Umberto Saba

 


                                                                                                                                                                                        
Umberto Saba   
      

 

Umberto Saba

Umberto Saba         (1883-1957)

 

  • Vita

Umberto Saba nacque a Trieste nel 1883 da madre, Rachele Coen,  ebrea e da padre, Ugo Poli, cristiano, che abbandonò la moglie ancora prima della nascita del figlio, per questo Umberto rifiutò il nome paterno per assumere quello di Saba.
Da piccolo fu tenuto a balia da una contadina slovena, Peppa, a cui rimase sempre legato, ma a tre anni fu riportato in famiglia. Questo ritorno a casa, unito alla separazione con la balia, alla poca affettuosità di una madre ancora amareggiata nei confronti dell’ex marito, causò il clima di angoscia destinato a perseguitarlo per tutta la vita.
Lasciò gli studi prematuramente per la necessità di trovare un lavoro, ma continuò le sue letture autonome a Trieste a soprattutto a Firenze.
Dopo sposato con Carolina Wolfer nel 1909, fu militare durante la prima guerra mondiale, alla fine della quale divenne proprietario di una piccola bottega antiquaria a Trieste, ma per l’introduzione delle leggi razziali in Italia, ebbe dei problemi: fu costretto a lasciare la sua bottega al suo socio e a rifugiarsi prima a Firenze e poi a Roma. Negli ultimi anni Saba fu tormentato da mali psichici, che tentò di curare ricorrendo alla nuova psicanalisi freudiana (Weiss), dalla quale venne attratto anche come metodo per la conoscenza dei fenomeni interiori dell’uomo. A Trieste passò i suoi ultimi anni, segnato dalle continue crisi nervose, dalla malattia e dalla morte della moglie, e arrivò così alla morte nel 1957 in una clinica di Gorizia.

 

  • La Poesia Onesta

Saba fin dall’inizio della sua vita poetica, esprime l’idea di una nuova poesia, lontanissima da quella delle tendenze dominanti del suo tempo: non approvava l’estetismo dannunziano, il modernismo dei futuristi ed anche i crepuscolari, a cui erroneamente talvolta viene accostato . Il suo modello di poesia era una «poesia onesta», la poesia autentica, in grado di scavare in fondo l’animo, superando le ambiguità, le doppiezze, le ipocrisie dell’apparenza per arrivare direttamente al cuore delle cose e dei sentimenti, al loro essere reale. La poesia non ha uno scopo estetico, come proclamavano invece gli estetisti, ma anche una funzione indagatrice e quindi curativa, Saba era convinto che in quanto facenti parte di questo mondo, ogni persona od animale, aveva dentro di se tutte le conoscenze, il problema stava solo nell’estrapolarle da quel luogo chiuso e ovattato nel quale si trovavano, e tradurle in un linguaggio comprensibile a tutti.
Per le sue idee della poesia come cura per l’anima, Saba verrà proposto come alter ego di Freud, le funzioni che quest’ultimo infatti attribuirà qualche anno più tardi alla psicanalisi, Saba le aveva già legate alla poesia, in particolare a quella «onesta», e quindi non alla letteratura disonesta, fra cui primeggiava D’Annunzio.

  • Canzoniere

 

Amai

Questa poesia è formata da due quartine più una strofa composta da due versi, un distico. I versi sono quasi tutti endecasillabi, tranne il terzo verso composto da sole tre sillabe: ‘amore’. Le rime sono baciate, i versi centrali delle strofe rimano tra loro, così pure l’ultimo verso di una strofa con il primo della strofa a seguire. Restano isolati il primo e l’ultimo verso della poesia.

Saba parlando di “trite parole”, intende quelle parole ormai logore, abusate e banali, che non venivano più utilizzate dai poeti, sempre alla ricerca di nuovi linguaggi e tecniche, poeti che Saba non appoggiava. Le rime facili sono proprio quelle rime banalissime, utilizzate in moltissime poesie, dal principio della tradizione letteraria ad ora, e che se si vogliono usare con un significato diverso diventano «difficili». È proprio in questi pochi versi che risiede il manifesto poetico di Saba, lui si ritiene infatti un coraggioso tra i poeti, il suo tentativo è quello di esprimere cose nuove non attraverso mezzi nuovi, ma con tecniche ormai già sentite e già conosciute. Questa è un impresa ardua per un poeta, Hegel per esempio era convinto che la ricerca continua di nuove tecniche artistiche fosse causata dal limite proprio delle vecchie tecniche nei confronti dei nuovi messaggi e valori della società moderna, Saba si cimenta quindi nell’impresa più antica e difficile del mondo, non è da meravigliarsi se non verrà alla fine compreso dai letterati a lui contemporanei.
È qui che Saba ci fornisce una giustificazione alla poesia, è suo compito infatti andare alla ricerca, e svelare, le verità nascoste del mondo, e l’unico mezzo che ha a disposizione l’uomo per comprenderle è la sincerità. Non c’è sincerità senza chiarezza, da qui deriva l’uso di un linguaggio semplice, comprensibile a tutti, che vada direttamente al cuore, magari amareggiandolo, ma una volta raggiunto, dopo un primo momento di paura, non si potrà più abbandonare il sollievo all’angoscia, che solo lei può dare.

 

http://digilander.libero.it/ricerchescolastiche/italiano/rc/Saba.doc

 

 

Umberto Saba

“Esser uomo fra gli umani / io non so più dolce cosa”

Umberto Saba nasce a Trieste nel 1883 da Rachele Coen (ebrea) e Ugo Poli (cattolico). Il matrimonio fra i genitori si spezza ancor prima della nascita del poeta, che conoscerà il padre solo vent’anni dopo, nel 1905.
Quando all’età di tre anni viene riportato in famiglia, è costretto ad affrontare una situazione tutt’altro che lieta: nella separazione dalla balia, nell’assenza del padre, nel carattere della madre, donna amareggiata e piena di rancore verso il marito, dura e poco espansiva con il figlio, vanno rintracciate le cause della crisi di angoscia destinate ad angustiarlo, con varia intensità, per tutta la vita.
La sua carriera scolastica è piuttosto breve: frequenta il ginnasio e , soltanto per pochi mesi, l’Accademia di Commercio, abbandonata quasi subito per la necessità di trovare un lavoro (si impiega presso un acasa di commercio triestina).
Parallelamente affronta la lettura dei classici, Leopardi prima di tutti, Parini lirico, Foscolo, Petrarca, Manzoni. Nel 1905 si trasferisce a Firenze, per prendere contatto con gli ambienti intellettuali e letterari di questa città, riscattandosi dal ritardo culturale che gli deriva dalla sua condizione di periferico.
A Firenze ha contatti con il gruppo della rivista “La Voce”, dai quali non fu mai veramente compreso, giudicato arretrato e passatista.
Nel 1909 sposa Carolina Wölfer (la Lina del Canzoniere) e due anni più tardi pubblica, a sue spese,  il suo primo volume di versi, Poesie, che riceve un’accoglienza critica e piuttosto fredda, soprattutto dagli intellettuali vociani.
Nel settembre 1913, nel teatro “Fenice” di Trieste, viene rappresentato per la prima ed ultima volta, con clamoroso insuccesso, il dramma in un atto Il letterato Vincenzo, unico e modesto testo teatrale sabiano a noi pervenuto.
Dopo la prima guerra mondiale, cui prende parte ricoprendo ruoli amministrativi e di retroguardia, rileva a Trieste una vecchia libreria antiquaria, alla quale si dedicherà con impegno ed entusiasmo per gran parte della sua vita.
L’introduzione delle leggi razziali in Italia (1938) segna un brusco cambiamento nella vita del poeta, prima costretto a cedere almeno formalmente la gestione della libreria, poi, dopo l’8 settembre 1943, a fuggire con la famiglia da Trieste e a vivere nella clandestinità. Per circa un anno trova rifugio a Firenze, dove può contare sull’appoggio ed il conforto di pochi e fidati amici, prima fra tutti Eugenio Montale, che sfidando il pericolo, va a fargli visita quasi tutti i giorni.
Dopo la fine della guerra nel clima di ritrovata fiducia, si trasferisce a Roma dove trascorre forse i mesi più felici della sua vita, circondato dal calore e dalla stima di tanti intellettuali e scrittori.
Negli anni della vecchiaia, l’acuirsi di crisi depressive lo allontanerà per sempre da quello che ormai gli appare come un “nero antro funesto”.
Morirà in una clinica di Gorizia nel 1957.

Dal punto di vista storico, l’Italia si trova in un momento di grande fermento politico: la lotta politica, dopo la Grande Guerra, è viva ed intensa, in particolare tra socialisti e popolari, ma, successivamente, la nascita dei partiti comunista e fascista dominerà l’intera scena.
Dopo la prima guerra mondiale, infatti, i partiti fino ad ora estranei alla tradizione dello Stato liberale saranno favoriti, per una generale sfiducia nelle strutture politiche che erano intervenute nel conflitto mondiale, contro l’orientamento delle masse popolari.
Molti furono gli episodi di tensione in questo clima: la nascita dei Fasci di combattimento nel 1919, il mito della cosiddetta “vittoria mutilata” e l’impresa di Fiume nello stesso anno, i moti contro il “caro-viveri”, i frequenti scioperi e le agitazioni agrarie, i contrasti del movimento operaio e la nascita del Pci, fino all’affermazione del fascismo agrario e dello squadrismo, e alla nascita del Partito Nazionale Fascista, che, con il suo conseguente successo darà vita al regime.
La cultura italiana risentiva della forte influenza dannunziana, ma molto interessanti sono anche i nuovi movimenti, come quelli che diedero vita a numerose riviste (La Ronda, Il Baretti, Strapaese, Stracittà, Solaria), e quelli stranieri dell’espressionismo, del dadaismo e del surrealismo.
Altri importanti movimenti poetici, contemporanei a Saba, sono quello crepuscolare, futurista ed ermetico.
E’ molto difficile, però, inquadrare Saba in un preciso filone o movimento letterario: egli stesso sottolinea, nella sua autobiografia in versi, il suo distacco nei confronti della cultura e della letteratura a lui contemporanee ( Gabriele D’Annunzio alla Versiglia/ vidi e conobbi; all’ospite fu assai/ egli cortese, altro per me non fece./ A Giovanni Papini, alla famiglia/ che fu poi della Voce, io appena o mai/ non piacqui. Era fra lor di un’altra specie.)
Saba, dunque, si estrania dai due movimenti letterari e culturali che dominarono gli anni della sua formazione: la poesia dannunziana e le esperienze delle riviste, con intellettuali come Papini e Prezzolini .
Il suo isolamento persisterà anche dopo la Grande Guerra, rifiutando i movimenti della “Ronda”, del novecentismo, dell’ermetismo, e del frammentarismo.
Ma ‹‹proprio per la sua naturale incapacità di adattamento ha finito così con l’essere forse il poeta più tipico, se non più rappresentativo di questo periodo›› (Pasolini) (8)

In un articolo del 1912, Quello che resta da fare ai poeti (che inviato a “La Voce”, non viene pubblicato), Saba ha fissato i canoni fondamentali della sua poetica. Già nell’esordio dichiara perentoriamente che “ai poeti resta da fare la poesia onesta”, prendendo così le distanze da alcune tendenze dominanti nella letteratura italiana di quegli anni: l’estetismo e il superomismo dannunziano, la furia eversiva e modernistica dei futuristi, le perplessità dei crepuscolari. Per poesia “onesta”, rappresentata emblematicamente dagli Inni Sacri e dai Cori dell’Adelchi del Manzoni, Saba intende una poesia capace di “non sforzare mai l’ispirazione”, una poesia autentica, strumento di scavo per superare le ambiguità e le doppiezze dell’apparenza e arrivare al nocciolo delle cose e dei sentimenti. Questo concetto di poesia come mezzo di conoscenza non ha nulla a che vedere con la concezione misticheggiante dei simbolisti e degli ermetici, che attribuiscono alla parola poetica il compito quasi magico di far luce sul mistero di una realtà in conoscibile dal punto di vista razionale. Scriverà limpidamente Saba in Scorciatoie e raccontini: ‹‹Non esiste un mistero della vita, o del mondo o dell’universo. Tutti noi, in quanto nati dalla vita, facenti parte della vita, sappiamo tutto, come anche l’animale e la pianta. Ma lo sappiamo in profondità. Le difficoltà incominciano quando si tratta di portare il nostro sapere organico alla coscienza››.
La “poesia onesta” si contrappone alla “poesia disonesta”, quella che è ricerca del bello anche a danno del vero, è compiacimento estetico, è in poche parole quella di D’Annunzio, che è “letterato di professione”, celeberrimo ed ammiratissimo,  e per questo più attento al successo che alla ricerca della verità.

La sua poesia, come quella di molti grandi autori del novecento, risente, inoltre, di un notevole influsso della psicoanalisi. Egli, infatti, venuto a contatto con trattamenti psicoanalitici per il suo caso di nevrastenia, studia la scienza approfonditamente e con grande interesse.
Ora la sua poesia mira, grazie a questo apprendimento, ad analizzare piuttosto che a descrivere.
‹‹Ciò che egli derivò dai suoi “buoni maestri” (così chiamò Nietzsche e Freud) non fu, come per tanti altri, un freudismo e un niccianismo spicciolo, ma, prima di tutto, una lezione di stoica “implacabilità nella dirittura, la dirittura fino quasi al sadismo”, cioè al rafforzamento della sua tendenza a una ricerca spietata di verità, per capire l’essere “vero” del mondo e il senso profondo della sua storia e di sé››(7)
La psicoanalisi non gli servì, dunque, solo a guarire, ma anche a comporre con una più chiara coscienza di sé, degli altri, della realtà e della storia.
In particolare, sono gli elementi di eros e thanatos, appresi dalla psicoanalisi, ad influenzare la sua produzione: l’eros, desiderio di vita, e il thanatos, impulso di morte, si fondono l’un l’altro, divenendo un binomio fondamentale.
Ma questo binomio non vale solo per la personale esperienza e sensibilità del poeta, ma può essere rintracciato in qualunque esperienza quotidiana sua e di tutti.
Nelle sue poesie, infatti, sono sempre presenti componenti di malinconia e di tristezza, che, però, vengono bilanciate dal suo amore per la sua città, la sua gente, dal suo incanto per la vita, seppur dolorosa.
La sua è ‹‹un’adesione totale alla vita scoperta come dominata dal dolore, dalla frustrazione, dalla morte e senza una meta vera, ma dotata di un fascino invincibile››(5)
Strettamente collegato a questo elemento vi è la totale accettazione della vita e della condizione umana.
Infatti, come poteva egli, affascinatone com’era, detestare la vita?
‹‹Saba ha amato gli uomini, la natura, le cose, e la sua lirica è tutta folta di immagini luminose e gioiose. Ma al fondo vi è, sempre più con gli anni, un sapore di amaro, o, a dire meglio, un ambiguo sapore in cui disperazione e consolazione, solitudine e amore degli altri si intrecciano in nodi indissolubili››(7)
Per questo egli si affianca agli uomini con grande umanità: ‹‹egli persegue un suo istintivo moralismo che cerca la risonanza, la comunicazione umana››(10) , nel desiderio, come afferma lui stesso di “vivere la vita di tutti, d’esser come tutti gli uomini di tutti i giorni”.

Ma la sua celebrazione delle “piccole cose” è ben diversa da quella pascoliana: mentre Pascoli, per l’azione del fanciullino, tendeva ad attribuire grandi valori alle piccole cose, Saba comprende che solo l’accettazione delle cose “quali esse sono” permette di vincere la disperazione.

Il linguaggio utilizzato da Saba è un linguaggio discorsivo e quasi colloquiale, seppur illuminato dalla grande cultura e conoscenza dei classici.
Egli si vantò di essere ‹‹il poeta più chiaro del mondo›› e tese ad eliminare il lessico aulico, cercando al suo posto versi ‹‹mediocri e immortali››(7)
Le parole venivano scelte per la loro concretezza, non per la loro musicalità o suggestione: c’è in Saba una profonda avversione per le complicazioni intellettualistiche, gli sperimentalismi formali, gli artifici letterari, le menzogne, gli autoinganni, l’incapacità di accettare la vita nella sua elementare chiarezza.
E’ ancora Saba a definirsi “il poeta meno rivoluzionario che ci sia”. Il fatto è che la vera rivoluzione, a suo giudizio, si realizza nella conquista di una verità profonda; una conquista difficile che deve combattere anche contro la tentazione del preziosismo formale, per evitare che tradisca l’autenticità dell’ispirazione

L’opera fondamentale di Saba è il “Canzoniere”, un volume pubblicato nel 1921, che raccoglie tutta la sua produzione precedente. Esso è diviso in sezioni, corrispondenti alle primitive raccolte e a tutte quelle che egli vi aggiunse nelle successive edizioni.
Chiaro è il riferimento al Petrarca, a cui Saba stesso afferma di essersi ispirato, confermando, ancora una volta, la sua opposizione alla letteratura a lui contemporanea.
Successivamente, nel 1948, venne pubblicato “Storia e cronistoria del Canzoniere”, in cui egli spiega e commenta la sua opera principale.

 

La Capra (1911) (dalla sezione “Casa e campagna”)

 

1 Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d'erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
5 Quell'uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
10  gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

Come nella lirica precedente, anche in questa c’è un paragone uomo-animale: ma mentre in quella prima ogni animale descritto aveva una connotazione positiva, qui la capra è compagna di dolore del poeta.
Come lui, infatti, la capra è consapevole della sofferenza della vita e, per questo, si tormenta.
Quasi si può dire che Saba instauri un ‹‹senso di comunione cosmica che è dato dal dolore di tutte le creature››(10)
La capra, inoltre, presenta caratteristiche che la possono far risalire ad un ebreo (viso semita): Saba, come è noto, ha origini ebraiche e ciò spiega per quale motivo egli prenda come esempio ‹‹ il popolo più perseguitato dalla storia››(4)
Il primo verso ha un tono favolistica, ma poi, dal v. 5 in poi, tra il poeta e l’animale si stabilisce un colloquio, ‹‹grazie a quella lingua universale che è il dolore››(10)
Al v. 2, “sazia d’erba” vuole forse indicare un “taedium vitae”, piuttosto che il soddisfacimento della fame.
Inizialmente il poeta risponde alla capra incredulo, quasi per scherzo (per celia), ma poi riconosce un accento inconfondibile in quel belato: il dolore.
La ripetizione di alcune parole (dolore, voce, capra) serve per dare alla poesia un tono quasi solenne.

Dopo La Tristezza(1911) (dalla sezione “Trieste e una donna”)

1  Questo pane ha il sapore d'un ricordo,
mangiato in questa povera osteria,
dov'è più abbandonato e ingombro il porto.
E della birra mi godo l'amaro,
5  seduto del ritorno a mezza via,
in faccia ai monti annuvolati e al faro.
L'anima mia che una sua pena ha vinta,
con occhi nuovi nell'antica sera
guarda un pilota con la moglie incinta;
10  e un bastimento, di che il vecchio legno
luccica al sole, e con la ciminiera
lunga quanto i due alberi, è un disegno
fanciullesco, che ho fatto or son vent'anni.
E chi mi avrebbe detto la mia vita
15  così bella, con tanti dolci affanni,
e tanta beatitudine romita!

In un’osteria vicino al porto, mangiando dell’umile pane, il poeta osserva ciò che gli è intorno.
Egli ha appena vinto una pena e, dunque, può guardare queste cose serenamente, ‹‹con occhi nuovi››.
‹‹In questa sera il poeta non vede nulla di diverso da quello che ha visto in tutte le altre sere della sua vita, nella sua città, e per questo si tratta per lui di una serata “antica”, ma diverso è ora il suo stato d’animo che gli fa guardare tutto con “occhi nuovi”››(4)
Ricorre nella poesia il tema del ricordo (‹‹questo pane ha il sapore d’un ricordo›› ‹‹un disegno fanciullesco che ho fatto or son vent’anni››), il passato e il presente si intrecciano.
Il parco pranzo e la visone del porto dimostrano la celebrazione del quotidiano caratteristica dell’autore.
Gli ultimi tre versi mostrano la già citata accettazione della vita del poeta, che unisce termini contrastanti: i“dolci affanni” e la “beatitudine romita” non gli impediscono di affermare che la sua vita è “così bella”.
Questa lirica non ebbe un grande successo, anche se l’autore la considerava una delle sue migliori: proprio per questo il poeta scrive: ‹‹Saba tanto meno piaceva quanto più era Saba››.

 

A mia moglie (1909) (dalla sezione “Casa e campagna”)

Tu sei come una giovane
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell'andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull'erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio,
Così, se l'occhio, se il giudizio mio
non m'inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun'altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.

Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la tua carne.
se l'incontri e muggire
l'odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l'erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t'offro quando sei triste.

Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.

Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d'un fervore
indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.

Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l'angusta
gabbia ritta al vederti
s'alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritoglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?

Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest'arte.

Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere:
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un'altra primavera.

Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l'accompagna.

E così nella pecchia
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun'altra donna.

 

La poesia chiude il volumetto Poesie del 1911 e fu inserito nel 1921 nella sezione “Casa e campagna” del Canzoniere. La singolarità del testo si esprime nel sincero paragone che il poeta instaura tra la moglie ed alcuni animali domestici e della campagna. La serie di paragoni è inusitata, ma descrive limpida e spontanea la commozione del poeta di fronte alla purezza della moglie. Ne evidenzia i tratti più semplici, elementari, naturali ed istintivi proprio attraverso il paragone con gli animali della campagna più vicini a lui. L’amore del poeta è adesione totale all’esistenza, è intima comunione con la natura.
Scrive lo stesso Saba in un commento tratto da Storia e cronistoria del Canzoniere(1948): “La poesia fa pensare ad un improvviso ritorno all’infanzia; un ritorno che non esclude la contemporanea presenza dell’uomo. Il poeta, come il fanciullo, ama gli animali che, per la semplicità e nudità della loro vita, ben più degli uomini, obbligati da necessità sociali e continui infingimenti, “avvicinano a Dio”, alle verità che si possono leggere nel libro aperto della creazione. Un giorno, e fu un bel giorno, Saba deve aver sentito, con acuta gioia e tenera commozione, le identità che correvano fra la giovane donna che gli viveva accanto e gli animali della campagna dove egli abitava. Il poeta ritrova la sua donna nella giovane e bianca pollastra, nella gravida giovenca, nella lunga cagna, nella pavida coniglia, nella rondine, nella provvida formica, come “in nessun altra donna””.
In essa emergono con evidenza le caratteristiche, di stile e di contenuto, peculiari del Saba: la chiarezza e la semplicità del verso, che ricordano la spontaneità di un intimo dialogo; il riferimento ad eventi, cose e personaggi della vita comune e quotidiana; la musicalità del verso; l’abilità del Saba nel comporre la sua poesia “onesta”,  priva di complicazioni intellettualistiche e di sperimentalismi formali, semplicemente limpida, tutta tesa alla rappresentazione della realtà nella sua naturale chiarezza.

 

 

Trieste (1910)  (dalla sezione “Trieste e una donna”)


1  Ho attraversata tutta la città.
Poi ho salita un'erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
5  un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
10 è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
15  Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all'ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima una casa, l'ultima, s'aggrappa.
Intorno
20  circola ad ogni cosa
un'aria strana, un'aria tormentosa,
l'aria natia.
La mia città che in ogni parte è viva,
25  ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.

La poesia fu scritta all’indomani della grave crisi coniugale che l’aveva condotto alla momentanea separazione dalla moglie Lina. In essa il poeta canta l’amore per la sua città, per la “scontrosa grazia”, evidenziandone la sua continua conflittualità: “come un ragazzaccio aspro e vorace”, “come un amore con gelosia”. In particolare “con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore”, che pare sottolineare l’indelicatezza di Trieste “popolosa” di fronte alla personalità pensosa e schiva del poeta. Tuttavia dopo una lunga fuga, che lo spinge ad attraversare tutta la città, il poeta ritrova il suo cantuccio, che pare termini dove termina la città. Ancora una volta il linguaggio è semplice e carico di significato; rispetta le pause e il suono del silenzio, è la limpida espressione della sua contemplazione interiore. 

 

 Città vecchia (1912)(dalla sezione “Trieste e una donna”)

1  Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un'oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.
5  Qui tra la gente che viene che va
dall'osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l'infinito
10  nell'umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
15  la tumultuante giovane impazzita
d'amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s'agita in esse, come in me, il  Signore.
20  Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.

Sulla poesia il poeta scrive ”Città vecchia è una delle poesie più intense e rivelatrici di Saba. Forte è in lui il bisogno innato di fondere la sua vita a quella delle creature più umili ed oscure”. Perduto nei vicoli e violetti di città vecchia (così è detta la parte più antica della città), il poeta trova “l’infinito nell’umiltà”. La folla in essi rigurgitante gli ispira pensieri di religiosa adesione.
Città vecchia , ispirata da una viva simpatia umana per un mondo umile, quotidiano, “minore”, si collega quindi tematicamente ad una lirica successiva, Il borgo, in cui il poeta esprime il suo desiderio di aderire alla “vita di tutti gli uomini di tutti i giorni”. È dunque un         sentimento di comunione con la totalità della vita, che lo spinge a cercare nelle persone più umili la più profonda verità.

 

La ritirata di Piazza Aldrovandi a Bologna (1914) (dalla sezione “La serena disperazione”)

1  Piazza Aldrovandi e la sera d'ottobre
hanno sposate le bellezze loro;
ed è felice l'occhio che le scopre.
L'allegra ragazzaglia urge e schiamazza
5  che i bersaglieri colle trombe d'oro
formano il cerchio in mezzo della piazza.
Io li guardo. Dai monti alla pianura
pingue, ed a quella ove nell'aria è il male,
convengono a una sola vita dura,
10  a un solo malcontento, a un solo tu:
or quivi a un cenno del lor caporale
gonfian le gote in fior di gioventù.
La canzonetta per l'innamorata,
un'altra che le coppie in danza scaglia,
15  e poi, correndo già, la ritirata.
E tu sei tutta in questa piazza, o Italia.

In questo scorcio di piazza che il poeta osserva, si possono rintracciare sia il suo costante amore verso tutti, sia, più concretamente, la sua posizione anti-militarista.
Nella piazza, che accomuna la sua bellezza a quella della sera di ottobre, ci sono i bersaglieri, pronti a suonare la ritirata con le loro “trombe d’oro”.
Dopo essersi soffermato sulla loro dura vita, Saba li mostra mentre suonano canzoni popolari, prima di intonare la ritirata.
Il poeta dimostra come, secondo lui, l’Italia sia “tutta in questa piazza”: un’Italia dedita ad una vita semplice, popolana, che si allieta con la banda e con ragazzi che schiamazzano nella piazza.
La vita militare non è fatta per l’Italia.
Lo benevolenza del poeta include tutto:le bellezze della piazza e della serata, i ragazzi chiassosi, i bersaglieri e la loro vita.

 

 

 

Bibliografia

  1. Carlo Salinari, Profilo storico della letteratura italiana, Editori Riuniti, 1972
  2. Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Principato Editore, 1962
  3. Enciclopedia della letteratura Garzanti, 1997
  4. Salvatore Guglielmino, Guida al novecento   ed. Principato, 1998
  5. Mario Pazzaglia, Il Novecento   ed. Zanichelli 2000
  6. Binni, Scrivano, Antologia della critica letteraria, Principato Editore, 1968
  7. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Palombo Editore, 1991
  8. Umberto Saba con presentazione di Ottavio Cecchi; L’Unità, 1993
  9. A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, Storia dal 1650 al 1900, Laterza, 2001
  10. Giacinto Spagnoletti, Poeti del novecento, Mondadori, 1964
  11. C. Segre, C. Martignoni, Testi nella storia vol. 4, Ed. Mondadori, 2001

Fonte: http://www.ghiacciato.it/scientifico/ita/UMBERTO%20SABA.doc

 

- Umberto Saba -

La vita
Umberto Saba nasce a Trieste nel 1883 (faceva parte ancora dell’impero austro-ungarico), da padre cattolico-tedesco e madre ebrea che si lasceranno presto. Il cognome Saba è uno pseudonimo, infatti il cognome del padre era Poli. La madre, rimasta sola in seguito all’abbandono del padre, affida Saba a una balia (Peppa Sabaz) che lo accudirà fino a 3 anni. Le condizioni economiche della sua famiglia sono misere, quindi è costretto a frequentare una scuola professionale. A vent’anni si manifesta la nevrosi che lo accompagnerà per tutta la vita. Nel 1909 sposa Carolina Woelfler (Lina) e l’anno dopo nasce la figlia Linuccia. Nel 1912 acquista a Trieste una libreria antiquaria. Nel 1921 esce la prima edizione del Canzoniere. Durante le persecuzioni razziali fasciste e naziste vive nascosto a Firenze da Montale. Dopo la guerra ottiene vari riconoscimenti, ma dal ’50 soffre di gravi crisi depressive. Muore in una clinica di Gorizia nel 1957.

 

Formazione culturale
Non potendo fare studi umanistici, Saba legge per conto suo le opere dei maggiori letterati della tradizione italiana del passato (da Petrarca a Leopardi). Nascendo a Trieste Saba non era a contatto con le avanguardie del periodo, ma nello stesso tempo conobbe l’ideologia di Freud e Nietzsche prima degli altri artisti italiani.

 

La critica
La poesia di Saba viene criticata per la sua non attualità e modernità: avendo studiato i classici, Saba utilizza lo stile e le forme della tradizione letteraria italiana (canzonetta, sonetto). La sua originalità sta nel fatto che lui adotta forme classiche in un periodo dove tutti cercano l’innovazione. Inoltre Saba propone un quesito sulle nuove avanguardie: i nuovi poeti utilizzano forme e linguaggi complicati per il lettore perché sono realmente innovativi o perché in realtà non hanno nulla da dire?

 

Il canzoniere


Saba raccoglie tutta la sua produzione poetica maggiore nel Il canzoniere. E’ formato da 437 testi composti tra il 1900 e il 1954. La prima edizione è del 1921. La seconda è del 1945. L’edizione definitiva esce postuma nel 1961. Il titolo si riallaccia alla grande tradizione italiana, che ha il suo capostipite in Petrarca. Il canzoniere è diviso in 3 volumi, suddivisi al loro volta in diverse sezioni. Il canzoniere è una specie di diario di Saba dove racconta la vita a Trieste: raccontandosi in questa raccolta, Saba compie una specie di psicanalisi per capire il significato della vita. Il tema centrale del canzoniere è la scissione dell’io, che getta le radici nell’infanzia. Esso si origina dall’opposto carattere dei genitori del poeta e dagli anni vissuti con la balia e poi con la madre. Il tema dell’amore, centrato sul personaggio della moglie Lina e su altri rapporti occasionali, ha nell’opera un’importanza anche al di fuori delle specifiche relazioni erotiche, dato che Saba considera i poeti quali “sacerdoti dell’eros”, cioè cantori della profonda verità elementare che unifica tutti i viventi: la pulsione sessuale (chiamata “brama” da Saba). Tutti gli esseri viventi, infatti, hanno l’istinto a riprodursi per continuare la propria specie.

 

Poesie lette:

A mia moglie – Casa e campagna
E’ un’originale poesia d’amore. In questo componimento Saba paragona la moglie (in quel momento in stato di gravidanza) a diverse categorie di femmine di animali mansueti (galline, mucche, cagne, coniglie, rondini, formiche, api). La moglie non è molto contenta della poesia, poiché si sente offesa. La poesia è strutturata in 6 strofe ineguali, formate da versi di varia lunghezza. Il linguaggio usato è molto semplice.
Città vecchia – Trieste e una donna
La poesia parla di una camminata del poeta attraverso il quartiere più antico e malfamato di Trieste. Qui incontra persone umili (prostituta, marinaio, il vecchio che bestemmia ecc.). Queste persone sono considerate da Saba le più vicine ai valori autentici e profondi dell’esistenza, perché sono le più sincere.
Amai – Mediterranee
Questa poesia è il manifesto poetico di Saba. Saba afferma i caratteri della sua poesia: l’uso di parole semplici e banali, ma adatte a esprimere le verità profonde e comuni degli uomini, e la scelta di soluzioni formali semplici e allo stesso tempo impegnative, in quanto il poeta deve essere originale anche con l’utilizzo di forme e stili già precedentemente utilizzati (nella poesia fa l’esempio della rima cuore-amore). La poesia è composta da 2 quartine e un distico (strofa di 2 versi), di endecasillabi con l’eccezione del verso 3 che è un trisillabo. Ci sono frequenti rime baciate.

 

Fonte: http://www.riassuntibuse.altervista.org/Umberto%20Saba.doc

 

 

 

UMBERTO SABA

 

Umberto Saba nacque a Trieste il 9 marzo 1883 da Ugo Edoardo Poli, veneziano, figlio della contessa Teresa Arrivabene, e da Felicita Rachele Coen, che apparteneva a una modesta famiglia di commercianti del ghetto. Il padre, quando si sposò, si convertì all’ebraismo e prese il nome di Abramo; ma, prima che il filglio nascesse, abbandonò la moglie e si diede a una vita avventurosa e vagabonda. Umberto conobbe il padre solo molto più tardi, a vent’anni circa.

Autobiografia – Sonetto 3
Mio padre è stato per me “l’assassino”,
fino ai vent’anni che ho conosciuto.
Allora ho visto che egli era un bambino,
e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.

Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più di una donna l’ha amato e pasciuto.

Egli era gaio e leggero; mia madre
tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.

“Non somigliare – ammoniva – a tuo padre”.
Ed io più tardi in me stesso lo intesi:
eran due razze in antica tenzone.

Saba viveva un conflitto interiore fra la natura paterna e materna: da un lato ammirava istintivamente il padre, uomo libero e avventuroso, dall’altro provava affetto per quella madre, che portava i pesi della vita.
Umberto fu messo a balia presso Giuseppina (Peppa) Sabaz, una contadina slovena, moglie di un macellaio, che aveva perso da poco un bambino e che riversò tutto il suo affetto sul piccolo Berto. Da lei deriva lo pseudonimo Saba, pseudonimo che sostituì quello di Chopine, poi, di Umberto da Montereale, usati prima da Saba con gli amici, quando leggeva loro le sue poesie.
La balia viveva in collina, poco sopra Trieste, saba le si affezionò moltissimo, ma la madre, a tre anni, forse per motivi religiosi (era cattolica e portava il piccolo in Chiesa), lo rivolle con sé: il bimbo ne soffrì moltissimo, con negativi riflessi psichici, anche per il contrasto tra il carattere aperto della balia e quello chiuso e severo della madre, ansiosa e rigida nell’educazione del figlio.
Anche per questo la figura della Peppa assumerà poi un valore mitico.

 

 

 

Il piccolo Berto(1929 – 1931)
Tre poesie alla mia balia
1
Mia figlia
mi tiene il braccio intorno al collo, ignudo;
ed io alla sua carezza mi addormento.

Divento
legno in mare caduto che sull’onda
galleggia. E dove alla vicina sponda
anelo, il flutto mi porta lontano,
oh, come sento che lottare è vano!
Oh, come in petto per dolcezza il cuore
vien  meno!

Al seno
approdo di colei che Berto ancora
mi chiama, al primo, amoroso seno,
ai verdi paradisi dell’infanzia.

2
Insonne
mi levo all’alba. Che farà la mia
vecchia nutrice? Posso forse ancora
là ritrovarla, nel suo negozietto?
Come vive, se vive? E a lei mi affretto,
pure una volta, con il cuore ansante.

Eccola: è viva; in piedi dopo tante
vicende e tante stagioni. Un sorriso
illumina, a vedermi, il volto ancora
bello per me, misterioso. E’ l’ora
a lei d’ aprire. Ad aiutarla accorso
scalzo fanciullo, del nativo colle
tutto improntato, la persona chiana
leggera, ed alza la saracinesca.

Nella rosata in cielo e in terra fresca
mattina  io ben la ritrovavo. E sono
a lei d’allora. Quel fanciullo io sono
che a lei spontaneo soccorreva; immagine
di me, d’uno di me perduto…

 

 

 

 

3
…Un grido
s’alza di bimbo sulle scale.E piange
anche la donna cha va via. Si frange
per sempre un cuore in quel momento.

Adesso
sono passati quasi quarant’anni.
Il bimbo
è un uomo adesso, quasi un vecchio, esperto
di molti beni e molti mali. E’ Umberto
Saba quel bimbo. E va, di pace in cerca,
a conversare colla sua nutrice;
che anch’ella fu di lasciarlo infelice,
non volontaria lo lasciava. Il mondo
fu a lui sospetto d’allora, fu sempre
(o tale almeno gli parve) nemico.

Appeso al muro è un orologio antico
così che manda un suono quasi morto.
Lo regolava nel tempo felice
il dolce balio; è un caro a lui conforto
regolarlo in suo luogo. Anche gli piace
a sera accendere il lume, restare
da lei gli piace, fin ch’ella gli dice:

“E’ tardi. Torna da tua moglie, Berto”.

Il ricordo della casa della balia è un ricordo felice.

Poesie dell’adolescenza e giovanili (1900 – 1907)
La casa della mia nutrice

La casa della mia nutrice posa
tacita in faccia alla cappella antica,
ed al basso riguarda, e par pensosa,
da una collina alle caprette amica.

La città dove nacqui popolosa
scopri da lei per la finestra aprica;
anche hai la vista del mar dilettosa
e di campagne grate alla fatica.

Qui – mi sovviene – nell’età primiera,
del vecchio camposanto tra le croci,
giocavo ignaro sul far della sera.

 

 

A Dio innalzavo l’anima serena;
e dalla casa un suon di care voci
mi giungeva, e l’odore della cena.

Cuor morituro  (1925 – 1930)
La casa della mia nutrice
I
O immaginata a lungo come un mito,
o quasi inesistente,
dove sei tu, ridente
casina, che dal primo verso addito?

Dov’è quella che avevi, viso a viso,
la tua Cappella antica?
E la finestra aprica
dov’è, che dà su tanto paradiso?

E quello che dal tetto fuor t’ usciva
con odori di cena,
dimmi, lo sparse appena
il vento? O tutta una vita fuggiva?

Perché dai suoi negozi al tuo beato
pendio torna chi corse
così lontano? Forse
sta per morire? O forse è innamorato?

Ama forse chi amare egli non deve,
o in silenzio soltanto,
fin che a un sorriso il pianto
matura, e un dono la vita riceve?

Io so dove tu sei, ma non lo dico,
cara amata casina.
Del tutto una rovina
ti fece il tempo, ai deboli nemico?

O dentro ancor la donna ti sfaccenda,
lei che già giovanetto
con un tenace affetto
visitavo, e la luce par vi splenda

di quelle sere? Mesto ero e felice,
e in ogni male puro.
No, non dico il tuo muro
.a qual s’appoggia divina pendice.

 

 

 

3
Ed a te non dirò strane parole,
se ancora operi e vivi,
a te che custodivi
me nella casa da cui sorse il sole

dell’infanzia, su cui tramonta quello
dell’abbagliante vita?
Ahi, che troppo smarrita
sei nel ricordo; il volto che sì bello

certo mi parve, è quale sulle mura
che umidità corrose
quella che un dì vi pose
immagine una pia rozza pittura.

Dov’è la donna che faceva fiori
di carta? Io non la vedo
che in ombra, mentre siedo
nella stanzetta con antichi odori.

E il balio che di molte cose sparte
ne congegna una sola?
Dove il tempo che invola
tutto, portò quella domestic’arte?

S’io non lo so non lo saprebbe alcuno
oggi nel mondo dire.
Di una casetta uscire
se vedo il fumo fuor del tetto bruno,

sempre quella che pare, e non è, un mito,
mi richiama alla mente,
che è quasi inesistente,
un sogno dall’adolescenza uscito;

un mesto sogno del tempo felice
che nel male ero puro,
nato da un vecchio muro
poggiato ad una solatia pendice.

La madre però non lo tenne con sé; lo affidò a due cugine, abitanti a Padova: Elvira e stellina, il che contribuì ad accentuare il trauma del distacco dalla balia.

 

 

 

Il piccolo Berto(1929 – 1931)

Partenza e ritorno

Di padre
Serbo in Serbia era nata. E aveva a Padova
la bella casa signorile.
Disse
mia madre un giorno: “Se mandassi Umberto
da zia Stellina e dall’Elvira? Forse
al suo ritorno alfine m’amerà.
Forse, lontano restando, la Peppa,
l’eterna Peppa dimenticherà”.
E andai lontano, a Padova. L’Elvira
molto mi piacque, mano assai la zia,
vecchia donna e severa. E quante cose
la bella Elvira m’apprese! le lettere
dell’alfabeto, un po’ d’astronomia
perfino. Il nome di lei mi piaceva,
e la sua stanza, e il suo profumo ch’era
di rose e mandorle amare. E una sera,
dalla finestra che dà sul giardino,
sento per nome chiamarmi. “Mi pare
- dico – mi pare di sentir la voce
della mia mamma di Trieste.”

                                       Un muro
Vedo ed ombre danzanti, un’altra ombra
china su me, che mi tranquilla. Sono
ritornato a Trieste; in un lettuccio
giaccio ammalato. Ma, guarito appena,
chiedo ancora di lei, della mia amica.
E tanto faccio che le son condotto,
subito. Più non m’aspettava, io credo,
la mia buona, la mia fida nutrice.
“Oh Berto, oh Berto!” esclamava, felice
a me versando il caffelatte. Io tutti
i miei progressi le appresi. Poi quando
- come un secreto tra noi due – mi chiese
se stavo bene a Padova, se stavo
meglio laggiù o con mia madre:”Era bello
coll’Elvira – le dissi ; - ma con te
- e la pregai si abbassasse, che dirle
io volli questo in un orecchio – è ancora
più bello”.

 

 

 Alla sua cara Itaca Ulisse
non ebbe forse un più lieto ritorno
del mio, di Berto in via del Monte. Il giorno
era sereno fulgido; modello
rimasto in me d’ogni bel giorno, immagine
viva parlante di felicità.

Con l’aiuto economico della zia Regina, che aveva un piccolo negozio rivendita di oggetti usati, Saba seguì gli studi fino alla quarta classe del ginnasio, ma con scarso profitto. Frequentò poi, solo per alcuni mesi, l’Accademia di Commercio e Nautica, perché, attratto dalla vita avventurosa, si imbarcò come mozzo su un bastimento mercantile, che praticava il piccolo cabotaggio fra i porti dell’alto Adriatico, come egli stesso ricorda.

Mediterranee
Ulisse

Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al  largo,
per sfuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.

La madre lo fece poi assumere come praticante presso una ditta commerciale triestina, dove rimase alcuni anni.
Fu questo un periodo di “sterminate letture”, come autodidatta. Il suo poeta preferito era Leopardi, ma lesse anche Pascoli, Belli, Giusti, Pindemonte, Goethe, Rilke, Tasso, Ariosto, in una formazione disordinata, ma molto ampia, in linea con la città in cui viveva, Trieste, una città cosmopolita.
Soggiorna frequentemente, in questi anni, anche in Toscana: A Pisa nel 1903, a Firenze nel periodo 1905 – 1908, ed ha i primi contatti con l’ambiente letterario fiorentino, con il quale, fin d’allora, non legò.

Autobiografia (1924)
10
Vivevo allora a Firenze, e una volta
venivo ogni anno alla città natale.
Più d’uno in suoi ricordi ancor m’ascolta
dire, col nome di Montereale,

i miei versi agli amici, o ad un’accolta
d’ignari dentro assai nobili sale.
Plausi n’avevo, oe n’ho vergogna molta;
celarlo altrui, quand’io lo so, non vale.

 

Gabriele D’Annunzio alla Versiglia
vidi e conobbi; all’ospite fu assai
egli cortese, altro per me non fece.

A Giovanni Papini, alla famiglia
che fu poi della “Voce”, io appena o mai
non piacqui. Ero fra lor di un’altra spece. (sic)

Com’era il Saba di quegli anni? Eccone una descrizione tratta da Omaggio a Saba  apparso su Solaria nel 1928, scritto da Silvio Benco:
Vent’anni fa si aggirava per le vie di Trieste, con un passo molleggiante da bighellone che poi la vita gli ha fatto perdere, un giovane che s’era raffazzonato una figura alquanto bizzarra: pizzo biondo alla dannunziana e precocissima calvizie, curvo il largo torace come per abitudine di parlare a compagni di statura più bassa, una loquela pastosa, nasale, patinata a Firenze…….le mani calzate di guanti bianchi di lana che davano negli occhi mezz’ora lontano, e un nome letterario di similoro che non ingannava sul suo buon mercato, Umberto da Montereale……..Trieste, da lui amata svisceratamente, gli aveva tosto e con naturalezza dedicato un’antipatia, un’incredulità, una canzonatura da borgo natio, che soltanto la fama e certi mormorii lusinghieri nella conchiglia del mondo sono riusciti ad attenuare negli anni.

A Pisa si manifesta per la prima vota la nevrosi che lo avrebbe accompagnato, a fasi alterne, per tutta la vita.
L’idea ossessiva che lo perseguita nasce dal timore infondato che un amico, il violinista Ugo Chiesa, voglia vendicarsi di lui per gelosia (Saba era allora in corrispondenza con la sua fidanzata), denunciandolo per alcuni versi antiasburgici scritti anni prima.

La leva militare
Il 1908 lo vede soldato di leva in quanto cittadino italiano, a Salerno, dove scrive i Versi militari

Durante una marcia
I
Poi che il soldato che non va alla guerra
invecchia come donna senz’amore,
questo vorremmo: la certezza in cuore
di vincere, ed andar di terra in terra.

 

Qui andiamo sì, ma a tanta nostra guerra
manca il nemico che ci miri al cuore,
manca la morte che il fuggiasco atterra,
manca la gloria per cui ben si muore.

Son brutte facce intorno a me, e sudori.
Guardo il compagno: mezza lingua fuori
gli pende, come a macellato bue.

O canta, Carmen, le bellezze tue,
le lodi in coro della tua persona.
Il cielo, senza mai piovere, tuona.

Consolazione
E’ stata più che non pensassi in mia
vita la guerra finta e fragorosa.
Sparò nell’assordante artiglieria
l’onnipotente fanteria fangosa.

Ora in cortile, a sì diversa cosa
ciascuno attende. Ora si muta in vile
spazzino il fante. Ora non più il fucile,
ma la ramazza ha in pugno. E così sia.

Con tanto più diletto e più sincero
animo andrò nella mia chiusa stanza
tessendo e ritessendo il mio pensiero.

Su tappeti di porpora la danza
godrò leggera, bacerò il bel viso
di lei, nelle cui braccia è paradiso.

Negli anni della leva si precisa il senso di isolamento del poeta, come si può ben notare dalla seguente poesia, inizialmente raccolta nei Versi militari, poi spostata in chiusura delle Poesie dell’adolescenza e giovanili

Il sogno di un coscritto
(l’osteria fuori porta)
Or che di molte passioni l’urto
si addormì nel respiro
della notte profonda,
e fatto ha la ronda
ultima l’ultimo giro;

che là solo e di furto
arde ancora un lucignolo fumoso,
penso, in blando riposo,
penso lo smarrimento che al fervore
dei miei sogni seguiva, entro un’antica
osteria fuori porta, oggi, nell’ore
della libera uscita.

Ero là con i miei nuovi compagni;
là con essi seduto ad un’ingombra
tavola, quando un’ombra
scese in me, che la mia vita lontana
tenne, con la sua forza, con le sue
pene, da quel tumulto vespertino.
Centellinavo attonito i miei due
soldi di vino.

Non un poeta, ero uno sperduto
che faceva il soldato,
guatandosi all’intorno l’affollato
mondo, stupito e muto;

che come gli altri, in negro
vino il suo poco rame barattava
che coi baci la mamma a lui mandava,
triste no, non allegro;

con nella mente fitta
solo un’idea, recata
da un suon lontano: fosse la prescritta
ora trascorsa della ritirata.
Né si squarciò quel velo,
né a vivere tornai di questa mia
vita, prima che fredda nella via
fosse la notte e in cielo.
Il senso di estraneità al gruppo dei compagni dissolve il senso di appartenenza che nei versi precedenti era avvertito come un’affinità insolita, sperata, liberatoria. La consapevolezza di appartenere a un’altra razza, un’altra famiglia, prende il sopravvento come una condanna “la poesia ci dice Saba, condanna chi la pratica all’isolamento, anche se alimenta un inesausto, tormentoso desiderio di integrazione: ma le parole di tutti, i valori di tutti, ogni possibile identità con gli altri appaiono irraggiungibili perché la poesia funziona come una remora, come un azzurro spiraglio che il poeta conserva. (Lavagetto)

Lina
Saba aveva conosciuto Lina (Carolina Wolfer), la cucitrice in rosso scialle avvolta,  nel 1905. L’incontro con lei gli fa scrivere vivo e spero che un po’ di sole spunterà anche per me. Non ero forse quasi felice quando ero tra le tue braccia?
I due si sposano il 28 febbraio 1909 e si stabiliscono a Montebello, una collina sopra Trieste.
Il 24 gennaio dell’anno successivo nasce la figlia Linuccia.
Questa importante tappa della sua vita è registrata prima di tutto nel gruppo di poesie che hanno come titolo
Casa e campagna (1909 – 1910), tra le quali ricordiamo in particolare
A mia moglie (pag. 384 – 385 libro di testo)

La capra
Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.

Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

A mia figlia
Mio tenero germoglio,
che non amo perché sulla mia pianta
sei rifiorita, ma perché sei tanto
debole e amore ti ha concesso a me;
o mia figliola, tu non sei dei sogni
miei la speranza ; e non più che per ogni
altro germoglio è il mio amore per te.

La mia vita, mia cara
bambina,
è l’erta solitaria, l’erta chiusa
dal muricciolo,
dove al tramonto solo
siedo, a celati miei pensieri in vista.
Se tu non vivi a quei pensieri in cima,
pur nel tuo mondo li fai divagare;
e mi piace da presso riguardare
la tua conquista.

Ti conquisti la casa a poco a poco,
e il cuore della tua selvaggia mamma.
Come la vedi, di gioia s’infiamma
la tua guancia, ed a lei corri dal gioco.
Ti accoglie in grembo una sì bella e pia
mamma, e ti gode. E il vecchio amore oblia.

In quest’ultima poesia sono riscontrabili alcuni degli atteggiamenti di Saba che porteranno alla grave crisi coniugale del 1911: Lina abbandona il marito, sempre distante e chiuso in se stesso.
Questa crisi è raccontata nella raccolta di poesie Trieste e una donna, di cui sono qui riportate le più significative

L’autunno
Che succede di te, della tua vita,
mio solo amico, mia pallida sposa?
La tua bellezza si fa dolorosa,
e più non assomigli a Carmencita.

Dici :”E’ l’autunno, è la stagione in vista
sì ridente, che fa male al mio cuore”.
Dici – e ad un noto incanto mi conquista
la tua voce - :”Non vedi là in giardino
quell’albero che tutto ancor non muore,
dove ogni foglia che resta è un rubino?
Per una donna, amico mio, che schianto
l’autunno! Ad ogni suo ritorno sai
che sempre, fino da bambina, ho pianto”.
Altro non dici a chi ti vive accanto,
a chi vive di te, del tuo dolore
che gli ascondi; e si chiede se più mai,

anima, e dove e a che, rifiorirai.

Verso casa
Anima, se ti pare che abbastanza
vagabondammo per giungere a sera,
vogliamo entrare nella nostra stanza,
chiuderla, e farci un po’ di primavera?

 

Trieste, nova città,
che tiene d’una maschia adolescenza,
che di tra il mare e i duri colli senza
forma e misura crebbe;
dove l’arte o non ebbe
ozi, o, se c’è, c’è in cuore
degli abitanti, in questo suo colore
di giovinezza, in questo vario moto;
tutta esplorammo, fino al più remoto
suo cantuccio, la più strana città.
Ora che con la sera anche si fa
vivo il bisogno di tornare in noi,
vogliamo entrare ove con tanto amore
sempre ti ascolto, ove tu al bene puoi
volgere un lungo errore?

 Della più assidua pena,
della miseria più dura e nascosta,
anima, noi faremo oggi un poema.

L’appassionata
Tu hai come il dono della santità.
Nacque con te, ti segue ove ti porta
la passione, fa dei peccati tuoi opere buone,
d’ogni giudizio ti rimanda assolta.

Questa grazia che a te fors’anco è ignota
è il nostro amore, è la tua verità.
Quando riguardi tosto a te si vota,
offre a te la sua vita.
Dell’inferta ferita
poi sanguini così dentro il tuo cuore,
che si chiede perdono a te, o devota,
o appassionata, o pura
sempre quanto la più giusta creatura;
che perderti volessi non lo puoi,
di cui s’amano i falli perché tuoi.

La tua voce che a me giunge più amara
e più impregnata dell’intima ambascia,
si ascolta come una musoca bassa,
come una lenta musica di chiesa.
Nell’anima che tu, innocente, hai lesa
strana dolcezza lascia,
pure al ricordo, la tua voce amara.

La bugiarda
Perché arrossire? Io credo
pure alle tue bugie.
Hanno più religione delle mie
verità; che se a volte in esse io vedo
ghiacce bevande di ardente calore
che consolano e crescono la sete;
i poeti, mio amore,

i gloriosi poeti e i vecchi saggi,
e gli eroi che tornavano da mete
lontane, dopo immortali viaggi,
e, forse, in sue secrete
leggi, nella giustizia sua l’Eterno,
sentono come me che non discerno
fra il pensato ed il vero.
E chi sa cha a sua immagine il pensiero
non muti fino le cose passate,
quando con cuore e con labbra agitate
dici la tua menzogna, e con l’ardore
di chi chiede ai suoi santi suoi perdoni,
che grazia impetra con sante orazioni.

Or tu dunque rallegrati. Io credo
solo alle tue bugie.
La tua voce ha le vie
del mio cuore; né in te ricerco traccia
di colpa; anzi più pura
ti vedono nel male gli occhi miei.
Altro dirti poss’ io se da natura
fatta così femminilmente sei?

Sappiamo dalla testimonianza di Aldo fortuna che Saba nel 1912 stava leggendo Sesso e carattere di otto Weiminger, un classico della misoginia e dell’antisemitismo, che alla donna e all’ebreo negava l’anima e, quindi, ogni facoltà morale, ogni capacità di scegliere tra il bene e il male. Questo spiega alcuni termini della poesia sopra riportata (femminilmente sei, il più evidente). Sarà solo con la psicanalisi, anni dopo, che saba supererà questa ambivalenza verso l’universo femminile.

Nuovi versi alla Lina

I
Una donna! E a scordarla ancor m’aggiro
io per il porto, come un levantino. uardo il mare: ha perduto il suo turchino,
e a vuoto il mondo ammiro.

Una donna, una ben piccola cosa
Una cosa  – Dio mio! – tanto meschina;
poi una come lei, sempre più ascosa
in se stessa, che pare ogni mattina
occupi meno spazio a questo mondo,
dare ad un’esistenza il suo profondo
dolore; solo io qui sentirmi e sperso,
se più di lei la mia città non riempio;
spoglio per essa, e senza altare, il tempio
dell’universo.

Una donna, un nonnulla. E i giorni miei
sono tristi; una donna ne fa strazio,
piccola, che una casa nello spazio,
un piroscafo è tanto più di lei.

2
Quando il rimorso ti dà troppe pene,
e in fretta mandi mie nuove a sentire;
vorrei pure rispondere :Sto bene;
ma che giova mentire?

Per amor tuo, per tua tranquillità
di fingermi felice anche ho pensato;
ma tu molto hai vissuto e sai se v’ha
pace in questo mio stato.

Pure non t’odio; e solo una preghiera
volgo, per tanta sconoscenza, a Dio:
che sappi che un dì che immensa cosa egli era
questo vecchio amor mio.

3
se dopo notti affannose mi levo
che l’angoscia dei sogni ancor mi tiene,
e se da quello il mio male mi viene
che più in alto ponevo;

se in ogni strada che vidi sì bella
vedo adesso una via del cimitero,
e della mia stanzetta il tuo pensiero
mi fa un’orrida cella;

quel giorno ancora chiamo il più felice,
dei miei giorni, che in rosso scialle avvolta
ho salutata per la prima volta
Lina la cucitrice.

4
Ora se in strada accanto a me ti sento
(sia vero o falso) tosto il passo affretto;
eppure credi che io non pavento
ricevere quel colpo in mezzo al petto.

Mi rivedi in un mese già invecchiato;
ma temo non sia solo il viver mio
che come il fazzoletto dell’addio
sarà tutto di lacrime impregnato.

Calpestato tu l’hai questo mio cuore!
Ma di una donna non sa far vendetta.
E’ abitato da Dio, pieno d’amore;
nei miei sogni ti chiamo benedetta.

5
Lascia i saluti, anche sinceri, i troppi
pianti, i messaggi della tua fantesca;
non v’è cosa di te che più m’incresca;
fingiti abbominevole(sic) ai miei occhi.

O mia povera amica, oggi, perché,
rattenermi? Non ho abbastanza amato,
sì che per sempre, e più assai che non credi,
del ben che t’ho voluto ti son grato?
Pianger di che? Non lacrime mi devi
di rimorso; ma andar diritta e forte,
ma il silenzio di te, ma la mia morte
nel tuo cuore; e se questo oggi ti appare
pena soverchia al dolor che hai recato,
sol che morto mi pensi, anzi, non nato,
posso ancora pensare
posso ancora sperare
che una mattina di sole al destarmi,
di quante cose che per te ho lasciato,
di quanta gloria saprei ricordarmi;
trovar dolci le notti, i giorni brevi
alla mia gioventù ch’è ancora in fiore;
sorridere in cuor mio del mio dolore,
e guarirmi di te.

Ma tu lasciami, tu che nulla sai
farmi che adesso una viltà non sia.
Senza volgerti segui la tua via,
fin che un mesto ricordo in me sarai.

Trieste
In questi anni si precisa un altro grande tema della poesia di Saba: Trieste.
Saba ama profondamente la sua città, una città  con una scontrosa grazia, con le sue vie strette e oscure, che si inerpicano verso il monte lasciandosi alle spalle il mare, le navi e i velieri ormeggiati al porto, gli odori, la folla del mercato, la prostituta e il marinaio.
Trieste pag. 386 del libro di testo
Città vecchia pag. 388 del libro di testo

 

Ricomposto il dissidio familiare, fra il 1913 e il 1915 soggiorna a Bologna, scrive i versi della raccolta La serena disperazione.
Il garzone con la carriola
E’ bene ritrovare in noi gli amori
perduti, conciliare in noi l’offesa;
ma se la vita all’interno ti pesa
tu la porti al di fuori.

Spalanchi le finestre o scendi tu
tra la folla: vedrai che basta poco
a rallegrarti: un animale, un gioco,
o, vestito di blu,

un garzone con una carriola,
che a gran voce si tien la strada aperta,
e se appena in discesa trova un’erta
non corre più, ma vola.

La gente che per via a quell’ora è tanta
non tace, dopo che indietro si tira.
Egli più grande fa il fracasso e l’ira
più si dimena e canta.

Vive  a Bologna fin quando torna sotto le armi per lo scoppio della prima guerra mondiale. Fervente interventista, sentiva la guerra come una necessità per la costruzione di una nuova Europa: fu soldato ma non combattente, perché non venne mandato al fronte e visse questo fatto come un’umiliazione. In questo periodo accanto al complesso del non combattente sviluppò la convinzione che la poesia, nella comune tragedia, non può far sentire la sua voce: perciò le sue poesie di guerra sono così poche.
Da Poesie scritte durante la guerra
La stazione
La stazione ricordi, a notte, piena
d’ultimi addii, di mal frenati pianti,
che la tradotta in partenza affollava?
Una trombet6ta giù in fondo suonava
l’avanti;
ed il tuo cuore, il tuo cuore agghiacciava.

Dopo la guerra, torna a Trieste dove apre una libreria antiquaria, con l’aiuto di zia Regina. Questa attività lo portò spesso  fuori Trieste in viaggi a Milano, Roma, Firenze, dove potè stringere amicizie e farsi conoscere come poeta, anche se in una ristretta cerchia letteraria, e gli diede l’indipendenza economica necessaria per dedicarsi con serenità alla poesia. La libreria diventa anche un luogo di ritrovo per scrittori e artisti.
Nel 1920 nascono  Cose leggere e vaganti.

 

Ritratto della mia bambina
La mia bambina con la palla in mano,
con gli occhi grandi colore del cielo
e dell’estiva festicciola:”Babbo
– mi disse – voglio uscire oggi con te”.
Ed io pensavo: Di tante parvenze
che s’ammirano al mondo, io ben so a quali
posso la mia bambina assomigliare.
Certo alla schiuma, alla marina schiuma
che sull’onde biancheggia, a quella scia
ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde;
anche alle nubi, insensibili nubi
che si fanno e disfanno in chiaro cielo;
e ad altre cose leggere e vaganti.

Nel 1921  pubblica L’amorosa spina e la prima edizione del Canzoniere.
Da L’amorosa spina

Sento che in fondo ai miei pensieri, a queste re beate e meste,
sei tu, bambina.

Sei tu Chiaretta, che non son due anni,
non più brutta, non bella
più d’ogni altra monella,
in corti ancora sgraziati panni
ti s’incontrava per via, dalla mamma
per il pane mandata ed il carbone.
Ora sai sola quali a te son buone
cose: sul braccio reggi la borsetta,
chiudi in quella lo specchio, giovanetta
tu dai limpidi seni. E c’è lì dentro,
c’è quasi un cuore: uccelletto che a prova
canta un’antica e nuova
sua canzoncina.
Nel 1923 esce la raccolta Preludio e canzonette

Il poeta (canzonetta n°11)
Io non so amare,
io non so fare
bene che questa cosa,
cui dava a me la vita dolorosa
unico scampo.

Io dico l’arte
d’incider carte
di difficili versi,
che spesso stanno tra lor come avversi
nemici in campo.

Quando più dolce
la rima  molce
l’orecchio, e quando pare
che della canzonetta il vago andare
segua d’amica;

ahi che nessuno,
fuor di me e d’uno
ne sa il prezzo in dolore.
Chi beve il vino, e dell’agricoltore
sa la fatica?

Per questo bene
di quante pene
devo regger l’assalto!
Muovere audace, trar rapido un salto
fuor della rete.

Ardito e scaltro,
per far non altro
che la mia buona guerra,
quante forze ho d’abbatter sulla terra,
e in me secrete!

Campar la vita
con l’infinita
pena di rei negozi;
e dar la mia giornata per gli ozi
aspri d’un’ora.

E tanto in cuore
aver d’amore
da dire : Tutto è bello;
anche l’uomo e il suo male, anche in me quello
che m’addolora.

 

In questi anni la vita di Saba è serena: la libreria, la famiglia, le conversazioni al caffè e, soprattutto, la poesia. Il suo nome comincia ad acquistare qualche notorietà: le Fughe suscitano poi un vivo interesse intorno a lui.
Con il 1928 ritornano momenti difficili: una crisi nervosa più grave delle altre nell’inverno gli impedisce di scrivere, di parlare con gli amici, di occuparsi di letteratura. Riprense a parlare di sé solo nel settembre e confida ad un amico di aver iniziato una cura psicanalitica con Edoardo Weiss. La raccolta Il piccolo Berto
Riporta ancora in vita le figure dell’infanzia, per collocarle in una nuova trama, terapeutica e liberatoria.
Nel 1934 esce Parole, che segna una tappa fondamentale nella sua poesia, di essa fanno parte Cinque poesie per il gioco del calcio.
Goal a pag. 393 del libro di testo
A questo volume segue un lungo periodo di silenzio, dovuto a due cause molto diverse tra loro: da un lato l’affermarsi dell’Ermetismo, rispetto al quale si sente isolato, dall’altro le leggi razziali.
Le leggi razziali del 1938  lo costrinsero a lasciare Trieste, dopo aver affidato alla moglie e all’amico Carlo Cerne ( Carletto) la libreria. Si recò a Parigi, dove non si sentiva al sicuro e non riuscì ad ambientarsi, tornò in Italia, prima a Roma, dove risiedeva la figlia, poi a Firenze: Qui rimasse nascosto fino all’arrivo degli Alleati, trasferendosi, per undici volte, da un’abitazione all’altra, presso amici. Le condizioni difficilissime non gli preclusero la scrittura: in clandestinità portò a termine alcune poesie che faranno parte della sezione 1944, in cui compare Teatro degli Artigianelli, uno dei testi più noti di Saba. (pag.394 libro di testo)
Dopo la Liberazione tornò a Trieste, presso la moglie, ma era affranto e provato. Rimaneva intatta però la sua volontà creativa e, grazie anche all’appoggio della famiglia, riprese a scrivere: è del 1944 il  volumetto Ultime cose.
Nel 1945 pubblica a Torino una nuova edizione del Canzoniere , una terza nuovamente riveduta, è del 1957.
Nel 1946 riceve il premio Viareggio, nel 1951 quello dell’Accademia dei Lincei, nel 1953 la laurea in lettere Honoris causa dall’università di Roma. Nello stesso anno esce il volume Uccelli – Quasi un racconto: qui il ripiegamento su di sé raggiunge il massimo. Nel teatrino privato delle gabbie su cui il poeta si china per ascoltare, nutrire, rimproverare, come una madre i suoi figli è madre e figlio, prigioniero e gabbia, vecchio e bambino, nella consapevolezza che la vita non accetta cure.
Ammalato, aveva quasi perso l’uso delle gambe, ( era stato anche in clinica a Roma), Rimane gravemente turbato da una grave malattia della moglie viene ricoverato d’urgenza all’ospedale di Trieste, dove porta a termine le Sei poesie per la vecchiaia.

Il poeta e il conformista
Come t’invidio,amico! Alla tua fede
saldamente ancorato, in pace vivi
con gli uomini e gli dei. Discorri scrivi
agevole, conforme volontà
del tuo padrone. In cambio egli ti dà
pane e, quale sua cosa, ti accarezza.
Arma non ti si appunta contro; spezza
il tuo sorriso ogni minaccia. E passi,
tra gli uomini e gli eventi, quasi illeso.

V’ha chi solo si pensa ed indifeso.
Pensa che la sua carne ha un buon sapore.
Meglio – pensa – chi è in vista al cacciatore
passero che pernice.

Ultima
Guardo, donna, il tuo cane che adorato
ti adora. Ed io…se penso alla mia vita!
Variamente operai, se in male o in bene
io non si; lo sa Dio, forse nessuno.
Mai appartenni a qualcosa o a qualcuno.
Fui sempre (”colpa tua” tu mi rispondi)
fui sempre un povero cane randagio.

La vita diventa un inferno, soprattutto per l’aggravarsi della malattia di Lina, finchè convinto dalla stessa figlia e dal medico, si ritirò nella clinica Villa S. Giusto, a Gorizia, pochi giorni prima che gli morisse la moglie (25 novembre 1956). Saba esce dall’ospedale per l’ultima volta per il funerale della moglie e non scriverà più versi, fino alla morte, per infarto, il 25 agosto 1957 .

Epigrafe (1947 – 1948)
Epigrafe
Parlavo vivo a un popolo di morti.
Morto allora rifiuto e chiedo oblio.

 

 

 

 

Il Canzoniere

Il canzoniere, per dirla con Saba, è l’opera di tutta la sua vita. Il titolo, probabilmente è ispirato al Canzoniere di Tetrarca. In alternativa il poeta aveva pensato al titolo Chiarezza, in chiara polemica antinovecentista.
Quest’opera è una specie di romanzo psicologico in versi, che fa riferimento esplicito alla psicanalisi.
La più recente edizione è quella del 1965, pubblicata a Torino da Einaudi.
Il canzoniere è diviso in tre volumi, corrispondenti a tre parti:
- le poesie del periodo 1900 – 1920
- quelle del periodo 1921 – 1932
- quelle del periodo 1933 – 1938, con un’appendice di liriche dal 1948 al 1954.

 

VOLUME PRIMO
Poesie dell’adolescenza e giovanili (1900 – 1907)
Versi militari (1908)
Trieste e una donna (1910 – 1912)
La serena disperazione 81913 – 1915)
Poesie scritte durante la guerra
Tre poesie fuori luogo
Cose leggere e vaganti (1920)
L’amorosa spina (1920)

VOLUME SECONDO
Preludio e canzonette (1922 -1923)
Autobiografia (1924)
I Prigioni (1924)
Fanciulle (1925)
Cuor morituro (1925 – 1930)
Preludio e fughe (1928 – 1929)
Il piccolo Berto (1929 – 1931)

VOLUME TERZO
Parole (1933 – 1934)
Ultime cose (1935 – 1943)
1944
Varie
Mediterranee
Uccelli (1948)
Quasi un racconto (1951)
Sei poesie della vecchiaia (1953 – 1954)
Epigrafe (1947 – 1948)

Autore anche di numerose opere in prosa, Saba pubblicò nel 1948 Storia e cronistoria del canzoniere per
rettificare una Storia di Saba  pubblicata da Bruno Schacherl sulla rivista Letteratura. Perché ne sentì la necessità? Lo spiega proprio in quest’opera:
Perché gli artisti, anche quelli che hanno la più intima, profonda, giustificata coscienza del loro valore, sono così inconsolabili davanti all’insuccesso?.......L’opera d’arte è sempre una confessione; e, come ogni confessione, vuole l’assoluzione. Successo mancato equivale assoluzione negata. S’immagina quello che segue.

 

 

Temi
Il tema che si presenta come dominante è l’amore per la vita . il desiderio di cogliere la realtà in tutte le sue forme, assaporandola. La vita appare a Saba come un grande scenario in cui si svolge più spesso il dramma che non la commedia, ma egli sente il bisogno di viverla nella sua interezza. Perciò si accosta alla vita più quotidiana e comune, quella del popolo:soldati o contadini,marinai o clienti di osteria.
Ed è un amore che lo porta ad amare anche la natura: gli animali, gli alberi, perché essi fanno parte della nostra vita, spesso hanno un’immagine umana., sono spontanei, freschi, gioiosi, più dell’uomo stesso.
Per la spontaneità e la gioia il poeta spesso mette in scena i ragazzi e le fanciulle : essi, spesso mozzi, monelli, suscitano l’interesse di Saba perché sono la giovinezza, la vita che si affaccia alla vita. In essi trova un eco di sé, di qualcosa che egli vive come ricordo, con nostalgia. Le fanciulle hanno un’intera raccolta per sé: sono fanciulle alle quali Saba ha chiesto comprensione, simpatia, per le quali ha sognato (o vissuto) l’amore.
Saba cerca la vita anche nelle creature che gli sono più vicine: la moglie, la figlia. Lina è la figura femminile che domina nelle sua poesia, una donna che egli ha amato anche attraverso la figlia Linuccia , a cui sono dedicate poche liriche, ma disseminate in tutta l’opera, segno di un grande affetto.
Altro tema essenziale è Trieste : la città natale ha una costante presenza nel Canzoniere: piace al poeta, ma gli piacerebbe anche se non ci fosse nato. Il colore preferito di Saba è l’azzurro: mare e cielo di Trieste, che
ha innanzi a sé l’Adriatico selvaggio, aperto alle navi e ai sogni, ai marinai e ai poeti, a Ulisse/Saba. Tutta la città gli è cara: è un amore fisico, che si unisce a quello per la calda vita della città, crogiuolo di razze, dall’anima romantica così simile a quella del poeta.

 

La poetica

Vd. La modernità di Saba (di Luperini) pag. 389 – 90 del libro di testo
Quello che resta da fare ai poeti ( da Prose di Saba)pag. 381

 

Fonte: http://www.mlbianchi.altervista.org/umberto_saba.doc

 

Umberto Saba

 

 

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