Montale il male di vivere commento riassunto parafrasi

 


 

Montale il male di vivere commento riassunto parafrasi

 

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Montale il male di vivere commento riassunto parafrasi

MONTALE

IL MALE DI VIVERE

Eugenio Montale rappresenta uno dei maggiori poeti del nostro tempo. Premio Nobel nel 1975, critico letterario e musicale, prosatore, giornalista, senatore a vita dal 1967 per i suoi meriti letterari, ha percorso nella sua poesia un arco cinquantennale in cui si è posto come impietoso testimone dei suoi tempi, dalla prima guerra mondiale al fascismo, alla seconda guerra mondiale, all’Italia democratica. Austero, riservato, restio ai facili entusiasmi e alle mode passeggere, Montale è sempre rimasto fedele nella sua produzione poetica ad un unico tema di base: la disarmonia, non una disarmonia storica ma esistenziale, basata cioè su una visione dell’esistenza dominata dal male di vivere e presente fin dalle sue liriche giovanili composte appena ventenne. Egli stesso, guardando in retrospettiva la sua produzione poetica di circa mezzo secolo asseriva: “L’argomento della mia poesia credo di ogni possibile poesia, è la condizione umana in sé considerata; non questo o quell’avvenimento storico (…) Non sono stato indifferente a quanto è accaduto negli ultimi trent’anni; ma non posso dire che se i fatti fossero stati diversi la mia poesia avrebbe avuto un volto totalmente diverso. Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materiale della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia”. Quel rapporto disarmonico con il vivere non si risolveva però in Montale nella fuga verso i baudeleriani paradisi artificiali, o in un “deragliamento di tutti i sensi” tipico di Rimbaud, o nel regresso dei miti dell’infanzia cari al Pascoli o nelle dannunziane esaltazioni superomistiche o ancora nel furore distruttivo futurista, ma in una presa di coscienza dura, aspra e realistica che spingeva l’uomo a non credere a facili miti consolatori e ad effimere (vane) illusioni ma a conservare integro il senso della propria dignità.
In un’epoca in cui i miti dannunziani non si erano ancora spenti, in una società prima pervasa dall’esaltazione futurista della guerra e poi dall’ascesa del fascismo al potere. Montale restava un isolato, però, per chi ha saputo leggere nelle sue poesie nella difficile età fra le due guerre, il suo atteggiamento si risolveva in una lezione morale per le future generazioni, in un invito a guardare la realtà così com’è, senza filtri, senza mistificazioni (falsità). Un critico acuto come Carlo Salinari seppe leggere questa carica insita nella poesia di Montale, infatti così scriveva: La sua concezione disperata della vita aveva su di noi un fascino potente: ed essa, lungi dal paralizzare la nostra volontà di lotta, la nutriva e la esaltava. Alla parola direttamente collegata con l’oggetto, senza diaframmi letterari, corrispondeva un atteggiamento morale che voleva porsi direttamente, a ciglio asciutto, senza speranze o consolazioni, di fronte alla terribile realtà della nostra vita. Questo coraggio morale diveniva per noi una bandiera e lo opponeva alla faciloneria, alla retorica, all’idiota ottimismo del fascismo e dei suoi propagandisti”.
Questa lezione morale della poesia montaliana appariva fin dalla sua prima raccolta. Ossi di seppia (1925), comprendente liriche composte dal poeta dal 1916 in poi. Il titolo della raccolta è di già indicativo di uno stato d’animo ricorrente in tutta l’opera, che è di desolazione e di malinconia. Propriamente gli ossi di seppia sono una formazione calcarea costituente una sorta di conchiglia rudimentale, però, in Montale diventano espressione delle “inutili macerie abbandonate lungo le spiagge aride, le morte memorie di ciò che è stato solo una desolata velleità d’esistere. Questi “ossi di seppia” scintillanti e duri ci giungono ancora intrisi d’azzurro marino e diffondono la perduta malinconia dei rottami che il mare rigetta sulle sponde del suo abisso” (S. Solmi). L’osso di seppia diventa quindi il simbolo della vita vegetativa, dall’inerzia, del male di vivere, concetto che viene espresso dal poeta non attraverso immagini astratte ma con continui riferimenti a richiami paesaggistici presi direttamente dalla sua Liguria. Il paesaggio ligure è infatti dominante in questa raccolta, un paesaggio visto nella sua asprezza, nelle sue spiagge riarse dal sole, nei canneti, nelle viuzze, nei “ciglioni”, nei “rivi strozzati”; e quella natura diventa lo scenario sul quale il poeta proietta la sua amara vision della vita.
Il trasferimento dei suoi stati d’animo nel paesaggio ligure avviene attraverso una tecnica definita dal poeta americano T.S.  Eliot del “correlativo oggettivo”. Tale procedimento consiste nel trasferire i propri sentimenti, le proprie emozioni e gli stati d’animo in genere su aspetti reali e quindi oggettivi del paesaggio che possano in un certo qual modo avere una correlazione, cioè una corrispondenza con ciò che prova il poeta. Ciò significa il rifiuto dell’idea della poesia intesa come romantico sfogo sentimentale, come eccesso di lirismo intimistico (una poesia eccessivamente autobiografica), come espressione di un io solitario che scruta dentro di sé cercando di cogliere le più profonde vibrazioni del suo essere.
Lontana dal sentimentalismo romantico ma anche dall’estetismo decadente, la poesia di Montale si configura per una sua durezza espressiva, quella stessa della sua Liguria, per un linguaggio antiaccademico, antiletterario, tortuoso, stridente, caratterizzato da una rigorosa precisione naturalistica in materia di piante e di presenze zoologiche (insetti, cani, cavalli, uccelli, cicale, farfalle) e distinguentesi per un tono discorsivo e colloquiale e per un procedere sentenzioso, cui non manca però una sua musicalità e un suo ritmo.

Dalla fusione dell’asprezza del paesaggio e del linguaggio scarnificato del poeta è nata quella che la critica ha definito la “pietrosità” montaliana. Nell’uso frequente dei correlativi oggettivi e di un linguaggio disadorno e tendente all’essenziale, nel suo distacco da ogni facile illusione, nella sua “divina indifferenza”, Montale si inserisce nell’ambito della poesia pura, di cui assieme ad Ungaretti è uno dei massimi rappresentanti.

La prima poesia che presentiamo tratta da Ossi di seppia è Non chiederci la parola…, un testo poetico che è rimasto fondamentale nella produzione di Montale in quanto si fa interprete di un atteggiamento etico che il poeta non ha più abbandonato; è indicativa di una posizione morale e interiore solida, ferma nel proposito di non lasciarsi ingannare da nessun mito imperante, restia a credere all’esistenza di parole consolatrici o di nuove formule salvifiche che possano risolvere gli eterni problemi dell’uomo. Il poeta non può né sa rispondere a chi gli richieda la parola magica, egli può solo dire, e con un linguaggio secco e antiretorico “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. La conclusione della poesia che è del1921, in cui appare la crisi dell’essere (ciò che non siamo) e della volontà (ciò che non vogliamo), è apparentemente pessimistica, invece nella sua reale essenza è animata da un notevole coraggio interiore e da una capacità di accettazione del reale. Questi versi erano destinati a diventare negli “anni neri” del fascismo un chiaro punto di approdo per chi non voleva lasciarsi irretire dalla retorica del potere. La presa di posizione di Montale è chiara: davanti a tanta gente, davanti a tanti intellettuali che pur di mantenere il proprio prestigio si lasciavano illudere e trascinare dal corso dei tempi, egli, chiuso nel suo isolamento, si staccava da ogni anticipazione ottimistica del futuro e con ferma risolutezza si limitava a prendere coscienza di una realtà in atto, quella dei suoi tempi, dell’Italia che usciva dalla crisi della guerra e che si avviava inesorabilmente verso il fascismo,  e l’unica certezza che aveva era di non identificarsi in quella realtà e di non volere ciò che la società e i tempi portavano a volere. Era una poesia dura, che ti dava solo la certezza di ciò che non si voleva e non di ciò che si voleva, però, nel fatale marasma che stava investendo l’Italia, riuscire a dire NO, mentre molti si lasciavano accecare dai nuovi miti sorgenti, era tantissimo. Così inteso, il pessimismo di Montale può definirsi “dialettico”, nel senso che non ci trasmette un senso di  disfattismo ma è animato da una continua ansia di affermare i più nobili valori insiti nell’animo umano. Da qui tante formule critiche che definiscono la poesia di Montale come “poesia del non essere” come “negativa dell’uomo”, come “teologia negativa”.
Stilisticamente la poesia riprende le caratteristiche espressive della raccolta, e cioè una versificazione che è una via di mezzo tra il prosastico e il colloquiale, priva di ogni abbellimento letterario e “secca come un ramo”.

 


DA “OSSI DI SEPPIA”

 

NON CHIEDERCI LA PAROLA

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

 

ANALISI DEL TESTO

Anche qui, come nel testo precedente, Montale si rivolge direttamente a un ipotetico interlocutore, che si identifica con il lettore dei suoi versi; in questo caso, tuttavia, il poeta usa per se stesso la prima persona plurale, coinvolgendo quindi anche gli altri poeti e, per estensione, la poesia. Il testo costituisce infatti un documento essenziale di poetica, in cui si afferma l’impossibilità – sul piano della conoscenza – di comunicare qualsiasi messaggio positivo, che si basi su una concreta proposta di contenuti e di valori.
La parola, di cui dispone il poeta, non è in grado di definire la natura dell’uomo e di rivelarne i rapporti con la realtà. Il concetto, esposto nella prima quartina, viene presentato, attribuendo all’astratto una forma concretamente sensibile, attraverso l’immagine incerta di un “animo informe” che non può essere “squadrato”; poi si materializza nell’immagine di “un croco” (simbolo della luce), il cui nitido splendore, allontanato e offuscato (“perduto in mezzo a un polveroso prato”), era già rifiutato dalla negazione con la quale inizia il componimento (e che ne introduce così significativamente la tematica). Il “polveroso prato” propone il tema, caro agli Ossi di seppia, dell’aridità, assunto come correlativo oggettivo di una desolata condizione esistenziale.
La quartina centrale vale come elemento di cerniera e di raccordo. L’interiezione d’apertura rappresenta un segno di rammarico, ma soprattutto di totale e polemica estraneità, nei confronti dell’uomo deciso e sicuro, in pace con se stesso e con gli altri. E’ l’immagine del conformista, interamente appagato e integrato nel mondo in cui vive, a differenza del poeta e dei suoi lettori; egli non si pone domande, né si preoccupa della sua “ombra”, simbolo del mistero, dell’indecifrabilità e della precarietà del reale, dello stesso animo umano.
Il collegamento della quartina conclusiva con quella iniziale è sottolineato dalla ripresa ostentatamente parallela del verso che le introduce: a “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti” con una netta cesura prima del pronome relativo. Le varianti sono di tipo puramente espressivo e non intaccano l’identità del contenuto; la “parola” – “formula”, che non è in grado di definire la realtà e di ricondurla a una prospettiva sicura di salvezza, viene ridotta a “qualche storta sillaba e secca” (inerte, sul piano spirituale) “come un ramo” (che vale come antitesi, a distanza, del “croco”). E’ anche questa una dichiarazione di poetica, una definizione del proprio linguaggio antilirico, scabro e antimusicale (nel senso del rifiuto di una facile cantabilità). Anche i riferimenti del paesaggio indicano l’esistenza di una realtà che vive in se stessa, nei suoi contorni aspri e duri, ma non può divenire fonte di consolazione per il poeta, risultando piuttosto il correlativo di un mondo estraneo e oscuro, impenetrabile e “chiuso” (per implicita relazione con il verso precedente),pur nella sua tangibile corporeità. Il distico finale, riassumendo le ragioni dell’intero componimento, esprime con estrema lucidità la condizioni di un’esistenza priva di certezze conoscitive e di valori alternativi; di qui l’inutilità di ogni speranza, sul piano storico e metafisico, che solo una forma di pensiero negativo è in grado di cogliere nella sua nuda essenza (si noti la forza icastica dei non sottolineati, che, al centro degli emistichi del verso conclusivo, nettamente scanditi e accentati nella loro simmetria epigrammatica, raccolgono e ribadiscono le motivazioni introdotte dalle negazioni in apertura della prima e dell’ultima strofa).
Il rifiuto non riguarda, in Montale, la vita, bensì la possibilità di reperirvi facili illusioni o definitive consolazioni, che derivino dall’avvenuto accertamento di una qualche verità. La coscienza etica montaliana non accetta soluzioni vittimistiche o narcisistiche, che cerchino nell’autonomia del soggetto la risposta ad una constatata e conclamata crisi di valori. Di questa assurda posizione di stallo deve farsi carico, conservando i termini di una “oggettiva” contraddizione, la poesia, che, pur senza possedere – fra i suoi strumenti – una funzione propositiva, vale unicamente come testimonianza di una sofferta condizione esistenziale. La sua stessa coerenza formale resta un segno di questa incertezza o perplessità, se è vero che l’impossibilità di conoscere il mistero delle cose impedisce anche la ribellione e la protesta (che implicano, sempre, una fiducia nel presente e una convinzione per il futuro). La poesia di Montale non propone soluzioni rivoluzionarie, ma ha la sua genesi psicologica e ideologica – sul piano di una paralisi o impotenza conoscitiva – in una sorta di compromesso fra l’accettazione delle regole tradizionali (la realtà costituita) e la loro infrazione (l’incapacità di identificarsi in essa). Se si pensa che gli Ossi uscirono nel 1925 nelle edizioni di Piero Gobetti, questa incapacità di identificazione suona anche come rifiuto di una data condizione storica, quella determinata dal fascismo.

 

SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO

Il testo può essere additato come esemplare del “correlativo oggettivo” montaliano, ossia del rapporto che la parola stabilisce con gli oggetti da essa nominati. Il primo verso introduce un movimento che va dal soggetto alla realtà, dall’astratto al concreto. Il poeta, che interviene in prima persona, esprime il motivo di una tipica condizione esistenziale, il “male di vivere”, ma usa un verbo (“ho incontrato”) che materializza il concetto, presentandolo quasi come una presenza reale e fisicamente tangibile. Il “male di vivere” non viene evocato attraverso forme o complementi di paragone, in un senso metaforico e analogico, ma si identifica direttamente “era” con le cose che lo rappresentano, emblemi nei quali si incarnano e si rivelano il dolore e la sofferenza: "il rivo strozzato che gorgoglia”, “l’incartocciarsi della foglia/riarsa”, “il cavallo stramazzato”. Il malessere esistenziale del poeta prende corpo nella realtà, che ne riproduce concretamente le espressioni, attraverso immagini di tormento affannoso, di un’arsura che si sgretola, di un accasciamento pesante e mortale, rese più sensibili dal gioco delle allitterazioni e delle corrispondenze foniche “(strozzato” / “stramazzato”, con ulteriore rima interna, come sbocco e destinazione semanticamente “forte” di “ho incontrato”; le allitterazioni delle liquide r e l, spesso unite ad altra consonante, a renderne più faticosa la pronuncia, oppure precedute dalle vocali e ed a, come in “era”, “incartocciarsi”, “riarsa”).
In opposizione al “male di vivere” che si manifesta negli aspetti più comuni della natura, non vi può essere per Montale altro “bene” che l’atteggiamento di stoico distacco e di “indifferenza” assunto dalla divinità di fronte alla miseria del mondo. Ai tre emblemi del “male” si contrappongono così nella seconda strofa, con studiato parallelismo, tre correlativi oggettivi di questa specie di “bene”: la statua, la nuvola e il falco. La tripartizione, ora, non è più scandita dalla triplice anafora di “era” (il verbo compare solo una volta, al v. 7), ma viene nettamente scandita dalle virgole e dal polisindeto (e … e…). Ricompare anche, ai vv.  6-7, la forma dell’enjambement, “sonnolenza /del meriggio” (ai vv. 3-4 “foglia/riarsa”).
A segnare la contrapposizione tra le due terne di immagini, la rima “levato” del v. 8, che indica un movimento dal basso verso l’alto, è antitetica rispetto a quella dell’ultimo verso della strofa precedente, “stramazzato”, che indica un movimento dall’alto verso il basso.

 

LA BUFERA

Metro: endecasillabi (ad eccezione dei vv. 3 e 10, settenari, e del 9, quinario sdrucciolo). Il v. 19 è spezzato nei due emistichi.

 

La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,

(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell’oro
che s’è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)

il lampo che candisce
alberi e muri e li sorprende in quella
eternità d’istante – marmo manna
e distruzione – ch’entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l’amore a me, strana sorella,

e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpiggiare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa

Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,

mi salutasti – per entra nel buio.

 

DA LA “BUFERA E ALTRO”

LA BUFERA

Il carattere emblematico del testo è sottolineato dalla posizione che occupa, all’inizio cioè della raccolta alla quale dà il titolo. Per esplicita dichiarazione dello stesso Montale, in una lettera del 29 novembre 1965 all’amico Silvio Guarnieri, “la bufera (la poesia iniziale) è la guerra, in ispecie quella guerra dopo quella dittatura; ma è anche guerra cosmica, di sempre e di tutti”. Stabilendo questa corrispondenza di fondo, il poeta indica un duplice piano di lettura, che riguarda del resto, più in generale, la peculiarità della sua scrittura: la presenza di un referente ben preciso e determinato (si notino, nella lettera, le sottolineature di quella); il trasferimento del dato oggettivo e fenomenico su un registro di significati esistenziali e metafisici. A partire dall’implicita identità bufera-guerra, il componimento si sviluppa secondo una sequenza di immagini, per momenti successivi.
I primi tre versi introducono il motivo dello sconvolgimento meteorologico.
I versi racchiusi tra parentesi aprono la prospettiva di un interno domestico (il “nido”), in cui la presenza femminile è introdotta dalla “sorpresa” della grandine (“i suoni di cristallo”), con il rapido balenare e ritirarsi di un effetto di luce (il “bruciare” di “una grana di zucchero” indica la concreta persistenza di un residuo luminoso, in una dimensione quasi espressionistica, tra l’attonito e l’allucinato).
La terza strofa si collega direttamente ai versi iniziali, introducendo, dopo la serie “bufera”/”tuoni”/”grandine”, il motivo del “lampo”, che illumina quasi spettralmente “alberi e muri”. Il guizzo della luce (con il bianco vivido accentuato da un verbo raro come “candire”) è reso dallo stesso verbo (“sorprendere”) che aveva prima indicato gli effetti nei confronti della donna, stabilendo una sorta di equivalenza tra lo sconvolgimento della natura e quello del cuore umano; un’equivalenza che riguarda anche la dimensione temporale, dove l’ossimoro “eternità d’istante” coglie il venir meno di ogni ordinata successione cronologica, il suo contrarsi e dilatarsi in una indifferenziata (o impazzita) corrispondenza fra l’uomo e le cose, il cui legame si può cogliere solo sotto il segno della sofferenza e del dolore: la “condanna” che, più saldamente dell’”amore”, unisce il poeta alla donna, “strana sorella” (l’aggettivo va riferito anche a quella sostanziale estraneità o straniamento che esiste per Montale in ogni rapporto umano). Lo stesso Montale, nella lettera prima ricordata, ha però avvertito che l’importanza di questo “amore” non deve essere sottovalutata; la presenza della donna è fondamentale nella sua poesia, ma anche l’amore – speranza e valore autentico – non può eludere la misteriosa e inesorabile erosione delle cose che porta con sé l’esistenza, vista appunto come “condanna”. Alla profonda e insanabile contraddittorietà che si annida nel cuore stesso del reale allude anche la sequenza di epiteti “marmo manna / e distruzione”; ancora a detta di Montale “sono le componenti di un carattere” che, pur non potendo essere spiegate in termini razionali, alludono comunque a una compenetrazione di elementi eterogenei: freddezza e indifferenza (l’immagine del “marmo” è ripresa da “scolpita”), dolcezza ed evanescenza (“manna”, con un senso quasi di stupore miracoloso), sconvolgimento e devastazione (“distruzione” è ripreso da “schianto” al v. 16).
I primi versi della quarta strofa si riferiscono propriamente (per esplicita ammissione dello stesso Montale) alla guerra, anche se il motivo non viene affrontato direttamente, ma “rievocato” per allusione di gesti e di rumori (con insistiti effetti di allitterazione, basati sulla sibilante s e sulle liquide rll, spesso rafforzate dal raddoppiamento o dall’unione con altra consonante: "schianto”, “sistri”, “fremere”, tamburelli sulla fossa”, “scalpicciare”, “sopra”, “gesto che annaspa”). Lo “schianto”, l’oscurità, il "gesto” affannoso e convulso ne sono i tratti salienti. Il paragone (che viene staccato dal resto, preludendo anche al distacco finale) precisa lo stretto rapporto (di separazione, ma anche di complementarità) fra la guerra e la figura femminile, già sviluppato prima in riferimento alla “bufera”. L’”inferno” della storia (e della vita) sta per risucchiare anche la donna, a conferma dell’equivalenza stabilita fra la guerra vera e propria e quella cosmologico-esistenziale. Il saluto del congedo (anch’esso isolato, nel verso di chiusura) ha il tono irrevocabile di un addio definitivo (si noti la netta scansione dei due emistichi), in cui il suggello del “buio” (con evidente richiamo alla rima imperfetta “fuia”) connota il negativo, l’assenza o la privazione della vita (secondo Montale, “il buio è tante cose; distanza separazione, neppure certezza che lei fosse ancora viva”).
Per quanto riguarda infine i vv. 20-21 (“sgombra/la fronte…”), Montale ha parlato di un “ricordo realistico”; ma non c’è dubbio che la metafora della “nube”, come scelta espressiva, appare in sintonia con l’impostazione del componimento, integrandosi nella sua cupa e sconvolta atmosfera (quella della “bufera” e degli elementi naturali che ad essa si riferiscono).
La dissoluzione degli eventi – storici e privati, collettivi e individuali -, che il testo rappresenta, ha il suo corrispettivo sul piano dell’organizzazione sintattica del discorso poetico. Le strofe, come già si è accennato, costituiscono momenti distinti, che, sebbene collegati da rinvii analogici, risultano slegati e isolati fra di loro. Nettamente evidenziato è, ad esempio, l’inciso parentetico dell’intera seconda strofa, che si inserisce, peraltro, sull’asse di una giustapposizione per blocchi successivi, appena scandita, alla fine, dal minimo scarto di una progressione cronologica (v. 16: “e poi”). Di fatto, pur nella sua ampia e complessa  articolazione (fitta di relative e di incisi), il componimento è costruito per la maggior parte (vv. 1-19) in stile nominale, senza la presenza di un verbo reggente (capace di dare compiutezza di significati e di coerenza logica alla costruzione del testo). E’ un esempio di quella “elencazione ellittica” che Angelo Jacomuzzi ha riconosciuto come caratteristica della poesia di Montale e che consiste nella successione-giustapposizione di oggetti distinti, quasi emblemi di un mondo che vive in una diversità irriducibile ad una visione unitaria (o univoca). Il procedimento presenta qui una particolare configurazione, che si può distinguere in due momenti: dapprima i sostantivi si presentano a distanza, in posizione forte (all’inizio cioè delle prime tre strofe: “la bufera… i suoni di cristallo … il lampo …”), imprimendo un ritmo lento al tempo poetico; poi si susseguono, in maniera più fitta e stipata, convulsa, nei vv. 16-19 della quarta strofa, che corrispondo più direttamente, non a caso, al motivo della guerra (dallo “schianto rude” a “qualche gesto che annaspa”). Allentamento e accelerazione si possono ricondurre a “quella/eternità d’istante” che appare il segno di un mondo profondamente alterato e sconvolto. Anche il paragone conclusivo, pur presentando una sintassi compiuta, resta un elemento isolato e giustapposto, a conferma di una discontinuità che vale come legge fondamentale di un’esistenza sempre, e comunque, precaria e minacciata.

 

LA STORIA

E’ la prima parte del componimento del titolo omonimo. Un solo endecasillabo (v. 14); gli altri versi sono di misura inferiore.

La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi l’ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell’orario.
La storia non giustifica
e non deplora,
la storia non è intrinseca
perché è fuori.
La storia non somministra
carezze o colpi di frusta.
La storia non è magistra
di niente che ci riguardi.
Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta.

 

Analisi del testo

La poesia riflette la posizione profondamente antistoricistica del poeta, che non crede, nei destini migliori dell’umanità, con una totale svalutazione del concetto di sviluppo storico. Attraverso l’uso dell’anafora (che non ha un valore declamatorio, ma puramente enunciativo ed espositivo), si sussegue una serie di definizioni tutte al negativo, che negano alla storia ogni intrinseca razionalità o finalità. La storia non è una linea di progresso ininterrotta, ma procede in maniera disordinata e imprevedibile, al di là di ogni tentativo di indirizzarla e di interpretarla. La storia non contiene in sé certezze conoscitive o criteri morali, da cui si possano ricavare elementi di assoluzione e di condanna.
Montale rifiuta così la concezione della storia come “maestra di vita”, propria della tradizione classica e umanistica. Ugualmente netto è il dissenso nei confronti delle ideologie “positive” contemporanee, nelle varie forme (dallo storicismo idealistico, proprio ad esempio di Benedetto Croce, allo storicismo marxista, materialistico e dialettico), che consideravano comunque la storia come un fattore indiscutibile di progresso, capace di trascendere le sue stesse aberrazioni nella logica di un disegno superiore, quasi provvidenziale. Il pessimismo montaliano – che si esprime nelle forme di un disincanto epigrafico e sentenzioso, senza nessuna concessione di gusto retorico – sottolinea invece la radicale e incolmabile estraneità della storia nei confronti dell’individuo, che non può ritrovarvi certezze o consolazioni.

 

 

Fonte: http://cmapspublic.ihmc.us/rid=1088422404218_700762497_1644/MONTALE.doc

Sito web da visitare: http://cmapspublic.ihmc.us

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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