Il mare letterario

 


 

Il mare letterario

 

Letteratura italiana: il mare

L’Italia è una penisola protetta a Nord dalle Alpi ma consegnata al mare per la maggior parte dei suoi confini, adagiata tra il mar Tirreno, l'Adriatico e lo Ionio, tra il Mar Ligure e il Mar di Sicilia, e pur sempre dentro l’accogliente, protetto,domestico, chiuso, controllabile e tutto sommato tranquillo Mediterraneo, culla di civiltà e di culture disparate che sono state unite, come diceva poeticamente Fernand Braudel, dalla comune presenza dell’ulivo, del mandorlo e del melograno.
L’Italia è inoltre formata da due grandi isole, Sicilia e Sardegna - le più grandi d’Europa dopo le isole britanniche, ma non, come quelle, aperte all’Oceano, al suo Ignoto e alla sua Avventura – e da una quantità di piccole isole: in Toscana l’Elba e il suo arcipelago, sette isole in tutto; in Campania Ponza e Ventotene, e Ischia, Capri e Procida nel Golfo di Napoli; in Puglia, le Tremiti; e attorno alle isola maggiori molte minori: in Sicilia le vulcaniche  Eolie, le Pelagie, le Egadi, e Pantelleria, e Ustica; in Sardegna l’arcipelago della Maddalena, l’Asinara, Sant’Antioco e lo scoglio di San Pietro. E se è oltre le colonne d’Ercole, è uscendo dal Mediterraneo che il mare è mare, che la sua cangiante e pericolosa bellezza ha posto l’uomo di fronte ai più pericolosi dei misteri e delle conquiste, però fino al Cinquecento, fino alla Conquista del Nuovo Mondo, il Mediterraneo era il "mare nostrum" e il mare noto, il mare considerato primo e unico e culla della civiltà e della storia, il mare dell’Odissea, delle fatiche di Ulisse per ritornare alla sua piccola patria dopo la vittoria su Troia, e più tardi, molto più tardi, dell’esule troiano Enea, in fuga tra l'Africa e l'Etruria verso la fondazione e nascita, talora controvoglia, dell’Italia che sarà romana. E che diverrà malamente nazione solo nella seconda metà dell’Ottocento, dopo l’avventura, inizialmente marinara, dei Mille di Garibaldi.
Per i Fenici il Mediterraneo era il luogo della vita, dei traffici, del passaggi, per Omero e Virgilio è il ritorno a casa o la conquista di una casa, che, fuori dal deserto e dal mare, abbia sostanza stabile e terrestre. Per Omero, per Virgilio, il mare è qualcosa di più di uno sfondo, è il luogo del movimento e dei passaggi, delle partenze e dei ritorni, delle fughe e della ricerca di un punto d'arrivo, di pace; più tardi, per le nostre Repubbliche marinare  – Venezia e Genova, anzitutto, ma anche Pisa e Amalfi – è il luogo dei commerci, e della conquista che ne procura il controllo, ed è nel mare che si combatteranno le battaglie più aspre, per il dominio sui territori interni e le coste, fino ai grandi scontri con Turchi e Musulmani di cui, oggi, c’è chi ha una malsana nostalgia ed è tornato a chiamarli “scontri di civiltà”. Ma nella letteratura prodotta dall’età di mezzo, prima della scoperta delle Americhe, si direbbe che il mare sia presente solo nelle relazioni degli ammiragli, nelle notizie e nei bollettini dei mercati. Il mare non produce immaginario, o quantomeno non produce immaginario nei letterati. Perfino Dante, nella Commedia, non fa che tornare ad Omero, e arrestarsi con Ulisse davanti alle colonne d’Ercole, alla difficile apertura su un ignoto il cui disvelamento potrebbe,e potrà, cambiare tutto.
Vedremo come il mito di Ulisse abbia continuato a operare nell’unico grande romanzo marinaro prodotto dalla letteratura italiana del Novecento, ma constatiamo per ora il divario tra una fortissima presenza del mare nella storia della penisola Italia, e la sua scarsissima presenza, invece, in quella letteraria. Per paradosso, uno dei più possenti brani musicali dedicati al mare, la mediterranea tempesta che dà inizio grandioso all’ottocentesco Otello di Verdi, è di derivazione scespiriana, è in qualche modo un sottoprodotto di quella conoscenza forte delle “ragioni” del mare che è stata della civiltà inglese, ragioni affermate dall’era di Elisabetta finanche sul teatro (e cos’era La tempesta se non una metafora dei sogni e delle paure del Vecchio Mondo nei confronti del Nuovo?). Un luogo comune ha sostenuto esser l’Italia una terra di santi, poeti e navigatori, ma se i santi e poeti hanno lasciato tracce scritte assai forti, i navigatori no: ed è come se avessero arato sull’acqua. E questa metafora rimanda direttamente alla definizione di “contadini del mare” che è stata data più volte dei nostri pescatori, e perfino dei nostri marinai.
La Conquista del Nuovo Mondo strappò al Mediterraneo la sua centralità. Né il ruolo avuto dai navigatori italiani nella “scoperta” delle Indie presunte o vere, con i suoi Colombo e Vespucci eccetera, è stato esaltato come è accaduto in altre culture. Ma forse è solo l’Oceano a stimolare la grandiosità delle visioni, e delle Conquiste, se perfino la Spagna non è riuscita a dare un Camoes? Per eccitarsi, la letteratura ha bisogno della vastità e inconoscibilità dell'Oceano, della paura dell'Oceano? Anche Conrad ha dovuto farsi inglese per poter cantare il mare adeguatamente, e costruire con i suoi romanzi la più vasta, appassionante e terribile delle epopee del mare – un mare plasmatore, rimodellatore, distruttore di invididualità nel dramma e fin nella tragedia – tra Stevenson e Melville suoi predecessori e in qualche modo maestri, sia pure su “lunghezze d’onda” decisamente diverse. Ma l’Italia? Ben poco nel Sei e Settecento, e poco perfino nell’Ottocento, se si esclude quel De Amicis che tanti hanno voluto vituperare per il suo pedagogismo talora ossessivo, ma che è stato tra i pochi, quasi l’unico con cos' forte insistenza, a combattere due tabù speculari, dopo l’Unità: quello del racconto del mare e quello del racconto della grande emigrazione dei poveri verso le Americhe, in romanzi-reportages che furono anticipatori di una voga recente (affermata e magnificamente illustrata da un grande polacco, Ryszard Kapuscinski), soprattutto con Sull’Oceano,  e riportando sul terreno delle storia e non della sola geografia, dell’avventura concreta e difficile e non della sola immaginazione i “figli del capitano Grant” con il racconto di una concretissima ricerca per mare e per terra di un ragazzino sulla rotta dell’emigrazione argentina, in Dagli Appennini alle Ande. Senza lo sfondo del mare e il contesto di una piccola isola vulcanica siciliana non si apprezzerebbe ugualmente anche un altro racconto suo, Carmela, dai Ricordi di vita militare: la ragazza bellissima e pazza che insidia e perseguita il giovane graduato del Nord è l’immagine preoccupante del Sud, per il nordico autore, di un’aspra civiltà dominata dal mare e dal fuoco dei vulcani.
Il siciliano Verga, con I Malavoglia (che ha ispirato uno dei rari, e il più ambizioso dei film del neorealismo dove il mare è una presenza vera e dominante, La terra trema di Luchino Visconti), dimostrò ancora una volta che il mare era paura, minaccia. Il quieto Mediterraneo di un tempo non sembrava più umano e controllabile, nell’Italia-nazione, e il mondo dei pescatori e dei marinai doveva  ancorarsi alla terra, decisamente, saldamente. Il mare è amaro e mette paura, il mare è fatica e insicurezza, il mare è guerra (Lissa). Dal mare sono venute ieri le minacce esterne, i saraceni e i turchi delle provvisorie invasioni su coste malamente difese. Ma soprattutto, diceva Verga, “il mare non ha paese”, la sicurezza è la terra. Fino a tempi recenti, e posso testimoniarlo direttamente, erano pochi i pescatori siciliani che sapessero nuotare. E spesso le loro sortite notturne o diurne con la lampara o sui pescherecci a motore che si potevano spingere più lontano, erano un'aggiunta e un intervallo, erano spesso un secondo lavoro rispetto a quello del contadino. Contadini del mare fu anche il titolo di un bel documentario di Vittorio De Seta, verso la metà degli anni cinquanta, sulla mattanza dei tonni, raccontata anche in un lungometraggio di Roberto Rossellini, Stromboli, storia di un’isola vissuta come prigione da un’inquieta eroina venuta da lontano, interpretata da una spaesata Ingrid Bergman. (Di De Seta sono anche Il tempo del pesce spada e Pescherecci, splendidi documentari poetici, mentre Rossellini aveva esordito nel cinema con un marinaro film di guerra anticipatore del neorealismo, La nave bianca. Tra i rarissimi film che hanno al centro il mare – oltre qualche “sceneggiata” napoletana su oleografici pescatori – si possono ricordare un ambizioso e fallito tentativo di Renato Castellani, Mare matto, e altri film di guerra ma stavolta in chiave nostalgica, negli anni dopo la guerra, e un curioso Il grido della terra di Coletti, che raccontò in sottotono quel che Hollywood rese roboante e retorico in Exodus di Preminger, la contrastata traversata del Mediterraneo di gruppi di ebrei, dopo la shoah, verso Israele.)
Ma torniamo alla letteratura, tra i contempoeranei di Verga e di De Amicis, nell’Italia tra otto e novecento. Se quella di avventura e popolare dedicò qualche attenzione al mare fu grazie a Emilio Salgari, ai suoi molto esotici Pirati della Malesia e si suoi corsari più tradizionali, soprattutto Il corsaro  nero e sua figlia Yolanda, simpaticamente retorici ma, nella scrittura, fin troppo trasandati. Ai quali non poteva arridere il successo internazionale che ebbero invece quelli dello scrittore di lingua  inglese nato a Jesi nelle pacifiche Marche da padre italiano, a due passi dal pacifico Mar Adriatico: Rafael Sabatini, l'autore di una trilogia resa indimenticabile dai film che gli dedicò Hollywood con interpreti Errol Flynn o Tyrone Power, Capitan Blood, Lo sparviero del mare e Il cigno nero. Negli anni venti e trenta del Novecento ebbero molta voga i romanzi piuttosto sentimentali di Guido Milanesi, che si era fatto una specialità dell’intrattenimento per adulti con retoriche storie contemporanee ambientate sul mare, come Sancta Maria o L’ancora d’oro, spesso a sfondo militare.  E il mare servì ancora da sfondo a molti film d’avventura popolare di Soldati o Paolella, a qualche “peplum” d’ambiente “antico romano” come Il colosso di Rodi di Sergio Leone, non ancora passato agli spaghetti-western. Ma, insomma, poca cosa. I grandi registi, come i grandi scrittori si occupavano d’altro. Non possiamo considerare davvero interessati al mare D’Annunzio (La nave) o Pirandello, Gadda (nonostante un bel racconto di guerra) o Tomasi di Lampedusa (con la favola Ligheia, che molto somiglia a La verità sul caso Motta di Soldati al punto di sembrarne una derivazione, ma derivando per la verità tutt'e due queste incursioni nel fantastico dalla Sirenetta di Andersen. Non ha avuto miglior fortuna la bellissima fiaba di Colapesce, il metà uomo e metà pesce, che scopre la fragile colonna sottomarina su cui si regge la Sicilia, nonostante l’abbiano ricostruita o ri-raccontata scrittori del calibro di Benedetto Croce, Italo Calvino, Leonardo Sciascia e Raffaele LaCapria.
Questi tre ultimi, appartenenti alla stessa generazione, meritano di essere affrontati più da vicino, dentro una provvisoria e arbitraria rassegna regionale, su e giù per la penisola. Cominciamo dalle isole. Di Verga si è detto, in Pirandello c’è poco, come in Capuana e De Roberto fino a Bufalino. Qualcosa di più, oggi, in Vincenzo Consolo (Il sorriso dell’ignoto marinaio, e non solo) e in Camilleri, più attuale ma anche  più superficiale. Sciascia ha scritto più volte della diffidenza del siciliano nei confronti del mare, e ci pare che l’abbia condivisa, se ne ha scritto anche lui così poco. Il Rapporto sulle coste di Sicilia è più una recensione che un saggio, e in qualche racconto e romanzo il mare compare come sfondo.
n è esistita – ma forse, oggi, chissà – una mafia del mare. Lo sviluppo attuale dell’economia siciliana ha molti fronti, e anche il mare va acquistandovi peso, anche se gli scrittori ancora non se ne accorgono. Ma del “prima” di questa ultima immane mutazione che chiamiamo “globalizzazione”, e dei cui effetti sul mare ha scritto in modo straordinariamente serio ed efficace soltanto William Langewiesche nel recente Terrore dal mare, uno dei grandi testi di rivelazione dello stato del mondo in cui viviamo, una inchiesta e analisi delle forze che controllano i traffici per gran parte loschi che si svolgono sui mari, che gli scrittori farebbero bene a conoscere e a studiare. Restando in Sicilia,  va pur ricordato il capolavoro, o quantomeno il romanzo del Novecento più ambizioso di tutti, nella nostra letteratura, come “racconto del mare”: Horcynus Horca di Stefano D’Arrigo. Datato al 1975, ma scritto e riscritto più e più volte prima e dopo, in un instancabile e nevrotico lavorio che ha logorato le energie dell’autore, è uno dei romanzi più complessi, difficili, nevrotici,  enormi e affascinanti dello scorso secolo. In esso D’Arrigo ha osato l’inosabile, confrontandosi sia con l’Odissea che con la sua derivazione modernista, l’Ulisse di Joyce. Il suo protagonista ‘Ndria Cambria, nocchiero della Regia Marina nell’anno di guerra 1943, tenta il ritorno a casa e attraversa le prove simili a quelle incontrate da Ulisse: ha una sua Circe e una sua Penelope, incontra le Sirene e le Parche e si confronta, assistito da uno “spiaggiatore”, direttamente con la Morte, la mostruosa Horca marina, la Fera, la carogna che vive, e affascina, e uccide. Che è la guerra ma che è più della guerra, che non è solo la guerra. Qui il mare, tra Scilla e Cariddi, è il mare del mito, è la summa del Mediterraneo cantato e temuto in cento lingue e dialetti. L’Horca è una Moby Dick più vicina a noi, spettrale e reale, morte del singolo e morte dell’umano... Con tutti i suoi difetti e le sue nevrotiche incompiutezze,  Horcynus Horca è comunque il più grande romanzo di mare di tutta la nostra letteratura di tutti i tempi...
Se la Sicilia vanta sul mare almeno un capolavoro, o ha osato il capolavoro, la Sardegna se ne è tenuta lontano, e davvero sono pochi i titoli in cui il mare abbia peso, se non nella dimensione realistica e insieme metaforica del difficile collegamento con l’Italia, con “il continente” (vedi in particolare Il quinto passo è l'addio di Sergio Atzeni, che doveva morire tragicamente in mare). Le mitologie sarde sono di montagne e pastori, assai più che di mare. I sardi hanno avuto paura delle coste e si sono rifugiati nell'interno, al contrario dei siciliani. E se è vero che è Nuoro la capitale della letteratura sarda, moderna (l’altra essendo solo dialettale e prevalentemente d’origine orale), Nuoro è davvero lontana dal mare, la Nuoro della Deledda, di Satta, e oggi del divulgatore Niffoi, molto alla moda. E forse è soltanto recentissimamente e con Alberto Capitta, che il mare entra di pieno diritto nella letteratura sarda, in una visione bensì favolosa e mitica, per niente realistica, in Il cielo nevica.
Dalla Campania, e cioè da Napoli, la capitale che pretende riassumerla, ricordiamo un bel dramma corale del grande uomo di teatro (attore, autore, regista) Raffaele Viviani, Pescatori, e che l'isola di Procida è molto di più che un fondale in L'isola di Arturo di Elsa Morante, dove il mare è dominante e che meriterebbe una lunga analisi, come la collina di Posillipo in Il cardillo addolorato di Anna Maria Ortese. Morante e Ortese sono le due più grandi scrittrici italiane del Novecento, grandi in assoluto, ma si direbbe che il mare (l'elemento acqua) appartenga più alla Morante, l'aria alla Ortese. Il mare era nel titolo ma provocatoriamente, a indicarne l'assenza, di un suo grande libro del dopoguerra, Il mare non bagna Napoli. E' ancora una donna, amica e "allieva" di entrambe, a saper raccontare il mare in molte sue opere e in particolare in L'isola riflessa, scritto sul finire del secolo, che racconta nei modi di un trasognato realismo natura e persone e storia di Ponza e di Ventotene, l'isoletta attraverso la quale tanti antifascisti passarono, mandati al confino da Mussolini, e lì conobbero, con scarso amore, il mare... Ma, con il romanzo morantiano, è Raffaele La Capria lo scrittore che più assiduamente e da vicino ha raccontato il mare, e che dal mare sembra venuto – sia pure da un mare addomesticato, splendidamente naturale e splendidamente borghese. Il mare, egli ha scritto, come regressione all'infanzia e mito dell'infanzia, il mare come "liquido amniotico dell'ispirazione", il mare come richiamo dell'Altrove: il mare, insomma, come luogo della felicità.
Di recente, un film semidocumentario di Vincenzo Marra ha saputo raccontare nuovamente ed efficacemente, al giorno d'oggi, le pene del mare e dei suoi pescatori del largo. Ma certo, se si pensa a Napoli, vengono in mente soprattutto melodie e parole di canzoni celeberrime, perlopiù idilliache (Santa Lucia, Marenariello, Piscatore 'e Pusilleco, 'Na bruna) ma anche dolorose (Santa Lucia luntana, la più celebre canzone dell'emigrazione verso le Americhe: "partono i bastimenti / pe' terre assai luntane"...).
La Liguria possiamo considerarla, per affinità letterarie, un luogo geografico-letterario in qualche modo unito alla Versilia e cioè alla confinante Toscana, con autori di molto valore, narratori di un mare anche qui più domestico che preoccupante: Italo Calvino, soprattutto, ma in quel suo modo molto molto intelligente e poco poco sanguigno,  e poi Francesco Biamonti  con molti buoni romanzi (L'angelo di Avrigue, Vento largo, Attesa sul mare), Nico Orengo anche con piccole squisite poesie, entrambi legatissimi al loro mare; e più a sud, sulla costa toscana, l'Enrico Pea di Fole,  di svagata maniera, e più di recente Marcello Venturi (L'ultimo veliero) e soprattutto Raffaello Brignetti, che è stato, con il più giovane Biamonti, il più assiduo narratore del mare nella seconda metà del Novecento e forse il più intrigante per la sua capacità di intrecciare e di sciogliere vicende come ricami: Morte per acqua, Il gabbiano azzurro, La spiaggia d'oro... Ma il gioiello della letteratura che possiamo chiamare ligure  e di mare è forse, o lo è a parere di chi scrive, una prosa di Eugenio Montale intitolata Una spiaggia in Liguria, molto di più che un elzeviro.
E altrove? In Calabria ben poco, se non i ritratti di luoghi  e persone del Padula ottocentesco, e qualcosa di Alvaro (ma il titolo di una della sua prima raccolta di racconti, Il mare, era del tutto abusivo), ben poco in Puglia (solo di recente, con Raffaele Nigro), e ben poco risalendo l'Adriatico, se si escludono le belle, bellissime prose di un altro grande innamorato del mare, Giovanni Comisso (Al vento dell'Adriatico e tante altre) e, più sopra, i poeti, soprattutto Biagio Marin poeta di Grado.
Certo, la nostra perlustrazione è superficiale e provvisoria, né conosciamo saggi consistenti che affrontano sinora affrontato questo tema (ma forse è una nostra mancanza, è nostra ignoranza), ma davvero si direbbe che il mare sia tornato d'attualità nella storia d'Italia soltanto di recente, con la riapertura, così drammatica, dei rapporti con l'Est via Adriatico, anche con l'Est più lontano, e con il Sud. L'Asia e l'Africa e non solo l'Europa orientale e il Medio Oriente si sono prepotentemente inserite (talora reinserite) nella nostra storia e nella nostra società con il vasto e spesso tragico fenomeno dell'immigrazione . E' un'inchiesta ad averne dato il resoconto più esemplare (di G. M. Bellu, I fantasmi di Porto Palo) ed è un film ad averne dato, nelle sue immagini finali, la più forte testimonianza visiva, Lamerica di Gianni Amelio (accessoriamente, con fiacca retorica, il film di M. T. Giordana Quando sei nato non puoi più nasconderti). I sette chilometri di mare che dividono l'Albania da Otranto, giù in fondo al nostro Adriatico, hanno visto molte tragedie tra la fine di un  secolo e l'inizio del nuovo, come il più vasto tratto di mare che divide Lampedusa e Pantelleria dalla Tiunisia. Hanno visto molte morti e molte sofferenze: troppe. E se durante la seconda guerra mondiale il Mediterraneo inghiottì molte vite italiane, oggi continua a inghiottirne tante, ma veramente tante, di molti paesi del mondo, vite di uomini donne bambini che sognavano il loro futuro al sicuro dalle insicurezze più gravi, un futuro sereno sul nostro territorio, sul territorio europeo. E la morte per acqua, quella di Fleba il fenicio, è davvero una delle più terribili delle morti.
C'è un vecchio racconto di Massimo Bontempelli – che teorizzava e praticava, al tempo delle avanguardie storiche, il "realismo magico" – in cui il narratore torna a visitare il mare dopo molto tempo e il mare si arrabbia con lui, gli fa una gran scenata con gran furia e rumore di onde, e solo con fatica egli riesce a tranquillizzarlo, promettendo d'ora in avanti un'attenzione, una considerazione, un rispetto maggiori . Si immagina questo racconto disegnato da un Savinio, con il suo mare umanizzato, antropomorfo, un gigante che esce dalle onde ed è onda spaventante, di fronte a coste timorose. Ma, oggi, si direbbe che il costo che il mare può chiederci per pacificarsi con la terra e con gli umani sia davvero altissimo e gravissimo, un costo di tante e tante e tante vite umane. Aggredito anch'esso dal potere e da un'economia sempre più incurante della natura e più distruttiva, il mare può venire ucciso dall'uomo, ma nel frattempo ucciderà probabilmente molti più uomini che in passato, per colpa nostra, di noi umani e soprattutto degli umani che comandano, sfruttano, manipolano. Diceva Borges che il mare è un idioma antico e indecifrabile.  E' vero, ma è altrettanto certo che le sue reazioni e il suo destino non dipenderanno dal suo mistero ma dalla nostra stupida e autodistruttiva mascalzonaggine. Di questo, la letteratura non sa ancora adeguatamente parlarci. Per questo, occorre rinviare non a un'opera letteraria italiana ma a un'inchiesta recente e americana, quella già ricordata di William Langewiesche.

 

Fonte: http://www.culturemediterranee.org/downloads/Il%20mare%20letterario.doc

 


 

Il mare letterario

Una vera e propria letteratura marinaresca in Italia la troviamo o nella letteratura divulgativa e di viaggi, esplorazioni e avventure molto in voga nella fine dell’800, quando vi fu una larga fioritura di periodici e riviste dedicate a questo specifico argomento, o nella letteratura per ragazzi, specie quella d’avventura: Salgari ha fatto del mare lo scenario di molti suoi romanzi e il suo progetto di letteratura avventurosa ebbe una giustificazione “pedagogica” nel fatto che, all’indomani della cosiddetta terzi guerra di indipendenza, lo scrittore veronese ritenne vergognoso per un paese circondato da tre lati dal mare essere sconfitto in una battaglia navale; egli voleva educare dunque i giovani italiani ad amare e padroneggiare il mare e a rafforzare il sentimento di eroismo e l’ardimento, visto che la generazione presente aveva dato preoccupanti segni di rammollimento. Sulla scia di Salgari si mossero i suoi epigoni, come Motta e Jack La Bolina ma, in seguito, una letteratura marinaresca vera e propria non è mai nata.
Del resto, non è di quella che noi vogliamo occuparci bensì di una letteratura che veda l’elemento del mare, oltre che come fattore mitopoietico ovvero creatore di immagini poetiche, come motivo antropologico che intride di sé la cultura, il pensiero e l’agire, e questo, sinceramente, nella letteratura italiana di questo secolo, manca. Non c’è una caratterizzazione forte, un imptinting antropologico e sociale che invece è presente in tanta letteratura dedicata e ispirata alla montagna, eppure la nostra civiltà, come tutte quelle del mediterraneo, viene dal mare. L’epica che primamente ha formato il nostro immaginario collettivo ha come scenario il mare: l’Odissea, le Argonautiche, l’Eneide sono i testi sacri della nostra cultura mediterranea e hanno come luogo naturale il mare. Come mai? Forse è dovuto al fatto che nel Medio Evo per ragioni difensive il centro delle attività si è localizzato in alto e all’interno il nostro oblio del mare? Oppure al fatto che il mare, nella sua infinitudine e quindi della sua indefinitezza, poco si presta a identificarsi in un luogo, come invece la montagna? Mi spiego: se dico “Gran Sasso” è automatico il riferimento all’Abruzzo, ma se dico “Mare Adriatico” il riferimento all’Abruzzo non è altrettanto automatico perché il mare Adriatico non è soltanto abruzzese ma è veneto, romagnolo, marchigiano, abruzzese, pugliese. Probabilmente entrambe le ragioni appena esposte sono valide, poiché la prima può aiutarci a comprendere anche come mai lo stesso folklore sia poco caratterizzato dal mare, e la seconda può farci capire come il mare sia presente nel nostro immaginario ma senza una determinazione localistica forte.
Comunque sia, farsi una coscienza e una cultura del mare è oggi di fondamentale importanza, soprattutto per chi farà professione di educazione ambientale, perché nell’era della globalizzazione il mare è diventato il non-luogo per eccellenza, il territorio principe nel quale è iniziati quel processo che chiamiamo “esilio della bellezza”. Le città, come vediamo, diventano sempre più dei non-luoghi, nel senso che la vita è decentrata, i centri storici sono sede solo di uffici e di negozi ma non sono più luoghi di aggregazione sociale, di incontro, di lavoro e di riferimento affettivo, nemmeno quando i centri storici sono restaurati: i restauri, infatti, sono filologicamente ineccepibili nel senso che restituiscono alla veduta edifici e monumenti così come furono concepiti, ma non testimoniano l’uso, l’ esperienza umana che nei secoli vi si è svolta né danno la possibilità di localizzarvi un’esperienza, ma si offrono a una fruizione puramente mussale. Il lavoro, la casa, lo svago sono decentrati altrove, in una periferia che nel migliore dei casi offre dei servizi ma non ha una caratterizzazione propria, non si costituisce come “ambiente”. Tale processo di mercificazione e di spoliazione di identità ha avuto luogo innanzitutto nelle località di riviera: Rimini diventa una capitale del divertimento estivo e balneare che evoca più Atlantic City che una località italiana; le nostre località di mare sono state strette in una morsa di cemento armato che ha distrutto l’ambiente marino conosciuto, come le plaghe di macchia mediterranea, le dune (vedasi il saccheggio ai danni del Gargano), e noi abbiamo subito in silenzio questa aggressione, senza ribellarci; se campagne di opinione pubblica e di ribellione ci sono state per difendere la montagna (vedasi la quèrelle per il terzo traforo del Gran Sasso), nulla si è fatto quando kilometri di spiaggia sono stati lottizzati  come terreno edificabile, quando sono stati costruiti edifici di dodici piani in riva al mare, quando il mare è stato usato come una cloaca a cielo aperto.
Di qui è nata l’idea di dedicare un corso alla presenza del mare nella nostra letteratura. Come dicevo all’inizio, fatte pochissime eccezioni come Raffaele Brignetti e Mario Comisso, e Vittorio G. Rossi il quale, però, da viaggiatore instancabile quale è stato, ha parlato più di mari esotici che del nostro mare, non abbiamo in Italia scrittori che abbiano fatto del mare la ragione principale della propria scrittura e della propria avventura umana.

I testi raccolti in questa breve silloge lo testimoniano.
Troviamo in essi il mare visto in analogia o in similitudine con la vita o con il proprio stato d’animo, il mare come metafora della vita, ma il mare è dato tutto sommato per scontato: non ci si interroga intorno ad esso, non si interroga il mare, non si ascolta il mare. Certo, le visioni suggestive non mancano: soprattutto in Dino Campana che in presenza del mare libera le sue pulsioni sessuali e lipidiche, la sua cupidigia di luce, di colore e di eccesso con una risonanza profonda di sonorità (fiumi elettrici) e di complessi circuiti della memoria associativa (la meridionale femmina dei porti), ma anche nella poesia di Pietro Jahier che ambienta nel mare il dramma del giovane soldato strappato dalla guerra ai suoi affetti, o quella di Cesare Pavese, legata anch’essa a immagini di dolore e di sofferenza profonda, ma dobbiamo dire che il canto di queste poesie è nel complesso monocorde, conosce poche variazioni: segno, evidentemente, di una poco convinta interiorizzazione.

 

Fonte: http://www.scuolaelementare.net/download/Letteratura%20e%20mare.doc

 

 

Acqua in Letteratura

"Acqua è il liquido amniotico in cui si sviluppa il feto, è la pioggia che cade sui campi, è la fonte che disseta. L'acqua purifica il corpo da malattie e umori nocivi, permette gli scambi e i commerci che si svolgono sul mare".
L'origine acquatica della vita è stata da sempre riconosciuta da tutte le culture che hanno popolato la terra, per questo motivo l'acqua è stato da sempre uno spunto per tutti gli autori delle più disparate letterature. Questi letterati, prima di scrivere le loro opere sono forse stati colpiti dal fatto che l'acqua è una di quelle poche "cose" ancora in grado di ispirare purezza e avente la funzione di rievocare alla mente lontani ricordi, lieti o tristi. Dalla letteratura dell'antica Grecia al giorno d'oggi l'acqua come elemento di purificazione, benessere e anche distruzione non può che essere presente. Nelle prime opere letterarie a noi giunte, ovvero quelle dell'antica Grecia si ritrovano un'innumerevole quantità di miti che parlano di acqua o ne fanno l'elemento base come "La nascita di Afrodite", "II mito di Atlantide", "II mito di Poseidone", "Glauco e Scilla", "Oceano", "Partenope" e moltissimi altri. L'elemento liquido nei suoi molteplici aspetti, era concepito dai Greci come unico e prezioso regno della natura, alle cui manifestazioni soprintendevano esseri divini di tipo e carattere vario. Le credenze, diversa dall'una all'altra epoca storica, accentuarono l'importanza ora di questa, ora di quella figura, donde qualche contraddizione nei sistemi cosmologici; nel complesso però le singole personalità rimasero abbastanza distante, e fu anche rispettata la suddivisione tra divinità delle acque dolci e divinità delle acque salse. Venerare come delle divinità, per quanto minori, le fìglie dei fiumi; appartenevano alla grande categoria delle ninfe delle acque dolci, la quale comprendeva inoltre le NAIADI, le CRENIADI o PEGEE dimoranti nelle fonti o nelle sorgenti; le LIMNADI o ninfe degli stagni. La credenza popolare non le riteneva immortali, concedeva però loro il privilegio di un immutabile giovinezza e bellezza, perché si nutrivano di ambrosia. L'unico mito in cui le ninfe delle acque risultino pericolose è quello di Ila, il bel giovinetto compagno di Èrcole nella spedizione degli Argonauti. Durante un approdo sulla costa della Misia, egli si allontanò per attingere acqua alla fonte e non fece più ritorno; le ninfe lo trattennero per sempre nella loro liquida dimora. Spostando lo sguardo parecchi secoli dopo, ritroviamo lo stesso tema ancora attuale; nel '200 infatti S. Francesco D'Assisi nel suo "Cantico delle Creature" ci parla dell'acqua descrivendola con aggettivi che la personificano, ovvero umile, utile, casta, ma soprattutto preziosa è un aggettivo che può essere messo in rilievo in quanto S. Francesco nella sua opera non solo ringrazia il Signore per i meravigliosi doni che ci ha fatto, ma mette anche in rilievo l'utilità di elementi come il vento, il sole, la luna, il fuoco e l'acqua, senza la quale la vita per ogni essere vivente sarebbe impossibile.
"Laudato si' mi' Signore, per sor'Acqua, la quale è multo utile et umile et preziosa et casta."
Segue a parlarci di acqua, questa volta in duplice versione, Dante nella "Divina Commedia" opera fondamentale della letteratura italiana. In quest'opera l'acqua


compare sia nell'Inferno che ne Purgatorio. Nell'Inferno l'acqua è dannazione, è la definitiva separazione tra l'Antinferno e il vero e proprio Inferno attraverso l'Acheronte che funge da via che le anime devono percorrere per raggiungere l'Aldilà. Inoltre nel VI canto infligge ai golosi la punizione di rimanere in eterno sotto una pioggia "etterna, maledetta, fredda e greve" mescolata a grandine e neve che provoca in loro enorme dolore.
"Io sono al terzo cerchio, de la piova etterna, maladetta, fredda e greve; regola e qualità mai non l'è nova.
Grandine grossa, acqua tinta e neve Per l'aere tenebroso si riversa; pute la terra che questo riceve.
Nel Purgatorio invece Dante ci mostra l'altra faccia della moneta, l'acqua come
purificazione, come ultima espiazione dal peccato, nel fiume Lete infatti devono
bagnarsi tutti coloro che alla fine del percorso svolto in Purgatorio possono
raggiungere la gloria eterna di Dio.
Nel '300 un nuovo autore, Petrarca, affronta il tema acqua intitolando oltretutto la sua
poesia "Chiare, fresche e dolci acque" poesia nella quale Petrarca ricorda il giorno
in cui, sulle rive di un fiume, nella regione francese della Provenza, contemplò Laura,
la donna che ama. Poiché pensa che le pene d'amore lo porteranno alla morte,
immagina che Laura tornerà a cercarlo, ma troverà la sua tomba e s'impietosirà, e con
le preghiere otterrà per lui il perdono divino.
Poi descrive Laura, bella come gli apparve quel giorno sul fiume.
L'acqua in questa poesia è l'elemento ispiratore, ciò che suscita nel poeta il ricordo
della bellezza di Laura; viene inoltre nominata insieme ad altri elementi naturali che
ispirano l'amore per laura.
"Chiare, fresche e dolci acque,
ove le belle membra pose colei che sola a me par donna"
Più tardi, nel '500 anche Ludovico Ariosto nel celebre "Orlando Furioso" non può fare a meno di utilizzare l'acqua nell'episodio "La pazzia di Orlando" nel quale compare una fonte che diventa un elemento essenziale del paesaggio in quanto l'autore la cita molte volte. Inizialmente si parla di una fonte chiara e limpida, in seguito ci è presentata una fonte sporca, piena di sassi e rami, perché turbata nella sua limpidezza, dall'eroe diventato pazzo.
Ludovico Ariosto compie quindi una sorta di parallelismo tra Orlando e la fonte, quest'ultima sembra rispecchiare il carattere, gli stati d'animo, la lucidità del protagonista, in maniera da rendere più chiara ai suoi lettori la comprensione del testo. D'altro canto si potrebbe intendere come una volontà da parte del poeta di


avvicinare l'uomo alla natura per esplicitare il concetto di un tutt'uno tra questi due elementi.
"A pastor mai non daran più, né a gregge a quella fonte, già si chiara e pura,
da con tanta ira fu poco sicura;
che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle
non cessò di gittare ne le bell'onde
fin che da sommo ad imo si turbolle
che non furo mai più chiare né monde."
Nell'800 anche Alessandro Manzoni come molti suoi predecessori fa uso dell'acqua e delle sue proprietà ne "I Promessi Sposi"; infatti l'acqua, nel caso specifico pioggia, è l'elemento di chiusura dell'opera. Grazie infatti ad una pioggia catartica Milano può finalmente essere liberata dalla peste e la storia avere fine. In questo caso la pioggia, riveste un ruolo molto importante, perché è sinonimo di salvezza, di purificazione. E' grazie ad essa che il diffondersi dell'epidemia può cessare e molte persone possono finalmente ripulirsi e salvarsi. La pioggia è un aiuto, un riscatto mandato dal cielo. Così sempre nell'800 Rimbaud ricorre continuamente all'acqua che da una parte sembra dargli tranquillità e dall'altro sembra angosciare questo "poeta maledetto". Nelle sue opere come "Larme"(Lacrima), "Le bateau ivre" (II battello ebbro) e "Fleurs" (Fiori) si da spazio alle immagini simboliche e agli accostamenti propri dell'inconscio. Di difficile e varia interpretazione le splendide poesie di questo autore per un attimo donano pace e l'attimo dopo ci mettono sul chi va là nell'attesa di una terribile minaccia.
"L'acqua dei boschi si perdeva su sabbie vergini,
II vento, dal cielo, gittava ghiaccioli agli stagni...
E, come un pescatore d'oro e di conchiglie,
dire che non ho pensato di bere!"(Larme)
Pascoli ancora in questo periodo con "Pioggia" ci presenta un paesaggio tranquillo in cui la pioggia che scende prima lieve e poi tuonante inumidisce tutto, bagna i campi e fa uscire allo scoperto piccoli animaletti. "Era un brusìo con languide sorsate..." cita Pascoli presentandoci una situazione calma e rilassante, un picchiare incessante ma innocuo di gocce che improvvisamente sembrano lacrime (poi i singhiozzi) e malinconia.
Un altro autore straniero Rambindranath Tagore nel 1800 circa scrive un'opera che rievoca paesaggi marini "Su la spiaggia", nella quale egli immagina un gruppo di bambini che si incontrano felici sulla spiaggia dei mondi infiniti, dove possono giocare tranquillamente e fare quelle cose che sembrano permesse solo ai bambini: correre, raccogliere le conchiglie, sparpagliare le pietruzze e intessere barche con le foglie cadute. La purezza di questi bambini, privi di ogni malizia in un mondo che sarebbe bello ma esiste solo nell'immaginazione dell'autore e probabilmente in quella di tutti auspica un mondo così sereno e tranquillo che rievoca atmosfere fiabesche.


fontana malata..."
Ma il '900 è ricco di autori che trattano questo tema; Ungaretti nella sua poesia "I fiumi", racconta come un bagno ristoratore compiuto nell'Isonzo durante la Grande Guerra abbia la capacità di fargli ritornare alla mente i ricordi dell'infanzia anch'essi legati a tre importanti fiumi. Il poeta narra infatti di essersi "disteso in un'urna d'acqua" e di aver riposato "come una reliquia" mentre si lasciava "levigare" dalla corrente delPIsonzo. Successivamente questa sua azione gli fa tornare alla mente i fiumi che a lui sono più cari: il Serchio a cui i suoi genitori hanno attinto l'acqua, il Nilo che F ha visto nascere e crescere e la Senna sulle cui rive è maturato. Notiamo che già il titolo della poesia fa riferimento all'acqua; l'elemento in questione in questa poesia è personificato e Ungaretti svolge un processo simile al panismo di D'Annunzio infatti egli rivive nella natura le sue esperienze di vita. Essendo Ungaretti un poeta combattente, è come se nell'acqua egli riuscisse a lenire i propri mali e a pacificare il suo spirito. L'acqua è vista anche come elemento di ristoro, elemento nel quale il poeta si sente parte dell'universo.
"L'Isonzo scorrendo
mi levigava come un suo sasso.
Ho tirato su
Le mie quattr'ossa
E me ne sono andato
Come un'acrobata
Sull'acqua"
T.S. Eliot nell'ode "The Waste Lande" (La terra desolata) narra la morte per annegamento di Phelbas descrivendo come il suo cadavere venga trasportato dalla corrente verso il basso fino a raggiungere il fondo del mare.
Garcia Lorca nella breve ma intensa poesia "Corriente" (Corrente) pone una riflessione sull'andare, sul camminare, sul non fermarsi, paragonando al movimento del mare che va, senza fermarsi mai, in un incessante movimento. Così "Chi cammina dimentica. E chi si ferma sogna".
"L'acqua corrente non vede le stelle"
Anche Eduardo De Filippo dedica una poesia al mare intitolata per l'appunto "'O mare". Molto significativa questa poesia scritta in napoletano rende benissimo l'idea del rumore del mare, del suo movimento impetuoso nelle notti invernali, paragonato a un lamento, a uno sfogo, personificato come una persona che continua a dimenarsi senza avere lo spazio necessario per sfogare la sua ira. Ma De Filippo ci trasmette un


"Il mare viene su ridendo, e pallido riluce il sorriso de la sua superficie. Innumere­voli onde morte cantano ai bimbi canzoni senza senso, come la mamma canta la sera
dondolando la culla del suo piccino. Il
mare gioca con i fanciulli e pallido riluce
il sorriso de la sua superficie"
Anche Goethe, il più importante poeta della letteratura tedesca cita questo liquido, nella poesia "Gesang der Geister uber den Wassern" (Canto degli spiriti sulle acque) mette a confronto i moti tumultuosi dell'acqua con quelli dell'anima, mostrando come quest'ultima provenga dal cielo e si comporti nelle prime fasi della vita come un torrente e una cascata diventando col passare del tempo sempre più quieta venendo paragonata ad un tranquillo lago montano e raggiunga lentamente la fine del proprio viaggio ritornando in cielo. Molto esplicito il paragone al ciclo della vita umana, che in gioventù è impetuosa, ma si placa col tempo fino a diventare placida in vecchiaia per poi ritornare nella morte all'orìgine.
Ancora nell'800, Samuel Coleridge, nel Romanticismo Inglese è il poeta che meglio mette in evidenza la forza della natura che si manifesta nell'acqua. Nella sua opera "The Rhyme of The Ancient Mariner" (I canti del vecchio marinaio), l'autore descrive la reazione nei confronti dell'uccisione di un albatros da parte di un equipaggio di una nave dispersa nell'oceano: in seguito ad una violenta tempesta la nave viene per questo affondata e tutti i marinai uccisi; solamente uno sopravvive perché deve raccontare la propria esperienza e ricordare ai naviganti futuri di rispettare il mare affinché questo faccia lo stesso con loro.
Giungendo al '900 ci imbattiamo in Palazzeschi con la sua poesia "La fontana malata" nella quale l'acqua ci viene presentata attraverso lo sgocciolare della fontana che suscita la riflessione del poeta e crea in lui tale suggestione da fare scaturire l'ispirazione per questi versi. Addirittura in questi versi la fontana viene detta ammalata di tubercolosi, personificata tanto da tossire, morire, tacere. Anche in questo caso come nella fonte dell'Orlando Furioso viene paragonata al comportamento umano e vi è una sorta di parallelismo che la paragona alla vita di un uomo e probabilmente agli ultimi anni della vita umana che spasima e sta per abbandonare definitivamente la vita. Oltretutto al poeta sembra insopportabile il lamentarsi della fontana, quasi preferisse una morte silenziosa e pacata più che questo continuo sgocciolare.
"Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
ciocchete,
chchch... E'giù
nel cortile,
la povera


messaggio importante: non bisogna aver paura del mare perché "'o mare sta facendo 'o mare".
Come dimostrato con questi esempi l'acqua è stata, è e sarà sempre fonte di ispirazione per poeti, letterati, artisti di tutto il mondo in quanto fonte essenziale ed elemento fondamentale per la vita dell'uomo sulla Terra.

 

Fonte: http://www.scuolepie.it/scuolepie/progetti/ACQUA/Ambito%20Storico/Acqua%20in%20letteratura.doc

 

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