Ernest Hemingway vita opere e biografia

 

 

 

Ernest Hemingway vita opere e biografia

 

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Ernest Hemingway

Lo scrittore del XX secolo

 

 

Indice:

Introduzione
Biografia
Il “principio dell’iceberg”
Il romanzo d’esordio: Fiesta
La guerra e l’amore: A farewell to arms
La guerra civile spagnola: For whom the bell tolls
Un capolavoro realista: The old man and the sea
Documenti
1. Articoli su Hemingway
2. Articoli di Hemingway dalla Spagna durante la Guerra Civile
Bibliografia
Allegato: stampa della presentazione multimediale


Introduzione

La vita e la produzione letteraria di Ernest Hemingway offrono notevoli spunti di riflessione su letteratura, storia e politica del XX secolo.
La sua disincantata narrazione del mondo lascia al lettore gli stessi dubbi esistenziali che lo portarono al suicidio.
Questa tesina vuole essere una rapida biografia basata:
l sui luoghi dove lo scrittore ha vissuto;
l sui cruciali avvenimenti ai quali ha partecipato;
l sulle riflessioni affidate alle pagine dei suoi romanzi.

 

Lo scrittore del XX secolo

 Biografia

Ernest Miller Hemingway nasce a Oak Park, nell’Illinois, il 21 luglio del 1899, alle otto del mattino. Suo padre, Clarence Edmonds Hemingway, era un medico di soli ventotto anni, collezionista di monete, francobolli, cimeli indiani, animali impagliati, appassionato di caccia e pesca ed eccellente cuoco. Sua madre, Grace Hall, invece era un contralto che, abbandonata la carriera operistica a causa di alcuni disturbi alla vista, si era dedicata alle lezioni di musica a domicilio e, più tardi, alla pittura. La famiglia di Hemingway era agiata, di religione protestante. I rapporti tra i genitori non furono mai buoni: il padre era un uomo fragile e severo, mentre la madre mostrava un carattere ambizioso e dominatore. Hemingway e i suoi cinque fratelli, di cui era il secondogenito, vissero la loro infanzia fra i continui litigi dei genitori sull’educazione dei figli e la gestione del patrimonio familiare.
Hemingway si diplomò nel 1917 alla Oak Park High School, dove la sua inclinazione e il suo talento per le lettere vennero presto notati e incoraggiati da alcuni insegnanti. Mentre sua madre, Grace, avrebbe voluto per il figlio una carriera da violoncellista, il giovane Hemingway si mostrava incline alle stesse passioni che il padre gli aveva trasmesso: l’amore per la caccia, la pesca e la vita all’aria aperta. Lasciò l'università per la scuola di giornalismo.
Nell’ottobre del 1917 venne assunto come cronista dal «Kansas City Star», ma l’intervento degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale lo stimolarono a offrirsi volontario per combattere in Europa. Verrà tuttavia riformato a causa di un difetto alla vista e, lasciato lo «Star», nel 1918 si arruolerà, insieme ad un amico, come autista di ambulanze della Croce Rossa. Quella stessa estate, dopo la traversata dell’Atlantico e brevi soste a Parigi e Milano, si era trovato sul fronte italiano. A Fossalta di Piave, in particolare, dopo essere stato colpito e ferito dalle schegge di un proiettile, finì in un ospedale milanese dove rimase per tre mesi subendo numerose operazioni alla gamba. Qui si innamorò di Agnes Hannah von Kurowsky, un’infermiera americana di origine tedesca. La ragazza, tuttavia, respinse la domanda di matrimonio di Hemingway il quale, ritiratosi dalla Croce Rossa, decise di ritornare a combattere nell’esercito italiano fino all’armistizio.
Riattraversato l’oceano e nel 1919 sbarcò negli Stati Uniti dove venne trionfalmente accolto dalla stampa ed elogiato per il suo coraggio e la resistenza al dolore. Tuttavia, così come molti altri reduci anche Hemingway, dopo la guerra, aveva stentato a riadattarsi alla vita civile. Per questo motivo, sembra che avesse prese a soffrire di insonnia e a bere per combatterla. Leggeva moltissimo, e di tutto. Proprio durante quell’estate, tra gite ed escursioni nei boschi del Michigan, riprese a scrivere racconti. Sua madre, però, scontenta di questa passione, tentò a più riprese di osteggiarla finché, su invito di un amico del padre, lo scrittore non accettò di stabilirsi a Toronto. Dal 1920 diventò un collaboratore del «Toronto Star»,scrivendo una dozzina di articoli in tre mesi. Stabilitosi a Chigago, collaborò con una rivista di settore, che poi decise di abbandonare dopo aver conosciuto e sposato, il 3 settembre del 1921, Elizabeth Hadley Richardson, una ragazza di St. Louis, orfana di entrambi i genitori e più grande di lui di otto anni.
Con l’aiuto economico della moglie e alcune lettere di presentazione di Sherwood Anderson a Gertrude Stein, Lewis Galantiére, Sylvia Beach ed Ezra Pound, Hemingway partì per l’Europa e, nel febbraio del 1922, riprense a collaborare con il «Toronto Star». Per questo giornale seguì grandi eventi internazionali: la guerra greco-turca e la pace di Losanna. Quando, poi, invitò la moglie a raggiungerlo, accade un avvenimento assai strano: Elizabeth smarrì, o le furono rubati, tutti i manoscritti del marito.
Nel 1923 a Parigi uscì il primo libro di Hemingway, Three Stories e Two Poems. Il 10 ottobre dello stesso anno nacque il suo primo figlio, John Hadley Nicanor, soprannominato Bumby. A Parigi, in questo periodo, ebbe modo di scrivere racconti e pubblicare poesie su una rivista tedesca. All’inizio del 1925 l’editore americano Horace Liveright accettò di stampare il suo secondo libro dal titolo In Our Time. Nell’ottobre del 1926 uscì Fiesta dopo che, con la pubblicazione di Torrenti di Primavera, Hemingway aveva interrotto i rapporti con Liveright, per poter passare ad un altro editore. Nel 1927 vennero pubblicati i racconti che diedero conferma delle doti letterarie di Hemingway: Men without woman. Durante lo stesso anno lo scrittore aveva divorziato da Elizabeth Hadley per sposare una ricca amica della moglie che lavora nella redazione parigina di «Vogue»: Pauline Pfeiffer.
Dal 1928 al 1939, dopo essere tornato negli Stati Uniti insieme alla moglie, passò il suo tempo scrivendo, pescando e cacciando in Florida. Lo stesso anno, dopo la nascita del suo secondogenito, Patrick, che aveva messo a repentaglio la vita di Pauline, suo padre morì suicida sparandosi un colpo alla testa. Nel 1929 uscì Addio alle armi. Nel 1931 nacque il terzo figlio di Hemingway, Gregory Hancock, mentre lo scrittore stava preparando Morte nel pomeriggio, Winner Take Nothing e Verdi colline d’Africa, che uscirono rispettivamente nel 1932, 1933 e 1935. Nel 1936 scoppiò la guerra di Spagna. Hemingway partì nel 1937 come corrispondente di guerra della «North American Newspaper Alliance», dopo aver compiuto il suo Avere e non avere, che venne poi pubblicato l’anno seguente, insieme a The Fifth Column and the First Forty Nine Stories. E’ in Spagna che Hemingway iniziò una relazione con Martha Gellhorn, giornalista e romanziera che nel 1940, dopo il divorzio da Pauline (per abbandono del tetto coniugale), divenne la sua terza moglie.
L’autore si stabilì a Cuba con Martha e scrisse Per chi suona la campana, che uscì nel 1940. La seconda guerra mondiale lo vide dapprima in Estremo Oriente, insieme a Martha, come corrispondente di guerra, poi al comando del suo Pilar, un panfilo trasformato in battello antisommergibili e, infine, in Europa, al seguito dell’esercito americano. Finita la guerra e ottenuto il divorzio da Martha Gellhorn, Hemigway, sposò una giornalista americana, Mary Welsh, e tornò anche alla sua attività di scrittore. Nel 1950 uscì Di là dal fiume e tra gli alberi e nel ’52 Il vecchio e il mare. L’anno dopo Hemingway vinse il Premio Pulitzer e, nel 1954, dopo un incidente aereo nel quale fu ritenuto morto, il Nobel per la letteratura. Nonostante i vari riconoscimenti e successi, per Hemingway cominciaro anni di crisi esistenziale. Per questo interruppe la stesura delle sue memorie, il postumo Festa mobile, e la revisione di un romanzo cominciato nel 1946, Il giardino dell’Eden, per fare il suo ultimo viaggio in Europa, dal quale scaturì anche un libro intitolato Un’estate pericolosa.
Nel 1960 Hemingway venne ricoverato in una clinica del Minnesota. I suoi disturbi nervosi erano sempre più gravi, tanto che i medici si decisero a ricorrere all’elettrochoc, che gli causò una perdita di memoria, vera tragedia per lo scrittore. Guastatisi i suoi rapporti con la Cuba di Fidel Castro, l’autore tornò a stabilirsi a Ketchum, nell’Idaho, dove la moglie riuscì a sventare un primo tentativo di suicidio dello scrittore. Poco più tardi in una bella domenica di sole del 2 luglio 1961, quasi sessantaduenne, Hemigway si alzò di buon mattino e, afferrato uno dei suoi fucili da caccia, si sparò in bocca.

 

Il “principio dell’iceberg”

 

Il romanzo d’esordio: Fiesta

In “Fiesta – The sun also rises” Hemingway narra lo scontro tra due mondi: l’ambiente frivolo e scapestrato degli americani a Parigi, eroi stanchi della “generazione perduta” uscita dalla prima guerra mondiale, ed il quadro di una Spagna viva ed intatta con i suoi miti e le sue usanze.
Alle sbornie di whisky consumate ai tavolini del boulevard, alle sorde gelosie, agli inutili rancori di piccoli uomini come Robert, tragicamente delusi ed in cerca di emozioni, si contrappone l’impeto sanguigno di Romero, il torero che Brett incontrerà alla Fiesta di Pamplona.
Il romanzo è narrato in prima persona da Jake

 

La guerra e l’amore: A farewell to arms

La guerra civile spagnola: For whom the bell tolls

Un capolavoro realista: The old man and the sea


Documenti

 

1. Articoli su Hemingway

HEMINGWAY E IL MARE: ricordi di Gregorio Fuentes, cubano.
(Antonino Rallo, "Avvenimenti", 14 luglio 1993)
A dieci chilometri a est dall'Avana si trova Cojimar, un villaggio di pescatori che per decenni fu l'approdo piu' frequente del 'Pilar', la solida barca a motore di Ernest Hemingway, con la quale lo scrittore faceva le sue battute di pesca d'altura, a caccia di marlini e barracuda.
Per un quarto di secolo il cubano Gregorio Fuentes, adesso novantacinquenne, fu al timone del 'Pilar', raccogliendo una serie nutrita di aneddoti sullo scrittore. Agli amici che di tanto in tanto lo vengono a trovare nella sua casa intonacata di bianco, magari con un paio dei sigari preferiti, i 'Cohiba', Gregorio racconta volentieri dei tempi andati, quando si districava con naturale, invidiata perizia tra le insidie della navigazione e i memorabili scoppi di collera dell'amico americano.
E' basata appunto su un eccesso d'ira di Hemingway una delle storie preferite di Fuentes.
Accadde sul braccio di mare tra la Florida e Cuba, dove il 'Pilar' aveva navigato sin dall'alba senza aver catturato nemmeno l'ombra di un pesce. A mezzogiorno lo scrittore scarico' la sua rabbia sul poeta Archibald McLeish, per la prima volta suo ospite a bordo del 'Pilar': era colpa delle innumerevoli stupidaggini dette dall'amico nel corso della mattinata se non avevano preso nulla. Hemingway prese il timone dalle mani di Fuentes e punto' deciso la prua verso un isolotto disabitato davanti alla costa della Florida, dove abbandono' senza tanti complimenti il poeta, evidentemente ritenuto in quella circostanza uno iettatore. Poi, calmo, fece rotta per Key West. McLeish rimase per lunghe, interminabili ore sulla spiaggia deserta e dovette ringraziare Pauline, la seconda moglie di Heminghway, se nella tarda serata il 'Pilar' torno' per soccorrere il poeta un po' ciarliero dalle insidie di un'isola completamente disabitata come quella in cui era stato abbandonato.
E di una pesca sfortunata narra quella che e' una delle piu' celebri storie di Hemingway. Lo spunto gli venne dato da un incontro che un giorno Hemingway e Fuente fecero nel mare davanti a Cojimar, quando videro un vecchio e un ragazzino in una barca da pesca piuttosto malmessa. Hemingway fece salire i due a bordo del 'Pilar', per ascoltare dal vecchio pescatore la storia di un anziano che usci'da solo in mare per l'ultima, memorabile cattura di un enorme marlino blu. Era una storia semplice, ma colpi' lo scrittore per la precisione con cui descriveva l' uomo di mare per quello che spesso e': un perdente lucido e tenace.
Qualche tempo dopo, in uno dei suoi frequenti momenti di inquietitudine, Hemingway comincio' a scrivere:'Era un vecchio che pescava da solo in una barca persa nella corrente del golfo, ed erano ormai ottantaquattro giorni che non riusciva a catturare un pesce'. Era la prima frase de 'Il vecchio e il mare', celebre storia di Santiago, un vecchio che, diventato improvvisamente salao (sfortunato), riesce con una tenacia estrema a riguadagnare il rispetto degli altri pescatori del villaggio e passare serenamente gli ultimi giorni di una vita spesa a confrontarsi con il mare.
Nel 1954, poco dopo la pubblicazione del romanzo, Hemingway ebbe il premio Nobel per la letteratura. Lo stile asciutto ed essenziale di 'Il vecchio e il mare' si discosta non poco dai maestri della narrativa di mare: piu' che con gli eroi di Conrad e Melville, il romanzo ha dei punti di contatto con le vicende dei tenaci quanto sfortunati pescatori di Acitrezza raccontati da Verga ne 'I Malavoglia'. I personaggi di Hemingway, infatti, malgrado la passione dell'autore per la competizione estrema, escono quasi sempre sconfitti. E' la loro voglia di combattere che avvince il lettore, non le loro rare vittorie.
La stessa tenacia nello sposare situazioni difficili, nel porsi spesso fuori dagli schemi fu seguita da Hemingway sino all'ultimo.
All'inizio degli anni sessanta il braccio di mare piu' amato dallo scrittore, quello compreso tra Cuba e la Florida, si restringe improvvisamente. La vittoria di Fidel Castro su Batista, poco amato dallo scrittore, sottopone Hemingway alle pressioni maccartiste del governo americano. Evidentemente in alcuni ambienti di Washington da fastidio che lo scrittore americano piu' famoso dell'epoca mantenga ancora rapporti con la Cuba del dopo Batista. Addirittura nel maggio del 1960 Hemingway, dietro suggerimento di Gregorio Fuentes, partecipa ad una gara di pesca al marlino con Fidel Castro, e la foto che ritrae i due alla fine della gara fa il giro del mondo. Poco tempo dopo, improvvisamente, Hemingway lascia Cuba e i suoi amici, promettendo di tornare.
Si stabilisce a Key West, estrema propaggine della Florida, a meno di duecento miglia dalla costa settentrionale di Cuba. Da quel momento comincia una fase di depressione che non lo abbandonera' piu'. Si sente spiato, crede di essere seguito dall'Fbi. Si sapra' in seguito che non erano solo impressioni. Da documenti successivi emergera' che la Cia lo teneva d'occhio continuamente: l'America di Eisenhower non si fidava di lui.
All'alba del 2 luglio 1961 Hemingway e' nella sua casa di Ketchum, nell'Idaho. Prende un fucile dalla rastrelliera e si allontana. Si sente risuonare uno sparo: l'estrema protesta contro un mondo, quello della guerra fredda, che aveva posto limiti a lui insopportabili nel braccio di mare tra Key West e Cojimar, tra il suo paese e alcune delle le esperienze piu' felici della sua vita vagabonda. Di Hemingway a Cuba rimangono un museo e il ricordo vivido di Gregorio Fuentes. In una parete della sua casa di pescatore sta sempre in bella mostra l'ingrandimento di una foto che lo ritrae accanto al suo amico americano, con sullo sfondo il 'Pilar' ancorato nelle acque ben riparate di Cojimar.

 

2. Articoli di Hemingway dalla Spagna durante la Guerra Civile


War Is Reflected Vividly In Madrid

By ERNEST HEMINGWAY

adrid, April 24--The window of the hotel is open and, as you lie in bed, you hear the firing in the front line seventeen blocks away. There is a rifle fire all night long. The rifles go "tacrong, carong, craang, tacrong," and then a machine gun opens up. It has a bigger caliber and is much louder--"rong, cararong, rong, rong."
Then there is the incoming boom of a trench mortar shell and a burst of machine-gun fire. You lie and listen to it, and it is a great thing to be in a bed with your feet stretched out gradually warming the cold foot of the bed and not out there in University City or Carabanchel. A man is singing hard-voiced in the street below, and three drunks are arguing when you fall asleep.
Awakened by a Shell
In the morning, before your call comes from the desk, the roaring burst of a high explosive shell wakes you. You go to the window and look out to see a man, his head down, his coat collar up, sprinting desperately across the paved square. There is the acrid smell of high explosive you hoped you'd never smell again.
In a bathrobe and bedroom slippers, you hurry down the marble stairs and almost into a middle-aged woman, wounded in the abdomen, who is being helped into the hotel entrance by two men in blue workmen's smocks.
On the corner, twenty yards away, is a heap of rubble, smashed cement and thrown up dirt, a single dead man, his torn clothes dusty, and a great hole in the sidewalk from which the gas from a broken main is rising, looking like a heat mirage in the cold morning air.
"How many dead?" you ask a policeman.
"Only one," he says. "It went through the sidewalk and burst below. If it had burst on the solid stone of the road there might have been fifty."
A policeman covers the body; they send for some one to repair the gas main, and you go in to breakfast. A charwoman, her eyes red, is scrubbing the blood off the marble floor of the corridor. The dead man wasn't you nor any one you know, and every one is very hungry in the morning after a cold night and a long day the day before up at the Guadalajara front.
"Did you see him?" asked some one else at breakfast.
"Sure," you say.
"That's where we pass a dozen times a day--right on that corner." But every one has the feeling that characterizes war. It wasn't me, see? It wasn't me.
The Italian dead up on the Guadalajara weren't you, although Italian dead, because of where you had spent your boyhood, always seemed, still, like our dead. No. You went to the front early in the morning in a miserable little car with a more miserable little chauffeur who suffered visibly the closer he came to the fighting. But at night, sometimes late, without lights, with the big trucks roaring past, you came on back to sleep in a bed with sheets in a good hotel, paying a dollar a day for the best rooms on the front.
Exposed Rooms Cheaper
The smaller rooms in the back, on the side away from the shelling, were considerably more expensive. After the shell that lighted on the sidewalk in front of the hotel, you got a beautiful double corner room on that side, twice the size of the one you had had, for less than a dollar. It wasn't me they killed. See? No. Not me. It wasn't me any more.
Then, in a hospital given by the American Friends of Spanish Democracy, located out behind the Morata front along the road to Valencia, they said, "Raven wants to see you."
"Do I know him?"
"I don't think so," they said, "but he wants to see you."
"Where is he?"
"Upstairs."
In the room upstairs they were giving a blood transfusion to a man with a very gray face who lay on a cot with his arm out, looking away from the gurgling bottle and moaning in a very impersonal way. He moaned mechanically and at regular intervals, and it did not seem to be he that made the sound. His lips did not move.
"Where's Raven?" I asked.
"I'm here," said Raven.
The voice came from a high mound covered by a shoddy gray blanket. There were two arms crossed on the top of the mound with a wide bandage across the eyes.
"Who is it?" asked Raven.
"Hemingway," I said. "I came up to see how you were doing."
"My face was pretty bad," he said. "It got sort of burned from the grenade, but it's peeled a couple of times and it's doing better."
"It looks swell," I said. "It's doing fine."
I wasn't looking at it when I spoke.
"How are things in America?" he asked. "What do they think of us over there?"
"Sentiment's changed a lot," I said. "They're beginning to realize the government is going to win this war."
"Do you think so?"
"Sure," I said.
Didn't Mind the Pain
I'm awfully glad," he said. "You know, I wouldn't mind any of this if I could just watch what was going on. I don't mind the pain, you know. It never seemed important really. But I was always awfully interested in things and I really wouldn't mind the pain at all if I could just sort of follow things intelligently. I could even be some use. You know, I didn't mind the war at all. I did all right in the war. I got hit once before and I was back and rejoined the battalion in two weeks. I couldn't stand to be away. Then I got this."
He had put his hand in mine. It was not a worker's hand. There were no calluses and the nails on the long, spatulate fingers were smooth and rounded.
"How did you get it?" I asked.
"Well, there were some troops that were routed and we went over to sort of re-form them, and we did; and then we had quite a fight with the Fascists, and we beat them. It was quite a bad fight, you know, but we beat them and then some one threw this grenade at me."
Holding his hand and hearing him tell it, I did not believe a word of it. What was left of him did not sound like the wreckage of a soldier, somehow. I did not know how he had been wounded, but the story did not sound right. It was the sort of way every one would like to have been wounded. But I wanted him to think I believed it.
"Where did you come from?" I asked.
"From Pittsburgh. I went to the university there."
"What did you do before you joined up here?"
"I was a social worker," he said.
Then I knew it couldn't be true, and I wondered how he had really been so frightfully wounded; and I didn't care. In the war that I had known, men often lied about the manner of their wounding. Not at first; but later. I'd lied a little myself in my time, especially late in the evening. But I was glad he thought I believed it, and we talked about books. He wanted to be a writer, and I told him about what had happened north of Guadalajara and promised to bring some things from Madrid next time we got out that way. I hoped maybe I could get a radio.
Wanted to Meet Writers
"They tell me John Dos Passos and Sinclair Lewis are coming over, too," he said.
"Yes," I said. "And when they come I'll bring them up to see you."
"Gee, that will be great," he said. "You don't know what that will mean to me."
"I'll bring them," I said.
"Will they be here pretty soon?"
"Just as soon as they come I'll bring them."
"Good boy, Ernest," he said. "You don't mind if I call you Ernest, do you?"
The voice came very clear and gentle.
"Hell, no," I said. "Please. Listen, old-timer, you're going to be fine. You'll be a lot of good, you know. You can talk on the radio."
"Maybe," he said. "You'll be back?"
"Sure," I said. "Absolutely."
"Good-bye, Ernest," he said.
"Good-bye," I told him.
Downstairs they told me he'd lost both eyes and was also badly wounded all through the legs and in the feet.
"He's lost some toes, too," the doctor said, "but he doesn't know that."
"I wonder if he'll ever know it."
"Oh, sure he will," the doctor said. "He's going to get well."
And it still isn't you that gets hit, but it is your countryman now. Your countryman from Pennsylvania, where once we fought at Gettysburg.
Then, walking along the road, with his left arm in an airplane splint, walking with the gamecock walk of the professional British soldier that neither ten years of militant party work nor the projecting metal wings of the splint could destroy, I met Raven's commanding officer, Jock Cunningham, who had three fresh rifle wounds through his upper left arm (I looked at them, one was septic) and another rifle bullet under his shoulder blade that had entered his left chest, passed through, and lodged there.
He told me, in military terms, the history of the attempt to rally retiring troops on his battalion's right flank, of his bombing raid down a trench which was held at one end by the Fascists and at the other end by the government troops, of the taking of this trench and, with six men and a Lewis gun, cutting off a group of some eighty Fascists from their own lines, and of the final desperate defense of their impossible position his six men put up until the government troops came up and, attacking, straightened out the line again.
He told it clearly, completely convincingly, and with a strong Glasgow accent. He had deep, piercing eyes, sheltered like an eagle's; and, hearing him talk, you could tell the sort of soldier he was. For what he had done he would have had a V.C. in the last war. In this war there are no decorations. Wounds are the only decorations, and they do not award wound stripes.
"Raven was in the same show," he said. "I didn't know he'd been hit. Ay, he's a good man. He got his after I got mine. The Fascists we'd cut off were very good troops. They never fired a useless shot when we were in the bad spot. They waited in the dark there until they had us located and then opened with volley fire. That's how I got four in the same place."
We talked for a while, and he told me many things. They were all important, but nothing was as important as that what Jay Raven, the social worker from Pittsburgh with no military training, had told me was true. This is a strange new kind of war where you learn just as much as you are able to believe.

Spanish Fatalism Typified By Driver

By ERNEST HEMINGWAY

e had a lot of different chauffeurs in Madrid. The first one was named Tomas, was 4 feet 11 inches high and looked like a particularly unattractive, very mature dwarf out of Velasquez put into a suit of blue dungarees. He had several front teeth missing and seethed with patriotic sentiments. He also loved Scotch whisky.
We drove up from Valencia with Tomas and, as he sighted Madrid rising like a great white fortress across the plain from Alcala de Henares, Tomas said, through missing teeth:
"Long live Madrid, the capital of my soul!"
"And of my heart," I said, having had a couple myself. It had been a long, cold ride.
"Hurray!" shouted Tomas and abandoned the wheel temporarily in order to clap me on the back. We just missed a lorry full of troops and a staff car.
"I am a man of sentiment," said Tomas.
"Me, too," I said, "but hang onto that wheel."
"Of the noblest sentiment," said Tomas.
"No doubt of it, comrade," I said, "but just try to watch where you are driving."
"You can place all confidence in me," said Tomas.
Attitude Suddenly Changed
But the next day we were stalled on a muddy road up near Brihuega by a tank which had lurched around a little too far on a hairpin bend and held up six other tanks behind it. Three Rebel planes sighted the tanks and decided to bomb them. The bombs hit the wet hillside above us, lifting mud geysers in sudden, clustered, bumping shocks.
Next morning Tomas couldn't get the car to start. And every day when anything of that sort happened from then on, no matter how well the car had run coming home at night, Tomas never could start her in the morning.
The way he felt about the front became sort of pitiful, finally, along with his size, his patriotism and his general inefficiency, and we sent him back to Valencia with a note to the Press Department thanking them for Tomas, a man of the noblest sentiments and the finest intentions; but could they send us something just a little braver?
So they sent one with a note certifying him as the bravest chauffeur in the whole department. I don't know what his name was, because I never saw him. Sid Franklin (the Brooklyn bullfighter), who bought us all our food, cooked breakfasts, typed articles, wangled petrol, wangled cars, wrangled chauffeurs and covered Madrid and all its gossip like a human dictaphone, evidently instructed this chauffeur very strongly.
Sid put forty liters of petrol in the car, and petrol was the correspondents' main problem, being harder to obtain than Chanel's and Molyneux's perfumes or Bols gin. He took the chauffeur's name and address and told him to hold himself ready to roll whenever he was called. We were expecting an attack.
Chauffeur Vanishes
The chauffeur was to check in at the hotel the next night at 7:30 to see if there were any new orders. He didn't come and we called up his rooming house. He had left that same morning for Valencia with the car and the forty liters of petrol. He is in jail in Valencia now. I hope he likes it.
Then we got David. David was an Anarchist boy from a little town near Toledo. Being with David has changed my whole conception of profanity. He was absolutely brave, and he had only one real defect as a chauffeur: he couldn't drive a car. He was like a horse which has only two gaits--walking and running away.
David could sneak along in second speed and hit practically no one in the streets, due to his clearing a swathe ahead of him with his vocabulary. He could also drive with the car wide open, hanging to the wheel, in a sort of fatalism that was, however, never tinged with despair. We solved the problem by driving for David ourselves.
The only thing that developed in David was his vocabulary. He went off to the village where the motion-picture outfit was making a film.
After having one more particularly useless chauffeur that there is no point in going into, we got Hipolito. Hipolito is the point of this story.
Hipolito was not much taller than Tomas, but he looked carved out of a granite block. He walked with a roll, putting his feet down flat at each stride; and he had an automatic pistol so big it came halfway down his leg. He always said, "Salud" with a rising inflection, as though it were something you said to hounds--good hounds that knew their business. He knew motors, he could drive; and if you told him to show up at 6 A.M. he was there ten minutes before the hour. He had fought at the taking of Montana Barracks in the first days of the war, and he had never been a member of any political party. He was a trade union man for the last twenty years in the Socialist union, the U.G.T. He said, when I asked him what he believed in, that he believed in the republic.
Typified Solid Qualities
He was our chauffeur in Madrid and at the front during a nineteen-day bombardment of the capital that was almost too bad to write anything about. All the time he was as solid as the rock he looked to be cut from, as sound as a good bell and as regular and accurate as a railway man's watch.
He made you realize why Franco [Insurgent General Francisco Franco] never took Madrid when he had the chance. Hipolito and the others like him would have fought from street to street and house to house as long as any one of them was left alive, and the last ones left would have burned the town. They are tough and they are efficient.
On the day we had over three hundred shells come into Madrid, so the main streets were a glass-strewn, brick-dust-powdered, smoking shambles, Hipolito had the car parked in the lee of a building in a narrow street beside the hotel. It looked like a good safe place, and after he had sat around the room while I was working until he was thoroughly bored, he said he'd go down and sit in the car. He hadn't been gone ten minutes when a six-inch shell hit the hotel just at the junction of the main floor and the sidewalk. It went deep in out of sight and didn't explode. If it had burst, there would not have been enough left of Hipolito and the car to take a picture of. They were about fifteen feet away from where the shell hit. I looked out of the window, saw he was all right, and then went downstairs.
"How are you?" I was fairly average breathless.
"Fine," he said.
"Put the car farther down the street."
"Don't be foolish," he said. "Another one wouldn't drop there in a thousand years. Besides, it didn't explode."
"Put it farther along the street."
"What's the matter with you?" he asked. "You getting windy?"
I tried to give him some money when I left Madrid.
"I don't want anything from you," he said.
"No," I said. "Take it. Go on. Buy something for the family."
"No," he said. "Listen, we had a good time, didn't we?"
You can bet on Franco, or Mussolini, or Hitler, if you want; but my money goes on Hipolito.

 

Bibliografia

Ernest Hemingway: “Fiesta – il sole sorgerà ancora”; A. Mondadori Editore; 1965
Ernest Hemingway: “Verdi colline d’Africa”; A. Mondadori Editore; 1972
Ernest Hemingway: “The old man and the sea”;; 19

 

Liceo Scientifico “Galileo Galilei” - Trieste

Autore: Paolo Martinis

Esame di Stato 2001-2002

Classe VE

 

fonte: http://www.madchild.it/ingciv/Appunti/Liceo/eng/Ernest%20Hemingway.doc

 


 

Ernest Hemingway vita opere e biografia

Ernest Hemingway (1899 – 1961)
“Non c'è nessun amico più leale di un libro.”

..:: Biography ::..
Ernest Hemingway was born in Illinois in 1899. Ernest was the second of six children, he spent his childhood hunting and fishing in the Great Lake region with his father, a doctor.
In 1917 worked as a reporter for “The Kansas City Star”; this was a great step forward in his career as a writer. In the following year he partecipated in the first world war, as an ambulance driver on the italian front; here he was wounded and received a silver medal and decoration from the Italian government. Back in the United States, he got a job as a foreign correspondent and in 1922 he settled in Paris where he joined a group of expatriate writers, called ”The lost generation”, in this group we can find writers such as Scott Fitzgerald, James Joyce, Ezra Pound, and Gertrude Stein.
In 1937 he travelled to Spain as a war correspondent for an American news agency. This experience was recorded in one of his best work For Whom the Bell Tolls.
In 1944, during the Second World War, he travelled trough Europe with the Allies as a war correspondent.
In 1953 he won the Pulitzer Prize with The Old Man and the Sea; the following year he won the Nobel Prize for Literature.
Towards the end of his life, Hemingway suffered from hypertension, diabetes and acute depression; he feared physical decline and commited suicide in 1961. His best works are: Fiesta, Death in the afternoon, The Green Hills of Africa, Farewell to Arms, perhaps the best novel ever written on the First World War, For Whom the Bell Tolls, and the Old Man and The Sea.

..::For Whom the Bell Tolls ::..
Ernest Hemingway is certainly one of the most important writers of XX century. The central experience of Hemingway’s life was the First World War which made him understand that the only chance of escaping the horror of death was in some manly qualities: strenght, sexual power, lack of sentimentalism and the ability to react. Consequently his style is essential, primitive, characterised by a simple syntax, and colloquial. There is very little in introspection, or analysis of personsal feelings and sensation, but Hemingway’s prose creates great emotion in the reader.
For Whom the Bell Tolls is considered by many critics as Hemingway’s masterpiece, but it‘s also still celebrated as one of the best war novels of all time.
When the Spanish Civil War began in 1936, Hemingway wrote articles to raise money for the republicans. In 1937 he traveled to Spain to cover the war for an American Agency. Only a few months after his arrival Hemingway announced to the literary world that he was working on a new novel, its subject was the Spanish Civil War.

For Whom the Bell Tolls is a great love story, a tense story of adventure in war, and the  tragedy of Spanish peasants fighting for their lives. But above all it is about death. The time of the story is 1937, the action takes place in the woods sourrounding the city of Segovia. The plot is simple, Robert Jordan, a young American International Brigader, is ordered to blow up the bridge. He must get help from the guerrillas who live in Franco's territory. The bridge must be destroyed at the precise moment when a big republican offensive begins. If the bridge can be destroyed, the offensive may succeed. If the offensive succeeds, the struggle of the human race against fascism may advance a step. The courage of the Spanish peasants is linked to the fate of all mankind.
These men know they may will be killed. Jordan senses it when he hears the orders. The general senses it when he gives them. So does Pablo, the guerrilla leader, when Jordan asks his help. So does Pilar, a gypsy: she reads doom in Jordan's palm, in the first pages of a book, but she doesn’t tell him the truth.
The greatness of this book is the greatness of these people, infact they knows that they may die, but they decide to go on. They decide to go on because they have realized that “no man is an island”, they fight for all the mankind.
In this book all the plot develops in 3 days, in these 3 days the protagonist, Robert Jordan, has a short but intense love-story with a girl, Maria. Maria represents Spain, and so the reason for which Robert will fight and die.
At the end Robert manages to blow up the bridge but the cost is very high, he loses his life.
For Whom the Bell Tolls, unlike other novels about the Spanish Civil War, is told not the terms of the heroics and dubious politics of the International Brigades, but as a simple human struggle of the Spanish people. The bell in this book tolls for all mankind.

 

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Autore del testo: Luca Lorenzoni

 

Hemingway, Mussolini, Uomini e No
di Luigi Scialanca


Due giovani: Ernest Hemingway e Benito Mussolini.

Una domenica di primavera, verso la metà degli anni ’20, Ernest Hemingway ventiseienne scendeva in macchina verso La Spezia in compagnia di un amico. Avevano una vecchia Ford coupé. Tra le montagne, mentre attraversavano a passo d’uomo la piazza di un paese, un giovane con una vali­gia si staccò da u­na piccola folla, venne verso l’automobile e chiese loro di portarlo alla Spezia.
“Abbiamo solo due posti e sono occupati”, disse Ernest.
“Monterò sul predellino”, disse il giovane. Introdusse un pacchetto attraverso il finestrino, strinse loro la mano, spiegò che per un fascista e uomo a­bi­tuato a viaggiare come lui non era una gran cosa e, mentre due uomini legavano la sua valigia dietro alla macchina sopra le altre, saltò sul predellino sinistro del­l’automobile tenen­dosi aggrappato con il braccio dentro il finestrino aperto. La folla agitò le braccia in se­gno di saluto. Egli rispose con la mano libera.
La strada seguiva il corso di un fiume. Al di là si alzavano i monti. Il sole scioglieva la brina sui prati. Il tempo era luminoso, ma faceva molto freddo e l’aria gelata passava attraverso il parabrezza aperto.
“Credi che stia bene lì fuori?” Guido, l’amico di Ernest, fissava la strada.
La vista, dalla sua parte, gli era impedita dall’ospite. Il giovane sporgeva dal lato della macchina come una figura scolpita sulla prora di una nave. Si era tirato sù il bavero del cappotto e abbassato il cappello fino agli orecchi; aveva il naso rosso nel vento.
“Ne avrà abbastanza”, disse Guido. “È dalla parte della gomma guasta”.
“Oh, ci lascerebbe sùbito se forassimo” disse Ernest. “Non vorrebbe impolverarsi il vestito da viaggio”.
“Bene, non me ne importa” disse. “Però, ha un modo di sporgersi alle curve...”
Dopo l’ultima salita sopra La Spezia e il mare, la strada scese con strette e ripide curve. L’ospite veniva spinto in fuori alle svolte e tirava quasi via la calotta dell’automobile.
“Non si può dirgli di non farlo” disse Ernest a Guido. “È il suo istinto di conservazione”.
“Il grande istinto degli Italiani”.
“Il più grande istinto degli Italiani”.
Vicino alla città la strada divenne pianeggiante. L’ospite ficcò la testa nel finestrino.
“Voglio fermarmi”.
“Ferma” disse Ernest a Guido.
Rallentarono, al lato della strada. Il giovane scese, andò dietro alla macchina e sciolse la valigia. Poi Er­nest gli porse il suo pacchetto ed egli se lo mise in tasca.
“Quanto vi devo?”
“Niente”.
“Perché niente?”
“Non saprei” rispose Ernest.
“Allora grazie” disse; non “vi ringrazio” o “molte grazie” o “grazie mille”, tutto quello che si diceva un tempo in Italia a chi vi porgeva un orario o v’indicava la strada. Il giovane pronunziò la forma più corta di ringraziamento e li guardò sospettosamente mentre Guido rimetteva in moto la macchina. Ernest lo sa­lutò con la mano. Era troppo dignitoso per rispondere. Proseguirono per La Spezia.
“È un giovane che farà molta strada in Italia” disse Ernest a Guido.
“Eh” rispose “ha già fatto venti chilometri con noi”.
A La Spezia sui muri delle case si vedevano dei ritratti stampigliati di Mussolini con gli occhi paurosa­mente aggrottati, e sotto scritto “evviva”, la “W” dipinta in nero che sgocciolava la tinta giù per il muro.
“Andiamo a mangiare in un posticino alla buona” disse Guido. Una donna che stava sulla soglia di u­na trattoria gli sorrise, e loro entrarono.
Era buio dentro e in fondo alla sala tre ragazze sedevano a un tavolino insieme a una vecchia. Davanti a Ernest e Guido, a un altro tavolo, sedeva un marinaio. Stava seduto lì senza mangiare, né bere. Ancora più in là, a un terzo tavolino, stava scrivendo un giovane vestito di blu. Con i capelli lucidi di brillanti­na, elegantemente vestito, aveva un aspetto impeccabile.
Una ragazza venne a prendere gli ordini mentre un’altra ragazza stava sulla porta. Notarono che non portava niente sotto il vestito da casa. La ragazza che era venuta a prendere gli ordini mise il braccio al collo di Guido mentre stavano guardando il menu. Poi, quando tornò dalla cucina con gli spaghetti, li posò sulla tavola, portò una bottiglia di vino rosso e sedette vicino a loro.
“Bene” disse Ernest a Guido “volevi mangiare in un posticino semplice”.
“Questo non è per niente semplice. È complicato”.
La ragazza indossava un abito a un sol pezzo. Si piegò in avanti sul tavolo, si mise le mani sui seni e sorrise. Sorrideva meglio da una parte che dall’altra e voltava verso Ernest e Guido la parte migliore. Il fascino della parte migliore era aumentato dal fatto che qualche incidente le aveva spianato l’altro lato del naso come se fosse stato cera calda. Il suo naso tuttavia non sembrava di cera calda. Aveva anzi un a­spetto freddo e ben solido, ma era come piallato.
“Dille che dobbiamo andarcene” disse Guido “dille che siamo malatissimi e che non abbiamo denaro”.
“Il mio amico è un misogino” disse Ernest.
“Digli che l’amo” disse la ragazza.
Ernest glielo disse.
“Vuoi deciderti a chiudere la bocca e andarcene?” esplose Guido. “Non vorrei doverti lasciar qui”.
“Non saprei” disse Ernest. “La Spezia è un bel posticino”.
“La Spezia” disse la vecchia. “State parlando della Spezia”.
“È un bel posticino” ripeté Ernest in italiano.
“È il mio paese. La Spezia è la mia casa e l’Italia è il mio paese”.
“Dice che l’Italia è il suo paese” tradusse Ernest.
“Dille che lei somiglia al suo paese” disse Guido.
“Senti” disse alla vecchia il giovanotto impeccabile dal tavolo dove stava scrivendo. “Lasciali andare. Tanto son senza un soldo”.
Ernest e Guido pagarono il conto e si alzarono. Le tre ragazze, la vecchia e il giovanotto impeccabile se­devano insieme allo stesso tavolo, ora. Il marinaio stava seduto con la testa tra le mani. Nessuno gli ave­va rivolto la parola per tutto il tempo. La ragazza portò il resto che la donna le aveva contato e tornò al suo posto. Lasciarono una mancia sul tavolo e uscirono. Quando erano già seduti in macchina pronti a partire, la ragazza uscì e si mise sulla porta.
Partirono e Ernest la salutò con la mano. Non rispose, ma rimase a guardarli mentre si allontanavano.
Passarono Genova sotto un violento temporale. Poi si fermarono di nuovo a mangiare a Sestri Ponente. Un uomo e una donna sedevano all’estremità più lontana della sala. Lui era un uomo di mezza età e lei gio­vane e vestita di nero. Durante tutto il pasto si vide il suo respiro nell’aria fredda e umida. L’uomo la guardava e scuoteva la testa. Man­giavano senza parlare e lui le stringeva la mano sotto la tavola. La donna era bella ed entrambi sembra­vano molto tristi. Avevano vicino una valigia.
Ernest e Guido avevano i giornali ed Ernest lesse forte a Guido il resoconto dei combattimenti a Shan­gai. Dopo mangiato, Guido uscì col cameriere in cerca di un posto che nella trattoria non esisteva ed Er­nest pulì con uno straccio il parabrezza, i fanali e la targa posteriore della Ford. Quando Guido tornò, voltarono la macchina e partirono. Il cameriere lo aveva portato dall’altra parte della strada in una vec­chia casa. Le persone che l’abitavano erano molto sospettose e il cameriere era rimasto con lui per vedere che non rubasse niente.
“Ti ricordi per quale ragione siamo venuti in questo paese?” disse Guido.
“Sì” rispose Ernest “ma non siamo riusciti a nulla”.
“Ne saremo fuori stanotte”.
“Se possiamo arrivare dopo Ventimiglia. Vedi ancora Genova?”.
“Oh, sì” disse Ernest.
“Il prossimo promontorio dovrebbe coprircela”.
“La vedremo ancora a lungo. Dietro vedo ancora la punta di Portofino”.
Lungo il mare, dopo che il vento aveva asciugato il fango, la mac­china cominciò a sollevare la polvere. Su un tratto pianeggiante li sorpassò un fascista in bicicletta con una grossa rivoltella nella fondina. Andava in mezzo alla strada e dovettero sterzare di lato per sorpassarlo a loro volta. Li guardò mentre passavano. Più avanti arrivarono a un passaggio a livello proprio quando le sbarre si stavano abbassan­do. Mentre aspettavano, il fascista in bicicletta li raggiunse. Il treno passò e Guido ri­mise in moto.
“Un momento” gridò il ciclista dietro la macchina “la vostra targa è sporca”.
Ernest scese con uno straccio. Aveva pulito la targa quando si erano fermati a mangiare.
“Si può leggere il numero” disse Ernest.
“Credete davvero?”
“Lo legga”.
“Non posso. È sporco”.
Ernest lo strofinò col cencio.
“Com’è ora?”
“Venticinque lire”.
“Cosa?” disse Ernest. “Potevate leggerlo benissimo. È solo sporco per lo stato delle strade”.
“Non vi piacciono le strade italiane?”
“Sono sporche”.
“Cinquanta lire”. Sputò in terra. “La vostra macchina è sporca e anche voi siete sporco”.
“Bene. Mi dia la ricevuta con sopra il suo nome”.
Tirò fuori un blocco di ricevute fatte in doppia copia e forate così da poterne staccare e darne una a chi cadeva in contravvenzione e una, riempita, da tenere come matrice. Non c’era però la carta carbone per registrare ciò che veniva scritto sulla prima.
“Datemi cinquanta lire”.
“Scrisse con un lapis copiativo, strappò il foglietto e lo porse a Ernest, che lo lesse.
“Qui c’è scritto venticinque lire”.
“Mi sono sbagliato” disse, e corresse venticinque in cinquanta.
“E ora scriva sulla parte che resta a lei. Ma ci scriva cinquanta”.
Sorrise con un bel sorriso italiano e scrisse qualcosa sulla matrice, tenendola in modo che Ernest non riuscisse a vedere.
“Andate” disse “prima che la targa si sporchi di nuovo”.
Seguitarono ancora per due ore dopo che era già scesa la sera, e quella notte dormirono in territorio francese, a Mentone. Gli sembrò allegra, pulita e deliziosa. Erano andati in macchina da Ventimiglia a Pisa e Firenze e attraverso la Romagna, fino a Rimini e al ritorno passando per Forlì, Imola, Bologna, Parma, Piacenza e Genova e di nuovo a Ventimiglia. L’intera gita era durata solo dieci giorni.
Naturalmente, in così poco tempo, Ernest e Guido non avevano avuto modo di farsi un’idea del paese né dei suoi abitanti.
Non è vero. Un’idea del paese e dei suoi abitanti in quell’anno 1925 Ernest e Guido ce l’hanno, e mol­to precisa. La gita è durata solo dieci giorni, e il racconto ― nel nostro Oscar Monda­dori n°64, acquistato in un’edicola di Frascati il 12 luglio 1966 ― solo dieci pagine, ma ai due giovani son più che sufficienti per decidere di interrompere la gita e di scappare dall’Italia fascista, e a noi per sen­tirci come alla fine di Shining , quando nell’Overlook Hotel deserto, muovendoci come spettri tra gli spet­tri, scoprimmo fra centinaia di vecchie foto­grafie un’immagine degli anni ’20 che testimoniava che Jack Torrance, scrittore pazzo e padre e marito as­sassino, era già lì a quei tempi, era sempre stato lì: ci bastano, cioè, per capire che i fascisti di ottantacinque anni fa erano gli stessi di oggi, e che la loro Italia ― l’Ita­lia fascista, non la fantastica Italia che attrasse Ernest e Guido nel 1925 e che immaginiamo e amia­mo noi nel 2010 ― era la stessa dei fascisti di oggi, comunque si chiamino e azzurre o verdi che sia­no le lo­ro camicie, le loro cravatte e i moccichini che portano infilati nei taschini delle giacche. Ci bastano per capire che il titolo di questo bellissimo e doloroso racconto, Che ti dice la Patria?, che Hemingway volle in italiano, è bello e doloroso come il racconto perché è la do­manda che ancora oggi ci poniamo dinanzi ai milioni di nostri compa­trioti che ubbidiscono infatuati a un richiamo d’oltretomba: Che vi dice la Patria?, vorrem­mo chie­dere loro. È mai possibile che sia la stessa che parla anche ai nostri cuori e alle nostre menti, l’Italia in­concepibil­mente “non morta” che vi chiama a rifarvi fascisti e nazisti dopo quasi un secolo?
Da quell’Italia Ernest e Guido stanno scappando perché non è il Paese ove sono nati, non è la Patria; a loro dice so­lo l’orrore che emana, che quasi li vince, che a ogni curva della ri­pi­da discesa verso La Spezia quasi li spinge a buttar giù dall’auto il giovane fascista sul predellino: perché paghi non solo per la folla che riempi­va la piazza per lui, e muta, inguardabile, segretamente violenta, non li lasciava pas­sare se non lo pren­devano con sé, ma per tutto ciò che hanno vi­sto e sentito nei nove giorni precedenti.
Un’Italia dove quel ch’è pubblico va in rovina ― le strade che un po’ di pioggia rende impraticabili, i fiumi che escono dagli argini mal tenuti, i veicoli che schizzano fango sui passanti come se non li guidas­sero mani umane, i muri sbrecciati e imbrattati ― quel ch’è privato è quasi sempre sporco, turpe, rapa­ce, imbroglione ― le trattoriole bisunte che invece sono bordelli, i locali pub­blici senza gabinetti, gli ap­partamenti da cui spiano, torvi, occhi di ladri ai quali chiunque passi sembra un la­dro ― e che è la stes­sa che oggi riemerge non-morta dal passato ― con le stesse facce, gli stessi sguardi maligni, le stes­se truffe, le stesse minacce, la stessa ignoranza, lo stesso odio, lo stesso abbandono e spreco di Esse­ri Uma­ni, la stessa infelicità ― e senza pudore, senza sentimenti, sen­za sapere quello che fa impesta l’I­talia che immaginavamo di poter a­mare, l’Italia che volevamo far bella e generosa per i nostri figli: Er­nest e Gui­do, lasciandosela alle spalle, voltandosi a guardarla solo per il sollievo di vederla a poco a poco sparire, incontrano gli stessi uo­mini, le stesse donne, che di lì a vent’anni indurranno Vitto­rini, e dopo un altro mezzo secolo noi, a domandarci senza poter credere a noi stessi: ma sono Uomini o No?
Inquietante, in loro, è fin dal primo momento la stranezza. Il giovane fascista sul predellino, per esem­pio, è uomo o no? In quell’atto insensato, in quella cieca, furiosa tenacia, così diversa dall’umana morbi­dezza che Ernest e Guido non pèrdono neanche nella tensione della fuga, egli esibisce forse u­na “ma­schia, possente bellezza” ― si esprimeva così la retorica insieme omo­sessuale e omofoba del fascismo ― emana, forse, una vitalità irresistibile ― disumana, però, nel suo poter fare a meno del rapporto ― ma perché rischia la vita per arrivare a tutta velocità a La Spezia? Quale indegnità, quale abiezione si è ra­dicata in lui, che lo fa correre a un comando come un cane senza alcun riguardo per sé? E alla fine non solo vuol pagare, per il passaggio che in fondo ha estorto, ma non capisce perché Ernest e Gui­do non vo­gliano che paghi, né perché allontanandosi lo salutino con la mano, né perché ― insomma ― tra gli U­mani come loro si creino e resistano relazio­ni alla cui importanza essi tributano rispetto fin nei minimi gesti reciproci: è stra­no come un a­lieno, è diverso, è al di là di qualcosa che non saprem­mo definire, ma di cui sappiamo che non la si può oltrepassare senza precipitarsi per una china in fondo alla quale non ci sono che mostruosità e ca­tastrofi: di tutto ciò che si diceva e si capiva un tempo in Ita­lia, la Patria fa­scista a poco a poco e im­percettibilmente gli ha detto altro, gli ha versato nelle orecchie un veleno che va al cervello rendendolo incomprensibile perfino e innanzi tutto a sé stesso: come dev’esserlo una macchi­na, appunto, da cui non si vuol altro che funzioni come si deve quando la si mette in moto.
E la ragazza che invece è una prostituta, la ragazza ch’è bella dal suo lato migliore e mostruosa dall’al­tro? Tutto ci parla di come sarebbero potute essere, lei e l’Italia, se il fascismo non le avesse violentate entrambe: il suo star sulla porta come una donna libera, i sorrisi, il braccio al collo di Guido, l’atto di se­dersi vicino ai due giovani, parlare con loro, toccarsi il seno ― non sarebbe una donna bellissima, una giovane donna stupenda da incontrare, se non fosse una giovane donna annientata e uccisa? Il fascino del­la sua parte migliore è stato distrutto, un incidente le ha spianato metà della faccia come cera calda: la sua morbida cera ― l’umana affettività che nei bambini, nei paesi violenti come quell’Italia lì, l’odio religioso contro l’Umano pietrifica mentre le botte cambiano i connotati per sempre, e che in Ernest e Guido è stata rispettata, invece, da madri e padri come quelli che in paesi non violenti chiamavano il ’900 agli inizi “il secolo dei bambini” ― è stata riplasmata in una maschera mostruosa (era, da sempre, la “chirurgia plastica” dei poveri) per far di lei una prostituta. E forse proprio da quel giovane in blu, coi capelli lucidi di brillantina, elegantemente vestito, dall’aspetto impeccabile, che a un tavolino scrive e fa i conti di quanto gli ha reso e gli rende, giorno dopo giorno, la distruzione della sorella... Non sono, le lo­ro, le stesse facce di ragazze e di giovani “plastificati” che “decorano” oggi certe convention, che spiccano come prede in catene in certi cortei al seguito, che riempiono certi programmi televisivi di disperata fa­tuità stando sempre ben attenti a mostrarsi alle telecamere dal loro lato migliore e a nascondere, dal­l’altro, le cicatrici dell’intervento (oggi non è più un “incidente”) che li ha tramutati in ultracorpi? E ­la vecchia, orrenda, che sorveglia le ragazze nelle trattoria che invece è un bordello, non è l’esatto presenti­mento di certe madri e certi padri di oggi che commerciano in figlie? Che addirittura minacciano il suici­dio ― straordinari venditori e venditrici senza più cuore né mente a intralciare la dedizione al profitto che da un Essere Umano si può trarre ― se per qualche contrattempo non riescono a venderle?
Non vi piacciono le strade italiane? dice il fascista in biciclet­ta, tutto rivoltella, bel sorriso italiano, cor­ruzione e miserabile protervia. È quel che sempre insinuano i fasci­sti contro chi non riesce a cela­re la propria sofferenza per l’orrore di cui pervadono l’Italia: voi dif­famate la Patria, dunque non l’ama­te; ed è proprio in questo ― non amando, soffrendo, sentendo dolore per la Patria ― che voi vi rivelate ancora u­mani, non cristiani; ancora umani, non patrioti; ancora umani, non fascisti; pro­prio non riu­scendo a na­scondere che non vi piacciono le strade, il fango, la sporcizia, lo squallo­re ― come domani soffrirete per la cementificazione e l’istupidimento ― proprio in questo rivelate di non essere strade, cemento, squallo­re, parti della macchina, ingranag­gi ciecamente determinati: siete es­seri u­mani, vi denuncia il vostro dolo­re, e proprio per questo si può e si deve farvi quel che non si farebbe neanche alle bestie.
Eppure, nell’Italia fascista da cui Ernest e Guido fuggono voltandosi soltanto per vederla sparire alle loro spalle, non tutti gli Italiani sono come il giovane sul predellino, o lo sfruttatore delle sorel­le nella tratto­ria-bordello, o la guardia infame e pezzente che arranca in bicicletta in cerca di vittime: ci sono an­che l’uomo e la donna che nella seconda trattoria siedono all’estremità più lontana della sala. Già dal lo­ro iso­larsi ― come, a La Spezia, dal tragico silenzio del marinaio seduto con la te­sta fra le mani, senza mangiare, senza bere, e a cui nessuno rivolge la parola ― capiamo che fanno parte dell’altra Ita­lia, dell’I­talia che si poteva amare e sognare, prima che fosse sconfitta e umiliata; e allora ci accorgiamo che han­no vici­no una valigia, una sola valigia, che mangiano senza parlare, che la donna è bella ma che l’uomo guar­dandola scuote la testa, che entrambi sembrano molto tristi, e comprendiamo che non sono qui per il loro amore, ma come si è in un incubo finché l’incubo dura, e quindi per far sentire a noi, da personaggi di una storia quali essi sono, che è di un incubo che stiamo leggendo, che quel che la Pa­tria ti di­ce, quan­do la Patria è fascista, te lo versa nelle orecchie mentre dormi, notte dopo notte, per far sì che un brutto mattino tu ti svegli uguale a loro, dai tuoi sonni agitati, ed è arrivato l’invasor perché da quel mattino in poi l’invasore sei anche tu: per questo hanno l’aria stanca di chi non dorme da tempo, per que­sto l’uomo e la donna scappano anche loro dall’Italia senza voltarsi indietro: non sopportano più neanche la vista degli Italiani, ormai per loro son tutti complici, tutti col­pevoli an­che solo per non aver il coraggio almeno di sedersi in fondo alle sale, sempre, per testimoniare che perfino trovarsi ca­sualmente insieme a un fa­scista nello stesso ristorante crea sofferenza in chi non è capace di cercar di non essere umano.
Ernest e Guido non possono far niente per loro: solo rattristarsi. Americani, non italiani, da stranieri sentono e sanno che la salvezza dell’Italia non può venire da fuori dell’Italia, perché sarebbe come se al­la prima curva, scendendo verso La Spezia, si fossero scrollati via co­me un insetto molesto il fascista sul predellino: sarebbe la guerra. Che è peggio, sempre, di ciò che tenta di combattere. Anzi: in un’Ita­lia così ridotta, già la loro presenza ― sia pure come giovani, inermi turisti ― è un atto di guerra, e ben glielo fa capire la guar­dia vigliacca col suo odio istintivo, a prima vista, e poi con la grossa pistola che da un mo­mento all’altro potrebbe spia­nargli contro, incredibile a dirsi, per legittima difesa: Ernest e Guido sono nemici per il fatto stesso di essere diversi, irraggiungibili, impossibili da prendere pian piano nella notte versando loro nelle orecchie il veleno di quel che dice la Patria fasci­sta; perché a uno stra­niero come può la Patria parlare, dirgli di non essere umano, se lui, in quanto umano, non capisce la lingua?
Possono solo scappare, Ernest e Guido, per risparmiare all’Italia un tempo amata almeno di macchiar­si del delitto di ucciderli a tradimento. Scappare e poi voltarsi a guardarla ― purché da così lontano che gli occhi non la vedano più ― immaginando che non vista stia concependo una nuova nascita: la venuta di un giorno in cui anche l’Italia, come Mentone, sarà di nuovo allegra, pulita, deliziosa.

*

Uomini o No? si domanderà Vittorini vent’anni dopo, e noi dopo sessantacinque ancora. Ma nessuno è No, finch’è vivo e non morto. Non è possibile non essere umani, se si è animali umani. La lotta è sempre tra umani, umani da en­trambe le parti, e dubitarne vorrebbe dire che i fascisti, benché sconfitti, avreb­bero vinto: avrebbero la­sciato viva in noi, pur morendo loro, l’idea che si possa e si debba riuscire, prima o poi, a non essere u­mani, e che questo e non altro sia il senso dello stare al mondo: preparare e for­zare, per noi e per gli altri, l’avvento di un’altra vita, di un aldilà, in cui dell’umano non vi sia più traccia.

*

Nell’estate del 1914, quando la Grande Guerra era appena cominciata e l’intervento degli Stati Uniti (e di Ernest Hemingway sul fronte italiano) erano ancora di là da venire, il futuro scrittore ― che allora aveva circa sedici anni e si chiamava Nick Adams ― andò qualche giorno da solo a pescare sul Gran fiu­me dai due cuori. Scese dal treno, in un luogo dove una volta c’era un villaggio abbastanza grande per avere un albergo, e la prima cosa che vide fu che adesso era solo rovine, solo pietra scheggiata e spezzata dal fuoco. Quello e­ra tutto quanto restava del paese di Seney. Perfino la superficie era scomparsa dal ter­reno nel­l’incendio; e la vista di tanta distru­zione, all’inizio di un racconto apparentemente luminoso e fe­lice, è come la faccia spianata come cera calda della bella e orribile ragazza della trattoria a La Spe­zia: un orrore segreto, mostrato per un momento e poi sùbito nascosto di nuovo, che non do­vremmo dimenti­care ― noi lettori ― neanche se poi ci convincessimo che perfino lo scrittore se n’è dimenticato.
Nick era felice. Accomodò le cinghie del sacco intorno al fagotto, tirandole bene, si gettò il sacco sulla schiena, infilò le braccia nelle bretelle e liberò le spalle da una parte della tensione appoggiando la fronte contro una larga striscia di stoffa. Pure, era troppo pesante. Era davvero troppo pesante. Aveva in mano l’astuccio delle canne da pesca e chinato avanti per tenere in alto sulle spalle il peso del sacco Nick s’in­camminò lungo la strada che correva parallela ai binari, lasciandosi alle spalle nel sole il paese brucia­to, e svoltò poi intorno a una collina prendendo una strada che tra due colline alte e scarnite dal fuoco si spingeva verso l’interno. Camminò lungo quella strada, sentendo male per la tensione delle cinghie del sacco sulle spalle. La strada si arrampicava ripida. Era faticoso camminare in salita. I muscoli gli dole­vano e faceva un gran caldo, ma Nick si sentiva felice. Sentiva di aver lasciato tutto dietro di sé, il biso­gno di pensare, il bisogno di scrivere, gli altri bisogni. Tutto era dietro di lui.
La meticolosità di ogni azione di Nick, e la meticolosità con cui le descrive, è la stessa di cui è fatto il mondo. Come lui tira bene le cinghie del sacco, come lui è bravo e sa cosa fare per liberare le spalle da u­na parte della tensione, come lui si china in avanti per tenere in alto il peso, così la grossa tro­ta che ha visto poco prima dal ponte scatta contro corrente con un forte angolo quando l’ombra dell’uc­cello pescato­re passa sul fiume, e soltanto la sua ombra segna l’angolo, poi perde l’ombra quando compa­re alla super­ficie dell’acqua, nel sole; poi, quando torna sott’acqua, l’ombra sembra trasportata giù so­praffatta dalla corrente fino a ridursi di nuovo sotto il ponte, dove si ferma stretta accanto al pilone fron­teggiando la corrente. E il cuore di Nick batte, come se comunicasse con il corpicino della trota.
Poiché il mondo e tutti gli esseri che ne fanno parte costituiscono un’immensa unità immensamente comples­sa ma anche estremamente esatta, da sé stessa perfettamente regolata ― da sé stessa, certo, ché in questo mondo per buona sorte, benché vi siano fascisti, almeno non vi è traccia di dei ― e quindi per­fet­tamente comprensibile. E che anche Nick ne sia parte lo comprendiamo dal fatto che egli non com­mette sbagli che lo rendano strano, diverso, inquietante rispetto al mondo: Nick è bravo, questo vedia­mo, capisce sempre quel ch’è bene fare e lo fa; l’accuratezza ch’è segno che il mondo è sensato, e che sen­sato lo con­serva, è anche di Nick e fa sì che egli è e sarà sempre uno degli Uomini, mai dei “No”.
Quando Nick fa una sosta e si siede, appoggiandosi a un ceppo carbonizzato, a fumarsi una sigaretta, il suo sacco è piazzato su un ceppo, con le cinghie pronte e una cavità modellata dalla schiena. Quando si rimette in cammino, mantiene la direzione osservando il sole. Sa in quale punto vuol raggiungere il fiu­me, e sarà lì e non altrove che lo raggiungerà. E intanto coglie rami di felci selvatiche e li pone sotto la cinghia del sacco: lo sfregamento li schiaccia ed egli sempre camminando ne sente il profumo. Poi, quan­do ar­riva nel luogo prefissato, Nick mette a terra il sacco e l’astuccio delle canne e cerca uno spazio di ter­reno pianeggiante. Ha molta fame, ma vuol piantare la tenda prima di far da mangiare. Fra due pini il terreno è quasi sgombro. Nick prende dal sacco un’accetta ― immaginiamo la cura con cui sarà stata scelta, le discussioni con gli amici su quale sia l’accetta migliore, l’attenzione con cui sarà stata riposta nel sacco in modo che sia sempre pronta e facile a tirarsi fuori ― e recide due radici che sporgono. Ne ri­sulta uno spazio di terreno abbastanza ampio per potervi dormire. Nick spiana con le mani il suolo sab­bioso e strappa con le radici tutte le felci. Le mani hanno un buon odore di felci ― ogni operazione esatta­mente compiuta ricava dal mondo il proprio piccolo o grande premio ― e Nick spiana il terreno dove ha tolto le radici. Non vuole punti duri sotto le coperte. Quando ha ben spianato il terreno distende le tre co­perte. Ne piega una in due, la prima sul suolo, e vi distende sopra le altre due.
Con l’accetta stacca poi una grossa scheggia di pino da uno dei ceppi e ne fa paletti per la tenda. Li vuole lunghi e robusti perché si conficchino bene. Slegata la tenda e stesala per terra, il sacco appoggiato a un pino sembra molto più piccolo ― c’è addirittura un che di autistico in questa osservazione: il sacco gli appare più piccolo, a un tratto, come se Nick non sapesse più che è stato lui stesso a renderlo tale. Quindi Nick lega a un pino la corda che serve da sostegno alla tenda, e ne lega l’altra estremità a un al­tro albero sollevando così la tenda dal suolo. La tenda rimane sulla corda come un lenzuolo di tela messo ad asciugare. Nick mette sotto la tela un palo che ha tagliato e ne fa una tenda fissandone i lembi al suo­lo. Tira bene la stof­fa e ficca profondamente nel terreno i paletti battendoli con la parte piatta dell’accetta finché gli anelli delle corde sono interrati e la tela tesa come un tamburo.
La precisione, l’abilità, la bravura di Nick ― il suo sapere come si sta al mondo ― sono quasi irresistibi­li per noi: ricordiamo le mille conver­sazioni, soprattutto fra maschi, a cui abbiamo assistito e partecipa­to, ritroviamo quella stessa ricerca e quello stesso vanto quasi ossessivi della perfezione nel fare, qual­siasi cosa si faccia, e sentiamo che sì, è vero, l’abbiamo sempre saputo: è così che si sta al mondo perché il mondo è così ― implacabilmente perfetto, e immancabil­mente generoso con chi non perde il passo con la sua perfezione ― e dunque è solo così che si è Uomini, solo così non si diventa “No”, solo così non ci si sveglia un brutto mattino da sonni agitati per entrare in un incubo che da quel momento siamo anche noi a render tale anche se non voglia­mo. E solo così si può ottenere quel poco di felicità che la vita può dare, se i “No” non vengono a sfregiarla: la stessa per ogni vivente, umano o non umano che sia ― come la piccola trota di cui, il mat­tino dopo, Nick sentirà, sfiorandola con la mano, il senso di tranquillità e di freschezza sott’acqua ― che del mondo riesce a rimanere parte: nell’interno della tenda la luce filtra at­traverso la tela scura. C’è un buon odore di tela. Già c’è un che di domestico e di misterioso. Muovendosi carponi sotto la tenda Nick si sente felice. Non è mai stato infelice, durante tutta la giornata. Questo però è diverso. Ora la cosa è fatta. C’era que­sta cosa da fare e ora è fatta. È sta­ta una marcia dura. È molto stanco ma la co­sa è fatta. Si è fatta la tenda. Si è piazzato. Niente può più toccarlo. Quello è un posto buono per piantare la tenda . È lì, nel po­sto buono. È in casa sua dove se l’è costruita.
C’è voluto tempo per diventare così bravo da essere così perfettamente nel mondo da ricavarne quel po’ di felicità che se ne può trarre. Mentre si prepara da mangiare, per esempio, Nick a un certo momento re­siste alla fame perché sa che i fagioli e gli spaghetti sono ancora troppo caldi. Guarda il fuoco, poi la ten­da, non vuole rovinare tutto scottandosi la lingua. E ricorda che per anni non ha potuto gustare le ba­nane fritte perché non è mai stato capace di aspettare che si raffreddino. La sua è una lingua molto deli­cata. C’è vo­luto tempo, sì, ma oggi, finalmente ― a soli sedici anni, del resto ― Nick è diventato così bra­vo che la de­lica­tezza della realtà ― l’infinita delicatezza dell’organismo del mondo, di cui la sua lingua fa parte co­me tutto il resto ― più niente ha da temere dalle sue azioni, dai suoi gesti, perfino dai suoi pen­sieri: Nick è un Uo­mo, ora, il che vuol dire che è quel che è non con la mente, non col corpo, e neppure con la mente e col corpo, ma semplicemente come una lingua è una lingua e una trota è una trota: come ogni en­te che ha da esser sé stesso e non un “No”, per esser nel mondo, così Nick è Nick, un uomo.
Più tardi attraverso l’imboccatura della tenda Nick osserva il bagliore del fuoco quando il vento della notte vi soffia sopra. È una notte calma. La palude è silenziosa. Nick si distende comodamente sotto le co­perte. Una zanzara gli ronza vicino a un orecchio. Nick si siede e accende un fiammifero. La zanzara è sulla tela sopra la sua testa. La zanzara nella fiamma produce un sibilo soddisfacente. Il fiammifero si spegne. Nick si sdraia di nuovo sotto la coperta. Si volta sul fianco e chiude gli occhi. Ha sonno. Sente il sonno arrivare. Si rannicchia sotto la coperta e si addormenta.
Il gran fiume dai due cuori è un racconto di venti pagine: il doppio di Che ti dice la Patria?, ma non lunghissimo. Ep­pure si divide in due parti, che però furono pubblicate insieme. Dunque il moti­vo della suddivisione è interno al racconto: il sonno di Nick non dev’essere disturbato, per questo Il gran fiu­me dai due cuori s’interrompe la sera e ri­prende il mattino dopo. Quando il sole è alto e la tenda co­min­cia a riscaldarsi, Nick esce fuori a osservare il mattino. Poi fa colazione, si prepara, pren­de con sé quel che gli occorre, cattura una cinquantina di cavallette, le chiude in una bottiglia con una scheggia di pino co­me tu­racciolo, in modo da non farle scappare ma da lasciare spazio per il passaggio dell’aria ― insomma: fa ogni co­sa alla perfezione, come la sera prima, e con la contentezza, col pieno sen­timento di sé nel mondo che la perfezione nell’agire gli dà― e finalmente, sentendosi professionalmente felice, va a pescare.
Si dà prova di sapere come si sta al mondo non soltanto in quel che riguarda sé stessi, in ciò che si fa per sé, ma anche― e forse soprattutto― in ciò che si fa nei confronti degli altri. Il giorno precedente, per esempio, durante il cammino, Nick a un certo momento ha allungato una mano e ha afferrato u­na ca­valletta per le ali. L’ha rovesciata, con tutte le zampine che si muovevano nell’aria, e ha osservato l’addo­me segmentato. Poi: “Vai, insetto” ha detto. “Vola via in qualche posto”. Ciò non vuol dire, naturalmen­te, che Nick sia san Francesco. La zanzara infatti l’ha uccisa, non l’ha invitata affabilmente a u­scire, sorel­la zanzara, dalla tenda. E ucciderla non ha signi­ficato escludersi― farsi strano e violento, fuori e contro l’ordine delle cose― poiché è stata piutto­sto la zanzara a mettersi fuori e contro il mondo disturbando il sonno di Nick. Ma come, si dirà, Nick può cibarsi delle trote ma le zanzare non possono ci­barsi del suo sangue? Proprio così, poiché è così che il mondo è: fra tutti gli esseri, solo Nick è dotato di ragione, solo Nick può rico­struire l’ordine del mondo e apprendere a rispettarlo, e perciò solo Nick è in grado di deci­dere, per non infrangerlo, cosa si possa o non si possa fare. Si può uccidere la zanzara, dunque ― anzi: si deve farlo, o privati del sonno non si sa­rà presenti a sé stesso l’indomani― ma certo non si può togliere la vita alla cavalletta quand’è ancora lontano il momento in cui si avrà bisogno di essa come esca.
Lo stesso, naturalmente, vale per le trote: Nick sente uno strappo al filo. Tira. È il primo colpo. Tenen­do contro corrente la canna ora viva, ritira il filo con la mano sinistra. La canna si curva a scatti, come la trota punta contro corrente. Nick capisce che è una trota piccola. Solleva diritta la canna, che si curva per la tensione. Vede nell’acqua la trota puntare a scatti col muso e col corpo contro la mutevole tangente del filo nel fiume. Nick prende con la sinistra il filo e tira alla superficie la trota che si dibatte estenuata contro corrente. Ha il dorso colore chiaro dell’acqua tra i sassi, i fianchi luccicano al sole. Con la canna sottobraccio Nick immerge nell’acqua la mano destra. Tiene con la mano bagnata la trota che guizza e stacca l’amo dalla bocca del pesce e lo lascia ricadere nel fiume. La trota oscilla nella corrente, poi si fer­ma sul fondo dietro un sasso. Nick allunga la mano per toccarla, infila nell’acqua il braccio fino al gomi­to. La trota è immobile nel fiume in movimento, se ne sta sulla ghiaia dietro un sasso. Quando le di­ta di Nick la toccano, toccano il suo senso di tranquillità e di freschezza sott’acqua, la trota guizza e scompare, veloce come un’ombra sul fondo del fiume. Sta benone, Nick pensa. Era soltanto stanca. Si è bagnato la mano prima di toccare la trota in modo da non rovinare il muco delicato che la copre. Se si tocca una tro­ta con la mano asciutta, un fungo bianco attacca il punto rimasto senza protezione. Anni prima, quando pescava su fiumi frequentati, con pescatori a monte e a valle di lui, a Nick è capitato moltissime volte di trovare trote morte, pelose per il fungo bianco, portate alla deriva contro una roccia oppure galleggianti col ventre in aria in qualche stagno. A Nick non piace pescare quando c’è altra gente sul fiume. A meno che siano della vostra comitiva, rovinano tutto.
La piena validità di ogni azione di Nick nel Gran fiume dei due cuori è come la danza perfetta del tore­ro dinanzi al toro: entrare “in risonanza” col toro, muoversi― il torero e il toro― come se fossero un uni­co essere, è il solo modo per vincerlo degnamente: entrare nel mondo del toro, esser con lui in esso.
Ma le comitive, è chiaro, sono due: la comitiva di chi sa stare al mondo, con gli Esseri umani e con gli altri esseri, e la comitiva di chi non sa. Quelli che non sanno son quelli che non hanno voluto apprende­re a farlo, che volontariamente― fortuna e sfortuna non esistono nel mondo di Nick: o si vuol esser bra­vi, e prima o poi vi si riesce, o non lo si vuole, e prima o poi lo si ottiene ― si sono e­sclusi e messi fuori e con­tro l’ordine del­le cose. Essi pertanto non sono semplicemente sgradevoli: sono perico­losi. Non solo per le tro­te, ma per il mondo intero. Lucida­mente ri­nunciando al posto ch’è solo del­l’Uomo nell’Universo, cioè a essere Dio― poiché non vi è altro Dio che l’Uomo, nel mondo di Nick― essi si son resi simili a demoni: se dispettosi o malvagi, se attaccabrighe o feroci, se pasticcio­ni o devastatori, di­pende solo dalle circo­stan­ze. E dunque può ben accadere che Nick― il cui saper stare al mondo lo rende capace di combattere con assoluta efficienza, invariabilmente fa di lui il vincitore, e soprattutto gli con­feri­sce il diritto di ucci­dere (stavamo per scrivere la licenza, in fondo James Bond gli è fratello minore) ― si trovi un giorno a dover entrare in guerra contro di essi dopo aver visto e sentito, in Italia, cos’ha detto loro la Patria; e che in guerra, come a pesca― nella piena capacità e le­gittimità, che il suo saper stare al mondo gli conferi­sce, di stabi­lire chi possa sopravvivere e chi debba morire― uccida quanti più fascisti gli è possibile . Poiché Nick è Adams: Nick, figlio di Adamo, è l’Uomo, custode dell’Universo. Mentre i fascisti sono l’al­tra comitiva: quelli che ucciderebbero anche la più piccola delle trote, pur di sentirsi non umani.
Ma se le cose stanno così, se Nick è così bravo, se la sua bravura, lungamente e duramente appresa, lo rende così infallibile nel capire e nel fare, se la sua battaglia come la sua pesca, sempre perfettamente condotte, sono anche sempre perfettamente vincenti, come mai al mondo vi sono ancora― non trote, che a pieno titolo sono parte dell’ordine del mondo e lo saranno per sempre, finché vi sarà Nick a restituire al fiume le troppo piccole e a bagnarsi le mani prima di toccarle ― ma come mai al mondo vi sono anco­ra tanti cattivi pescatori, tanti che delle trote distruggono perfino le uova e mutano i fiumi in deserti d’ac­qua, come mai al mondo vi so­no ancora tanti fascisti anche se Nick li ha sconfitti una volta per sem­pre sessantacinque anni fa? Come mai l’Overlook Hotel è ancora in piedi e Jack Torrance è ancora lì, do­po ottanta­cin­que anni, a tra­mutare l’ordine in disordine come se Nick non fosse mai esistito? Peggio: co­m’è potuto accadere che Nick in persona sia stato talvolta un fascista, in Vietnam e in Irak?
E a questa terribile domanda― per quanto sia doloroso entrare in conflitto con uno come Nick, che sul Gran fiu­me dai due cuori ci ha insegnato a stare al mondo, in Che ti dice la Patria? a riconoscere i fasci­sti d’al­lo­ra e di oggi, e ne Il Vecchio e il Mare, se vogliamo, perfino a star al mondo da vecchi― come pos­siamo non rammentare che questo racconto inizia in un luogo dove non c’è paese, ci son solo i bina­ri e la campagna bruciata? Dei tredici negozi che si allineavano lungo la strada principa­le di Seney non vi è più traccia. Le fondamenta dell’albergo Maison House sorgono dal terreno. La pietra è scheggia­ta e spez­zata dal fuoco. Questo è quanto rimane del paese di Seney. Perfino la superficie è scom­parsa dal terreno nell’incendio. Dunque è accaduto qualcosa, prima, che ha devastato il pun­to di partenza, l’origi­ne del­l’avventura di Nick sul Gran fiume dai due cuori. Ma cosa? Perché proprio in un luogo di distru­zione e di morte egli è venuto al mondo in cui poi ha imparato a stare così validamente? È per la sua na­scita di­sgraziata, allora, che il tempo invariabilmente tramuta in fallimenti i suoi invariabili successi?
Tre racconti precedenti, ma anch’essi del 1925― La fine di qualcosa, Tre giorni di burrasca e Neve fra due paesi ― rispondono che no, Nick non è nato disgraziato. Niente può non andare nell’origine, nessuna storia può davvero iniziare in un paese distrutto o incendiato: Nick è nato, come ognuno nasce, perfetta­mente umano. Ma dopo, un giorno, ha fatto qualcosa per cercare di es­serlo meno. Non per non esserlo più, o non sa­remmo qui a parlar con lui, ma per esser meno umano quel tanto che basta― ammesso e non concesso che nella diminuzione di sé ci si possa fermare dove si vuol fermarsi― a incardinar­si sen­za troppe pretese trasformative in un ordine del mondo che in sé è della Natura, non dell’Uomo .
Anche il primo racconto, La fine di qualcosa, inizia con un paese che non c’è più: Hortons Bay, che molti anni fa era un paese rumoroso, è morto quando non vi furono più tronchi per far legna: le case dor­mitorio a un piano, la mensa, il magazzino della compagnia, gli uffici del mulino e il mulino stesso ri­ma­sero abbandonati in mezzo alla distesa di segatura che copriva il terreno paludoso presso la spiaggia del­la baia. Lo dicevamo poc’anzi: è come se non possa non esservi una distruzione, là dove la vi­cenda di Nick― la vicenda umana― ha origine. E tuttavia ne La fine di qualcosa, nonostante la ro­vina di Hor­tons Bay e del titolo stesso del racconto, l’inizio non è nella rovina, non è nella fine, ma nell’unico suo op­posto pos­sibile: nel rapporto uomo-donna. Con Nick, infatti, all’inizio c’è Marjorie. E Nick e Marjorie vanno a pescare assieme, e Marjorie non è meno brava di Nick, anzi: lo è almeno altrettanto. Sta sempre attenta alla canna, anche mentre parla. Le piace pescare. Le piace pescare con Nick. E non è brava solo nella pesca: dopo, Marjorie va a prendere nella barca una coperta; e poiché la brezza della se­ra porta il fumo del fuoco verso la punta, Marjorie distende la coperta tra il fuoco e il lago...
Ma allora, se Marjorie non è meno perfetta di Nick, perché Nick deve lasciarla? Non potrebbe re­stare con lei per sempre? Andar con lei a pescare sul Gran fiume dei due cuori? Con lei in Ita­lia nel 1925 (con lei aveva parlato d’andare in Italia insieme, dirà Nick in Tre giorni di burrasca) a riconoscere l’or­rore fa­scista? Non potrebbe vincere con lei, nel 1945, in modo che i fascisti non tornino mai più?
“Che cos’hai, insomma?” dice Marjorie.
“Non lo so.”
“Invece lo sai.”
“No, io no.”
“Avanti, dillo.”
Nick guarda la luna, che sale in alto sopra le colline.
“Non è più divertente” dice.
Ma ha paura di guardare Marjorie. E poi ammette: “Mi pare come se tutto dentro di me fosse andato al diavolo.”
Marjorie non sta lì a pregarlo. Perfetta anche in questo, semplicemente prende la barca e se ne va. Ma Nick non la chiama. Rimane disteso per molto tempo. È ancora disteso quando sente Bill giungere allo scoperto dal bosco. Sente Bill avvicinarsi al fuoco. Non si muove, non gli importa di Bill.
“Allora è andata via?” dice Bill.
“Sì” Nick dice, disteso, con la faccia sulla coperta.
“Successe scene?”
“No, nessuna scena.”
“Come ti senti?”
“Oh, va’ via, Bill! Va’ via per un po’.”
Bill sceglie un sandwich dal cestino della cena e si muove per andare a dare un’occhiata alle canne.
Sembra proprio che non vi sia alcun moti­vo per lasciare Marjorie. Niente non va, in lei. Niente impor­ta a Nick di Bill. E Nick, dopo, è infelice per averla lasciata. Ma al­lora perché lasciarla? E perché “sosti­tuirla” con Bill, perché pescare con lui invece che con Marjorie, se di Bill non gli importa?
Nel racconto successivo, Tre giorni di burrasca, Nick e Bill, soli in casa di Bill mentre il padre di Bill è a caccia, si ubriacano con estrema bravura, mantenendo perfettamente il controllo e van­tandosi per que­sto con sé stessi e reciprocamente. Ma il whisky in qualche modo riesce lo stesso a farli star male, pur senza che se ne accorgano e che alcun segno esteriore lo manifesti, e star male li induce a par­lare di quella che è stata, per entrambi, la fine di qualcosa: la cacciata di Marjorie dal mondo.
Dice Bill: “Hai fatto proprio bene.”
“A far cosa?” chiede Nick.
“A piantarla con quella faccenda di Marge” dice Bill.
“Credo anch’io” dice Nick.
“Era l’unica cosa da fare. Se non l’avessi fatto, adesso saresti a casa a cercar di far soldi per sposarti.”
Nick non dice niente.
“Quando un uomo si sposa è fregato per sempre” Bill continua. “Non gli resta altro. Niente. Un acciden­te di niente. È fregato. Forse è stato poco bello piantar tutto” Bill dice. “Ma si finisce sempre per prendere un’altra cotta e tutto si aggiusta. Va bene prender le cotte, ma non bisogna farsi rovinare dalle donne.”
“Sì” dice Nick.
Il whisky è passato, l’ha lasciato solo. Bill non è presente. Egli non è più seduto davanti al fuoco, non andrà a pescare il giorno dopo con Bill o suo padre o chi altro. Non è ubriaco: è tutto finito. Tutto quel che sa è che una volta aveva Marjorie e che ora l’ha perduta. Ora lei se n’è andata, è stato lui a mandarla via. Questo soltanto conta. Probabilmente mai più la rivedrà. Finito. È finito tutto.
(Anni dopo, in Neve fra due paesi, Nick si sposerà perfino. Con una certa Helen, in Europa. E tuttavia incredibilmente si rammari­cherà, quando lei aspetterà un bambino e dovranno tornare negli States, di dover per questo interrompere l’amata consuetudine di recarsi a sciare con l’amico George...).
Non le donne, dunque, sono sparite dalla vita di Nick, quando egli ha lasciato Marjorie. Non con le donne è finito tutto, quella sera sul lago. È sparita la donna. È finita con la donna. E per non altro moti­vo che que­sto: che Marjorie, la donna, è la donna. E che con la donna non si può stare, al mondo.
Questa è la fine di Hortons Bay, questo l’incendio che rade al suolo Seney e con Seney perfino la super­ficie del suolo: imparare a stare al mondo, alla maniera di Nick e dell’America di Hemingway e del mon­do ch’è il nostro che dall’America viene, semplicemente non si può, se c’è Marjorie. Non perché vi sia in Marjorie qualche difetto― Bill pagherebbe per pescare come lei, George per sciare, e He­len, probabil­mente, per saper posizionare una coperta in modo che niente disturbi, mentre si fa l’amore― ma proprio perché Marjorie è donna. Solo perché è donna, e a maggior ragione quanto più perfettamente lo è. Poi­ché non tutte le donne― poche, forse― sono o son riuscite a rimanere così donne che sia impossibile star con loro, se si vuol stare al mondo e andare a pesca e a caccia di fascisti bene come lo fa Nick.
E allora non possiamo non domandarci: che cosa, nella donna, la rende così incompatibile con un saper del mondo e un saperci stare che pure è così valido che non solo non commette alcun errore, nel rap­porto col mondo e con i viventi e con gli umani, ma soprattutto riconosce i fascisti per quel che sono?
Va bene prendere le cotte, dice Bill, ma non bisogna farsi rovinare dalle donne. Quel che porta alla “ro­vina”, dunque, non è stare con le donne, e nemmeno prendersi delle cotte per loro. È stare con la don­na in un modo che va oltre lo stare con lei, che va oltre il prendersi una cotta per lei: è stare con una donna, e una donna con un uomo, in un modo che, per il suo essere oltre, non può non portare entrambi― anche se la donna è brava, anche se pesca bene come Marjorie, anche se non commette alcun errore, né più né meno che il più in gamba degli uomini― su un piano di realtà che non è compatibile con lo stare al mon­do come vi stanno tutti gli altri esseri e tutte le cose; e dunque alla rovina, al fallimento di quell’esatto rapporto col mondo che è il solo modo di starci da uomini. Con tutto ciò che esiste al mondo, Nick, l’uo­mo, non solo può ma deve stare interamente e totalmente, con tutto sé stesso, se vuol essere un uomo, se vuol restare umano, se non vuole― come quelli dell’altra comitiva― render sé stesso non umano. Solo con la donna, fra tutte le creature e le cose del mondo, invece è il contrario: solo con la donna, per saper stare al mondo, bisogna stare non del tutto, non con tutto sé stesso, ma solo fino a un certo punto. E que­sto― se addirittura non significa che quelli dell’altra comitiva ne sono entrati a far parte proprio per non aver saputo o voluto restare al di qua di quell’oltre, nel rapporto con la donna: ma che significhi ciò come si può ammetterlo, senza che il conflitto con Nick diventi totale?― significa che Marjorie, la don­na, per Nick, per Hemingway, per l’America di Hemingway e per noi che (anche) da quell’America ve­niamo, non è nel mondo, è estranea al mondo, introduce nel mondo un disordine che, per quanto sia do­loroso perderla, non averla più― poter prendersi d’ora in poi solo cotte ma non poter più essere con lei fino in fondo ― ciò nondimeno rende impossibile portarla nel mondo con sé senza perdere sé stessi.
La chiave che apre la porta della comprensione del delirio è proprio in quell’oltre, in quello star troppo intensamente con una donna di cui però non si sa descrivere la misura, di cui si può parlare solo vaga­mente, come di un troppo, appunto, ma senza poter dire esattamente quanto: andare oltre con u­na don­na, cioè― e d’altra parte soltanto con una donna questo può accadere, ché con tutto il resto, l’abbiamo vi­sto, solo e proprio il massimo della sintonia è la perfezione― significa entrare in una realtà di cui non son possibili misurazioni, dove non valgono le leggi della fisica deterministica (ma di un’altra fisica forse sì...) e dove quindi non si può che perdere il rapporto col mondo perché il mondo invece è misurabile, e­sattamente conoscibile, razionale, mentre con una donna, se si va oltre, si va nell’irrazionale. E nell’ir­razionale non si corre il rischio di distrarsi e dimenticare, una volta o l’altra, di bagnar la mano nell’ac­qua prima di toccare una piccola trota? O forse no? O forse è vero assolutamente l’opposto? O forse pro­prio il conti­nuo, ossessivo controllo razionale della realtà è il mostro che alla lunga ci opprime, ci soffoca, ci estranea dall’irrazionale nostra natura umana e prima o poi, per stanchezza e insofferenza, innesca e fa e­splodere la ribellione del matto, fascista e nazista, di non esser più umani e sterminarli tutti?
Il fallimento, l’impotenza non tanto di Nick o di Hemingway quanto di un’intera Società maschile, sin­cronicamente e diacronicamente, non a riconoscere i fascisti, non a distinguersi da essi, non a combat­terli e sconfiggerli (quasi) ogni volta, ma a far sì che non vi siano più, ha qui e non altrove la sua ve­ra o­rigine: nell’idea insensata che si possa essere uomini, umani, non dell’altra comitiva, solo se dall’interez­za e completezza tenacemente perseguite dello stare al mondo l’uomo altrettanto tenacemente e­sclude l’interezza e completezza dello star con la donna (e la donna dello star con l’uomo) che dal mon­do, come se l’uno per l’altra non ne fossero parte anch’essi, ineluttabilmente li porterebbero fuori. Come se solo l’umano, diverso da ogni altro vivente, trovasse sé stesso nel non esser pienamente sé stesso, nel non es­sere fin in fondo con sé stesso, l’uomo con la donna e la donna con l’uomo. Come se quel che ci rende ani­mali umani ― il poter immaginare e realizzare di andare oltre ― sia invece un subdolo nemico da tener lontano e a bada l’uno nell’altro: l’uomo nella donna, la donna nell’uomo, e tutti contro tutti.
Dunque nessuna zanzara, se dipendesse da noi, Nick troverebbe in tenda al momento di coricarsi. Bra­vo com’è, non può aver commesso lo sbaglio di lasciarla entrare fissando male o troppo tardi la zanzarie­ra. Eppure quella zanzara non è lì per un errore di Hemingway, ma per un motivo preciso: di­strarre Nick ― e noi ― dal ricordo di Marjorie, dal pensiero, dal dolore, di averla cacciata dal mondo e perduta per sempre. Questo sì che non lo farebbe dormire, altro che la zanzara! La zanzara non avreb­be alcun potere sulla stanchezza di un ragazzo di sedici anni che ha marciato tutto il giorno nei boschi. Ma He­mingway non vuole che Nick ― e noi, che poche pagine fa abbiamo letto La fine di qualcosa ― pensia­mo più a Marjorie, altrimenti... Altrimenti cosa? La pesca domani andrebbe male? Nick perderebbe la se­conda guerra mondiale? L’America dovrebbe dire addio al suo posto nel mondo? O piuttosto entrerebbe in crisi, in Nick e in noi, il pensiero millenario ― che anche Nick come tanti si è rassegnato a far proprio dimezzandosi la complessi­tà, la profondità, l’intensità, la bellezza della vita ― che per stare al mondo da u­mani, per non piombare nell’orrore fascista e nazista di non voler esserlo più, si debba riusci­re... a non essere umani fin in fondo, fin in quell’irrazionale oltre che umani ci rende? E perciò si debba riuscire a tenere a bada, lontano da sé, l’altro essere u­mano, la donna per l’uo­mo, l’uomo per la donna, che è il solo al mondo con cui non si possa stare senza essere u­mani fino in fondo? E si debba rinunciare, dunque, la donna con l’uomo, l’uomo con la donna, ad attinge­re quell’assoluta estraneità, rispetto al fascismo e al nazismo di non voler più essere umani affat­to, che senza guerra, senz’armi, senza fare una sola vittima, eradicherebbe una volta per sempre il fasci­smo e il nazismo dalla faccia della Terra? Nella notte, sul Gran fiume dai due cuori, Nick potrebbe capi­re tutto questo, se il dolore per la sparizione di Marjorie dal suo mondo, una buona volta, si facesse così intenso da non lasciarlo dormire. Ma Ernest Heming­way, che veglia su di lui, gli manda una zanzara da uccidere per poi addormentarsi tranquillo. E fa spa­rire la notte, dividendo la prima dalla seconda parte del Gran fiume dei due cuori, non per proteggere i bei sogni di Nick dai nostri sguardi indiscreti, ma per non dover ammettere che in­vece sono incubi. Gli incubi che versa la Patria ― la Terra dei Padri ― nelle orecchie degli uomini senza donne.

*

Poi, certo, molta acqua è passata sotto i ponti sul Gran fiume dai due cuori. Si è capito che qualcosa non andava. Si è inventato perfino l’antieroe. Ma a chi va oltre, guarda caso― un uomo con una donna, una donna con un uomo― si continua ottusamente a minacciar sfracelli, se appena osano.

 

 

 

 

(Anticoli Corrado, 29 giugno – 8 luglio 2010)

 

 


Dunque potremmo essere alla fine di maggio del 1925, quando la polizia britannica a Shangai sparò contro una dimostrazione di studenti nazionalisti e comunisti, o nel 1927, quando, dopo la rottura tra i nazionalisti e il partito comunista, i comunisti di Shanghai, di Canton e di Pechino furono massacrati dai nazionalisti. Per ovvi motivi, pro­pendiamo per il 1925.

Ernest Hemingway, I quarantanove racconti, traduzione di Giuseppe Trevisani, Arnoldo Mondadori editore, Mi­lano, 1966. Il testo completo del racconto, Che ti dice la Patria? (in italiano nell’originale) ― pubblicato per la prima volta in New Republic il 18 maggio 1927, col titolo Italy, e il 14 ottobre 1927 nella raccolta Men Without Women (Uo­mini senza donne) ― è in http://www.scuolanticoli.com/libri/Hemingway/2_racconti.doc.

di Stanley Kubrick (Gran Bretagna, 1980), con Jack Nicholson, Shelley Duvall, Danny Lloyd e Scatman Cro­thers.

Ernest Hemingway, I quarantanove racconti, traduzione di Giuseppe Trevisani, Arnoldo Mondadori editore, Mi­lano, 1966. Il testo completo del racconto, Il gran fiume dai due cuori (Big two-hearted River) ― pubblicato per la prima volta in This Quarter nel maggio 1925, e nell’ottobre dello stesso anno nella raccolta Nel nostro tempo (In our time) ― è in http://www.scuolanticoli.com/libri/Hemingway/2_racconti.doc.

Un posto pulito, illuminato bene...

Come “Nick” farà, sotto un altro nome, in Per chi suona la campana.

Non per niente l’uomo di Hemingway, antropologicamente, non esce mai dagli inizi dell’avventura della nostra specie: cacciatore e raccoglitore, non ha ancora neanche immaginato di poter trasformare il panorama del mondo; grande narratore, senza dubbio, ma del mondo com’è, non di mondi immaginari.

 

Fonte: www.scuolanticoli.com/download/Hemingway.doc

autore: Luigi Scialanca

 

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