Lucio Anneo Seneca vita opere biografia

 


 

Lucio Anneo Seneca vita opere biografia

 

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Lucio Anneo Seneca, figlio di Seneca il retore autore delle Controversiae e Suasoriae, nacque a Cordova in Spagna intorno al 4 a.C. Per influsso dei suoi maestri di filosofia, Papirio Fabiano e Sozione, praticò il vegetarianesimo che poi abbandonò per volontà paterna e perché Tiberio considerava l'astensione dalle carni una prova di adesione ai culti stranieri che aveva bandito. Di salute cagionevole, trascorse qualche tempo in Egitto ospite della zia, moglie del prefetto di quella regione. Ritornò quindi a Roma e si dedicò alla carriera forense dimostrando un'attitudine tale all'oratoria che Caligola geloso di lui lo avrebbe eliminato se non fosse intervenuta a salvarlo una favorita dell'imperatore dichiarando che, date le precarie condizioni di salute, Seneca sarebbe morto entro breve tempo senza che vi fosse bisogno di metterlo a morte. Ma in seguito rimase coinvolto in uno scandalo di corte: nel 41 Claudio, istigato dalla moglie Messalina invidiosa del fascino di Giulia Livilla (sorella di Caligola e nipote dello stesso Claudio), esiliò in Corsica Seneca perché sospetto di aver favorito o addirittura di aver commesso adulterio con la bella figlia di Germanico.  Solo nel 49 Seneca poté tornare a Roma, chiamato dalla seconda moglie di Claudio, Agrippina (anch'essa figlia di Germanico e quindi nipote di Claudio): costei voleva che il filosofo fosse il precettore del figlio Domizio Claudio avuto da un precedente matrimonio e fatto da lei adottare al nuovo marito con il nome di  Nerone; fece pure in modo che il giovane potesse essere designato successore dell'imperatore favorendone il matrimonio con Ottavia figlia di primo letto di Claudio. Alla morte  per avvelenamento del padre adottivo (54), Nerone assunse il potere imperiale che conservò fino al 68. I primi anni di regno furono ribattezzati il "quinquennio d'oro" perché Nerone, sotto la guida del prefetto del pretorio Burro e di Seneca, si mostrava rispettoso dell'autorità del Senato. Successivamente il principe, sempre più insofferente delle ingerenze materne nelle sue decisioni (non ultima quella di ripudiare Ottavia per sposare la plebea Poppea), eliminò il fratellastro Britannico, possibile rivale al trono, e la madre Agrippina, pronta a sostenere la causa del vero figlio di Claudio se Nerone avesse continuato a mostrarsi a lei avverso. Venuto a mancare anche Burro, Seneca decise nel 62 di ritirarsi dalla vita politica e di dedicarsi all'otium, cioè agli studi e alla contemplazione. Fu però coinvolto nella congiura di Pisone nel 65 (benché non sia certa la sua adesione al piano, poi sventato, per uccidere Nerone) e fu costretto a togliersi la vita: Tacito ci descrive nel libro XV, capp. 62-64 degli Annales il modo in cui si spense recidendosi le vene, assumendo un veleno e facendosi immergere in un bagno a vapore per morire  dissanguato con maggiore rapidità.
Un gruppo di 12 opere di argomento filosofico ci è pervenuto sotto il titolo di Dialogi, benché non si tratti di discussioni simili a quelle platoniche e ciceroniane fra più personaggi inseriti in una determinata cornice storica: Seneca invece si rivolge ad un interlocutore lontano o fittizio.
La Consolatio ad Marciam fu scritta probabilmente prima dell'esilio: Seneca si propone di consolare la donna per la perdita del figlioletto Metilio, ma, soprattutto, di celebrarne il padre, lo storico Cremuzio Cordo, che, perseguitato da Seiano, potente ministro di Tiberio, per aver scritto un'opera di esaltazione dei cesaricidi Bruto e Cassio e di chiara impostazione filorepubblicana, era stato costretto a darsi la morte.
Durante l'esilio scrisse la Consolatio ad Helviam matrem e la Consolatio ad Polybium: nella prima dimostra alla madre, sofferente per la sua lontananza, che l'esilio non è un male, perché un mutamento di luogo non può comunque togliere al saggio il vero e unico suo bene, la virtù, e che ovunque è la sua patria, che insomma egli è cittadino del mondo (cosmopolita); nella seconda consola il potente liberto di Claudio per la morte del fratello, spiegando che dal punto di vista razionale è inutile compiangere chi è morto perché o è ormai felice o comunque non soffre  non essendo più nulla. Dato che in quest'opera egli elogia smaccatamente Polibio e Claudio nella speranza di essere perdonato e richiamato a Roma, è stata sottolineata da alcuni studiosi la distanza fra questo dialogo e la Consolatio ad Helviam matrem: in realtà in più circostanze e persino dai suoi contemporanei il filosofo è stato accusato di incoerenza fra i principi professati e le scelte concrete di vita, ma Seneca stesso si è in certo modo difeso nel De vita beata, sostenendo di non essersi mai proposto come modello, ma di ritenersi uno dei tanti alla ricerca della virtù (" Io non parlo di me ma della virtù, e quando attacco i vizi, prima di tutto attacco i miei: quando ne sarò capace vivrò come si deve" 18, 1). In questo dialogo dedicato al fratello Gallione, Seneca dimostra che la virtù (e non il piacere esaltato dagli epicurei) è l'unica ricchezza capace di procurare la felicità: sono beati dunque coloro che sanno usare la ragione per i quali il possedere ricchezze non sarà che un modo per provare di non esserne sedotti e di essere in grado di mantenere, pur nell'agiatezza, un perfetta autonomia dai beni terreni. Indirizzato al fratello Novato è pure il De ira in 3 libri: è un vero e proprio trattato sulle sintomatologia e sulle cause scatenanti questa passione considerata dagli stoici pericolosissima perché in grado di offuscare la ragione e particolarmente deleteria per i rapporti sociali; Seneca indica i rimedi per prevenirla e per placarla così da conseguire il fine stoico della "apatia".  Nel De brevitate vitae, dedicato all'amico Paolino, il filosofo dichiara che a torto consideriamo breve il tempo assegnatoci dalla natura per l'esistenza: in realtà la vita è sufficientemente lunga per chi sa farne buon uso senza perdersi in occupazioni futili e vane, per chi insomma anziché dedicarsi, alla ricerca di beni o al perseguimento di obiettivi che non dipendono da lui, si impegna per conseguire la virtù e l'autosufficienza (autàrkeia). Perché se, come credono gli Stoici, gli dei esistono e intervengono provvidenzialmente nelle faccende umane, ai buoni occorrono talora delle disgrazie? A questa domanda postagli dall' amico Lucilio, Seneca risponde con il De providentia, in cui afferma che le sventure vanno intese come prove poste sul cammino del saggio per sperimentare e temprare la sua virtù, cioè la sua capacità di affrontare razionalmente il male. All'amico Sereno il filosofo ha dedicato il De constantia sapientis, il De tranquillitate animi e il De otio. Nel primo asserisce che, contrariamente a quanto affermava Epicuro, il saggio non tanto sopporta, ma addirittura non è colpito dall'offesa perché  il solo vero bene è la virtù e questa, risiedendo in lui, non può essergli tolta da alcuna ingiuria. Nel secondo dialogo dimostra che il modo migliore per raggiungere la serenità interiore e dunque per vincere la inquietitudine consiste nell'attività ("negotium"): occorre essere utili agli altri impegnandosi pubblicamente e anche politicamente; ma, esorta nel De otio, se le circostanze impediscono al saggio di giovare a chi lo circonda, che almeno si dedichi alla contemplazione e allo studio vivendo appartato e migliorando se stesso.  

 

Fonte: http://www.liceogrigoletti.it/docenti/doc07/files/Senecabiografiadialogi.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

Le tragedie di Seneca
Quelle di Seneca sono le sole tragedie latine a noi pervenute integre, in forma non frammentaria.

Verosimilmente erano destinate non tanto (o non solo) alle rappresentazioni, quanto a letture ad alta voce dinnanzi al pubblico (recitationes): lo deduciamo dal fatto che sono molto macchinose, troppo perché certe dinamiche spettacolari potessero essere realizzate sulla scena; ma lo ricaviamo pure dal fatto che sono ricche di particolari truci che, non graditi generalmente al teatro classico, sarebbero stati difficilmente proposti sulla scena, mentre il cui ricorso si spiegherebbe con l'esigenza di catturare l'attenzione di chi ascolta.

Ci si è chiesti perché un filosofo come Seneca abbia composto tragedie.
Alcuni giungono addirittura a negare che siano del maestro di Nerone.
Molti invece pensano che, dal momento che queste tragedie propongono spesso      personaggi sottoposti al furor della passione, stiano a simboleggiare la pars destruens del sistema filosofico di Seneca: insomma se Dialogi ed Epistulae ad Lucilium farebbero intendere come dovrebbe essere un saggio stoico, le tragedie dovrebbero invece spiegare da cosa dovrebbe tenersi lontano chi voglia divenire apatico e sapiente.

Per es. nell'Hercules furens, l'eroe (per antonomasia il saggio stoico che affronta tante prove) è vittima della follia, procuratagli da Giunone, e uccide così moglie e figli. Una volta rinsavito intende suicidarsi, ma viene poi indotto a recarsi ad Atene a purificarsi.

Nella Phaedra, costei, sposa di Teseo, s'invaghisce del figliastro Ippolito che però non la ricambia. Fedra si suicida, ma prima lascia che nel marito nasca il sospetto che il figlio abbia sedotto la matrigna, il che provoca la vendetta di Teseo il quale maledice Ippolito e ne provoca la morte.

Nell'Oedipus, l' uccisore di Laio, che non sa essere suo padre, e sposo di Giocasta, che non sa essere la sua vera madre, perché esposto da bambino e allontanato da coloro a cui l'oracolo aveva preannunciato avrebbe provocato dolore, giunto alla scoperta dei misfatti inconsapevolmente causati, si accecherà per non "vedere" la tremenda verità dell'incesto e del parricidio commessi.

Medea è la compagna di Giasone, il capo degli Argonauti che, grazie a lei e alle sue pratiche magiche, ha conquistato il vello d'oro nella Colchide. Ma Giasone, nonostante abbia avuto dalla donna dei bimbi, giunto a Corinto presso il re Creonte, intende sposarne la figlia Creusa (= Glauce) e riconoscere come legittimi gli eventuali nati dal loro matrimonio. Medea allora, in preda al pathos, all'ira e alla gelosia, prepara una veste stregata per Creusa, che, indossatala, prende fuoco, e uccide i due figli avuti da Giasone per provocare in lui un dolore inestinguibile.

Nel Thyestes, Atreo vuol vendicarsi del fratello che gli ha sedotto la moglie e sottratto un ariete, segno del potere regale; per realizzare il suo piano invita Tieste a banchetto e gli rivela poi di avergli offerto come pasto le carni dei figli.

A queste tragedie si aggiungono le Troades (=le troiane), l' Hercules Oetaeus (cioè sull'Eta, un monte), l'Agamemnon, le Phoenissae (=le Fenicie).

Tutte queste tragedie sono caratterizzate da un notevole gusto per l'orrido e per il macabro (si pensi alla descrizione di Edipo che si cava gli occhi dalle orbite…) e da uno stile decisamente sentenzioso: per sententiaesi intende le frasi brevi, ad effetto, tipiche della brevitas asiana e della scrittura di Seneca.

Importante è pure la presenza del coro in questi drammi: il coro funge da contraltare rispetto al protagonista, quasi come l'obiettore delle sue asserzioni, esattamente come nei Dialogi colui a cui Seneca si rivolge e che sembra controbattere le sue tesi di volta in volta.

Sono nove cothurnatae, cioè di argomento greco, desunte dai tragici come Sofocle, Eschilo e, soprattutto, Euripide.

Ma ci è stata tramandata pure una praetexta, l'Octavia, che racconta la sorte della moglie ripudiata e poi fatta uccidere da Nerone invaghitosi di Poppea. Generalmente oggi si nega che tale tragedia sia di Seneca  per due motivi: innanzi tutto perché contiene una descrizione della morte di Nerone troppo dettagliata e precisa perché Seneca potesse operarla (Seneca è morto nel 65, tre anni prima di Nerone!); poi perché Seneca compare tra i protagonisti del dramma e solitamente nell'antichità l'autore non "entrava" nell'opera sua.    

 

http://www.liceogrigoletti.it/docenti/doc07/files/Le%20tragedie%20di%20Seneca.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 


 

Lucio Anneo Seneca vita opere biografia

 

APPUNTI SU ALCUNE TEMATICHE DI SENECA
(appunti già presentati in classe. Sono un completamento del testo di letteratura di Giovanna Garbarino)

 

LA CONCEZIONE DEL TEMPO

  • Il giorno di oggi non ritorna più
  • Il tempo è il più grande dono che gli dei abbiano fatto all’uomo, però deve essere gestito dalla libertà dell’uomo (“a tutti è stato dato del tempo, sta a noi renderlo vita”)
  • Il tempo diventa vita se utilizzato, proprio come il denaro è fruibile se trasformato in cibo, vestiti… Di per sé le ricchezze non hanno valore (non valore intrinseco, ma convenzionale)
  • Il tempo aumenta se trafficato, proprio come il denaro. La vita è dunque lunga abbastanza per chi la vive intensamente
  • Vivere intensamente non significa darsi ai piaceri, ma ricercare la virtù
  • Pur nella concezione ciclica del tempo tipica dello Stoicismo, in Seneca si può parlare di linearità del tempo, proprio per la sua ineluttabilità e irripetibilità.
  • La vita continua dopo la morte. Il premio per il sapiente (anche “uomo buono”) è la contemplazione del Logos (verità, luce, significato del mondo, razionalità)

 

EVENTUALE CONOSCENZA TRA SENECA E SAN PAOLO E PIU’ IN GENERALE TRA SENECA E LA CULTURA CRISTIANA
Avvalorata da alcune congruenze nel pensiero. Simile concezione dell’uomo. Simili ammonimenti morali (LETTERE A LUCILIO). Molte somiglianze nella concezione del tempo di Seneca e Agostino.
Oggi l’ipotesi è smentita: con ogni probabilità le attinenze derivano dal fatto che sia Seneca che san Paolo attingono alla stessa fonte: la cultura romana (esempio: in san Paolo troviamo un esempio molto simile all’apologo di Menenio Agrippa, san Paolo paragona la chiesa a un corpo che è unico, ma con molte membra, Menenio Agrippa aveva paragonato la Res Publica Romana a un corpo in cui patrizi e plebei dovevano collaborare per il bene di tutti).
Il Medio Evo cristiano ebbe una grande stima di Seneca Es. Dante “Seneca morale” in Inf. IV, 141); Testo anonimo l’Imitazione di Cristo che ne cita alcune parole tanto quanto una frase della Sacra Scrittura o di un santo).
Problema della schiavitù.

MORTE
Non si può parlare di suicidio vero e proprio, ma più che altro di omicidio (o più precisamente di suicidio provocato). Ultima cena di Seneca sull’esempio di tante altre “ultime cene” di sapienti che hanno lasciato la vita terrena. Tacito racconta che la morte fu lenta a motivo del suo fisico abituato alle privazioni e alle penitenze.

LE TRAGEDIE
Non sono un’accusa a Nerone, ma un ammonimento morale per lui.

LA CULTURA
Serve per vivere meglio, serve se non è semplice erudizione, ma se diventa vita, cioè parte di me (come quando mangio una bistecca e diventa parte di me).
La solitudine aiuta il sapiente a scoprire la verità, in particolare la verità sull’uomo (Chi sono?). Pessimisticamente Seneca osserva che “ogni volta che sono stato fra gli uomini, ne sono tornato meno uomo di prima). Troviamo risonanza di questo concetto in Agostino “Noli foras ire, in interiore homine habitat veritas” (Non uscire fuori, nell’interiorità dell’uomo abita la verità). NOTA GRAMMATICALE: uso dell’aggettivo dove in italiano troviamo avverbi o sostantivi. Letteralmente: “nell’uomo interiore”. Questo passaggio è tipico del latino e delle lingue antiche che rispetto alle lingue moderne sono maggiormente immediate e concrete.
CARATTERI GENERALI DELLA LETTERATURA LATINA DELL’EPOCA NERONIANA CHE SI RISPECCHIANO IN SENECA (appunti liberamente tratti da L. Perelli)
Situazione di rottura fra gli intellettuali e la nuova realtà politico-sociale che si creò al tempo di Nerone. Dopo un primo momento di disorientamento, questa frattura spinge gli intellettuali a tentare nuove vie e a crearsi un mondo spirituale  che si contrapponga al conformismo imperante nella vita politica.
La crisi spirituale dell’epoca e l’atteggiamento di ribellione assunto dai letterati spiegano i caratteri artistici e stilistici comuni ai maggiori scrittori. Essi hanno uno stile tormentato, nervoso, che passa da periodi lunghi e articolati a frasette brevissime, epigrammatiche. I contenuti di questi scrittori esasperano spesso le passioni, tendono al cupo, al torbido, al macabro. Talvolta si nota un’enfasi teatrale e declamatoria. È sempre presente il tema della morte.
Queste caratteristiche artistiche, che noi oggi definiremmo barocche, sono in netto contrasto con il classicismo dell’età augustea. Il contrasto rispecchia la differenza della condizione spirituale degli intellettuali tra le due epoche.
Dunque i grandi letterati dell’età neroniana anche se inizialmente godettero di libertà, furono ben presto in opposizione alla politica dell’imperatore. “È significativo che i tre principali letterati dell’epoca (Seneca, Lucano e Petronio) dopo essere stati intimi collaboratori di Nerone siano poi stati tutti condannati a morte dal principe. I letterati si ispirano agli antichi ideali di libertà repubblicana o all’ideale di libertà interiore che la filosofia stoica offre a chi si isola dalla vita pubblica e si rinchiude nella meditazione e nell’ascesi”.
Seneca cercò di conciliare gli ideali culturali e filosofici dello stoicismo con la partecipazione alla vita politica attiva. “Passò più volte dall’isolamento e dall’esercizio della sapienza filosofica all’impegno politico aperto, con tutti i compromessi che ciò necessariamente comportava. Da questa incertezza e da questa oscillazione nascono il tormento interiore dell’uomo e il fascino dello scrittore, che in tutta la sua opera testimonia il dramma di un’esistenza e i problemi di una coscienza inquieta e sensibilissima”.

 

Fonte: http://www.inpicciolettabarca.it/latino/SENECA.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

Seneca: De brevitate vitae

INTRODUZIONE
Il trattato “De brevitate vitae” è tutto costruito sul fatto che noi uomini tendiamo ad abbreviare la vita con le nostre inutili preoccupazioni. La vita di per sé non è breve.
È uno dei dialoghi più persuasivi dell’autore.
Lo scritto ha tratti dell’epicureismo di Orazio, soprattutto per quello che riguarda il ridurre la filosofia al buon senso. Il destinatario, a parte l’esplicitato Paolino, è tutto un popolo di ascoltatori non necessariamente colto. Infatti è percorso da tante sententiae e figure retoriche (metafore, similitudini, anafore, antitesi) che rendono facile ricordare i concetti più importanti.
Fra le pagine più felici di questo dialogo vi è certamente la lunga digressione contenuta nel decimo capitolo. Qui Seneca osserva quale grande conforto sia per l’uomo giusto riandare al passato per ricordare la vita spesa bene, accorgendosi che non è stata scandita dal tempo cronologico (chrònos), ma da eventi memorabili (kairòs).

RICORDARSI DI IMPARARE I PARADIGMI

DE BREVITATE VITAE 1,1 (la traduzione è letterale)
O Paolino, la maggior parte dei mortali si lamenta della cattiveria della natura, per il fatto che veniamo generati per una breve vita, per il fatto che questi spazi di tempo dati a noi scorrono così velocemente, così rapidamente che, eccettuati veramente pochi, la vita abbandona (tutti) gli altri nello stesso apparire della vita.
E di questo male comune non solo si lamenta la moltitudine o (et) il volgo ignorante – come molti credono – questo sentimento richiama le lamentele anche degli uomini illustri.
Da qui è (=deriva) quella esclamazione del maggiore dei medici che la vita è breve, (mentre) l’arte è lunga; da qui è (=deriva) la disputa (lis)  dell’esigente Aristotele con la natura di (tutte) le cose – per nulla confacente a un uomo sapiente – che quella è stata così tanto benevola verso animali che possono vivere (educerent) 5 o 10 generazioni, all’uomo (invece) nato per molte cose e grandi, è dato un termine più basso..
Non abbiamo poco tempo, ma (ne) perdiamo molto. La vita è lunga abbastanza e (ci) è data generosamente per la realizzazione di cose grandissime, se fosse bene impiegata tutta; ma quando scorre per lo spreco e l’indifferenza, quando non viene spesa per nessuna cosa buona, alla fine (appunto) quando l’estrema necessità di incalza, non capiamo che quella va, non sentiamo che è passata.
È così non riceviamo una vita breve, ma (la) facciamo (=rendiamo), e non siamo poveri, ma spreconi di lei.
(Proprio) come grandi e regali ricchezze, quando sono giunte a un incapace padrone, in un momento vengono dissipate, invece, sebbene poche (modicae) se sono state affidate a un buon custode (=amministratore) crescono con l’uso (=il traffico, l’investimento), così la nostra vita si estende molto per chi la gestisce bene.

 

DE BREVITATE VITAE 7, 9-10
Ognuno consuma la sua vita e si affatica per il desiderio del futuro, per la noia dei (tempi) presenti. Ma colui che usa tutto il tempo (doppia negazione) per i suoi usi, che programma tutti i giorni come una vita, non desidera né teme il domani. Che cosa c’è infatti di nuovo piacere che (compl oggetto) alcuna ora (soggetto) possa portare? Tutte le cose (vicende) sono conosciute, tutte sono state assaporate a sazietà. Per il resto la fortunata sorte, come vorrà, disponga: la vita (vissuta) è già al sicuro. A essa si può aggiungere, detrarre niente, e aggiungere così come a uno ormai sazio e pieno un po’ di cibo, che non desidera e (tuttavia) prende.
E così non c’è motivo che tu ritenga (putes) che qualcuno abbia vissuto a lungo a motivo dei capelli bianchi o delle rughe: quello non ha vissuto a lungo, ma a lungo fu (è stato vivo).
(NON LETTERALE) Come puoi ritenere infatti che quello abbia navigato molto, quello che una cattiva tempesta sorprese nel porto sbattendolo qua e là e lo fece girare in tondo per i medesimi spazi in balìa di venti che soffiano da parti diverse?
Quello non ha navigato molto, ma molto è stato sbattuto.

DE BREVITATE VITAE 8, 1-3
Mi stupisco sempre (di solito mi stupisco) quando vedo alcuni chiedere (lett: chiedenti) tempo e quelli, a cui viene richiesto (lett: i quali sono richiesti), tanto accondiscendenti (lett: cedevolissimi); l’uno e l’altro (uterque) guardano al motivo (ciò) per il quale (a causa del quale) il tempo viene richiesto, nessuno dei due (neuter) alla sua essenza (guarda proprio questo … che): viene chiesto come niente, come niente lo si concede (viene concesso/dato).
Si gioca (luditur) con la cosa più preziosa di tutte; (il tempo/esso) invece li (eos) inganna, poiché è una cosa incorporea, perché non cade (venit) sotto gli occhi, e pertanto è considerato cosa di poco conto (vilissima), anzi non ha quasi nessun prezzo (lett: quasi nessun prezzo è di lui).
Gli uomini accettano assegni annui e donativi (congiaria) come cose di caro prezzo (carissime, AVVERBIO ) e in essi ripongono (locant) la loro fatica, il loro lavoro e il loro impegno: nessuno considera il tempo: usano di quello come (fosse) gratuito in modo troppo smodato.
Ma guarda costoro (quando sono) ammalati, se il pericolo della morte incombe molto da vicino (più vicino), avvinghiati (toccando) alle ginocchia dei medici, se temono la pena capitale, per vivere (sono) pronti a sborsare (spendere) tutti i loro averi (omnia sua): c’è così tanta contraddizione  di sentimenti in loro.
Che se (quosdi) si potesse in qualche modo mettere davanti (potesse venire messo) (sott: a ciascuno) il numero di anni passati (praeteritorum) di ognuno, così come di quelli futuri, in che modo trepiderebbero coloro (illi) i quali (ne) vedessero restare (composto di sum) pochi, come ne risparmierebbero!

DE BREVITATE VITAE 8, 5
Nessuno (ti) restituirà gli anni, nessuno ti renderà ancora a te stesso; (la vita) andrà per dove ha avuto principio (è iniziata), la vita non revocherà né arresterà il suo corso; non farà alcun rumore, non lascerà nessuna traccia della propria velocità: scorrerà silenziosa(mente); quella non si estenderà oltre né per comando di un re né per favore del popolo: correrà così come è stata mandata dal primo giorno, non cambierà mai traiettoria, mai si attarderà (rallenterà). Cosa accadrà? Tu sei occupato/impegnato, la vita si affretta: la morte intanto si avvicinerà, per la quale, volente o nolente, si deve avere tempo.

 

DE BREVITATE VITAE 10, 1; 4-6
Se (io) volessi dividere in parti e argomenti ciò che ho esposto (proposui), mi verrebbero incontro molte cose, attraverso le quali (per quae) io provi (=potrei provare, probem) che la vita degli occupati è brevissima. (…).

La vita viene divisa (dividitur) in tre tempi: ciò che fu, ciò che è, ciò che sarà. Di questi ciò che viviamo (agimus) è breve, quello che vivremo (o faremo acturi sumus) è dubbio, quello che abbiamo fatto/vissuto è certo.
Questo è infatti (quello) in cui la sorte perde il diritto (ius), per il fatto che (quod) non può essere ridotto all’arbitrio di nessuno.
Questo perdono gli occupati (soggetto); infatti a loro manca il tempo di guardare le cose passate [NB notare l’uso impersonale di vaco], e, se ci fosse tempo, il ricordo della cosa di cui pentirsi sarebbe spiacevole. (…)

Ma questa è la parte del nostro tempo sacra e consacrata, tutta superiore alle vicende umane, sottratta al di fuori del regno della sorte, la quale (complem oggetto) non turba la fame (inopia), o il timore, o l’incursione delle malattie; questa (parte) non può venire turbata, né venire rapita; il suo possesso è perpetuo e inalterabile.

I giorni solo a uno a uno e questi momento per momento sono presenti; ma tutti (quelli, quei giorni) del tempo passato quando avrai comandato saranno presenti, sopporteranno di essere osservati e trattenuti a tuo piacimento (ad arbitrium tuum), cosa che non hanno tempo (non vacat) di fare gli occupati. È (tipico) di una mente sicura e tranquilla ritornare a tutte le vicende della sua vita; gli animi degli occupati, come se fossero sotto un giogo, non possono piegarsi (muoversi flectere se) e ritornare a guardare.
(…)
Il tempo presente è brevissimo, tanto che a qualcuno (quibusdam) sembra nullo/inconsistente; infatti è sempre di corsa, scorre, precipita; smette di esistere prima di arrivare, e non sopporta attesa (moram) più che il mondo o le stelle, il movimento (agitatio) dei quali sempre in corso (inrequeta), non rimane mai (numquam manet) nello stesso solco (vestigio). Dunque solo il tempo presente riguarda (pertinet) gli occupati, questo/che (quod) è così breve che (ut) non può essere afferrato, e esso stesso si sottrae (scappa) a coloro che sono schiacciati in molte cose (occupazioni).

DE BREVITATE VITAE, 18, 1-2
E così, carissimo Paolino, allontanati/togliti dalla folla, e infine (tandem) ritorna nel porto più tranquillo spinto (iactatus) non a causa della durata (spatio) della vita.
Pensa a quanti flutti hai subito, quante tempeste in parte private hai sostenuto, e in parte pubbliche hai fatto convergere in te; la virtù è stata mostrata abbastanza attraverso prove/dimostrazioni (documenta) faticose e inquiete: esperimenta che cosa faccia (il tuo valore) in “otium”.
La parte maggiore della vita, certamente la migliore, sia pure stata data allo stato: (comunque) prenditi anche qualcosa del tuo tempo.
E non ti chiamo a una tranquillità pigra e inerte, affinchè tu non immerga nel sonno e nei piaceri cari al volgo ciò che in te c’è di carattere vivace: questo non è riposare; troverai cose più grandi di tutte  (quelle) opere trattate finora valorosamente, che farai nascosto e sicuro.

 

fonte: http://www.inpicciolettabarca.it/latino/Seneca%20De%20brevitate%20vitae.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

Seneca

 

Lucio Annio Seneca nacque a Cordova agli inizi del I° sec. Fu educato a Roma. Iniziò con gli studi di retorica e poi si diresse verso quelli filosofici. Suoi maestri furono Sozione di Alessandria e Papirio Fabiano, che lo iniziarono alle dottrine neopitagoriche di Quintio Sesto.
Verso il 20 d.C. si trasferì in Egitto dalla zia, forse per sottrarsi al clima politico ostile, con Tiberio.
Nel 31 d.C. torna a Roma, dove si dedicò alla politica (fu questore), fu oratore ed avvocato.
Nel 39 d.C. Caligola decise di metterlo a morte ma l’intervento di una favorita lo salvò.
Nel 41 d.C., salito al trono Claudio, Messalina accusò Giulia Livilla (nipote di Claudio) e Seneca di essere amanti; questo costò a Seneca l’esilio in Corsica.
Non riuscendo ad adattarsi al luogo tentò di ottenere il perdono. Con l’adulatoria “Consolatio ad Polybium” attirò le simpatie di Agrippina (sorella di Giulia Livella) che lo scelse come precettore del figlio, Nerone.
Nel 54 d.C.  Claudio muore avvelenato da Agrippina; Seneca si vendicò scrivendo “Apocolocyntosis”.
Il poeta insieme a Afranio Burro influì positivamente sulla politica imperiale.
Approfondisce i suoi studi sullo stoicismo.
Nel 62 d.C. si ritira a vita privata.
Nel 65 d.C., ritenuto coinvolto nella congiura guidata da Gaio Calpurnio Pisone, fu costretto da Nerone al suicidio.

 

“Dialoghi”

Sono dieci trattati: 9 hanno l’estensione di un libro, uno è suddiviso in tre libri (“De Ira).
Essi sono trattazioni filosofiche di vario argomento, nelle quali Seneca in prima persona dialoga col destinatario di turno.
Il modello è desunto dalla diatriba cinico- stoica. La cronologia è incerta.

  • De providentia (62- 63 d.C.)
  • De constantia sapientis (40- 41 d.C.)
  • De ira (c.a. 41 d.C.)
  • Ad Marciam consolatione (37 d.C.)
  • De vita beata (58- 59 d.C.)
  • De otio (62 d.C.)
  • De tranquillitate animi (c.a. 62 d.C.)
  • De brevitate vitae (c.a. 49 d.C.)
  • Ad Polybium consolatione (c.a. 44)
  • Ad Helviam matrem de consolatione (c.a. 41 d.C.)

Le tre consolationes sono le prime « consolazioni » che ci sono pervenute. Il genere della consolatio era tra i più esposti al rischio di enfasi e ovvietà .
I temi comuni alle tre consolazioni sono la fragilità dell’esistenza e la necessità di conseguire quel distacco dalle vicende della vita che trasforma l’uomo comune in “saggio”.
Nel “De otio” armonizza e fonde la concezione stoica dell’otium con quella epicurea: l’otium è uno spazio di tempo che il saggio deve ritagliarsi per la ricerca della verità e per il continuo miglioramento di sé , ma così facendo, cioè migliorandosi, egli risulterà migliore anche per gli altri, più adatto a rendersi utile politicamente alla comunità in cui vive.
Nel “De tranquillitate animi” riflette sull’importanza dell’interazione tra il ritiro privato e l’attività pubblica.
Il “De ira”,dedicato al fratello Novato, tratta dell’utilità sociale e politica del saggio che ha imparato a controllare le proprie passioni.
Nel “De vita beata”, dedicato sempre a Novato, afferma che la felicità vera è solo quella di colui che sa distaccarsi da felicità apparenti come quelle date dalla ricchezza.
Ad Anneo Sereno è dedicato il “De constantia sapientis”, che tratta del distacco del saggio dalle vicende umane.
A Lucilio dedicò il “De providentia”: il saggio sa dominare il tempo.
Il “De brevitate vitae”, dedicato a Paolino: nonè la vita che è breve, siamo noi che la rendiamo tale sperperando tempo preziosissimo in occupazioni e preoccupazioni del tutto futili; bisogna preporre alla quantità del tempo la qualità.

 

“I Trattati”

Sono tre: “De clementia”, “De beneficiis”e le “Naturales quaestiones”.Il “De clementia” fu scritto per Nerone diciottenne (56 d.C.). Seneca elogia la clemenza di cui ha dato prova Nerone.
Nel “De beneficiis” (7 libri) allarga la riflessione sull’etica di carattere sociale e individua nel “fare del bene” al prossimo il migliore cemento della comunità civile. Il beneficio diventa espressione di generosità e solidarietà.
Le “Naturales quaestiones” viene scritto per liberare l’uomo dalla paura dei fenomeni naturali spiegandone i meccanismi.

 

“Epistulae morales ad Lucilium”

 

124 epistole che costituiscono il suo capolavoro di filosofia morale. Scritte tra il 61 e il 65 d.C.
Seneca, partendo da un’osservazione concreta, sviluppa una compiuta riflessione su un qualche tema morale senza mai abbandonare un tono intimo e dimesso.

 

fonte: http://www.afurly.net/doc/senecalucrezio.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

LUCIO ANNEO SENECA
La filosofia dominante nella Roma imperiale del primo secolo d.C. fu lo stoicismo, il cui rigorismo era stato smorzato dagli accomodamenti fatti da Panezio. Con i successori di Augusto i rapporti tra i filosofi e il potere si fecero problematici, sfociando talvolta in aperto conflitto. Ciò coincideva con il crescente contrasto tra l'imperatore e l'aristocrazia senatoria, che in alcuni dei suoi esponenti più significativi si avvicinò allo stoicismo. Di per sè la filosofia stoica può essere mobilitata per giustificare sia l'abbandono al corso provvidenziale del mondo, sia lo sforzo morale dell'individuo, il ritiro dalla vita politica o l'impegno in essa. Emblematica di questa ambivalenza é la vita e l'opera di Lucio Anneo Seneca. Nato a Cordova in Spagna nel 4 d.C., visse a Roma aderendo da giovane al pitagorismo, da cui fu poi distolto dal padre - celebre retore - e in seguito abbracciando lo stoicismo, da cui mai si separò. Si dedicò dapprima con successo alla vita forense, ma nel 41 d.C. fu esiliato in Corsica dall'imperatore Claudio per un sospetto adulterio. Vi rimase otto anni, dedicandosi agli studi filosofici e componendo una serie di scritti consolatori, nonchè alcuni dialoghi. Rientrato a Roma nel 49 d.C., diventò precettore di Nerone, che però mostrò sempre maggiore predilezione per le arti che per la filosofia.
In seguito all'ascesa al potere del suo discepolo, nel 54 d.C., Seneca scrive il De clementia, nel quale egli si candida come consigliere del principe; vi sostiene la tesi che la clemenza é tanto più ammirevole , quanto maggiore é il potere di chi la manifesta. La clemenza é agli antipodi dell'ira - la malattia del tiranno - , di cui Seneca descrive le cause e suggerisce la terapia in un altro scritto (in tre libri), il De ira . La collaborazione con Nerone durò fino al 62, quando con l'uccisione di Burro , che aveva affiancato Seneca nella posizione di consigliere, la clemenza del principe si dissolse.
A Seneca si pose l'alternativa tra la lotta contro il potere o il ripiegamento in se stesso. Non sappiamo sino a che punto la prima via fu imboccata e se la congiura dei Pisoni, scoperta nel 65, ne fu l'esito, soprattutto non sappiamo se Seneca ne fosse al corrente; di fatto fu accusato di farne parte e fu costretto al suicidio ma nei suoi scritti non compare mai un'esplicita giustificazione del tirannicidio. Da buon stoico quale era, Seneca non condanna il suicidio: quando non si può più applicare la virtù, quando l’uomo non é più libero esso é concesso come extrema ratio.  Altre vittime illustri della reazione di Nerone furono il nipote di Seneca, Lucano, e Trasea Peto.
In una situazione di dominio tirannico, quale appariva ai senatori ostili al principe, lo stoicismo, più che fornire programmi di azione, poteva insegnare che cosa non si deve fare nè temere. Anche per Seneca, costretto all'impotenza politica, la filosofia diventa - come già per Cicerone - la via di riscatto. La perdita di spazio politico appare compensata dall'estensione nel tempo dell'efficacia della propria azione, anche per le generazioni future, esercitata con la scrittura. E' in questo periodo che Seneca compone i suoi scritti filosofici più importanti: De otio, De tranquillitate animi, De providentia , le Quaestiones naturales (nelle quali Seneca guarda con grande simpatia al progresso scientifico, purchè sia soggiogato al dominio della ragione) e le 124 Epistulae morales ad Lucilium, un epistolario (forse con un destinatario fittizio) in cui troviamo l’intero pensiero senecano.
Ma ciò che Seneca ritrova é soprattutto la sua interiorità: in questa nuova circostanza la filosofia diventa in primo luogo una barriera di protezione contro un mondo minaccioso. Il punto di partenza consiste nel riconoscere che contro la sorte é impossibile lottare e che l'errore fondamentale é di attribuire valore a ciò che dipende da essa. Se – stoicamente – il destino è signore delle cose, allora non ha senso opporvisi. La virtù non é preclusa a nessuno e per questo aspetto anche gli schiavi sono uomini. La vera schiavitù per Seneca é quella volontaria, l'assoggettamento al vizio. Egli sostiene quel principio di uguaglianza fra gli uomini che spesso i filosofi avevano affermato solo teoricamente: lo schiavo ha piena dignità umana e a lui è schiusa come ad ogni altro uomo la via del bene. Da ciò se ne evince non già che si debbon liberare gli schiavi, ma, semplicemente, che si deve essere umani nei loro riguardi, permettendo loro di mangiare e di parlare liberamente: non si devono infatti giudicare gli uomini in base alla loro condizione sociale, bensì in base alle loro azioni. Chiunque, indipendentemente dalla propria condizione sociale, può raggiungere la virtù (De beneficiis) .  Buona parte dell’opera di Seneca è poi dedicata alla fugacità del tempo: così si aprono l’epistolario a Lucilio e il De brevitate vitae; l’idea centrale di Seneca è che "non disponiamo di poco tempo, ma molto ne perdiamo" (De brevitate vitae, 1). La vita ci sfugge di continuo, ma il tempo di cui disponiamo è sufficiente per compiere le più grandi imprese, per conseguire la virtù (vero obiettivo della vita umana): come ricchezze immense, se finite nelle mani di un incapace, vengono rapidamente dilapidate, così un piccolo gruzzoletto, se capita nelle mani giuste, viene investito e aumenta; così è per la vita, che è breve ma può essere ben sfruttata. Nel De tranquillitate animi il filosofo spagnolo polemizza con lo stoico Attenodoro, il quale sosteneva che per esercitare la filosofia fosse necessario allontanarsi dalla politica.
Nel De otio, tuttavia, Seneca ritorna sui propri passi, esaltando a gran voce la vita contemplativa. Ma l’adesione allo stoicismo pone a Seneca anche altre problematiche di gran rilievo: forse la più importante è come sia possibile, in un modo retto dalla ratio cosmica, che gli uomini giusti si trovino a patire grandi torti e ingiustizie, mentre spesso gli ingiusti trionfino. Perché il male si abbatte sui buoni? Se davvero il mondo fosse governato dalla provvidenza cosmica – come prevede lo stoicismo -, i buoni non dovrebbero essere premiati anziché puniti? A questa difficile questione Seneca prova a rispondere nel De providentia, spiegando come quelli che a noi paiono mali siano in realtà delle prove che ci vengono poste per saggiare la nostra virtù: "perchè, allora tante malattie, tanti lutti, tanti guai capitano proprio ai migliori? Per la stessa ragione per cui in guerra le imprese più rischiose sono assegnate ai più forti". Ricorrendo ad un’altra metafora, Seneca spiega che la divinità si comporta come un maestro coi suoi scolari, pretendendo "di più da coloro sui quali conta di più". Il pensiero di Seneca, per via del suo stile scintillante di sententiae e per il suo procedere costellato di metafore e rapide contrapposizioni, verrà condannato da Quintiliano, ma, nonostante la sua pur autorevole condanna, godrà di un’immensa fortuna nel pensiero successivo.

 

DE CLEMENTIA
L'opera è stata composta all'incirca tra il 55 e il 56 e rappresenta la più chiara espressione della concezione senecana del potere. Il testo è opportunamente dedicato all'imperatore Nerone come traccia di un ideale programma politico ispirato ad equità e moderazione. Seneca non mette in discussione la legittimità costituzionale del principato, nè le forme ormai palesemente monarchiche che esso ha assunto: il potere unico era il più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico retto dal logos, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l'ideale di un universo cosmopolita, a fungere da vincolo e simbolo unificante dei tanti popoli che formano l'impero. Il problema, piuttosto, è di avere un buon sovrano: l'unico freno del sovrano, essendo il potere assoluto, sarà la sua stessa coscienza, che lo dovrà tratteenere dal governare in modo tirannico. L'ideale senecano di clemenza è una misurata commistione di indulgenza e moderazione.
Seguiranno alcuni passi tratti dall’opera presa in questione. Le parti riportate possono essere legate al concetto di Totalitarismo.
1. Definizione della clemenza
[1] E perché non ci inganni il magnifico nome di clemenza, e non ci conduca all’estremo opposto, esaminiamo che cosa sia la clemenza, che natura abbia e quali siano i suoi limiti.
La clemenza è la moderazione dell’animo nell’uso del suo potere di punire; oppure è mitezza di un superiore nei confronti di un inferiore nell’assegnargli una pena. È più sicuro proporre più definizioni, perché non succeda che una sola definizione non sia sufficiente a comprendere la cosa e, per così dire, sia condannata per un vizio di forma; perciò, può essere definita anche un’inclinazione dell’animo alla mitezza nell’infliggere una pena.
14 Modo migliore di comandare
[1] Oh principe degno di essere chiamato in consiglio dai padri! E degno di comparire nei testamenti come coerede con i figli privi di colpe! È questa la clemenza che si addice al principe: ovunque vada, renda ogni cosa più mite. Nessuno sia tanto spregevole per il re che costui non si accorga della sua morte: in qualunque condizione <si trovi>, ognuno è parte dell’impero!
[4] <Infatti>, è forse giusto che si comandi con più gravosità e durezza a un uomo che ai muti animali? Eppure, un maestro esperto nel domare i cavalli non terrorizza il cavallo frustandolo spesso, perché diventerà pauroso e riottoso, se non lo rabbonisci con carezze affettuose.
23. La crudeltà è contraria alla natura umana
 [2] La ragione principale per cui la crudeltà è abominevole è che essa oltrepassa i limiti consueti, poi quelli umani, va in cerca di supplizi nuovi, fa appello all’immaginazione per escogitare strumenti mediante i quali variare e prolungare il dolore, trae piacere dai mali degli uomini. E il funesto morbo dell’animo raggiunge il culmine della follia quando la crudeltà si trasforma in voluttà e ormai si prova piacere a uccidere un uomo.
[3] Alle spalle di un uomo simile viene dietro la sua naturale distruzione, gli odii, i veleni, le spade; è minacciato da tanti pericoli quanti sono coloro per i quali egli stesso rappresenta un pericolo, ed è insidiato sia da cospirazioni private sia da sollevazioni pubbliche. Infatti, un danno privato e leggero non solleva città intere: ma quello che ha cominciato a estendere i suoi furori e minaccia tutti, viene trafitto da tutte le parti.
24. Effetti della crudeltà
 [4] Quegli animali privi di ragione e da noi condannati per la loro ferocia si astengono dagli animali della loro specie, e così la somiglianza esteriore è una garanzia: la rabbia dei tiranni non risparmia neppure le persone a loro prossime, anzi mette sullo stesso piano gli estranei e i suoi, e si eccita tanto più quanto più si esercita. Poi dalle uccisioni di singoli individui si estende fino all’annientamento di interi popoli, e reputa che sia dimostrazione di potenza l’appiccare fuoco alle case e il far passare l’aratro sopra antiche città; e crede che l’ordinare di uccidere solo una o due persone si addica poco alla dignità imperiale e, se un gregge di infelici non è esposto nello stesso tempo ai <suoi> colpi, pensa che la propria crudeltà sia costretta entro limiti angusti.

 

Fonte: http://www.studenti.it/download/latino/seneca/appunto1.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

SENECA ed il concetto di tempo

Lucio Anneo Seneca nacque a Corduba, capitale della provincia romana dell'Hispania Baetica, negli ultimi anni del I sec. a.C. (tradizionalmente il 4 a.C.); la gens Annaea era di rango equestre e il padre, Seneca il Retore, viene ricordato nella storia letteraria come autore di controversiae e suasoriae. Compí studi di retorica e filosofia a Roma: i suoi maestri lo orientarono ad un ideale ascetico, di progressiva conquista di una piena libertà spirituale; tra di essi gli fu particolarmente caro lo stoico Attalo, frequentemente ricordato nell'epistolario. Fin da giovane non dovette godere di buona salute, tanto che, terminati gli studi, si recò in Egitto per curare in un clima piú adatto un grave male da cui era affetto; sulla natura di questa malattia c'è ancora incertezza tra gli studiosi. Nel 31 d.C., all'indomani della caduta di Seiano, crudele prefetto del pretorio di Tiberio, tornò a Roma, deciso a dedicarsi alla carriera forense e ad intraprendere la strada della politica: nel 38, quando era imperatore Caligola, ottenne la questura, primo gradino del cursus honorum; in seguito ebbe accesso alla corte imperiale ed ottenne grandi successi grazie alle sue brillanti capacità oratorie, ma nel 39 - forse a causa di un discorso inopportuno pronunciato alla presenza del princeps - corse il rischio di essere condannato alla pena capitale. Nel 41, dopo la presa di potere di Claudio, fu coinvolto nei complessi intrighi di corte intessuti dall'imperatrice Messalina e relegato in Corsica, in seguito ad un'accusa di adulterio. Il forzato soggiorno in quella terra semideserta, senza la speranza di un immediato ritorno, lo avviò definitivamente alla riflessione filosofica: negli otto anni di permanenza in quell'isola selvaggia si avvicinò allo stoicismo, ma effettuò anche diversi tentativi per poter rientrare a Roma, tra i quali l'invio di un'adulatoria consolatio al potentissimo Polibio, liberto di Claudio, a cui era morto il fratello.
Soltanto dopo la condanna a morte di Messalina, implicata in una congiura contro il consorte, S. venne richiamato dall'esilio: la nuova imperatrice, Agrippina minore, vide in lui l'ideale precettore del figlio di primo letto Domizio, il futuro imperatore Nerone, che, adottato da Claudio, era destinato alla successione per ragioni di maggiore età rispetto a Britannico, figlio dello stesso Claudio e di Messalina. Impegnatosi a fondo nell’insegnamento, S. si illuse di poter educare il suo allievo ai valori dell'humanitas e della tolleranza, indicandogli la figura di Augusto come modello di equilibrio e rispetto delle tradizioni, e, nello stesso tempo, indirizzandolo alle arti, care al mondo ellenico, del canto, della musica, della ginnastica. Quando Nerone prese il potere, nel 54, a soli diciassette anni di età, S., pur mantenendosi in una posizione defilata, continuò ad influenzare positivamente il giovane princeps, ispirando alcuni atti significativi della sua politica, come i provvedimenti per migliorare la condizione degli schiavi e il progetto di riforma fiscale, e riuscendo nello stesso tempo ad equilibrare i rapporti tra l'imperatore e il Senato. Al termine di questo lungo periodo di serenità - il cosiddetto "quinquennio felice", dal 54 al 59 - la prepotente affermazione della personalità dello imperatore, deciso tra l'altro a ripudiare la moglie Ottavia per legarsi a Poppea Sabina, accentuò gravi contrasti con la madre, che, in concorrenza con lo stesso S. e con il prefetto del pretorio Afranio Burro, tentava di esercitare una decisa influenza sul giovane. Alle forti pressioni di Agrippina, che minacciava di promuovere la salita al trono del fratellastro Britannico, Nerone non esitò a rispondere con una reazione violentissima: dapprima fece uccidere il rivale, poi, a breve distanza di tempo, ordinò la morte della stessa madre; è difficile valutare quale sia stato l'atteggiamento di S. in questa vicenda: sembra comunque che non rimase estraneo all'organizzazione del matricidio o quantomeno - secondo lo storico Tacito - non fece nulla per impedirlo. Nel 62, dopo la morte di Burro, forse avvelenato, e di Ottavia, esiliata e poi uccisa per ordine dell'imperatore, S. decise di ritirarsi dalla vita politica; Nerone, sempre piú isolato, lo avrebbe voluto ancora al suo fianco, ma il suo antico precettore fu irremovibile, manifestando un forte desiderio di tornare alla meditazione filosofica e adducendo anche motivi di salute. In questo periodo egli si dedicò ad opere di grande impegno, spingendosi con ottimi risultati anche nel campo della poesia tragica.
Nel 65 venne scoperta la congiura antineroniana "dei Pisoni" (dal nome del suo principale promotore, il nobile Gaio Calpurnio Pisone); ad essa aderí Lucano, nipote del filosofo. Anche S. fu accusato di averla sostenuta; corse persino voce che alcuni dei congiurati avessero deciso di elevare al trono imperiale non Pisone, ma lo stesso S.. Inviatogli da Nerone l'ordine di uccidersi, lo accolse serenamente e morí alla maniera di Socrate, mentre conversava di filosofia con gli amici (aprile 65).

 

Il tempo nell'opera di Seneca

Seneca, che deriva la sua concezione sul tempo dagli stoici (rivalutazione del tempo nel suo dinamismo e nel suo perenne fluire), si sofferma a riflettere in numerosi passi delle sue opere sul concetto di tempo, senza però mai farne oggetto di una trattazione specifica. Il tempo assume in S. una connotazione prevalentemente etica : è il tempo vissuto nell'inquietudine di una ricerca esistenziale e nel timore che esso sfugga all'uomo troppo preso da occupazioni terrene e quindi incapace di farne buon uso.
La riflessione sul tempo, tema centrale nell'opera senecana, ruota essenzialmente attorno a due poli:

  • il tempo come entità fuggevole e caduca, dalla quale il sapiens deve affrancarsi e che l'uomo comune impiega in occupazioni dispersive, e, viceversa,
  • il tempo come unico bene in possesso dell'uomo, strumento per raggiungere la perfezione morale e la saggezza. Questi due aspetti apparentemente contraddittori fra loro sono accomunati da un unico presupposto filosofico, che fa leva non sulla "quantità" ma sulla "qualità" del tempo: il tempo è fuggevole, labile e per definizione caduco, ma, se usato proficuamente, al fine di raggiungere la saggezza, è l'unica nostra vera ricchezza.

Non il tempo, ma il suo uso dipende da noi: a dispetto della sua precarietà, il tempo della nostra vita è l'unica dimensione attraverso la quale ci è dato assurgere alle verità filosofiche, raggiungere la perfezione della saggezza. Il sapiens, che avrà fatto buon uso del suo tempo, riuscirà ad elevarsi al di sopra della condizione mortale e a vivere, simile ad un dio, in un presente atemporale, privo di desideri, timori e speranze.

Fugacità del tempo
Il senso della fuga del tempo e della precarietà delle cose umane percorre tutta l'opera di S. ; a dargli espressione S. utilizza tre metafore; il tempo come un fiume che scorre inarrestabile (De brev. vit. 8,5" andrà il tempo della vita per la via intrapresa e non tornerà indietro né arresterà il suo corso; non farà rumore, non darà segno della sua velocità; scorrerà in silenzio; non si allungherà per editto di re o favore di popolo; correrà come è partito dal primo giorno, non farà mai fermate, mai soste") , il punto nel quale si risolve e si vanifica l'esistenza umana (Ep. ad Luc. 49,3 "è un punto quello che viviamo, e ancor meno di un punto"), l'abisso nel quale si perde ogni cosa (Ep. ad Luc. 49,3 "tutte le cose cadono nel medesimo abisso")
In S. il motivo della fuga "rapinosa" del tempo si tinge spesso dei toni di un'angosciosa consapevolezza, che guarda all'instabilità e alla precarietà delle sorti umane; la riflessione sul tempo che scorre si trasforma così, spesso, in una penosa riflessione sulla morte (Ep. ad Luc.99,9 "  in tanta fluttuazione delle cose umane niente per alcuno è certo se non la morte"; De brev. vit.7,3" ci vuole tutta una vita per imparare a vivere, e, ciò che ti stupirà di più, ci vuole una vita per imparare a morire").

Il Tempo nel De brevitate vitae e nelle Epistole ad Lucilium
Al tempo, al suo significato e al suo uso, S. dedica un intero dialogo, il De brevitate vitae, composto tra il 49 ed il 54d.C.; il dialogo sviluppa come tema centrale l'opposizione tra l'atteggiamento degli "occupati" che "scialacquano" il proprio tempo disperdendosi in occupazioni futili, ed il "sapiens", che, vivendo in aristocratica solitudine, dedica il proprio tempo alla sola conquista della saggezza.
La riflessione senecana sul tempo, che trova una sua prima, articolata espressione, nel De brev. vit. , si completa nell'epistolario. Se l'antidoto al fluire incessante del tempo è costituito dalla conquista di un'immortalità che "supera" il tempo, nel dialogo questa conquista si circonscrive ad una dimensione puramente intellettuale di "evasione" dal presente; il saggio è in grado di dominare col pensiero anche le età che lo hanno preceduto, in un'ideale comunione con i grandi spiriti del passato (De brev vit. 14,1" Soli fra tutti sono sfaccendati quelli che dedicano il loro tempo alla saggezza, solo essi vivono; né solo della loro vita sono attenti custodi: vi aggiungono ogni età; tutti gli anni alle loro spalle sono un loro acquisto. Se non siamo mostri di ingratitudine, quei fari di luce, fondatori di sacre dottrine, sono nati per noi, hanno predisposto la vita per noi..., non siamo esclusi da nessun secolo, a tutti abbiamo libero accesso, e, se vogliamo evadere dalle angustie della debolezza dello spirito, è molto il tempo per cui spaziare") .
Nelle Epistole l'ideale dell'atemporalità del saggio si concreta e si estende: il sapiens usa del tempo per uscire dal tempo, nella conquista di valori che del tempo non hanno più bisogno (101,8-9 " Chi ogni giorno dà alla sua vita l'ultima mano, non sente il bisogno del tempo; da questo bisogno nascono il timore, la brama del futuro che ci rode l'animo...Come riusciremo a sfuggire a tale agitazione? In un solo modo: se la nostra vita non si espanderà al di fuori, ma si concentra in se stessa; giacché è in balia del futuro colui per il quale il presente è vano. Ma quando non ho più alcun debito verso di me, e quando l'animo, ben saldo, sa che non c'è differenza fra un giorno e un secolo, esso guarda dall'alto tutti i giorni e gli eventi futuri e considera ridendo allegramente il succedersi del tempo"; 92,25 " Qual è la caratteristica della virtù? Essa non ha bisogno dell'avvenire e non fa il computo dei suoi giorni: in uno spazio di tempo quanto vuoi breve giunge al pieno possesso dei beni eterni") .

Seneca ed il "carpe diem" epicureo
La valorizzazione attenta di ogni attimo dell'esistenza è il mezzo attraverso il quale è possibile raggiungere la saggezza e superare la debole condizione umana (Ep. 101,10 "perciò affrettati, o mio Lucilio, a vivere, e considera ogni giorno una vita"). Il concetto del vivere pienamente in ogni istante della propria vita è, anche, ideale epicureo, e ricorre come si sa in Orazio, Odi I,11 vv7-8 "dum loquimur, fugerit invida/ aetas; carpe diem, quam minimum credula postero"; Odi III,29 vv41ss." Ho vissuto. Offenda pure domani Giove di nere nubi il cielo o brilli il sole, non potrà rendere vano il passato, né disperdere o mutare quello che mi ha dato l'ora fuggitiva".
Le analogie tra il concetto espresso da Orazio e quello espresso da Seneca tradiscono però una grande differenza di impianto: alla base del carpe diem epicureo c'è il concetto del vivere intensamente ogni attimo dell'esistenza, capitalizzandone gioie e piaceri, in un'ottica "distensiva" dello spirito. Nel concetto stoico del "vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo" si concretizza invece l'ideale di una pratica filosofica sempre tesa alla conquista della saggezza, in lotta con il tempo che scorre implacabile; un'ottica, quindi, che non mira alla distensione, quanto piuttosto alla tensione dello spirito. Padroneggiare il presente ed affrancarsi dal domani diventa in Seneca un invito al possesso integrale di se stessi, non solo e non tanto, quindi, un richiamo al carattere effimero dell'esistenza.

N.B.
Le sentenze ed i motti proverbiali che chiudono le lettere dei primi 3 libri costituiscono la componenente parenetica dell'epistolario senecano. (da parenesi, termine di derivazione greca dal verbo paraineo "esorto", che ha il significato di "esortazione", riconducibile a motivi o caratteri oratori)

Epistulae morales ad Lucilium I, 1-5

Il  primo passo per riprendere il controllo di sé è il controllo del proprio tempo: la soluzione di questo problema è per Seneca il banco di prova e la condizione preliminare per un giusto avvio alla sapienza, cioè alla filosofia e alla vita impostata secondo principi filosofici. La lettera contiene la puntualizzazione di alcune nozioni importanti, come la iactura temporis, la perdita del tempo che avviene senza che ci accorgiamo di perderlo (parr. 1 e 2), o come l'osservazione che. nessuno pone un prezzo al tempo, considerandolo res vilissima, cosa di poco conto, mentre è il bene più prezioso che possediamo (par.3). Nei due paragrafi conclusivi (4 e 5) si hanno esortazioni al corretto uso e alla valutazione costante del proprio tempo
Nelle prime lettere a Lucilio, Seneca vuole evitare il tono trattatistico e richiamare piuttosto il carattere leggero e confidenziale della lettera, intesa come comunicazione personale. La novità, rispetto alla lettera tradizionale, non sta nel tono, che anzi rimane semplice e vicino alla sensibilità del destinatario, ma nei contenuti, che non sono le solite notizie personali e i fatti quotidiani delle lettere, ma argomenti filosofici, principi di vita, che devono avviare il destinatario all'interesse per la filosofia e alla riforma della propria esistenza.
Acceso è l'invito a distaccarsi dalle attività che sottraggono tempo, in corrispondenza con l'atteggiamento finale di Seneca nei confronti della vita pubblica, che ormai, in questa fase, egli vede compromessa e a lui preclusa dall'atteggiamento tirannico e dai crimini di Nerone.
Da un punto di vista stilistico è da rilevare anzitutto il tono, rassicurante e quasi affettuoso, di amico coinvolto nella vicenda spirituale di un amico: Ita fac, mi Lucili.. (par. 1) e ancora Fac ergo, mi Lucili, quod facere te scribis... (par. 2). Altro aspetto significativo è l'uso di modelli analogici, che rendono visibile l'astrazione del pensiero, come il ricorso all'immagine del tempo-denaro (par. 1 e più esplicitamente par. 4). Proprio questa necessità di fornire una sapienza subito accostabile e fruibile da parte del destinatario spinge Seneca a fare ricorso anche più del consueto alle sententiae che concentrano in poche, dense parole importanti principi filosofici, come dum differtur, vita transcurrit e omnia aliena sunt, tempus tantum nostrum est.

Sequenze

1 Occorre salvare il tempo che ci viene sottratto in vari modi
“Fa’ così, o mio Lucilio, rivendica il possesso di te stesso, e il tempo che finora o ti veniva portato via, o ti veniva sottratto, o ti sfuggiva, raccoglilo e custodiscilo. Convinciti che è così come scrivo: certi spazi di tempo ci sono portati via, altri ci sono sottratti di nascosto, certi scorrono via. Tuttavia la più vergognosa di tutte è la perdita di tempo che avviene per negligenza . E se vuoi badare, gran parte della vita sfugge nel fare il male, una grandissima parte nel non far nulla, tutta la vita a fare altro.
2 Occorre valutare il presente per non essere dipendenti dal futuro
Chi mi indicherai che determini un prezzo per il tempo, che dia un valore al giorno, che si renda conto di morire ogni giorno? In questo ci sbagliamo, che guardiamo la morte avanti a noi: invece gran parte di lei è già alle nostre spalle. Tutto il tempo dietro a noi, lo tiene in pugno la morte. Fa’ dunque, o mio Lucilio, quello che mi scrivi di fare già, abbraccia tutte le tue ore, avverrà così che tu dipenda meno dal domani , se allungherai la mano sull’oggi.
3 Il tempo è l’unico nostro bene e va difeso e custodito
Mentre si rincorre, la vita se ne va. Tutto appartiene ad altri, solo il tempo è una cosa nostra; la natura ci ha immesso nel possesso di un solo bene, fugace e sfuggente, dal quale ci caccia chiunque lo voglia.. E tanta è la stoltezza dei mortali che si riconoscono debitori (imputari sibi patiantur), una volta ottenutale (cum inpetravere), di cose che sono di scarsissima importanza e di scarsissimo valore e sicuramente recuperabili; nessuno invece, che abbia ricevuto del tempo, , ritiene di essere debitore di alcunché, mentre è questa l’unica cosa che neppure una persona grata può restituire.
4 Il tempo, come fosse denaro, va sempre tenuto controllato
Chiederai forse che cosa faccio io, che ti do questi consigli. Te lo dirò schiettamente: : quello che capita a chi spende molto (luxuriosum) ma che è sempre attento (diligentem), ho sempre il controllo della spesa. Non posso dire di non sprecare nulla, ma posso dire che cosa spendo, quanto e come, posso dire le cause della mia indigenza. Ma a me capita quello che capita a coloro che si sono ridotti in miseria non per colpa loro: tutti dimostrano comprensione, ma nessuno dà loro una mano.
5 Conclusione della lettera e riepilogo del contenuto dottrinale in forma di sentenza
Quale è dunque la conclusione? Non ritengo povero colui il quale, per quanto poco gli resti, ne ha abbastanza; quanto a te, tuttavia, preferisco che tu tenga da conto le tue cose, e comincerai al momento giusto. Infatti, come è sembrato ai nostri antichi, “è troppo tardi risparmiare quando si è al fondo” . Al fondo non resta solo la parte più piccola, ma anche la peggiore. Addio”


Seneca Lucilio suo salutem
1 Ita fac, mi Lucili: vindica te tibi, et tempus quod adhuc aut auferebantur aut subripiebatur aut excidebat collige et serva. Persuade tibi hoc sic esse ut scribo: quaedam tempora eripiuntur nobis, quaedam subducuntur, quaedam effluunt. Turpissima tamen est iactura quae per neglegentiam fit. Et si volueris adtendere, maxima pars vitae elabitur male agentibus, magna nihil agentibus, tota vita aliud agentibus.

 

2 Quem mihi dabis qui aliquod pretium tempori ponat, qui diem aestimet, qui intellegat se cotidie mori? In hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus: magna pars eius iam praeterit; quidquid aetatis retro est mors tenet. Fac ergo, mi Lucili, quod facere te scribis, omnes horas conplectere*; sic fiet ut minus ex crastino pendeas, si hodierno manum inieceris. Dum differtur vita transcurrit.

 

3 Omnia Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est; in huius rei unius fugacis ac lubricae possessionem natura nos misit, ex qua expellit quicumque vult. Et tanta stultitia mortalium est ut quae minima et vilissima sunt, certe reparabilia, inputari sibi cum inpetravere* patiantur, nemo se iudicet quicquarn debere qui tempus accepit, cum interim hoc unum est quod ne gratus quidem potest reddere.

 

4 Interrogabis fortasse quid ego faciam qui tibi ista praecipio. Fatebor ingenue quod apud luxuriosum sed diligentem evenit, ratio mihi constat inpensae. Non possum dicere nihil perdere, sed quid perdam et quare et quemadmodum dicam; causas paupertatis meae reddam. Sed evenit mihi quod plerisque non suo vitio ad inopiam redactis: omnes ignoscunt, nemo succurrit. 5 Quid ergo est? Non puto pauperem cui quantulumcumque superest sat est; tu tamen malo serves tua, et bono tempore incipies. Nam ut visum est maioribus nostris , "sera parsimonia in fundo est" , non enim tantum minimum sed pessimum remanet. Vale.

* complectere imperativo presente, 2' sing di complector (qui nella forma conplector)

*inpetravere: perfetto indicativo, 3' pl  di impetro (qui inpetro)

Seneca saluta il suo Lucilio
1Procura, o mio caro Lucilio, di essere davvero padrone di te stesso, di recuperare e di custodire gelosamente il tempo che finora o ti lasciavi portar via o o ti veniva sottratto o andava perduto. Persuaditi di questa verità: una parte del tempo ci è tolta, di un'altra siamo privati senza che ce ne accorgiamo, un'altra ancora ci sfugge. Ma la perdita più vergognosa è quella che avviene a causa della nostra negligenza. E se vorrai prestare un po' di attenzione, ti convincerai che gli uomini trascorrono la più gran parte della vita operando malamente, non poco tempo facendo niente, tutti i giorni occupandosi di cose diverse da quelle di cui uno dovrebbe occuparsi.
2 Orsù, dimmi, conosci tu qualcuno che non disprezzi del tutto il tempo, che riconosca il valore di una giornata, che si renda ben conto che non passa giorno senza che egli muoia un poco? Infatti ci sbagliamo scorgendo la morte dinanzi a noi: essa, in gran parte, ci sta già dietro le spalle. Tutti gli anni passati sono nel dominio della morte. Dunque, o mio Lucilio, così come tu dici, non lasciarti sfuggire un'ora sola. Se sarai padrone del presente, meno dipenderai dall'avvenire. Si rimanda al domani quanto si dovrebbe fare oggi, ed intanto la vita se ne va.
3 Niente, o Lucilio, all'infuori del tempo, ci appartiene: la natura ci ha messi in possesso di questo solo bene, fuggevole e malsicuro, di cui chiunque può, se vuole, privarci. Ed ora considera quanto siano stolti gli uomini: essi lasciano che siano loro messe in conto cose di nessuna importanza e di nessun valore, facilmente ricuperabili, che hanno ottenuto; ma non c'è nessuno che si ritenga in qualche misura debitore, pur avendo ricevuto in dono il tempo, l'unica cosa che neppure chi è disposto alla riconoscenza può restituire.
4 Forse mi chiederai: «e che cosa fai tu che ti permetti di darmi tali consigli?». Confesserò schiettamente: come succede ad un uomo amante del lusso ma economo, mi torna il conto della spesa. Non posso affermare di non perdere neppure un momento, ma saprei dire ciò che perdo e perché e come: rendere ragione della mia povertà. Mi trovo nelle stesse condizioni della maggior parte di quelli che sono stati ridotti in miseria senza propria colpa: tutti li compatiscono, nessuno li soccorre. E che dunque? Non giudico povero chi si accontenta, per quanto poco gli resti; tuttavia preferirei che tu tenessi in serbo i tuoi beni; e comincerai a fare ciò a tempo giusto. Infatti, come pensavano i nostri antenati, troppo tardi si fa economia quando si è giunti al fondo del recipiente: ché nel fondo si trova non solo la parte più piccola, ma anche la meno buona. Addio.

 


Epistulae morales ad Lucilium  7, 6-9  (traduzione libera)

7…..Subducendus populo est tener animus et parum tenax recti: facile transitur ad plures. Socrati et Catoni et Laelio excutere morem suum dissimilis multitudo potuisset: adeo nemo nostrum, qui cum maxime concinnamus ingenium, ferre impetum vitiorum tam magno comitatu venientium potest. Unum exemplum luxuriae aut avaritiae multum mali facit: convictor delicatus paulatim enervat et mollit, vicinus dives cupiditatem irritat, malignus comes quamvis candido et simplici rubiginem suam affricuit: quid tu accidere his moribus credis in quos publice factus est impetus? Necesse est aut imiteris aut oderis. Utrumque autem devitandum est: neve similis malis fias, quia multi sunt, neve inimicus multis, quia dissimiles sunt. Recede in te ipse quantum potes; cum his versare qui te meliorem facturi sunt, illos admitte quos tu potes facere meliores. Mutuo ista fiunt, et homines dum docent discunt. Non est quod te gloria publicandi ingenii producat in medium, ut recitare istis velis aut disputare; quod facere te vellem, si haberes isti populo idoneam mercem: nemo est qui intellegere te possit. Aliquis fortasse, unus aut alter incidet, et hic ipse formandus tibi erit instituendusque ad intellectum tui. 'Cui ergo ista didici?' Non est quod timeas ne operam perdideris, si tibi didicisti.
Sed ne soli mihi hodie didicerim, communicabo tecum quae occurrunt mihi egregie dicta circa eundem fere sensum tria, ex quibus unum haec epistula in debitum solvet, duo in antecessum accipe. Democritus ait, 'unus mihi pro populo est, et populus pro uno'. Bene et ille, quisquis fuit - ambigitur enim de auctore -, cum quaereretur ab illo quo tanta diligentia artis spectaret ad paucissimos perventurae, 'satis sunt' inquit 'mihi pauci, satis est unus, satis est nullus'. Egregie hoc tertium Epicurus, cum uni ex consortibus studiorum suorum scriberet: 'haec' inquit 'ego non multis, sed tibi; satis enim magnum alter alteri theatrum sumus'. Ista, mi Lucili, condenda in animum sunt, ut contemnas voluptatem ex plurium assensione venientem. Multi te laudant: ecquid habes cur placeas tibi, si is es quem intellegant multi ? introrsus bona tua spectent. Vale.

Seneca saluta il suo Lucilio. (questa parte manca nel testo latino, fino al par. 7)
Tu vuoi sapere che cosa ritengo si debba principalmente evitare? La folla. Non la puoi ancora frequentare senza pericolo. Io almeno confesserò la mia debolezza: riporto a casa quei costumi che ho portato fuori. Quel poco che avevo messo in ordine viene turbate, ritorna qualcuno dei vizi che avevo cacciato. Ciò che succede agli ammalati che una lunga infermità ha afflitto a tal punto che non possono uscire senza danno, questo stesso succede pure a noi: anche i nostri animi stanno rimettendosi da una lunga malattia. La dimestichezza con la folla è nociva: ognuno o ci raccomanda un vizio o ce lo trasmette o ci unge senza che noi ce ne accorgiamo. Ed il pericolo è tanto più grande quanto più grande è la folla nella quale ci confondiamo. In verità che cosa può esserci di più dannoso ala virtù che poltrire assistendo ad uno spettacolo? Infatti allora i vizi, favoriti dal piacere più facilmente si insidiano nell'animo. Che cosa pensi che io dica? Ritorno a casa non solo più avido di beni materiali, ma anche più crudele più inumano perché sono stato tra gli uomini. Per caso capitai in uno spettacolo meridiano aspettandomi giochi e facezie e qualcosa di riposante con cui gli occhi degli uomini si possono riposare dalla vista del sangue umano. È tutto il contrario: i combattimenti precedenti erano opera di misericordia; ora lasciate da parte le bazzecole, avvengono veri e propri omicidi. I gladiatori non hanno nulla con cui proteggersi. Esposti ai colpi in tutto il corpo, mai spingono avanti invano la mano armata. Questo genere di lotta i più lo preferiscono alle coppie di gladiatori ordinarie e straordinarie. E perché non dovrebbero preferirli? La spada non può essere respinta con l'elmo, con lo scudo. A che cosa servono le difese? A cosa servono le schermaglie? Tutte queste cose sono indugi alla morte. Al mattino gli uomini sono gettati ai leoni e agli orsi, a mezzogiorno ai loro spettatori. Gli spettatori ordinano che gli uccisori siano gettati in pasto a quelli che gli uccideranno e riservano il vincitore per un'altra strage: il risultato dai combattimenti è la morte: si combatte col ferro e col fuoco. Queste cose accadono mentre l'arena è vuota! "Ma qualcuno ha commesso un furto ed ucciso un uomo". E allora? Quello perché ha ucciso ha meritato di subire ciò e tu sciagurato che pena hai meritato per guardare questo? "Uccidilo, colpiscilo, brucialo! Ma perché va in contro alla spada con tanto timore? Perché uccide con poca audacia, perché muore poco volentieri. Lo si spinga con le botte in contro alle ferite: ricevano colpi reciproci con i petti nudi e posti l'uno di fronte all'altro". Lo spettacolo è sospeso: "Nel frattempo si sgozzino altri uomini affinché non si stia a far niente". Suvvia non comprendete che i cattivi esempi ricadano sopra quelli che li fanno. Ringraziate gli dei immortali perché insegnate ad essere crudele a colui che non può imparare (si riferisce a Nerone).
7 Va tenuto lontano dalla folla l'animo debole e poco saldo nel bene: è facile passare dalla parte dei più (maggioranza). Una massa dissimile avrebbe potuto strappare i costumi (principi) persino a Socrate, Catone, Lelio; nessuno di noi, nel momento in cui cerchiamo di accordare il nostro spirito (soprattutto quando il nostro carattere è in formazione), può resistere alla pressione dei vizi che arrivano con grande seguito. Un solo esempio di mollezza o di avarizia fa molto male (produce gravi danni): un commensale dedito ai piaceri a poco a poco ci rende fiacchi e molli, un vicino ricco incita il desiderio (scatena la tua avidità), un compagno malvagio, per quanto candido e semplice attacca la sua ruggine (contamina anche un uomo semplice e puro): che cosa pensi che succeda a quei caratteri contro i quali fa impeto tutta una folla? E' necessario che o li imiti o li odi. Ma sono da evitare l'uno e l'altro (estremo): non devi assimilarti ai malvagi, perché sono molti, né essere nemico di molti, perché sono dissimili. Ritirati in te stesso per quanto puoi; frequenta le persone che possono renderti migliore e accogli quelli che puoi rendere migliori. Il vantaggio è reciproco perché mentre gli uomini insegnano, imparano. Non c'è ragione per cui il desiderio di gloria debba spingerti a esibire a tutti il tuo ingegno in mezzo alla folla, con la voglia di tenere pubbliche letture o di dissertare; ti consiglierei di agire così, se tu avessi merce adatta alla massa, ma non c'è nessuno in grado di capirti. Forse qualcuno, uno o due capiranno, e tu dovrai formarlo ed educarlo perché ti possa capire. "Ma allora, per chi ho imparato tutto questo?" Non è il caso che tu tema di aver perso il tuo tempo, se hai imparato per te.
Ma per evitare di aver imparato solo per me oggi, ti scriverò tre belle massime che mi è capitato di leggere all'incirca sullo stesso argomento: di queste una salda il mio debito per questa lettera, le altre due prendile come anticipo. Scrive Democrito: "Secondo me, una sola persona vale quanto tutto il popolo e il popolo quanto una sola persona." Dice bene anche quell'altro, chiunque sia stato (è incerto, infatti, di chi si tratti); gli chiedevano perché si applicasse con tanto impegno a una materia che pochissimi avrebbero compreso, rispose: "A me bastano poche persone, anzi anche una sola o addirittura nessuna." Eccellente anche questa terza affermazione, di Epicuro; in una sua lettera a un compagno di studi: "Io parlo non per molti, ma per te;" scrive, "noi siamo l'uno per l'altro un teatro sufficientemente grande." Devi, caro Lucilio, serbare in te queste massime, per disprezzare il piacere che deriva dal consenso generale. Molti ti lodano; ma perché dovresti rallegrarti se sono in tanti a capirti? I tuoi meriti ricerchino l'approvazione della tua coscienza. Stammi bene.
Contestualizzazione
La civiltà sta cambiando, ma per il momento solo Seneca va contro questa pratica degli spettacoli; però è più una forma di disgusto che di protesta. Infatti lui è il saggio aristocratico che odia il volgo, è presente una aristocratica superiorità. Si ritira a meditare su se stesso, le illusioni sono venute meno (frase su Nerone) si ritira dalla vita attiva, richiesta di interiorità che emerge. Seneca sviluppa il tema della necessità di sottrarsi all'influsso della massa in un discorso che culmina nel celebre "recede in te ipse". Era un tema della predicazione morale quello di mettere in guardia dall'amalgamarsi con gente di basso e scarso valore. Seneca specifica chi deve essere tenuto lontano dalla folla"un animo tenero e nn ancora ben radicato nel bene". Questo ci dice che l'opera di perfezionamento individuale riguarda la fase di spinta verticale. L'atteggiamento di Seneca non fa distinzione sociale tra umili e potenti, il popolo da cui star lontano è quello delle persone inguaribili dai loro mali.

I temi: il corpo dell'argomentazione è legato all'inutilità di avere rapporti che sono peraltro pericolosi con gente con la quale ne si ha ne si puo avere in comune.

Lo stile: l'aspetto più interessante è la scelta linguistica. Seneca non scegli il vocabolo che suona meglio ma quello che colpisce per la sua carica metaforica ed evocativa.

 

Epistulae morales ad Lucilium, 101 (4-7) (traduzione libera)
Come è insensato disporre della propria vita, se non siamo padroni neppure del domani! Come sono pazzi quelli che danno il via a progetti lontani nell'avvenire: comprerò, costruirò, darò denaro in prestito, ne riscuoterò, ricoprirò cariche, e alla fine passerò in ozio, stanco e soddisfatto, la vecchiaia. 5 Credimi: tutto è incerto, anche per gli uomini fortunati; nessuno deve ripromettersi niente per il futuro; anche quello che abbiamo fra le mani ci sfugge e il caso tronca l'ora stessa che stringiamo. Il tempo passa secondo una legge determinata, ma a noi sconosciuta: e che mi importa se per la natura è certo quello che per me è incerto? 6 Ci proponiamo lunghi viaggi per mare e un ritorno in patria lontano nel tempo, dopo aver vagato per lidi stranieri; imprese militari e tardive ricompense di fatiche guerresche, amministrazioni di province e avanzamenti di carriera, di carica in carica, mentre la morte ci sta accanto; e poiché non ci pensiamo mai, se non quando tocca agli altri, di tanto in tanto ci vengono messi davanti esempi della nostra mortalità, che, però, durano in noi solo quanto il nostro stupore. 7 Ma niente è più sciocco che stupirsi che accada un giorno quanto può accadere ogni giorno. Il termine della nostra vita sta dove l'ha fissato l'inesorabile ineluttabilità del destino; ma nessuno di noi sa quanto si trovi vicino alla fine; disponiamo, perciò la nostra anima come se fossimo arrivati al momento estremo. Non rinviamo niente; chiudiamo ogni giorno il bilancio con la vita.

Epistulae morales ad Lucilium, 101 (7-10) (traduzione libera)

 Nihil differamus; cotidie cum vita paria faciamus. [8] Maximumvitae vitium est quod inperfecta semper est, quod [in] aliquid ex illadiffertur. Qui cotidie vitae suae summam manum inposuit non indiget tempore;ex hac autem indigentia timor nascitur et cupiditas futuri exedens animum. Nihil est miserius dubitatione venientium quorsus evadant; quantum sitillud quod restat aut quale sollicita mens inexplicabili formidine agitatur. [9] Quo modo effugiemus hanc volutationem? Uno: si vita nostra non prominebit, si in se colligitur; ille enim ex futuro suspenditur cui inritum est praesens. Ubi vero quidquid mihi debui redditum est, ubi stabilita mens scit nihilinteresse inter diem et saeculum, quidquid deinceps dierum rerumque venturumest ex alto prospicit et cum multo risu seriem temporum cogitat. Quid enimvarietas mobilitasque casuum perturbabit, si certus sis adversus incerta? [10] Ideo propera, Lucili mi, vivere, et singulos dies singulas vitas puta. Qui hoc modo se aptavit, cui vita sua cotidie fuit tota, securus est……

Non rinviamo niente; chiudiamo ogni giorno il bilancio con la vita. 8 Il difetto maggiore dell'esistenza è di essere sempre incompiuta e che sempre se ne rimanda una parte. Chi dà ogni giorno l'ultima mano alla sua vita, non ha bisogno di tempo; da questo bisogno nascono la paura e la brama del futuro che rode l'anima. Non c'è niente di più triste che chiedersi quale esito avranno gli eventi futuri; se uno si preoccupa di quanto gli resta da vivere o di come, è agitato da una paura inguaribile. 9 Come sfuggire a questa inquietudine? In un solo modo: la nostra vita non deve protendersi all'avvenire, deve raccogliersi in se stessa; chi non è in grado di vivere il presente, è in balia del futuro. Ma quando ho pagato il debito che avevo con me stesso, quando ho ben chiaro in testa che non c'è differenza tra un giorno e un secolo, posso guardare con distacco il susseguirsi dei giorni e degli eventi futuri e pensare sorridendo al succedersi degli anni. Se uno è saldo di fronte all'incerto, non può turbarlo la varietà e l'incostanza dei casi della vita. 10 Affrettati, perciò a vivere, Lucilio mio, e i singoli giorni siano per te una vita. Chi si forma così e ogni giorno vive compiutamente la sua vita, è tranquillo…

 

Fonte: http://digilander.libero.it/leo.eli/classe%20V_MATERIALI/MATERIALI_LATINO/AUTORI/01_SENECA_tempo_Testi_con_libera_traduzione.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

LATINO:

Seneca - De Brevitate Vitae

Uno dei dialoghi di maggior rilievo di Seneca, il “De Brevitate Vitae” affronta la questione del tempo e del suo impiego.
Contro il senso comune, Seneca sostiene che la vita umana non è breve: sono gli uomini stessi a renderla tale sprecandola in futili attività. La ricerca del piacere e della gloria politica sono diversivi che disperdono l’uomo in mille impegni esteriori e gli impediscono di vivere la propria autentica esistenza, che si identifica con la dimensione interiore.

“Maior pars mortalium Pauline de naturae malignitate conqueritur quod in exiguum aevi gignimur quod haec tam velociter tam rapide dati nobis temporis spatia decurrant adeo ut exceptis admodum pacis ceteros in ipso vitae apparatu vita destituat. Nec huic publico ut opinantur malo turba tantum et imprudens vulgus ingemuit; clarorum quoque virorum hic affectus querellas evocavit. 2 Inde illa maximi medicorum exclamatio est: "vitam brevem esse longam artem". Inde Aristotelis cum rerum natura exigentis minime conveniens sapienti viro lis: "aetatis illam animalibus tantum indulsisse ut quina aut dena saecula educerent homini in tam multa ac magna genito tanto citeriorem terminum stare." 3 Non exiguum temporis habemus sed multum perdidimus. Satis longa vita et in maximarum rerum consummationem large data est si tota bene collocaretur; sed ubi per luxum ac neglegentiam diffluit ubi nulli bonae rei impenditur ultima demum necessitate cogente quam ire non intelleximus transisse sentimus. 4 Ita est: non accipimus brevem vitam sed fecimus nec inopes eius sed prodigi sumus. Sicut amplae et regiae opes ubi ad malum dominum pervenerunt momento dissipantur at quamvis modicae si bono custodi traditae sunt usu crescunt: ita aetas nostra bene disponenti multum patet.”

TRADUZIONE: La maggior parte dei mortali, o Paolino, si lagna per la cattiveria della natura, perché siamo messi al mondo per un esiguo periodo di tempo, perché questi periodi di tempo a noi concessi trascorrono così velocemente, così in fretta che, tranne pochissimi, la vita abbandoni gli altri nello stesso sorgere della vita. Né di tale calamità, comune a tutti, come credono, si lamentò solo la folla e il dissennato popolino; questo stato d’animo suscitò le lamentele anche di personaggi famosi. Da qui deriva la famosa esclamazione del più illustre dei medici, che la vita è breve, l’arte lunga; di qui la contesa, poco decorosa per un saggio, dell’esigente Aristotele con la natura delle cose, perché essa è stata tanto benevola nei confronti degli animali, che possono vivere cinque o dieci generazioni, ed invece ha concesso un tempo tanto più breve all’uomo, nato a tante e così grandi cose. Noi non disponiamo di poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto. La vita è lunga abbastanza e ci è stata data con larghezza per la realizzazione delle più grandi imprese, se fosse impiegata tutta con diligenza; ma quando essa trascorre nello spreco e nell’indifferenza, quando non viene spesa per nulla di buono, spinti alla fine dall’estrema necessità, ci accorgiamo che essa è passata e non ci siamo accorti del suo trascorrere. È così: non riceviamo una vita breve, ma l’abbiamo resa noi, e non siamo poveri di essa, ma prodighi. Come sontuose e regali ricchezze, quando siano giunte ad un cattivo padrone, vengono dissipate in un attimo, ma, benché modeste, se vengono affidate ad un buon custode, si incrementano con l’investimento, così la nostra vita molto si estende per chi sa bene gestirla.

“Quid de rerum natura querimur? Illa se benigne gessit: vita si uti scias longa est. [At] alium insatiabilis tenet avaritia; alium in supervacuis laboribus operosa sedulitas; alius vino madet alius inertia torpet; alium defetigat ex alienis iudiciis suspensa semper ambitio alium mercandi praeceps cupiditas circa omnis terras omnia maria spe lucri ducit; quosdam torquet cupido militiae numquam non aut alienis periculis intentos aut suis anxios; sunt quos ingratus superiorum cultus voluntaria servitute consumat; 2 multos aut affectatio alienae formae aut suae querella detinuit; plerosque nihil certum sequentis vaga et inconstans et sibi displicens levitas per nova consilia iactavit; quibusdam nihil quo cursum derigant placet sed marcentis oscitantisque fata deprendunt adeo ut quod apud maximum poetarum more oraculi dictum est verum esse non dubitem: "Exigua pars est vitae qua vivimus. Ceterum quidem omne spatium non vita sed tempus est. 3 Urgent et circumstant vitia undique nec resurgere aut in dispectum veri attollere oculos sinunt. Et immersos et in cupiditatem infixos premunt numquam illis recurrere ad se licet. Si quando aliqua fortuito quies contigit velut profundo mari in quo post ventum quoque volutatio est fluctuantur nec umquam illis a cupiditatibus suis otium stat. 4 De istis me putas dicere quorum in confesso mala sunt? Aspice illos ad quorum felicitatem concurritur:bonis suis effocantur. Quam multis divitiae graves sunt! Quam multorum eloquentia et cotidiana ostentandi ingenii sollicitatio sanguinem educit! Quam multi continuis voluptatibus pallent! Quam multis nihil liberi relinquit circumfusus clientium populus! Omnis denique istos ab infimis usque ad summos pererra: hic advocat hic adest ille periclitatur ille defendit ille iudicat nemo se sibi vindicat alius in alium consumitur. Interroga de istis quorum nomina ediscuntur his illos dinosci videbis notis: ille illius ius cultor est hic illius; suus nemo est. 5 Deinde dementissima quorundam indignatio est: queruntur de superiorum fastidio quod ipsis adire volentibus non vacaverint! Audet quisquam de alterius superbia queri qui sibi ipse numquam vacat? Ille tamen te quisquis es insolenti quidem vultu sed aliquando respexit ille aures suas ad tua verba demisit ille te ad latus suum recepit: tu non inspicere te umquam non audire dignatus es. Non est itaque quod ista officia cuiquam imputes quoniam quidem cum illa faceres non esse cum alio volebas sed tecum esse non poteras.”

TRADUZIONE: Perché ci lamentiamo della natura delle cose? Essa si è comportata in maniera benevola: la vita è lunga, se sai farne uso. C’è chi è preso da insaziabile avidità, chi dalle vuote occupazioni di una frenetica attività; uno è fradicio di vino, un altro languisce nell’inerzia; uno è stressato da un’ambizione sempre dipendente dai giudizi altrui, un altro è sballottato per tutte le terre da un’avventata bramosia del commercio, per tutti i mari dal miraggio del guadagno; alcuni tortura la smania della guerra, vogliosi di creare pericoli agli altri o preoccupati dei propri; vi sono altri che logora l’ingrato servilismo dei potenti in una volontaria schiavitù; molti sono prigionieri della brama dell’altrui bellezza o della cura della propria; la maggior parte, che non ha riferimenti stabili, viene sospinta a mutar parere da una leggerezza volubile ed instabile e scontenta di sé; a certuni non piace nulla a cui drizzar la rotta, ma vengono sorpresi dal destino intorpiditi e neghittosi, sicché non ho alcun dubbio che sia vero ciò che vien detto, sotto forma di oracolo, nel più grande dei poeti: "Piccola è la porzione di vita che viviamo". Infatti tutto lo spazio rimanente non è vita, ma tempo. I vizi premono ed assediano da ogni parte e non permettono di risollevarsi o alzare gli occhi a discernere il vero, ma li schiacciano immersi ed inchiodati al piacere. Giammai ad essi è permesso rifugiarsi in se stessi; se talora gli tocca per caso un attimo di tregua, come in alto mare, dove anche dopo il vento vi è perturbazione, ondeggiano e mai trovano pace alle loro passioni. Pensi che io parli di costoro, i cui mali sono evidenti? Guarda quelli, alla cui buona sorte si accorre: sono soffocati dai loro beni. Per quanti le ricchezze costituiscono un fardello! A quanti fa sputar sangue l’eloquenza e la quotidiana ostentazione del proprio ingegno! Quanti sono pallidi per i continui piaceri! A quanti non lascia un attimo di respiro l’ossessionante calca dei clienti! Dunque, passa in rassegna tutti costoro, dai più umili ai più potenti: questo cerca un avvocato, questo è presente, quello cerca di esibire le prove, quello difende, quello è giudice, nessuno rivendica per se stesso la propria libertà, ci si consuma l’uno per l’altro. Infòrmati di costoro, i cui nomi si imparano, vedrai che essi si riconoscono da questi segni: questo è cultore di quello, quello di quell’altro; nessuno appartiene a se stesso. Insomma è estremamente irragionevole lo sdegno di taluni: si lamentano dell’alterigia dei potenti, perché questi non hanno il tempo di venire incontro ai loro desideri. Osa lagnarsi della superbia altrui chi non ha tempo per sé? Quello almeno, chiunque tu sia, benché con volto arrogante ma qualche volta ti ha guardato, ha abbassato le orecchie alle tue parole, ti ha accolto al suo fianco: tu non ti sei mai degnato di guardare dentro di te, di ascoltarti. Non vi è motivo perciò di rinfacciare ad alcuno questi servigi, poiché li hai fatti non perché desideravi stare con altri, ma perché non potevi stare con te stesso.

Il peggior difetto dell’uomo è dunque l’incapacità di ascoltare se stesso e vivere con se stesso. Spesso dà il suo tempo per scontato, come se fosse senza valore, non accorgendosi così di vivere solo una minima parte degli anni che la natura gli ha concesso, anche quando essi sono numerosi: il tempo trascorre, ma di questo ben poco è veramente vita. Seneca quindi invita a sottrarsi al possesso altrui, a rifiutare i condizionamenti effimeri del mondo che ci circonda e delle nostre passioni, per avviarci alla saggezza. Solo quando l’uomo si libera dai vincoli che lo immobilizzano, la vita gli sembrerà lunga: sapientis ergo multum patet vita […]; solus generis humani legibus solvitur, omnia illi saecula ut deo serviunt. Sciolto dalle leggi proprie dell’umanità, il sapiente si vedrà asservite tutte le età, come dio.
Successivamente Seneca distingue tra tempo oggettivo, che scorre indipendentemente dalla nostra volontà e tempo soggettivo, quello della vita, che dipende da noi, che muta a seconda di come lo impieghiamo; mentre il primo scorre con regolarità e costanza e non può essere né accorciato, né allungato, il secondo potrà essere più o meno lungo in funzione del nostro atteggiamento nei confronti dell’esistenza.
Per ritrovare il tempo sfuggito, l’uomo deve tornare nella propria interiorità da cui è allontanato a causa della pressione distraente della vita quotidiana. Riprende inoltre la tradizionale divisione del tempo secondo le tre dimensioni del presente, del passato e del futuro e sembra privilegiare il passato poiché questo, a differenza del presente che ci appare talmente breve da essere privo di dimensione e del futuro che ci si offre come incerto, ci dà la garanzia di un possesso sicuro e inattaccabile, grazie alla sua immutabilità ormai al riparo dalle avversità della sorte. Esso è soggettivamente depositato nella memoria, la quale si presenta come il più autentico possesso umano, quasi che la stessa personalità di ciascun individuo si identifichi con essa.
Tuttavia di questa dimensione del tempo gli affaccendati non sono in grado di fruire, poiché non hanno nessun desiderio di richiamare alla memoria un tempo passato che è stato sprecato: un tale ricordo li farebbe vivere in un perpetuo rimorso e in un doloroso rimpianto. Inoltre, anche volendo, l’affaccendato non ha il tempo di soffermarsi a ricordare, travolto com’è nella corsa cui lo condannano i quotidiani impegni. Il tempo e la vita sfuggono dalla sua memoria e dalla sua anima come “l’acqua da un recipiente bucato”. Mentre allo stolto si sottraggono insieme il presente del quale non sa fare buon uso e il passato che non è in grado di trattenere, il saggio, che vive lo stesso presente con maggior frutto, ha in qualsiasi momento a disposizione ogni dimensione del proprio tempo: in particolare, egli potrà sempre rivolgersi al passato che, rispetto al presente sempre fuggevole e all’incerto futuro, gli si presenterà come un sicuro tesoro di ricordi cui guardare con animo sereno.

 

Fonte: http://skuola.tiscali.it/sezioni/tesine/tesina-tempo-orme-sabbia.doc

autrice: Capuozzo Flavia

 

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