso disegno di una storia generale del popolo romano dalle origini troiane ai suoi giorni. La scansione cronologia del I libro fa riferimento ai re e ai loro anni di regno, ma possiamo anche trovare una datazione diastematica, nella quale viene indicato il diastema, cioè l’intervallo di tempo a partire da un avvenimento epocale come la fondazione di Roma o la cacciata dei re. La totale adesione alla tradizione annalistica comporta la spezzatura del racconto in una serie di sezioni annuali con parti dedicate alla politica interna, estera e altri avvenimenti con l’uso di notizie leggendarie.
La storia di Livio è di tipo politico militare, ogni blocco di libri ruota attorno ad una guerra; scarso è invece l’interesse per gli aspetti economici sociali e culturali
Livio si serve esclusivamente di fonti letterarie ossia delle opere storiche scritte da autori precedenti, rinunciando alla ricerca e alla consultazione di documenti. Le sue fonti sono gli annalisti romani e le Storie di Polibio. Livio segue Polibio abbastanza fedelmente salvo incorrere in errori di traduzione o interpretazione o sorvolare su alcuni dettagli e ampliarne altri per fornire una versione dei fatti più favorevole alla parte romana. Gli altri limiti di Livio come storico sono: lo scarso interesse per i problemi sociali e economici e l’incapacità di tracciare una chiara linea dell’evoluzione costituzionale dello stato. Inoltre troviamo alcune deformazioni della realtà storica operate nell’intento di fornire un’immagine positiva dei romani nei confronti degli altri popoli e una caratterizzazione negativa dei nemici di Roma riflettendo alcuni stereotipi: come la slealtà dei Cartaginesi o la litigiosità dei Greci; anche le indicazioni geografiche e toponomastiche sono descritte in modo approssimativo.
Livio condivide la concezione didascalica e moralistica della storia che ha caratterizzato la storiografia romana: la ricostruzione del passato non è un’operazione scientifica, ma con fine etico e civile. Si tratta di presentare ai cittadini romani i comportamenti positivi e negativi, affinché il lettore possa imitare gli esempi virtuosi e evitare quelli dannosi.

 

La Dinastia Giulio Claudia                                                              

L’inizio della nuova età può essere definito con l’anno 14 d.C., la morte di Augusto o con l’anno 17 con la morte di Livio e Ovidio. Ci sono due differenze principali rispetto all’età augustea:

  • L’epigonismo che è la coscienza di vivere e agire dopo la conclusione di una grande epoca alla quale si attribuisce il raggiungimento di vertici insuperabili: il letteratura è la coscienza che tutto sia stato già detto nel modo migliore e non resta che ammirare quanto è stato prodotto e procedere sulle orme di questi modelli
  • L’instaurarsi di un nuovo rapporto tra potere e cultura: dopo l’età augustea con il mecenatismo illuminato troviamo che a causa della nuova organizzazione monarchico militare ci sia un controllo più diretta sulla vita pubblica e sulla cultura.

Gli imperatori del tempo decisero di imporre una concezione forte del principato, sentito come una monarchia ellenistica e lo scontro tra il principe e l’elite senatoria fini per assumere il carattere di una persecuzione con i suoi martiri.
Nella letteratura il poeta divenne dipendente dal principe doveva obbligatoriamente omaggiare e celebrare esplicitamente il suo padrone e nasceva anche l’opera della censura. L’esempio dell’esilio di Ovidio porta una prova concreta a queste parole.
Già l’ultimo periodo della vita di Augusto presenta una situazione cambiata. Ai gravi problemi militari sorti nelle provincie si aggiungevano le preoccupazioni per la dilagante immoralità che toccava anche membri della famiglia imperiale. Queste accuse erano spesso strumenti di lotta per la successione tra le diverse fazioni della famiglia imperiale.
Tiberio assunse il potere con riluttanza anche perché conosceva bene le difficoltà a cui andava incontro, in particolare l’opposizione del senato che vedeva nell’imperatore un freno alle proprie ambizioni oligarchiche, e le attese del popolo che vedeva nel potere monarchico un freno all’arroganza senatoria. Si aggiunse la crescente popolarità di Germanico che Augusto aveva imposto a Tiberio come successore e che aveva il favore dell’aristocrazia e dell’ambiente militare. Tiberio ottimo generale era state messo da parte da Augusto e si era auto esiliato a Rodi diventando un uomo diffidente. Egli penso di poter esercitare il potere continuando la linea di equilibrio di Augusto, ma non ne aveva il carisma ne riuscì ad avere un consenso simili ad Augusto. Negli ultimi anni del suo impero Tiberio di ritirò a Capri e lascio l’esercizio del potere a Seiano che mirava soprattutto a costruirsi un potere personale in vista di una successione, infatti con l’appoggio militare dei pretoriani colpi con accuse di immoralità la famiglia imperiale. Alla fine fu condannato e ucciso da Tiberio nel 31.
Il suicidio di Cremuzio Cordo si inserisce nel clima di terrore del periodo: egli aveva composto un opera storica controcorrente in cui l’autore parlava della storia recente con spirito indipendente.
Si chiuse nel terrore la prima esperienza dopo Augusto che rivelò le tensioni nel compromesso augusteo che vennero fuori con la mancanza di una figura carismatica e fece emergere l’inaffidabilità del senato che protestava d’essere allontanato dal governo ma si rifiutava di collaborare nel tentativo di recuperare il potere perduto.

 

La Dinastia Giulio Claudia (2° parte)                                            

 Quando Tiberio morì raccolse l’eredità imperiale Caligola, uno superstite della famiglia di Germanico sterminata da Tiberio e Seiano. Anche l’avvio del suo regno fu prudente e sembrò orientato a promuovere una pacificazione e una concordia generale. Dapprima buono, si tramutò in tiranno folle; Caligola cambiò radicalmente forse a causa di una malattia o per la morte della sorella Drusilla. Vennero interpretate come prove di follia anche azioni riconducibili allo sforzo di imporre una concezione del potere secondo modelli orientali che facevano dell’imperatore un Dio. Caligola soffriva di un delirio di onnipotenza accompagnato dal timore di perdere il potere. Fu tolto di mezzo da una congiura e si apri la strada della successione allo zio Claudio.
Claudio era considerato infermo di corpo e di mente. Ci si chiede come abbia fatto a regnare, ma si può pensare che gli imperatori fossero feroci o ottusi nella vita privata nonostante ciò il loro comportamento non influenzasse le istituzioni. Il sistema amministrativo organizzato da Augusto funzionava indifferentemente dalle vicende i palazzo.
Claudio per prima cosa punì gli uccisori di Caligolapremiò i pretoriani che lo avevano eletto imperatore. Provvide all’approvvigionamento delle città attraverso il porto di Ostia, costruì un nuovo acquedotto e fece opere di bonifica. Volle che i governatori delle provincie senatorie si conformassero alle sue direttive e non esitò a punire i responsabili di sabotaggi o di altri atti scorretti affidando ai suoi liberti i loro compiti. Il  suo nome è spesso legato alle donne di cui fu succube. Prima Messalina che fu soppressa in seguito ad adulteri e poi Agrippina, nipote di Claudio, che lo costrinse ad adottare Nerone (avuto da Agrippina da un precedente marito) per farlo diventare futuro imperatore. Fu ucciso da funghi avvelenati (e non velenosi) nel 54.
Nerone salì al potere a 17 anni, quando i suoi interessi erano letterari e nutriva una forte passione per i cavalli, ma volle regnare sul serio. Richiamò il senatore Seneca dal suo esilio per farlo suo precettore. La madre intanto si era guadagnata l’appoggio di Burro, prefetto del pretorio che le garantiva appoggio militare. Per cinque anni, intanto che Nerone era ancora giovane, regnarono in maniera molto positiva e tranquilla Burro e Seneca, tanto che gli scrittori ricordano quel periodo come un ritorno all’età dell’oro.
Nerone prese il potere nel 60 d.C. avviando riforme a favore dei ceti meno abbienti e incontro alle esigenze delle provincie, ma presentavano un carattere improvvisato e pericoloso per le finanze dello stato, come l’abolizione delle imposte indirette o la revoca dei dazi.
A ciò si accompagna una repressione politica contro i membri dell’aristocrazia senatoria. Nerone era sostenitore di ideali ellenizzanti e orientali. La svolta decisiva verso la ferocia fu nel 62 alla morte di Burro e quando Seneca fu allontanato dal potere. Nerone prosegui nella sua rivoluzione avviando progetti faraonici per lasciare la sua impronta nella storia. Contro di lui c’erano i filosofi stoici e legioni di nobili. Nel 64 avvenne il grande incendio di Roma; lui fu accusato di questo incendio perché Nerone voleva ampliare la sua immensa Domus Aurea, ma lui dirottò la colpa sui cristiani e dispensò aiuti ai colpiti. La sua popolarità andava diminuendo e ci furono varie congiure contro di lui (tra cui quella di Calpurnio Pisone e Annio Viniciano). A causa di una rivolta scatenata da un governatore della Gallia l’imperatore fu costretto a suicidarsi per sfuggire alla condanna.
Il tiranno era nella tragedia una maschera che si macchiava di ogni nefandezza. Nella tragedia senecana i personaggi mitici come Edipo o Atreo avevano le vesti dei tiranni del tempo. La tirannide a Roma era connessa alla figura di Alessandro Magno. Caligola lo considerava il suo modello, mentre per Seneca rappresentava l’eccesso, l’ira, l’avidità di potere e la crudeltà. Si è pensato che Seneca volesse colpire Nerone attraverso lo scherno di Alessandro; anche perché Alessandro usava sovrapporre usanze orientali sui greci liberi come agiva Nerone sui Romani.

 

Seneca                                                                                                

Appartenente a una ricca famiglia provinciale era nato a Cordova in Spagna tra il 2 e il 4 a.C. Ricevette una formazione retorica filosofica a Roma dove intraprese la carriera politica; entrò a far parte dell’élite culturale e si trovò in contatto con gli ultimi tre imperatori della dinastia Claudia. Fu esiliato da Caligola perché era invidioso della sua fama oratoria e fu mandato a morte da Nerone. In Corsica ebbe modo di meditare su se stesso e di elaborare la sua visione della vita.
La svolta della sua vita fu il richiamo a Roma da Agrippina che lo volle tutore del giovane Nerone, reggendo l’impero per un quinquennio. Nel 62 si rese conto della perdita della sua influenza e si ritirò a vita privata. Si tolse la vita nel 65 per ordine di Nerone per essere coinvolto in una congiura. Si racconta che prima di morire chiese le tavole per il testamento da lasciare ai suoi amici, ma non potevano portargliele e allora lui disse che lasciava ai posteri la sua immagine di vita. Seneca non intendeva elevare un monumento a se stesso, come modello di sapiente, ma lasciare un'indicazione di possibili percorsi, aprendo la strada dell'imitazione. Seneca seguì sempre lo stoicismo, che usava evocare figure e immagini per ricavare dalla loro interpretazione spunti di verità. Il saggio conosce e pratica la virtù, quindi egli rappresenta la virtù e la mette in scena. Il sapiente è una sorta di virtù vivente e l a immette nel flusso della storia e la offre agli altri uomini per l’imitazione e come indicazione di un percorso possibile per loro.

 

Le opere e l’ambiente                                                                      

La produzione di Seneca può essere divisa in 3 periodi:

  • La giovinezza e i periodi di lontananza da Roma sono caratterizzati dallo studio e dalla ricerca del perfezionamento morale
  • L’inizio dell’attività politica segna l’apertura dei suoi interessi alla dimensione politica
  • Durante il forzato ritiro finale sviluppa una penetrante ricerca dell’interiorità in un discorso che si allarga all’umanità e ai posteri

Nella prima fase rientrano i Dialogorum Libri, dodici libri che non hanno il carattere di dialogo, ma presentano un carattere di esposizione vivace. Il termine dialogus significa colloquio di contenuto morale. Fanno parte dei dodici le Consolationes che trattano di dolore e di morte: Nella Consolatio ad Marciam e nella Consolatio ad Polybium si afferma che la morte non è male perché è un passaggio a una vita migliore. Nella Consolatio ad Helviam Matrem Seneca dice che l’esilio non è male perché consente l’ozio e di praticare la virtù. De Brevitate vitae: affronta il tema de tempo e della vita che non va sprecata in occupazioni inutili (tipo la filosofia o questo che sto facendo ora SCHERZO!!!). De vita beata: tratta di come raggiungere la felicità ovvero vivere secondo natura e raggiungere la virtù. De Constantia sapientis: Seneca cerca di convertire un suo amico allo stoicismo. De Ira: dice che l’ira impedisce all’uomo di raggiungere la virtù. Tutto ruota intorno all’apatheia stoica che dice che l’uomo deve liberarsi dalle passioni per raggiungere la virtù. De tranquillitate animi: per vivere sereni occorre un equilibrio tra vita contemplativa e vita attiva. De Otio, scritto dopo il ritiro a vita privata egli sostiene che è praticabile solo la via del disimpegno e dell’ozio filosofico. De providentia: che tratta del rapporto tra provvidenza e male.
Nella seconda fase ha scritto due opere di carattere etico-politico e si riferiscono al momento dell’impegno a fianco di Nerone: il De Beneficis sviluppa il concetto di beneficenza come principio di una società fondata su una monarchia illuminata. Il De Clementia è dedicato a Nerone e qui tenta di vincolare il sovrano ai principi dello stoicismo, rifiutando di governare tirannicamente.
Nella terza fase deluso dal governo di Nerone Seneca si rivolge ai singoli e alle loro coscienze; nelle Epistulae ad Lucillium, Seneca si pone come maestro spirituale ponendo le basi per il cammino verso la sapienza. I temi fondamentali sono quelli del tempo, della morte della virtù, dell’amicizia, e della libertà.
Un certo numero di opere andato perduto ha temi geografico-scientifici. Di questo produzione restano a noi solo le Naturales quaestiones.
Nel 54 Seneca compose una satira sulla morte dell’imperatore Claudio. L’Apocolocyntosis termine che significa divinizzazione è una mescolanza di prova e versi in cui racconta spiritosamente di Claudio che dopo la morte arriva sull’Olimpo e vuole entrare a far parte del consesso degli dei, ma la sua richiesta viene respinta su intervento di Augusto. Va a finire negli inferi e viene condannato ad essere schiavo di un liberto.
Scrisse anche 9 tragedie e sono le uniche tragedie rimaste della letteratura latina. Le tragedie ripropongono temi trattati dai greci e dai latini antichi. Compaiono comunque anche temi stoici, filosofici e politici.
Seneca ha sempre cercato di giovare agli altri uomini come imponeva la filosofia di cui era seguace coinvolgendosi direttamente con la realtà del tempo. Dietro al tentativo di Seneca stava la possibilità di trovare un ruolo per i sapientes contro il principe e i senatori. L’alternativa al regime autocratico era spingere il principe a esercitare spontaneamente la clemenza e la beneficenza nei confronti dei sudditi. Seneca voleva che i membri delle classi alte ritrovassero la sicurezza serena di chi ha il pieno controllo della propria esistenza e quindi trovare tranquillità.
Il perfezionamento morale è necessario sia per lanciarsi nell’impegno della vita pubblica sia per distaccarsene quando i tempi lo impongano. Era l’invito a considerare l’attività pubblica non come assoluta e preminente, ma a sentirla come un impegno a tempo cosi da essere pronti a distaccarsene in vista di beni maggiori.
Se il tentativo politico risultò un utopia e non si concretizzò, ebbe più successo quello etico. Seneca offriva da una classe in crisi il modello pratico di una vita tesa alla ricerca e la proposta filosofica di una via percorribile verso la tranquillità dell’anima.
Seneca voleva fornire un esempio: egli voleva filosofare e insegnare a filosofare, ma la filosofia intesa come teoria e pratica del vivere non come ricerca astratta. Seneca semplifica la filosofia con i valori dell’etica, egli insegna ciò che mette ordine nel disordine dell’animo individuale e nella vita associata degli uomini.
Seneca cerca innanzi tutto di correggere la falsa valutazione (spinta verticale) di ciò che ritengono bene o male e eliminare le passioni che impedisce l’esercizio della ragione e la pratica della virtù.
Per intraprendere il cammino di ascesa verso la pienezza della condizione umana è necessaria una radicale trasformazione di se stessi, una vera e propria conversione; iniziando col rivolgere l’attenzione all’interno, verso noi stessi. Questa tendenza, ripresa dallo stoicismo, finisce per diventare uno stile di vita.

 

L’ambiente e la sua figura                                                              

L’individualismo di Seneca era diverso dal quello che i Romani intendevamo per otium. Quello di Seneca è la presa di coscienza che spinge un uomo ad intensificare i rapporti con se stesso, ad assumere se come oggetto di conoscenza, allo scopo di trasformarsi, di correggersi, di edificare la propria salvezza. Quello inteso dai Romani era la valorizzazione della vita privata, della sfera domestica, della famiglia e degli interessi culturali.
Questa attenzione verso se stessi porta al prendere atto della propria situazione di malato. Lo stoicismo introduce la sterra relazione tra teoria e pratica medica e il concetto di pathos che significa alterazione dello stato normale di salute. L’analogia tra etica e medicina che viene introdotta dal concetto di pathos è lo stato di passività del soggetto: per il colpo è il soggiacere passivamente a una malattia che altera il suo umore; per l’anima è la condizione passiva del lasciarsi vivere e porta alle degenerazioni del male morale. Ciò che lo rende grave è il non rendersi conto della malattia: il rimedio è quello di prenderne atto e attuare un radicale cambiamento di vita.
Il momento positivo della cura di sé è capire che il compito dell’uomo è compiere azioni da svolgere insieme agli altri (spinta orizzontale) e in favore degli altri per la rinascita di un progetto universale. Seneca usa spesso la similitudine col militare: il soldato si esercita nelle tecniche militari per perfezionarsi, ma solo se si mette a disposizione per l’inserimento in un progetto che coinvolge la legione realizza a pieno le sue potenzialità di soldato
Seneca si rivolge ai suoi contemporanei non come cittadini, ma come individui, chiamati al miglioramento di sé per far parte di un tutto. In questo modo la morale individualistica acquista un valore civile e poi universale.
Durante il periodo in cui esercitò il potere Seneca tentò con la filosofia di moderare la politica sanguinosa e agitata del suo tempo. Egli tento di addomesticare l’autocrate e rafforzare nell’elite senatoria, la coscienza della sua identità e del suo ruolo. L’umanesimo senecano rappresenta un punto fermo per la costituzione dell’umanesimo occidentale. Perfino il suo modo di morire fu uno dei più fecondi messaggi che insegnò e lascio in eredità ai suoi amici.

 

Lucano                                                                                               

Figlio di un fratello del filosofo Seneca, Lucano nacque a Cordova nel 39 ma ebbe la sua formazione a Roma. Era amico personale di Nerone e fu premiato ai Neronia le gare istituite dall’imperatore stesso. Dopo alcune opere minori perdute si dedicò alla composizione di un vasto poema epico di contenuto storico, la Pharsalia o Bellum civile, che trattava della guerra civile tra Cesare e Pompeo. Ma qualcosa lo rese antipatico al principe: forse l’invidia di Nerone oppure il poema che era animato da troppa nostalgia nei confronti dell’antica repubblica, nonostante il poema contenesse le lodi di Nerone. L’imperatore gli impose il silenzio e Lucano passò all’opposizione prendendo parte alla congiura di Pisone. Fallita la congiura fu condannato, ma Lucano si suicido nel 65.
La sua opera è un poema epico di 8000 versi in 10 libri rimasto incompiuto:

  • Libri I III: cause della guerra, passaggio del Rubicone, la fuga di Pompeo a Brindisi, l’arrivo di Cesare a Roma; il ritorno a Nord e l’assedio di Marsiglia
  • Libri IV VI: la guerra in Spagna, l’Epiro diventa il luogo dove si riunisce il senato.
  • Libri VII VIII: la battaglia di Farsalo, l’uccisione di Pompeo
  • Libri IX X: Catone riunisce le truppe, Cesare passa in Egitto, la rivolta degli alessandrini contro Cesare

L’argomento del poema è epico, ma non più mitico, l’opera non richiama l’Eneide, ma si rifà più ad Ennio o a Nevio. Lucano esclude completamente il mito e la leggenda per fare un poema esclusivamente storico. Egli mette in rilievo soprattutto la negatività dei suoi personaggi e insiste sulla dissoluzione dei valori della grande Roma come la virtus o la pietas.
Ai tempi di Lucano era difficile fare un poema epico senza fare i conti con l’ombra di Virgilio. Anche per il fatto che la politica di Nerone era anticlassicistica era un problema un emulazione dell’Eneide. La novità introdotta da Lucano è il rapporto che egli instaura con il modello a cui si ispira, un rapporto conflittuale che dalla critica della forma (ah pure qua!!! e Mobbasta veramente però) lo porta in collisione con l’ideologia dell’Eneide. Perciò il poema lucano è diverso all’Eneide per 3 punti: il contenuto, lo stile e l’ideologia.
Lucano opera su fonti storiche affidabili, ma non è un opera scientificamente precisa, perché la storiografia romana è ricca di elementi retorici, discorsi inventati o digressioni.
Lo stile di lucano è anticlassico: uno stile dominato dall’eccesso e dal paradosso, dalla ricerca di frasi rotte e incisive, dallo sforzo di caratterizzare i particolari, di attirare l’attenzione su ogni elemento del discorso. Di Lucano ricordiamo il gusto per il macabro e l’orrido, gusto comune dell’epoca, monto in contrasto con Virgilio.
L’ideologia del libro è dominata da un cupo pessimismo. L’opera è percorsa da una volontà di cogliere i sengi della dissoluzione (anche questo in netto contrasto con Virgilio). Lucano inquadra il suo poema su una base ideologica stoica. Il sapiente è impegnato in un’opera di demistificazione ovvero è concentrato nel vedere la rovina del popolo romano a causa della dissoluzione dei propri valori.

 

Petronio            

                                                                                 

L’autore del Satyricon è una figura misteriosa: il testo del romanzo ce lo identifica come Petronius Arbiter.
In età umanistica fu avanzata l’ipotesi che esso sia Caio Petronio, un eccentrico personaggio esponente della corte neroniana. Secondo Tacito esso sarebbe stato proconsole in Bitinia e in seguito console: tornato a Roma sarebbe entrato nell’entourage dell’imperatore. Egli fu accusato da Tigellino di aver partecipato alla congiura di Pisone. Egli cadde in disgrazia e si suicidò trascorrendo le ultime ore di vita conversando e recitando carmi. Secondo altri studiosi il Satyricon sarebbe datato dopo il II secolo.
A favore della prima ipotesi vi è l’analogia tra la fisionomia morale dell’autore con la descrizione di Tacito e inoltre l’aggettivo arbiter, viene dato sia da Tacito e appare anche nel libro.
Il titolo è stato tramandato sotto forma di Satyricon o di Saturae. Esso può essere inteso come libri satirici o avventure di satiri, ma le due interpretazioni si integrano indicando un’opera comico-satirica di contenuto licenzioso. Esso è una narrazione mista di prosa e versi: ci sono giunti a noi solo i libri XIV XV XVI perciò risulta difficile comprendere la conclusione e gli antefatti del testo originale. Ha contribuito alla perdita dell’opera la censura contro questo argomento licenzioso e gli ambienti realistici e degradati.
Il protagonista è Encolpio che è affiancato dall’amante Gitone e dall’amico Asclito; nel passato di Ecolopio si colloca una grave violazione verso la divinità fallica Priapo da cui è perseguitato; la vicenda si divide in 5 fasi:

  1. Nel litorale campano i tre profanano una cerimonia del dio Priapo e la sua sacerdotessa Quartilla li costringe a sevizie erotiche fino alla loro fuga
  2. Comprende la Cena Trimalchionis, il banchetto offerto dal ricco liberto Trimalchione che culmina con la lettura del suo stravagante testamento.
  3. Encolpio disperato perché Gitone ha seguito Asclito stringe amicizia con Eumolpo un poetastro. I due ritrovano Gitone e fuggono da Ascolito via mare.
  4. Essi si trovano sulla nave di Lica e della sua compagna Trifena con cui il protagonista ha avuto in passato burrascose relazioni. I tre sono salvati da un nubifragio che uccide Lica prima che si possa vendicare.
  5. I tre si recano a Crotone, abitata da cacciatori di eredità. Encolpio intreccia una relazione con Circe, ma il dio Priapo lo rende impotente e solo dopo varie peripezie egli riacquista la virilità. Eumolpo si ammala e stende un bizzarro testamento: solo chi si ciberà del suo cadavere diventerà suo erede, ma gli abitanti di Crotone sono pronti a diventare cannibali.

La narrazione è costruita intorno a due centri narrativi, la prima parte in Italia Meridionale e la seconda a Crotone intervallati dalla Cena. Troviamo inserti in versi recitati da Eumolpo e 5 novelle inserite secondo la tecnica della cornice. La sua forma è diversa dal romanzo moderno; troviamo in esso spunti di satira senza esplicite condanne etiche, ma solo con grande realismo nella descrizione della realtà; inoltre esso si ispira alla fabula Milesia.

 

Il romanzo e la fabula Milesia                                                         

Il romanzo e la novella erano molto rari nel mondo classico. Essi erano confinati nell’ambito del genere misto nato dalla confluenza di diverse tradizioni letterarie. Il gusto del narrare fu assai vivo nell’antichità, in primo luogo come patrimonio folkloristico della cultura orale; infatti vi erano molti narratori pubblici o inventori di facezie a pagamento: le fabellae. La narrativa penetrò gradualmente in digressioni inserite nell’ambito di alcuni generi maggiori: Le metamorfosi di Ovidio, i brani di Plinio il vecchio o il giovane e nella favolistica esopica. Questo genere si sviluppò con fatica come genere autonomo, soprattutto perché il suo intento di intrattenimento e la sua realtà fittizia incontrava la diffidenza dei letterati professionisti. Le condizioni per la fioritura della novella ci furono prima nella Grecia ellenistica, poi nella Roma imperiale. Vennero rivisti infatti i maggiori generi tradizionali, come l’epica, per offrire ad una cerchia di pubblico maggiore testi di amore e di avventura, comunque ancorati ad una realtà terrena e umana. Lo sviluppo della novella greca si colloca nella Ionia tra il II e il I secolo a.C. graie all opera dio Aristide di Mileto Storie Milesie. Questi testi derivano dalla novellistica orale: hanno il narratore interno alla narrazione che racconta in prima persona e riferisce a se i fatti narrati per conferire loro grande credibilità. Esse sono novelle licenziose incentrate sui temi dell’amore, del sesso e della beffa, con un linguaggio realistico e a tratti volgare. Nel mondo Latino ricordiamo Cornelio Sisenna che tradusse le fabule milesiane ebbe una grande foruna. Tuttavia di queste opere non ci è giunto nulla.
La forma più diffusa del romanzo greco è quella del romanzo erotico dove l’amore appare fortemente idealizzato: i protagonisti, una coppia di innamorati, vengono separati dal caso avverso e sono costretti ad affrontare una serie di peripezie per ricongiungersi col lieto fine. L’amore greco è caratterizzato da serietà di intenti e si presenta come un amore casto. Scarsa risulta l’indagine psicologica e i personaggi appaiono stereotipati. Resta il fatto che questo romanzo greco presenta molte analogie col romanzo moderno d’amore.

 

Petronio (2° parte)                                                                           

L’autore del Satyricon vuole parodiare altri generi letterari. Alcuni studiosi pensano che sia una parodia dei romanzi erotici greci con al posto della coppia di sposi seri e casti, una coppa omosessuale infedele. Altri pensano che sia una parodia dell’Odissea perché troviamo elementi simili come il viaggio, l’ira del Dio o il naufragio.
L’opera è un voluto incrocio di generi che ha come scopo il piacere di narrare: il Satyricon rivela la sua modernità di opera aperta con intenti esclusivamente letterari. Nella parte finale l’autore inserisce un breve epigramma in risposta alle accuse di oscenità; egli interrompe la narrazione per rivolgersi direttamente al lettore, dove afferma l’intento realistico della propria arte e afferma di riprodurre la quotidianità con linguaggio schietto e senza moralismi. L’autore è comunque consapevole della modernità dell’opera. Petronio non poteva compiere un indagine criticamente fondata della società e dell’economia, perché la separazione degli stili imponeva di scrivere in modo caricaturale e grottesco le situazioni “basse”. Il suo è un realismo del distacco: egli si pone nei confronti della realtà in un atteggiamento di sospensione del giudizio.
Il romanzo rivela una lieve nostalgia del passato che appare irrecuperabile; Petronio inserisce nel testo comico e caricaturale un contenuto dotato di una sua serietà di intenti.
Il filosofia Nietzsche che era un estimatore dell’opera notò che il ritmo del romanzo fosse estremamente incalzante. Infatti il tempo della narrazione è rapido, ma l’autore alterna sequenze dinamiche  ad altre più lente e riflessive.
L’autore include spazi aperti e chiusi. I personaggi tendono a considerare gli spazi chiusi come rifugi, ma si rivelano trappole da cui tocca fuggire, viaggiando negli spazi aperti. Il continuo errare di Encolpio e la sua ricerca frustrata di punti fermi rappresentano lo schema del labirinto.
Il protagonista è un eroe degradato, una persona ingenua e passiva, quasi la pedina di un caso beffardo. Il narratore interno che è incapace di dominare gli eventi risulta una grande innovazione; comunque dietro la sua voce c’è quella dell’autore che affiora col suo punto di vista ironico.
Il linguaggio varia a seconda del livello socio-culturale di che parla: il tono dominante è medio-basso, ma quando parlano personaggi colti lo stile si eleva grazie alla parodia di elementi contenuti nell’epica virgiliana o dal linguaggio filosofico senecano. Il livello dello stile si abbassa ulteriormente fino al sermo plebeius se parlano i libertiì.

 

L’età dei Flavi e Quintiliano
                                                                                                             
Dopo la morte di Nerone ci fu un anno di guerre civile con il rapido succedersi di quattro imperatori (Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano) alla guida di eserciti lanciati in cruente battaglie che dimostrò l’importanza dell’elemento militare e anche che la nobiltà senatoria non avrebbe mai più recuperato il prestigio perduto: Il tentativo di riacquistare l’anticha libertas si infranse di fronte alle sollevazioni delle legioni che di volta in volta marciavano su Roma imponendo il proprio generale.
Vespasiano per prima cosa pensò a stabilizzare il principato, eliminando l’equivoco del mantenimento di una facciata repubblicana: la lex de imperio stabiiva il potere dell’imperatore come una magistratura a vita, limitando il ruolo del senato, ma avviando una sorta di pacificazione tra le due realtà. Egli era di modeste origini legato ad una visione delle cose italica o laziale: era un uomo pratico e solido, fin nella robusta fisionomia contadina, lasciò da parte stranezze e mollezze e avviò un opera di restaurazione in tutti i settori dell’impero dall’amministrazione all’esercito, dalla vita pubblica all’edilizia.
Vespasiano era convinto di rappresentare la parte sana di Roma, quella dei municipi italici, che favorì e potenziò, immettendo nel senato cavalieri italici e soprattutto spagnoli, per modificare la composizione del senato a scapito della corrotta aristocrazia romana.
Tito fu abile nel concludere la lunga guerra Giudaica con la distruzione di Gerusalemme e nel 79 mentre era ancora prefetto del pretorio stronco una congiura contro Vespasiano.
Guinto al potere seppe meritarsi la fama di buon imperatore dimostrandosi all’altezza della situazione soccorrendo le popolazioni quando nel 79 avvenne l’eruzione del Vesuvio e fu lui ad inaugurare l’anfiteatro Flavio. Ma dopo solo due anni di regno mori improvvisamente e salì al trono il fratello Domiziano.
Domiziano gode di una pessima fama, proseguì il lavoro svolto da Vespasiano; limitò il più possibile la collaborazione del senato anche avvalendosi della censura, appoggiandosi ad un ristretto consilium principis. Fu anch’egli antiorientale e anti ellenico e dal carattere arrogante e insofferente. Una congiura di nobili e di familiari lo elimino nel 96.
Il senato depositario della tradizione di Roma, manteneva ancora un suo ruolo, ma l’istituzione dell’impero era oramai irreversibile.

Dopo l’età neroniana Vespasiano e gli altri Flavi realizzarono una restaurazione a vasto raggio.
Essi vollero la ripresa dei valori romani e italici e scelsero Quintiliano che per la sua opera fu assunto e stipendiato. Veniva riproposta la figura del vir bonus, ma venne rinnovata e conformata in modo da  corrispondere ad esigenze nuove; il funzionario di stato doveva essere formato attraverso l’educazione retorica ma doveva avere anche vasta cultura ed essere depositario dei valori civili.
Quintiliano nacque in Spagna nel 35 d.C. e si recò a studiare retorica a Roma, per poi ritornare giovane in Spagna. Nel 68 lo riportò a Roma Galba. In seguito Vespasiano lo incaricò di organizzare una scuola di retorica sovvenzionata dallo Stato, Insegno per circa 20 anni e ebbe tra i suoi allievi anche Plinio il Giovane e Tacito. Raggiunse l’apice della sua carriera sotto Domiziano che gli affidò i propri nipoti e gli conferì la dignità consolare. Ritiratosi dall’insegnamento nel 90 di dedicò a stendere la sua Institutio Oratoria. Morì nel 96.
Della sua vasta produzione sono andate perdute le Orazioni e il trattato De causis corruptae eloquentiae, dove a differenza di Seneca egli individua le cause della decadenza dell’oratoria non nelle mutate condizioni politiche, ma nell’abbandono dei modelli del passato. A Roma lo studio della retorica non è strato mai pura preparazione all’attività forense, ma soprattutto formazione di quello che noi chiamiamo l’uomo di cultura. L’abilità retorica era importante per le classi alte destinate alla vita politica. Come Cicerone egli pensa che la retorica possa formare l’uomo retto esperto nell’arte del dire che è lui che mette la sua abilità tecnica al servizio dei cittadini. Il ritorno a Cicerone è un punto di incontro tra ordine e disciplina di stile e la richiesta di ordine e disciplina necessari alla restaurazione flaviana: Cicerone diventa un grande modello che va imitato come oratore e come intellettuale. Per Quintiliano lo stile ordinato è un’abitudine al pensare ordinato e va acquisito sin dalla prima età, infatti Quintiliano si prende cura del futuro oratore quando è ancora in fasce: di qui la preoccupazione pedagogica. La parte più corposa dell’opera è riservata ai problemi tecnici della complessa formazione retorica. A differenza di Cicerone, che nella formazione dell’oratore aveva valorizzato la pratica filosofica, Quintiliano è interessato all’apporto della letteratura che attraverso l’imitazione insegna a riprodurre i grandi modelli stilistici. Egli valuta gli autori passati in base alla loro utilità nella formazione retorica. L’opera è divisa in dodici libri e influenzò le concezioni pedagogiche dell’età rinascimentale.

 

Tacito
                                                                                                             
Tacito nacque nella Gallia Narbonese tra il 55 e il 58 a.C.. Frequentò a Roma la scuola di oratoria e inizio la carriera politica sotto Vespasiano e Tito, giungendo ai vertici con Domiziano. Questore tra l’80 e l’82, tribuno della plebe nell’85, membro del collegio sacerdotale nell’88, fu allontanato da Roma fino al 93 e poi fu console suffectus (per la seconda parte dell’anno) nel 97.
Tacito compose l’Agricola, Germania, Historiae e Annales, ma non trascurò l’attività di oratore sostenendo l’accusa di malversazione contro il proconsole d’Asia Prisco. Morì nel 117 d.C..
Agricola, è un opera composta nel 97 dedicata al suocero, morto nel 93. Germania, è un opera etnografica composta nell’98 quando Traiano si trovava sul fronte germanico; comunque dall’opera emerge anche un significato politico, in quanto presentava un popolo che costituiva un pericolo per l’impero.
Con le sue 2 opere storiche, Tacito ci ha lasciato una narrazione del principato che va dalla morte di Augusto nel 14 d.C. fino alla morte di Domiziano nel 96:

  • Annales: dalla morte di Augusto a quella di Nerone;
  • Historiae: dagli avvenimenti del 69 fino alla morte di Domiziano.

Il Dialogus de oratoribus, è uno scritto che si inserisce nella tradizione del dialogo ciceroniano e si riferisce ad una discussione, a cui Tacito aveva assistito, tra 4 oratori dell’epoca; Tacito non esprime il suo punto di vista, ma sembra essere d’accordo con le opinioni di uno di loro, Curiazio Materno, il quale dice che il riconoscimento della necessità del principato, non esclude la fiducia nel recupero dell’eloquenza repubblicana.
Tacito, sostiene che lo storico non si avvale della filosofia, ma indaga in modo autonomo sul comportamento umano, in una prospettiva politica. Inoltre Tacito esclude un intervento divino negli avvenimenti umani, di cui reputa responsabili gli uomini stessi.
Tacito sostiene che in occasione della fine della repubblica, ci fu un ingiusta cessione della libertà in cambio di una misera pace, tuttavia Tacito è convinto dell’importanza dell’impero e non nutre rimpianti per la repubblica. Forse è proprio questo pessimismo, che ha impedito a Tacito di descrivere l’epoca di Traiano, come un periodo felice.
La distinzione tra morale e politica, non risparmia nemmeno il senato, per nulla riscattata dalle gesta dei suoi oppositori, che sacrificarono la loro vita senza alcun vantaggio per la comunità. Forse fu proprio un senso di colpa condiviso con il senato, ad indurre Tacito a scrutare a fondo una storia che riguardava la sua esperienza personale.
La lettura dell’Agricola, con i ritratti contrapposti di Domiziano e Agricola, sembrerebbero smentire le dichiarazioni di imparzialità fatte da Tacito; anche se comunque la parzialità, non è una ragione sufficiente per mettere in discussione la sincerità della sua ricerca.
Il metodo pragmatico, consisteva nella conoscenza obiettiva degli eventi attraverso la ricostruzione delle loro cause. Sul modello di Tucidide, Tacito era molto interessato all’aspetto politico, riguardante lo scontro tra senato e principe, mentre dava poca importanza all’aspetto militare, prediletto invece da Polibio.

 

Tacito (2° parte)
                                                                                                             
Il punto di vista di tacito collima con quello del senato, l’organo di governo avverso al principato e ostile a Domiziano. Per tacito dunque la libertas era la libertà del senato perché la libertà repubblicana non era più possibile e nemmeno auspicabile. In tacito l’attenzione si concentra prevalentemente sui personaggi piuttosto che sui movimenti politici della loro azione: il suo moralismo si estendeva però anche alla considerazione dei comportamenti di massa, che era il passaggio sul piano collettivo delle opposte categorie della virtù e del vizio. E’ di chiara impronta ellenistica la concezione della storia come uno spazio drammatico come una scena sulla quale si svolge la tragedia del potere. Ai vari ritratti psicologici, a volte esasperati, sottostà comunque una storicità reale.
Stretta mente connesso con  il moralismo è il pessimismo di Tacito: il suo pessimismo non risparmia ne uomini ne popoli: gli atti del principe sono dovuti solo alla smania di potere e anche le gesta degli altri uomini hanno come scopo l’acquistare la benevolenza del tiranno. Tacito non concede eccezioni neppure a se stesso afflitto dal senso di colpa per aver dovuto assistere impotente all’assedio del senato e alla strage di tanti innocenti. Il suo modo di vedere la realtà era influenzato da Tucidide che lo portava a vedere la storia come una sorta di patologia provocata dalla smania di dominare e dalla storiografia ellenistica che lo spingeva a vedere ovunque foschi quadri di immoralità.
Le fonti di Tacito sono gli atti ufficiali del senato e gli autori del I secolo . La storiografia tacitiana utilizza le fonti al fine di ricavare una documentazione politica ma ha prevalentemente obiettivi morali e drammatici.
I particolari di tipo psicologico, narrativo possono essere recuperati dalla storiografia per delineare il quadro complessivo della vicenda. Si potrebbe concludere dicendo che la tendenziosità tacitiana non ne pregiudica l’attendibilità generale.
Lo stile nell’Agricola non è ancora stabile e omogeneo, perché soggetto all’influsso di vari modelli. Le angosciose tensioni insite negli avvenimenti si traducono in conflitti stilistici. Quando scriveva l’Agricola Tacito credeva nell’equilibrio tra principato e libertà: questa contrapposizione trova espressioni di elevato tenore oratorio nel proemio. Le parti storiche presentano invece una concisione che è frutto di precise ragioni strutturali. Si può osservare che le figure di sintassi e di pensiero prevalgono su quelle di suono. Due diversi aspetti del lessico tacitiano sono importanti: il lessico della paura che rispecchia il rapporto tra principe e sudditi nel principato e il tema della modestia che è l’unica virtù che il saggio può opporre al tiranno. Altro aspetto molto importante è la già citata attenzione verso la psicologia dei personaggi.
Nelle Historiae e negli Annales è evidente una prosa asimmetrica. Gli elementi più vistosi sono la variatio, il cambio di costrutto e l’inconcinnitas, l’asimmetria. Inoltre la brevitas ottenuta attraverso l’ellisse di nomi pronomi e verbi conferisce alla prosa un andamento che non è mai scontato e ricava un incremento di gravità e dignità dal registro lessicale elevato con immissione di termini e costrutti poetici.
La sua esperienza di vita sotto gli imperatori fu talmente ampia e varia da creare i presupposti perchè egli divenisse lo storico più prestigioso di quest’epoca complessa della storia romana, ritratta con impietoso realismo senza alcuna idealizzazione.
La sua opera è un grande affresco della realtà storica romana e una vasta galleria di personaggi dalla grande concretezza. Questa intensa rappresentazione storica scaturisce da una sincera apprensione per le precarie condizioni dell’impero. Le problematiche legate alla realtà socio-politica romana portano Tacito a un’interpretazione della storia che trova il suo fondamento essenziale nella moralità dell’agire. Perciò quando la sua voce si leva contro i vizi e le ingiustizie tuona contro il malcostume dei principi che li rende indegni di occupare i vertici dello stato. La sua critica sarebbe stata sterile se non avesse dimostrato che esano vissuti uomini capaci di comportasi in modo virtuoso liberi dalla schiavitù e dalle lusinghe del potere.

 

Plinio il giovane
                                                                                                             
Plinio il giovane nacque a Como nel 61-62 d.C. da una famiglia facoltosa. Rimasto orfano di padre in tenera età fu adottato dallo zio materno Plinio il vecchio che lo fece istruire in Roma alla scuola retorica di Quintiliano e a quella del retore asiano si Smirne Niceta Sacerdote. Era un ammiratore dell’arte classica e dalle prosa ciceroniana e dell’espressione elegante. Dallo zio apprese i valori più importanti come l’attaccamento allo studio e il senso del dovere. Fu oratore di successo e percorse tutte le tappe della carriera pubblica sotto Domiziano fino a diventare senatore. La sua carriera fu favorita dalla solida posizione economica e dalla protezione di amici potenti e sotto Traiano divenne prefetto dell’erario di Saturo e infine governatore in Bitinia dal 111 al 113 anno della suo morte.
L’epistolario rappresenta la sua opera maggiore e comprende 9 libri per un totale di 247 lettere scritte tra il 96 e il 109. Egli segue un sommario ordine cronologico nella pubblicazione, ma per il resto l’ordine sembra casuale. Le lettere sono state concepite in vista della pubblicazione ma non hanno un carattere artificialmente letterario e anche se hanno subito alcuni ritocchi formali mantengono la loro spontaneità originale. Rispecchiano una vasta gamma di situazioni raggruppabili secondo tre tipi:

  • Occasioni pratiche: raccomandazioni, invio di notizie ecc.
  • Ragioni sociali: lettere di invito, risposte di cortesia ecc.
  • Ragioni di documentazione storica o di volontà descrittiva: appartiene a questo tipo la sua lettera più famosa ovvero l’elogio dello zio Plinio.

Ai nove libri ne venne aggiunto un altro pubblicato postumo da Traiano che contiene il suo carteggio con l’imperatore: questo decimo libro può essere concepito come un manuale di corretta amministrazione e le lettere hanno uno stile burocratico. Sono molto importanti le epistole sulla questione legislativa e politica dei cristiani.
Il panegirico a Traiano è l’unica orazione di Plinio a noi giunta e rappresenta il discorso di ringraziamento che il console doveva pronunciare al momento dell’entrata in carica dell’imperatore. Il discorso fu ampliato e rielaborato e pubblicato. Non ci sono giunte le altre orazioni e le composizioni poetiche con le quali ottenne il successo.
L’epistolario di Plinio risente in modo particolare della situazione storica: la sua vita si svolge a cavallo di due imperi. Plinio è fra i primi ad assumere una posizione a favore di Traiano prendendo le distanze da Domiziano. Oltre ad elogiarlo nel panegirico Plinio collaborò direttamente alla repressione di episodi di malgoverno di Traiano. Plinio si procurò cosi una competenza amministrativa e quando lì imperatore fu costretto a consolidare la presenza in Bitinia prima della guerra contro i parti scelse Plinio come governatore. 
Plinio praticava un intensa vita di relazione dividendosi tra Roma e la natia Como. Aveva una solida posizione economica che gli consentì di elargire aiuti e fece opere di munificenza con le quali contribuì all’abbellimento della sua città guadagnandosi la fiducia dei suoi concittadini.
Il suo sistema di pensiero si traduce tutto nella morale pratica delle scelte quotidiane. La sua mentalità è quella tipica del funzionario, anche se nella lontana Bitinia deve ricorrere a Traiano per non incorrere nell’illecito amministrativo. Si rivelò comunque un uomo competente nella sua amministrazione. Soprattutto nell’ambito educativo di prodiga generosamente a favore di iniziative meritorie. A Como molti cittadini si rivolgevano a lui per delle raccomandazioni e lui rispondeva a tutti con umanità e ricchezza morale. I tratti di umana debolezza di cui da prova attraverso i suoi scritti sono da addebitare in pari misura all’uomo e alla mentalità corrente.
Le scelte stilistiche risentono della realtà dell’epistolario, frutto di una rielaborazione formale sovrapposta a un fondo di corrispondenza reale e spontanea. Il tono medio della lettera prevede un esposizione breve e chiara. L’espressione è dunque breve e colloquiale, tende alla brevità senza sacrificare le sfumature. Anche dove il discorso approda a ripensamenti sentenziosi, Plinio evita di assumere i toni del moralista e cerca sempre un intesa con il lettore manifestando quelle doti di urbanità e di eleganza naturale che trasmettono una carica di umana simpatia. Nonostante ciò il suo stile sfrutta l’educazione retorica pienamente posseduta. Lo stile del carteggio con Traiano è sia tecnico che familiare e possiamo vedere la bravura di Plinio nell’adattare il tono alla situazione e all’interlocutore.
Plinio non fu un pensatore originale tuttavia il suo epistolario offre uno spaccato della società del tempo e aiuta a comprendere la mentalità dell’uomo comune. La lettura di Plinio ci avvicina anche alla fisionomia del galantuomo che lui stesso era.
Un primo gruppo di lettere riguarda le ville di Plinio e gli annessi giardini. C’è inoltre da osservare che nelle ville descritte da Plinio il lusso e l’abbondanza si coniugano con l’attaccamento all’antica semplicità contadina. Plinio gestisce come investimento economico e produttivo anche le proprietà destinate allo svago. Le sue ville sono infatti collegate con grandi aziende agricole nelle quali trovano impiego coloni e lavoranti. Dall’epistolario però emergono anche ritratti di personaggi come il cafone. Ma di frequente il protagonista è l’autore stesso.
Nell’epistola IX 7 Plinio descrive le due ville a lui più care. Nelle sue descrizioni non fornisce quadri completi, ma procede per notazioni separate, insistendo sugli aspetti che di volta in volta gli stanno a cuore.
Nell’epistola V 6 ci descrive la sua villa in Toscana: egli descrive il tipo di vita che conduce in questa villa dove ama soggiornare nelle giornate estive; egli si dedica soprattutto allo studio: il momento della scrittura è delegato al segretario, mentre a Plinio è riservata l’attività creativa. L’immagine della villa e della campagna è relegata sullo sfondo della lettera, dimostrando che Plinio vi si rifugia come in luogo di piacere ma con la mente rivolta alla composizione di orazioni.
Nell’epistola II 6 Plinio descrive la cena a casa di un cafone che distribuisce in modo graduato i cibi e il vino in base alla rispettabilità sociale degli ospiti. Invece Plinio ammette tutti alla sua tavola, anche i liberti, e riesce a contenere le spese perché lui si adegua al cibo degli altri. Plinio ha tanta umiltà.

 

Persio
                                                                                                             
Le satire di Persio manifestano un rifiuto che parte dalla letteratura contemporanea per abbracciare la società stessa che può nutrire i poeti dediti alla sola adulazione. Il suo punto di vista è quello di un giovane aristocratico, eppure avverte il disagio di vivere in una società corrotta e contro questo ambiente grida il suo sarcasmo che è uno sfogo fisiologico automatico più che una forma di protesta sociale.
La sua vita si svolse tra il 34 e il 62 d.C. tra la fine del principato di Tiberio e l’impero di Nerone. Il poeta apparteneva ad una famiglia etrusca imparentata con l’alta nobiltà romana. Rimasto orfano di padre a sei anni passò presto a Roma dove aveva studiato presso i maestri più insigni. Non meraviglia una certa freddezza nei confronti di Seneca che doveva sembrare l’uomo del compromesso a questo giovane intransigente nutrito di stoicismo cosi rigoroso. Apprezzato dai contemporanei nonostante l’oscurità e asprezza dei suoi testi, fu amato anche dai medievali per la sua intransigenza morale ma fu ridimensionato dalla critica moderna. Alla realtà che descrive il poeta non seppe opporre che il rimedio della filosofia stoica come unica guida verso la saggezza. Ma la funzione terapeutica della sua satira non riuscì a superare il livello della denuncia. Persio scrisse 6 satire per un totale di 650 esametri precedute da un carme programmatico. I contenuti delle satire sono:

  1. Contro i poeti del tempo che non hanno nulla da dire e mirano solo ad ottenere facili consensi
  2. Tratta della preghiera e del sentimento religioso che devono essere puri
  3. Colpisce la cattiva educazione che alleva giovani schiavi delle passioni
  4. Illustra il precetto delfico “conosci te stesso”
  5. Ringraziamento al maestro, il filosofo Cornuto
  6. Diretta a Cesio Basso, verte sull’uso delle ricchezze nelle quali bisogna mantenere il giusto mezzo

Lo stile propone un impasto di parole comuni e costrutti energici. L’audacia delle sue parole induce il lettore a chiedersi se sia di fronte a un’oscurità gratuita o finalizzata a un preciso effetto d’arte.

 

Marziale

La differenza tra la satira e l’epigramma di Marziale sta nel fatto che mentre nella prima la presentazione di un comportamento va di pari passo con il giudizio morale, nell’epigramma l’interesse di Marziale è esclusivamente realistico e dà luogo a una rappresentazione soprattutto comica della realtà che di norma prescinde dalla valutazione morale del comportamento.
Nato a Bilbilis in spagna nel 40 d.C. Marco Valerio Marziale si trasferì a Roma nel 64 per sfruttare il suo alto livello di istruzione. Godè per breve tempo dei favori di Seneca e nel 65 cadde in disgrazia a seguito della congiura di Pisone contro Nerone. Strinse amicizie importanti con Giovenale e Quintiliano ma non trovò la ricchezza sperata e dovette adattarsi a vivere alla meglio come cliente. La protesta sociale di Marziale è concepita su misura dei ceti medi e si limita ad auspicare una vita meno condizionata dall’esteriorità.
L’inaugurazione del Colosseo gli diede l’occasione per pubblicare un primo libri di epigrammi, il Liber de spectaculis, che descrive i giochi e gli spettacoli tenutisi durante la manifestazione. In cambio ottenne da Tito lo ius trium liberorum (i privilegi e l’immunità concessi ai padri di tre figli nonostante non li avesse), una casa a Nomentum e una in città.
Sotto Domiziano scrisse tra l’84 e 85 i due libri Xenia e Apophoreta che significano, carmi per accompagnare Doni e carmi per doni ottenuti a sorteggio. Tra l’86 e il 96 pubblicò 11 libri di epigrammi con cadenza annuale e un dodicesimo libro nel 101.
Il poeta era insoddisfatto dell’ambiente di Roma. Benchè avesse stretto amicizie importanti era frastornato dalla vita della capitale e si traferì prima ad Imola, poi tornò a Bilbilis grazie all’aiuto di Plinio il giovane e di una sua ammiratrice, Marcella, che gli fece omaggio di una casa. Marziale vedeva così realizzato il suo sogno di un ritorno alla terra e alla natura; si spense nel 104.
Marziale compose 12 libri composti da 1200 epigrammi: il metro è prevalentemente il distico elegiaco.
Possiamo trovare due filoni fondamentali: l’epigramma comico-realistico che colpisce i vizi umani delineando un quadro caricaturale della società e gli epigrammi funerei o celebrativi dove prevale la dimensione lirica. In ogni caso il protagonista è sempre l’uomo e ci guida in un mondo fatto di cose quotidiane. Grazie a Marziale noi conosciamo le abitudini dell’umanità del tempo.
Nello schema tipico dell’epigramma di Marziale si distingue: una prima parte descrittiva o narrativa che presenta la situazione e una battuta finale inattesa che condensa il succo del testo. Troviamo sempre un numero ristretto di versi e una molteplicità di soluzioni stilistiche, ma sempre nel rispetto della tradizione dell’eleganza formale. Inoltre ci sono espressioni di lingua popolare e termini realistici e osceni.
In Marziale la campagna continua ad essere il luogo ideale, egli salda l’opposizione tra i due ambienti a quella tra ricchezza e povertà. Il ricco, sistemato in lussuose dimore di campagna, sta bene anche in città; il povero sta male in città e vuole andare a vivere in campagna. Infatti il fastidio della confusione cittadina e le umiliazioni della vita da cliente avevano indotto Marziale a lasciare Roma. Nell’epigramma X 47 Marziale passa in rassegna uno dopo l’altro gli ingredienti che portano alla felicità nella vita di campagna.
Dopo che Marziale riesce a tornare alla sua città natia Bilbilis Marziale non trovò la serenità agognata: le beghe di paese e la nostalgia di Roma colmarono di amarezza i suoi ultimi anni di vita.
Il disagio della vita da cliente si concretizza in due elementi distinti, ma legati: la modestia della paga e l’obbligo di indossare la toga che era scomoda sia per la scarsa praticità sia perché era divenuta una specie di divisa per identificare il cliente. Inoltre con la misera paga che riceveva Marziale era costretto a tenersi la sua toga usurata e non poteva comprarne una nuova.
Le altre componenti della deprimente vita da cliente erano, il fastidio dei colleghi, il confronto con i facili guadagni dei divi popolari e l’umiliazione che lui stesso subiva.

 

Giovenale
                                                                                                                                        
Nelle satire di Giovenale alla denuncia si aggiunge una vibrata protesta sociale. Essa consiste nel ribaltare il cliché della diatriba stoico-cinica contemptus divitiarum ovvero il disprezzo della ricchezza e nel mostrare come la povertà non sia affatto un bene, ma sia un male. Gli autori latini come Seneca vedevano nella ricchezza e nel potere solo dei beni esteriori, indifferenti in vista del conseguimento della felicità. Sono invece in grado di assicurare la felicità i beni duraturi, come la virtù, il sapersi accontentare di poco. Queste idee erano state diffuse dalla diatriba stoico-cinica, un movimento cresciuto in età ellenistica sulla predicazione dei cinici e ripreso dagli stoici che si riproponeva di rovesciare i falsi valori accreditati dal progresso umano. A Roma questo serviva a salvaguardare un assetto sociale, facendo in modo che chi possedeva poco o nulla non provasse invidia per il ricco e non concepisse progetti di concepimento.
Il motivo del disprezzo della ricchezza mirava soprattutto ad assicurare la tranquillità dell’animo. Tuttavia era diverso che a predicare il disprezzo per la ricchezza fosse il ricchissimo Seneca, rispetto ai filosofi cinici che vivevano in povertà.
In Giovenale la ricchezza è il tema fondamentale da cui parte la protesta; il ricco viene associato a qualche attività indecoroso o delittuosa. Dietro ogni patrimonio c’è un delitto o una colpa nonostante i quali il ricco si gode il suo benessere per nulla afflitto da vergogna o rimorso.
Nella tradizione della satira la figura dell’avaro è commiserata come una sorta di carnefice di se stesso a causa delle privazioni a cui si sottopone per accumulare ricchezza. Anche Giovenale compatisce le follie di questo avaro, ma il tipo di avaro contro cui si scaglia è quello che fa economia solo a spese degli altri, pur concedendo tutto a se stesso.
Si sarebbe portati a pensare che la denuncia di Giovenale, sia portatrice di un messaggio di rinnovamento, ma la sua protesta sociale si arresta al momento della denuncia o al più proietta qualche sogno in un passato idealizzato nel quale le disuguaglianze erano più tenue.
La critica suole distinguere il Giovenale indignato delle satire I-IX e XI dal Giovenale definito democriteo della satira X in quanto è privo di indignazione, anzi è vicino all’indifferenza di Democrito che era solito ridere dei vizi degli uomini. E’ difficile individuare le ragioni di questo cambiamento: c’è chi ha visto un apertura ottimistica in concomitanza con l’avvento al trono di Adriano e chi ha riconosciuto un atteggiamento di rassegnazione. Probabilmente Giovenale ha assunto un atteggiamento di composta ironia.
La nascita di Giovenale è collocata tra il 55 e il 60 ad Aquino, dove il giovane avrebbe esercitato l’attività di declamatore coltivando la produzione satirica solo in età matura. E’ invece scarsamente attendibile la notizia di un esilio in Egitto, al quale Giovenale oramai ottantenne sarebbe stato condannato per aver offeso un favorito di Adriano. Giovenale morì dopo il 127.
E’ ignota l’esatta cronologia delle 16 satire che si possono collocare tra il 90 e il 127. Sono divise in 5 libri:

  1. In polemica con le declamazioni da salotto
  2. Contro l’ipocrisia e l’omosessualità
  3. Addio del poeta all’amico Umbricio
  4. Racconta del consiglio imperiale convocato da Domiziano per decidere come cucinare un gigantesco pesce che non entrava nelle pentole
  5. Descrive la cena in cui un patrono umilia il cliente facendogli servire cibi di pessima qualità. Oggetto della satira è sia la malvagità del patrono che la scarsa dignità del cliente
  6. Contro le donne
  7. Illustra le misere condizioni degli intellettuali
  8. Critica la nobiltà di nascita che è un falso valore
  9. Critica ancora una volta la miseria dei clienti
  10. La formula mens sana in corpore sana condensa quanto gli uomini possono legittimamente chiedere agli dei
  11. Descrive il contrasto tra ricchezza e povertà
  12. Il poeta offre un sacrificio per il ritorno di un amico
  13. Consola un amico che è stato truffato da un imbroglione dissuadendolo dai propositi di vendetta
  14. I vizi della società nascono all’interno della famiglia
  15. Polemica contro il fanatismo
  16. Sui privilegi della vita militare

Dal punto di vista stilistico Giovenale sfrutta appieno la mescolanza dei livelli espressivi che era consentita alla satira. Giovenale combina i toni retorici della declamazione con i termini colloquiali della vita quotidiana anche se la satira di Giovenale registra un innalzamento di stile rispetto alla tradizione del genere. Lo stile elevato si giustifica con la volontà di inviare un messaggio solenne che incida la coscienza tramite il pathos della denuncia. Giovenale inserisce i nessi concisi e le espressioni proverbiali.

 

 

Autore: Federico Ferranti

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