Giovanni Pascoli

 

 

 

Giovanni Pascoli

 

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Giovanni Pascoli

 

“il poeta non deve avere, non ha altro fine che quello di riconfondersi nella natura, donde uscì, lasciando in essa un accento, un raggio, un palpito nuovo, eterno, suo”

 

Giovanni Pascoli nacque, quarto di dieci figli, nella Romagna papalina del 1855.  Il padre era fattore di una tenuta, ma quando Giovanni aveva dodici anni venne assassinato, segnando l’inizio della tragedia personale del poeta: a questa morte seguirono difatti a breve quelle della madre, di una sorella e di due fratelli.  Durante il periodo universitario venne influenzato dalle ideologie socialiste ed anarchiche, tanto che finì addirittura in carcere per aver partecipato ad una manifestazione contro il governo.
I dolori della tragedia famigliare, la conoscenza della povertà e delle idee socialiste, insieme alla permanenza in carcere, dotarono il poeta di una forte sensibilità e di un grande senso di umanità, rintracciabili nella sua produzione poetica.  Il poeta avvertiva inoltre quelle inquietudini che caratterizzavano gli uomini di fine ottocento, dovute al crollo delle certezze positiviste riguardo la crescita illimitata della scienza, a causa anche di una nuova realtà storica di violenza (sono di quegli anni le cannonate di Bava Beccarsi sulla folla e la prima rivoluzione russa)  e dello sviluppo di nuove scienze irrazionali come la psicanalisi.  Dice il Pascoli espressamente: «La scienza ha fallito! …la morte doveva ella cancellare»(7).  Da questo ricavò la necessità di una fede di cui non è nemmeno troppo convinto perché non sa se essa sia verità o illusione: «Noi torniamo alla fede che (è verità o illusione?) non ha solo abolito la morte, ma nella morte ha collocata la vita e la felicità indistruttibile»(7).
Le sue prime produzioni risalgono al tempo dell’università e si ispirano al suo maestro Carducci, tuttavia esclusivamente per quanto riguarda la poesia paesistica e di atteggiamento popolare e non quella maggiore.(1)  Queste prime poesie, che trattano prevalentemente il tema del sentimento georgico, della memoria e dell’esortazione umanitaria, furono pubblicate su varie riviste e periodici, ma sono state raccolte in un momento successivo e non secondo un ordine cronologico, quanto per ragioni formali, stilistiche e metriche.  Esse sono Myricae (1891), Poemetti (1897), poi ripubblicati divisi in due raccolte distinte: Primi poemetti (1904) e Nuovi poemetti (1909), Canti di Castelvecchio (1904), Poemi Conviviali (1904).  I vari Carmina latini, per i quali fu più volte premiato anche all’estero non furono addirittura mai raccolti organicamente dal poeta.
Sicuramente sono presenti anche influenze straniere, come Baudelaire e Poe, ma “il poeta dà nel complesso l’impressione di avere lavorato una poetica ed una poesia sostanzialmente decadentistiche più per nativa sensibilità che per consapevoli acquisti o suggerimenti”(1).
La poetica del Pascoli venne esposta dal poeta stesso nello scritto Il fanciullino (1897). Pascoli afferma che “è dentro noi un fanciullino” il cui compito è quello di cogliere le voci misteriose insite nella natura e comunicarle agli altri uomini. E’ proprio questo l’elemento che collega Pascoli al simbolismo: il fanciullino è il tramite per comprendere le cose, solo lui può cogliere il noumeno, non esprimendolo logicamente, ma servendosi di simboli.
Il fanciullino non cresce mai, ma rimane sempre uguale nelle sue sensazioni e nei suoi comportamenti: «il fanciullino si meraviglia di tutto, poiché tutto gli sembra nuovo e bello; il fanciullino è generoso e buono. E’ lui che ha paura del buio, è lui che ci fa sognare ad occhi aperti, è lui che piange e che ride senza perché, che sa dire la parola che ci commuove. […]E’ lui che mette il nome alle cose »(Salinari) (8)


Dunque, Pascoli sostiene il carattere irrazionale e intuitivo dell’arte, dovuto alla natura stessa del fanciullino.
La poesia, quindi, è intuizione pura, poiché è priva di ogni astrazione ed elemento concettuale: la ragione non opera in alcun modo nell’arte.
Proprio per questo motivo il linguaggio non può essere logico-sintattico, ma solamente lirico-evocativo. E allo stesso modo risulta comprensibile perché Pascoli venga ritenuto padre del frammento lirico: egli è il padre di una poesia breve ed intensa, che dura quanto la tensione lirica del poeta.
Come i poeti maledetti e i decadenti, Pascoli non intende educare, ma rappresentare la vera realtà delle cose; non aspira a divenire poeta-vate come Carducci.
“Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. […] Il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta. Ma non è lui che sale su una sedia o su un tavolo, ad arringare. Egli non trascina, ma è trascinato; non persuade, ma è persuaso”(3).
Poiché il fanciullino è in ogni uomo, la poesia non va indirizzata ad anime elette, tutti possono comprenderla, anche se, alla fine, diventa poeta solo chi è «capace di dire la parola che tutti, senza saperlo, hanno nel cuore e in cui tutti si riconoscono»(Salinari) (8)
Molto importante nella poetica pascoliana è anche la musicalità del verso, nonostante non raggiunga mai il livello delle poesie dannunziane.
Nelle ultime raccolte, Odi ed inni (1906), Poemi italici (1914), Canzoni di re Enzio (1909), Poemi del Risorgimento (1913) il poeta assume le vesti di poeta ufficiale, celebratore delle glorie nazionali.
Come si è visto molte sono le tematiche toccate dalla produzione pascoliana, come ad esempio il sentimento georgico, la poesia delle memorie, la poesia di esortazione umanitaria e i temi cosmici, tuttavia, come per i più grandi letterati, spesso questi temi si fondono nelle poesie, rendendo impossibile una netta distinzione.

 

Sentimento georgico

 

Gran parte della produzione pascoliana, a partire dalle raccolte Myricae e Canti di Castelvecchio, riguarda il mondo campestre.  Molte sono le poesie che rappresentano quadretti di vita apparentemente umile, che lo fanno avvicinare alla poesia degli Idilli del Leopardi e del Carducci, tuttavia rispetto al primo è diversa la concezione della natura che non è affatto “de’ mortali madre di parto e di voler matrigna”, mentre rispetto al secondo la poesia si carica di un senso più profondo di mistero.  La natura è, per il Pascoli, una “madre dolcissima”, contemplata e amata sia nella quiete e nella dolcezza dei paesaggi campestri, sia negli spazi sterminati dei cieli. Se i primi sembrano sussurrare una parola arcana ma dolce, i secondi ispirano spesso un senso di vertigine e di smarrimento, col continuo nascere e morire, anzi crollare, di mondi, e per la loro infinità che sembra annullare il limitato destino dell'uomo. Infatti «la campagna pascoliana non è la campagna splendida del Carducci, non quella agreste e ricca di vita del Parini, non quella mirabilmente placida del Manzoni, ma è, per gli uomini che la popolano, un mondo primitivo e quasi immobile nelle sue tradizioni, che dà il senso di qualcosa di saldo nell’eterno vanificarsi di tutte le forme dell’esistenza, e nelle altre creature lo spettacolo della vita dell’universo come estranee ad ogni travaglio riflessivo ed espressione primigenia del vivere » (1).
La natura, in quanto “madre dolcissima”, svolge il ruolo di consolatrice, opponendosi ad un mondo crudele ed impenetrabile. Questa concezione, tipicamente romantica, è presente in  molti altri autori: nel Foscolo, nell’Alfieri, in Wordsworth e Shelley. Un discorso diverso va fatto, invece, per il parallelo Pascoli-Leopardi: tutti i Piccoli Idilli si aprono con un contatto con la natura, ma esso è solo uno spunto per poi giungere a meditazioni più profonde.  Come le composizioni leopardiane vennero definite dal Russo “quadretti di vita tutta interiore”, così le poesie pascoliane sono invece quadretti di vita agreste, che rappresentano una vita agreste ed umile.  Allo stesso modo, seppur entrambi i poeti si imbattano nel mistero ed imperscrutabilità del mondo, i loro atteggiamenti sono differenti: nessuno dei due riesce a risolvere il problema, ma, mentre Leopardi cerca di esplorare e risolvere inutilmente il mistero e questo fallimento porta in lui dolore, Pascoli lo avverte solamente: il fanciullino è incapace ad esprimerlo ed è costretto, quindi, a rappresentarlo simbolicamente senza addentrarcisi.   Per questo il rapporto con la natura, per i romantici viene definito “esternato”, mentre per Pascoli “sofferto”.


Comunque il poeta avverte la presenza di un mistero che è la realtà più vera delle cose, ma inconoscibile. Il senso pascoliano del mistero coincide spesso con la visione dell'infinità della vita, della sua perenne metamorfosi.
Questo “infinito” «si oppone all’Infinito leopardiano: il mare in cui è dolce per Pascoli naufragare è il porticciolo domestico al riparo dalle grandi ventate dell’aperta distesa. Ma dietro questa diversità e opposizione diametrale di moti c’è un sentimento di uguale natura, per quanto possa apparircene la limpidezza e la profondità; è il sentimento dell’inconoscibile»(Luzi) (8)
E’ anche evidente come le sue poesie nascano da un ripiegamento interiore, che ha la funzione di ascoltare le voci della natura, isolandosi dal mondo per evitare l’intervento della ragione: è questo il concetto del solipsismo.
La sua poesia nasce dall’anima di un fanciullino che si esprime solamente attraverso simboli, stupendosi di ogni più piccola cosa che vede nella natura.  È questo il «grande tema di Pascoli: l’infinitamente piccolo che si rivela infinitamente grande, le storie fatte di niente e che pure paiono non svelare, ma accennare al senso ultimo del Mondo e dell’Uomo»(8).
Tuttavia nella descrizione del mondo georgico viene attutito quel senso vertiginoso del mistero.  La natura non è “madre matrigna” ma “madre dolcissima”, contemplata e amata nella quiete dei paesaggi campestri.  Talmente profonda è l’immersione del poeta con essa che non è il poeta a descrivere ma la natura che parla attraverso il fanciullino.  «Quello del Pascoli è uno spazio sterminato, senza una direzione, dove l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo - l'astro e il filo d'erba - si toccano, partecipano egualmente dell'unico mistero della vita»(8).
Altro tema fondamentale è quello dell’infinitamente grande ed infinitamente piccolo: il fanciullino, come capita a tutti i bambini, tende ad accrescere le cose piccole e a rimpicciolire quelle grandi. Per questo la raffigurazione tocca sia cose piccole (pettirosso, aratro, fiori notturni) che quelle grandi (luna, vento, stelle),  ognuna con la stessa dignità: partecipano tutte all’infinità della vita.  Come sottolinea Sansone, «le cose, esili e grandi della natura, sono tutti aspetti misteriosi dell’universo, come i moti che salgono dall’anima e che ad essi corrispondono: evocazioni, compianti, memorie, simboli e messaggi fugacissimi».(1)  Per questo chiama ogni cosa col suo nome, donando così al linguaggio un carattere nuovo, inedito nel contesto della letteratura italiana.  Questo linguaggio specializzato (gora) rischia però di uscire dalla poetica del fanciullino, se non fosse controbilanciato da un linguaggio, secondo Contini, pregrammaticale (chiù). 
Il sentimento georgico, la costruzione latina del verso (specie in “L’assiuolo”), il titolo Myricae (tamerici), preso da un verso delle Bucoliche, giustificano la definizione data da D’Annunzio di Pascoli come “ultimo erede di Virgilio”(7).

 

Arano (da “Myricae”)

Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano brilla, e dalle fratte
sembra la nebbia mattinal fumare,
arano: a lente grida, uno le lente
vacche spinge; altri semina; un ribatte
le porche con sua marra pazïente;
ché il passero saputo in cor già gode,
e il tutto spia dai rami irti del moro;
e il pettirosso: nelle siepi s'ode
il suo sottil tintinno come d'oro.

 

La lirica, composta tra il 1885 e il 1886, è molto significativa: si può capire, infatti, come la natura svolga il ruolo di rasserenatrice, il poeta sembra rasserenato, quasi pacificato nella visione della vita campestre quotidiana.
Molta attenzione va anche posta alla musicalità del verso: nell’ultimo verso, ad esempio, si nota la sinestesia (accostamento tra percezioni sensoriali differenti) e l’onomatopea di sottile-tintinnio, ma in tutto il componimento è reso melodico dalla rima.

Lavandare  (da “Myricae”)

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:
Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l'aratro in mezzo alla maggese.

Un aratro abbandonato in un campo, il suono delle lavandaie, il vento che soffia, danno una rappresentazione di come possa essere la vita dei campi in un giorno qualsiasi e l’immagine che Pascoli ci dona è vividissima.
Nonostante la natura consoli il poeta, vi è comunque un senso di malinconia negli ultimi versi (vv. 7-10).
La campagna autunnale, il lavoro agricolo, l’umile fatica delle lavandare e il loro stornellare, in questa lirica, anziché dar luogo a una serena descrizione, a un idillio, si risolvono invece in una rappresentazione tutta dominata da arcane corrispondenze fra le cose (aratro e abbandono), da un sottile senso di mestizia”.(3)

Il gelsomino notturno  (da “Canti di Castelvecchio”)

1  E s'aprono i fiori notturni,
nell'ora che penso a' miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
5  Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l'ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
9  Dai calici aperti si esala
l'odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.
13  Un'ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l'aia azzurra
va col suo pigolìo di stelle.
17  Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento...
21  E` l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

Questa lirica fu composta per le nozze dell’amico Gabriele Briganti e pertanto nella poesia è presente un’allusione alla prima notte di nozze e al concepimento del figlio dell’amico.  È questa una lirica moderna in cui vi è «un sottile gioco di rapporti che si svilisce e si banalizza se tradotto in linguaggio prosastico»(3).  È essa l’espressione vera del fanciullino: il fascino della poesia «va colto con criteri di lettura più intuitivi che logici, diversi da quelli che si possono adottare per la poesia del passato»(3)  Siamo  alla fine del giorno, quando inizia per il gelsomino la vera vita e schiude la corolla che “esala l’odore di fragole rosse”, ed è questa l’ora che richiama al poeta memorie di morte.  Immagini simboliche nuove e del «miglior Pascoli»(3) sono ai versi 7-8 (“Sotto l’ali dormono i nidi, come gli occhi sotto le ciglia”) e 15-16 (“La Chioccietta per l’aia azzurra va col suo pigolio di stelle) dove “chiocchietta” è il nome che i pastori danno alla costellazione delle Pleiadi che si trascina per l’aia, il cielo, tutta una covata di pulcini, le stelle.

L'assiuolo  (da “Myricae”)

Dov'era la luna? ché il cielo
notava in un'alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù . . .

Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com'eco d'un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù . . .

Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d'argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s'aprono più? . . .);
e c'era quel pianto di morte. . .
chiù . . .

Anche in questa poesia si fondono temi diversi della poetica pascoliana: non è solo presente il tema della campagna e della natura, ma vi sono anche diversi “temi cosmici”, come la vita, la morte, il mistero che tutto avvolge.
Da una descrizione della campagna (meli e mandorli), Pascoli introduce la figura dell’assiuolo senza nominarlo, ma solo creandone il verso (chiù). Da questo canto, Pascoli capisce come tutta la vita sia dolore ed un fatale precipitare verso la morte: non a caso prima quella dell’assiuolo è una “voce tra i campi”(v. 8), che diventa “singulto” (v.16), per poi terminare come “pianto di morte” (v. 24). Ma vi sono anche altre immagini malinconiche, come le nubi nere, un “grido che fu”, le porte che “non s’apron più”.

 

Poesie delle memorie

 

X Agosto (da “Myricae”)

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de' suoi rondinini.
Ora è là come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido
portava due bambole in dono...
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano
E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
Oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!

È una delle molte poesie in cui Pascoli rievoca la propria tragedia personale: l’uccisione del padre, avvenuta il 10 agosto 1867, giorno di San Lorenzo.  Appare molto diversa dalle altre poesie di Myricae: non vi è l’immagine della natura, ma un discorso simbolico nel quale il poeta, paragonando il padre alla rondine che tornava al nido portando un dono e che fu uccisa, affronta grandi temi metafisici come il dolore e il male.  È presente in modo esplicito il tema del nido (“anche un uomo tornava al suo nido”): un rifugio di affetti familiari che i lutti avevano presto distrutto per poi ricomporlo idealmente soltanto durante la vecchiaia con la compagnia delle due sorelle Ida e Mariù.

La tessitrice (da “Canti di Castelvecchio”)

  Mi son seduto su la panchetta
come una volta... quanti anni fa?
Ella, come una volta, s'è stretta
su la panchetta.
E non il suono d'una parola;
solo un sorriso tutto pietà.
La bianca mano lascia la spola.
Piango, e le dico: Come ho potuto,
dolce mio bene, partir da te?
Piange, e mi dice d'un cenno muto:
Come hai potuto?
Con un sospiro quindi la cassa
tira del muto pettine a sé.
Muta la spola passa e ripassa.
Piango, e le chiedo: Perché non suona
dunque l'arguto pettine più?
Ella mi fissa timida e buona:
Perché non suona?
E piange, e piange - Mio dolce amore,
non t'hanno detto? non lo sai tu?
Io non son viva che nel tuo cuore.
Morta! Sì, morta! Se tesso, tesso
per te soltanto; come, non so;
in questa tela, sotto il cipresso,
accanto alfine ti dormirò. –

La poesia parla dell’esperienza sconvolgente della morte nel ricordo della vita fanciullesca del poeta: non solo la tragedia famigliare, ma anche la morte di questa fanciulla che aveva ispirato al poeta il primo desiderio d’amore.  La figura è accostabile alla Silvia dell’omonima poesia del Leopardi, tuttavia rispetto a questa non è un personaggio nostalgico, piuttosto un’ombra esile, un fantasma che ha solo la forza di rispondere in una sorta di nevrosi alle domande del poeta ripetendo l’ultima parola.  Essa è anche simbolo del nulla entro cui precipita tutta la vita.

Il tema della memoria è ricorrente e molto sentito dal Pascoli.  Anche in poesie apparentemente distanti da esso, il passato torna, o per brevi istanti (“nell'ora che penso a' miei cari” da Il gelsomino notturno) o per divenirne l’aspetto più evidente (“La tessitrice”).


In alcune poesie il ricordo, specie quello dell’infanzia, serve per evadere: «In tal modo Pascoli coglie un tratto reale della psicologia e della condizione dell’uomo moderno: il vagheggiamento di un luogo che si sottragga al caos e alle contraddizioni della società contemporanea, di un’oasi di originale innocenza in cui non giungano gli echi delle violenze e delle brutture della nostra vita, in cui si spengano i contrasti e le lotte, in cui si vanifichino i nostri problemi»(9).
Per evadere da “quest’atomo opaco del Male” rievoca i momenti che precorrono la tragedia famigliare, che riguardano la sua infanzia beata di “La mia sera” (“Mi sembrano canti di culla che fanno ch’io torni com’era… Sentivo mia madre… poi nulla… sul far della sera”).  Al contrario la poesia “X Agosto” affronta il ricordo doloroso della tragedia in cui il poeta incorse in giovane età.  Questo ricordo è presente in molte composizioni, come ne “La cavallina storna” (“O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna”).  Il poeta si serve della sua personale esperienza di dolore, che diviene esperienza di dolore per tutti gli uomini, per trarre la conclusione epicurea che il fato sia impietoso e insondabile.  Come per il Leopardi il poeta parte da fatti personali per poi giungere a comprendere misteri che riguardano l’umanità intera.  A questo «universo diseredato»(4) Pascoli contrappone la religione del “nido”, che «è il nucleo della famiglia, chiuso gelosamente»(4) nel quale possono essere esercitati gli affetti, ritenuti l’unico modo per opporsi alla morte, la quale vanifica tutto.  «È un rifugio intimo e caldo, l’asilo nel quale ci si rinserra vivi, come ci si rinserra morti in quell’altro nido che è il cimitero»(7).


Il nido di Pascoli presenta caratteristiche simili alla “religione della casa e della famiglia” del Verga dei Malavoglia: in entrambi si può trovare rifugio, o da una realtà dolorosa e imperscrutabile, o da una vita di sofferenza, miseria, sfruttamento.
La poesia “La tessitrice” affronta invece il tema dei morti che tornano e parlano con il poeta.  Non vi è quel coinvolgimento emotivo come in “X Agosto”, ma piuttosto una visione di una vita labile, in continua metamorfosi, «un brillare fugace fra abissi d’ombra».
Pascoli ebbe un sentimento doloroso della vita che venne da lui colta come mistero «che tutto avvolge»(1); l’unica certezza è che alla base della vita vi sia la sofferenza.  Nemmeno il ricordo, che per un Leopardi erano le consolanti “rimembranze”, attutiscono questo senso di dolore come fa la natura.
La poesia delle memorie, come si vede già in “X Agosto”, è strettamente connessa con i temi umanitari ma soprattutto cosmici.

 

Poesia di esortazione umanitaria

 

I due fanciulli  (da Primi poemetti)

I
Era il tramonto: ai garruli trastulli
eran intenti, nella pace d'oro
dell'ombroso viale, i due fanciulli.
Nel gioco, serio al pari d'un lavoro,
corsero a un tratto, con stupor dei tigli,
tra lor parole grandi più di loro.
A sè videro nuovi occhi, cipigli
non più veduti, e l'uno e l'altro, esangue,
ne' tenui diti si trovò gli artigli.
e in cuore un'acre bramosia di sangue:
e lo videro fuori, essi i fratelli,
l'uno dell'altro per il volto, il sangue!
Ma tu, pallida oh! i tuoi cari capelli
strappati e pesti, o madre pia, venivi
su loro, e li staccavi i lioncelli,
ed "A letto" intimasti "ora, cattivi!".
II
A letto, il buio li fasciò, gremito
d'ombre più dense; vaghe ombre, che pare
che d'ogni angolo al labbro alzino il dito.
Via via fece più grosse onde e più rare
il lor singhiozzo, per non so che nero
che nel silenzio si sentia passare.
L'uno si volse, e l'altro ancor, leggero:
nel buio udì l'un cuore, non lontano,
il calpestìo dell'altro passeggero.

Il messaggio di fraternità e pace che il poeta deriva dal suo profondo senso di umanità è espresso con toni forti nella poesia “I due fanciulli”.  Paragonando il litigio fra due fanciulli alla violenza fra gli uomini, Pascoli mostra come siano vani i motivi che spingono all’odio se confrontati con l’immensità del destino che su di essi incombe. 

 

 

Dopo breve ora, tacita, pian piano,
venne la madre, ed eslporò col lume
velato un poco dalla rosea mano.
Guardò sospesa, e buoni oltre il costume
dormir li vide, l'uno all'altro stretto
con le sue bianche alucce senza piume;
e rincalzò, con un sorriso, il letto.
III
Uomini, nella truce ora dei lupi,
pensate all'ombra del destino ignoto
che ne circonda, ed a' silenzi cupi
che regnano oltre il breve suon del moto
vostro e il fragore della vostra guerra,
ronzìo d'un'ape dentro il bugno vuoto.
Uomini, pace! Nella prona terra
troppo è il mistero: e solo chi procaccia
d'aver fratelli in suo timor, non erra.
Pace, fratelli! e fate che le braccia
ch'ora o poi tenderete ai più vicini,
non sappiano la lotta e la minaccia.
E buoni veda voi dormir nei lini
placidi, e bianchi, quando non  intesa,
quando non vista sopra voi si chini
la Morte con la sua lampada accesa.

 

 

Il poeta quindi lancia un messaggio forte e diretto: poiché tutti gli uomini sono fratelli egli alfine grida “Pace, fratelli”.
I fanciulli, infatti, nella notte (la morte che si avvicina) si abbracciano, sostenendosi l’un l’altro.

Appurato che la realtà è fatta di sofferenza e mistero, Pascoli cerca il motivo di questo male non ritrovandolo come aveva fatto il Leopardi nella natura: per il poeta la natura è “madre dolcissima” e consolatrice.  Egli ritiene che il male sia un prodotto degli uomini: essi, dimentichi della caducità della vita e delle cose umane si impegnano in contrasti con i quali non fanno altro che complicare la loro misera condizione.  Questa concezione pare derivi dalla sua personale esperienza di dolore: «Il poeta, che ha fatto sin dalla fanciullezza l’esperienza del male, della sventura e della ingiustizia, accoglie nel suo petto la tristezza che è nelle cose e quell’altra che deriva dagli uomini, e se non può che patire soltanto quella prima, in desolato desiderio di pianto, si leva ad esortare gli uomini ad amarsi, in nome della comunanza del loro oscuro destino».(1)  Si tratta, come vede, d'un messaggio vagamente cristiano, privo però d'un tema essenziale del Cristianesimo, ossia del riconoscimento della responsabilità individuale, e fondato, d'altra parte, sulla volontà di giustificazione della vita e su una ricerca del divino che rimasero, nel Pascoli, sempre insoddisfacente.
Risulta evidente la somiglianza fra il Pascoli e il Leopardi della “Ginestra”: entrambi, colto il limite umano, esortano gli uomini ad avere consapevolezza del proprio destino e ad unirsi in una catena di solidarietà e fratellanza universale (“Uomini, pace! Nella prona terra troppo è il mistero: e solo chi procaccia d'aver fratelli in suo timor, non erra.”).  Manca però nel Pascoli «la volontà della lotta eroica contro il destino e la natura»(4).

 

Temi cosmici

 

Nella ultima parte della sua produzione Pascoli aderisce completamente alla nuova «atmosfera culturale, aristocratica ed evasiva»(4) del Decadentismo, avvicinandosi al D’Annunzio (che chiama suo “fratello maggiore e minore” (4)).  Per questo cerca di dare alla sua poesia un’impronta più intellettualistica che tuttavia finisce per negare la poetica del fanciullino: il linguaggio specialistico (“Pezeteri”) non era più controbilanciato da un linguaggio pregrammaticale, qui totalmente assente, e l’unico legame con il fanciullino  il permanere di simboli (tutta la poesia “Il libro”).
I temi cosmici trattano dei problemi in parte già presenti nella sua poesia precedente: sperduto nell’immensità degli spazi cosmici il poeta percepisce un senso di sgomento davanti all’essenza indecifrabile dell’universo. “Il libro” ad esempio tratta della vana ricerca umana del mistero della vita e del cosmo; vana perché questo mistero è insondabile.  Ulisse è difatti un uomo che cerca la risposta a queste domande (in particolare “Chi sono io?”) ma muore senza conoscerla.  Alexandros invece rappresenta il secondo momento della ricerca: quello dell’uomo che dopo aver bramato gloria, avverte il limite oltre il quale solo il mistero regna.
Nella sua ripresa dei classici, non solo nei contenuti, ma anche nello stile («nell’Ulisse riesce a ricreare certi toni della poesia omerica»(3)), è chiaramente visibile l’influenza carducciana, che nel fanciullino aveva criticato («Il fanciullino nemmeno è, sia con pace del Maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri»).
La critica tende a stroncare questa ultima produzione poetica del Pascoli, ritenendo che sia troppo lontana dalla sua reale sensibilità, piuttosto un tentativo di conformare la sua produzione alla moda borghese che al momento imperava: «era il piegarsi, più o meno conscio, al nascente mercato letterario borghese che imponeva agli artisti le proprie esigenze».  «C’è qualcosa di smisurato nelle sue meditazioni sul grande problema della vita.  Egli non era sostenuto né da un cuore veramente grande né da una mente forte, e si assunse una parte che non era la sua (Momigliano)».(5) 

 

Il libro (da Primi poemetti)

 

Questo componimento è chiaramente simbolista: è evidente che il libro rappresenti il mistero della vita e dell’universo, l’uomo raffiguri l’umanità intera, la mano la ragione, ma ogni cosa ne rappresenta un’altra: la quercia (v. 1) è la natura, il tarlo è il tempo che passa, i favolosi paesaggi (v. 27-39) raffigurano l’ignoto, le nubi le illusioni.
Pascoli vuole mostrare come il mistero che avvolge la vita e l’universo sia impossibile da decifrare per l’uomo, proprio come il libro.

 

Il libro

I
Sopra il leggìo di quercia è nell'altana,
aperto, il libro. Quella quercia ancora,
esercitata dalla tramontana,
viveva nella sua selva sonora;
e quel libro era antico. Eccolo: aperto,
sembra che ascolti il tarlo che lavora.
E sembra ch'uno (donde mai? non, certo,
dal tremulo uscio, cui tentenna il vento
delle montagne e il vento del deserto,
sorti d'un tratto...) sia venuto, e lento
sfogli - se n'ode il crepitar leggiero -
le carte. E l'uomo non vedo io: lo sento,
invisibile, là, come il pensiero...
II
Un uomo è là, che sfoglia dalla prima
carta all'estrema, rapido, e pian piano
va, dall'estrema, a ritrovar la prima.
E poi nell'ira del cercar suo vano
volta i fragili fogli a venti, a trenta,
a cento, con l'impazïente mano.
E poi li volge a uno a uno, lenta-
mente, esitando; ma via via più forte,
più presto, i fogli contro i fogli avventa.
Sosta... Trovò? Non gemono le porte
più, tutto oscilla in un silenzio austero.
Legge?... Un istante; e volta le contorte
pagine, e torna ad inseguire il vero.
III
E sfoglia ancora; al vespro, che da nere
nubi rosseggia; tra un errar di tuoni,
tra un alïare come di chimere.
E sfoglia ancora, mentre i padiglioni
tumidi al vento l'ombra tende, e viene
con le deserte costellazïoni
la sacra notte. Ancora e sempre: bene
io n'odo il crepito arido tra canti
lunghi nel cielo come di sirene.
Sempre. Io lo sento, tra le voci erranti,
invisibile, là, come il pensiero,
che sfoglia, avanti indietro, indietro avanti,
sotto le stelle, il libro del mistero.

 

L’ultimo viaggio (da Poemi conviviali)

Ne “L’ultimo viaggio” Pascoli si immagina un Ulisse invecchiato che ripercorre sognando le tappe del suo lungo errare ma ad ogni tappa si accorge che i suoi incontri non furono altro che illusioni dei sensi.  Come per gli uomini di fine ottocento crollano le sue certezze e non è più sicuro neppure di se stesso (la domanda “Chi sono?”) e pertanto il suo ultimo sogno si spegne con il naufragio davanti all’isola di Calipso.  Pascoli, da grande conoscitore del mondo classico (ricordiamo le sue Carmina latine) «riesce a ricreare certi toni della poesia omerica»(3) ma in essi trasferisce la sua sensibilità inquieta, quei turbamenti che furono suoi e dei suoi contemporanei: l’angoscia esistenziale ma anche l’esaltazione dell’io, oltre che la solitudine.
L’ultimo viaggio (parti XXIII e XIV)

XXIII
E il vecchio vide che le due Sirene,
le ciglia alzate su le due pupille,
avanti sé miravano, nel sole
fisse, od in lui, nella sua nave nera.
E su la calma immobile del mare,
alta e sicura egli inalzò la voce.
Son io! Son io, che torno per sapere!
Ché molto io vidi, come voi vedete
me. Sì; ma tutto ch'io guardai nel mondo,
mi riguardò; mi domandò: Chi sono?
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E il Vecchio vide un grande mucchio d'ossa
d'uomini, e pelli raggrinzate intorno,
presso le due Sirene, immobilmente
stese sul lido, simili a due scogli.
Vedo. Sia pure. Questo duro ossame
cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!
Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,
prima ch'io muoia, a ciò ch'io sia vissuto!
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E s'ergean su la nave alte le fronti,
con gli occhi fissi, delle due Sirene.
Solo mi resta un attimo. Vi prego!
Ditemi almeno chi sono io! chi ero!
E tra i due scogli si spezzò la nave.
XIV
Ed ecco usciva con la spola in mano,
d'oro, e guardò. Giaceva in terra, fuori
del mare, al piè della spelonca, un uomo,
sommosso ancor dall'ultima onda: e il bianco
capo accennava di saper quell'antro,
tremando un poco; e sopra l'uomo un tralcio
pendea con lunghi grappoli dell'uve.
Era Odisseo: lo riportava il mare
alla sua dea: lo riportava morto
alla Nasconditrice solitaria,
all'isola deserta che frondeggia
nell'ombelico dell'eterno mare.
Nudo tornava chi rigò di pianto
le vesti eterne che la dea gli dava;
bianco e tremante nella morte ancora,
chi l'immortale gioventù non volle.
Ed ella avvolse l'uomo nella nube
dei suoi capelli; ed ululò sul flutto
sterile, dove non l'udia nessuno:
- Non esser mai! non esser mai! più nulla,
ma meno morte, che non esser più! -

 

 

Alexandros (da Poemi conviviali)
I
- Giungemmo: è il Fine. O sacro Araldo, squilla!
Non altra terra se non là, nell'aria,
quella che in mezzo del brocchier vi brilla,
o Pezetèri: errante e solitaria
terra, inaccessa. Dall'ultima sponda
vedete là, mistofori di Caria,
l'ultimo fiume Oceano senz'onda.
O venuti dall'Haemo e dal Carmelo,
ecco, la terra sfuma e si profonda
dentro la notte fulgida del cielo.
II
Fiumane che passai! voi la foresta
immota nella chiara acqua portate,
portate il cupo mormorìo, che resta.
Montagne che varcai! dopo varcate,
sì grande spazio di su voi non pare,
che maggior prima non lo invidïate.
Azzurri, come il cielo, come il mare,
o monti! o fiumi! era miglior pensiero
ristare, non guardare oltre, sognare:
il sogno è l'infinita ombra del Vero.
III
Oh! più felice, quanto più cammino
m'era d'innanzi; quanto più cimenti,
quanto più dubbi, quanto più destino!
Ad Isso, quando divampava ai vènti
notturno il campo, con le mille schiere,
e i carri oscuri e gl'infiniti armenti.
A Pella! quando nelle lunghe sere
inseguivamo, o mio Capo di toro,
il sole; il sole che tra selve nere,
sempre più lungi, ardea come un tesoro.

 

IV
Figlio d'Amynta! io non sapea di meta
allor che mossi. Un nomo di tra le are
intonava Timotheo, l'auleta:
soffio possente d'un fatale andare,
oltre la morte; e m'è nel cuor, presente
come in conchiglia murmure di mare.
O squillo acuto, o spirito possente,
che passi in alto e gridi, che ti segua!
ma questo è il Fine, è l'Oceano, il Niente...
e il canto passa ed oltre noi dilegua. -
V
E così, piange, poi che giunse anelo:
piange dall'occhio nero come morte;
piange dall'occhio azzurro come cielo.
Ché si fa sempre (tale è la sua sorte)
nell'occhio nero lo sperar, più vano;
nell'occhio azzurro il desiar, più forte.
Egli ode belve fremere lontano,
egli ode forze incognite, incessanti,
passargli a fronte nell'immenso piano,
come trotto di mandre d'elefanti.
VI
In tanto nell'Epiro aspra e montana
filano le sue vergini sorelle
pel dolce Assente la milesia lana.
A tarda notte, tra le industri ancelle,
torcono il fuso con le ceree dita;
e il vento passa e passano le stelle.
Olympiàs in un sogno smarrita
ascolta il lungo favellìo d'un fonte,
ascolta nella cava ombra infinita
le grandi quercie bisbigliar sul monte.

 

La poesia “Alexandros” riprende la figura di Alessandro Magno che avevano dato i medievali Romanzi di Alessandro: quella di un eroe assetato di conoscenza, teso a raggiungere l’ignoto (“soffio possente d'un fatale andare, oltre la morte; e m'è nel cuor, presente come in conchiglia murmure di mare.”).  Nelle prime quattro sezioni del poemetto vediamo Alessandro che fa un discorso alle sue truppe: ormai ha conquistato tutto e sperimentato tutto il visibile, giungendo ai confini della terra, al margine col fiume oceano, oltre il quale vi è solo la luna da conquistare.  Tutti questi sono ovviamente simboli: la terra è la conoscenza il cui confine è delimitato dall’oceano, che rappresenta il mistero, l’ignoto.  Nelle ultime due sezioni l’eroe si rivolge invece al suo passato, ripercorrendo il percorso per arrivare fino a quel punto conclusivo.  Appare più evidente il tema che è centrale nella poesia: l’impossibilità di raggiungere il sogno.  Nella quinta sezione è il poeta a parlare che sottolinea il dileguarsi delle illusioni dell’eroe, così come nell’Ulisse avevamo il cadere delle certezze che erano accostabili alle inquietudini dell’uomo di fine ottocento.  Per consolarsi di questo scacco esistenziale l’eroe ritorna naturalmente all’immagine del nido familiare ricordando le sorelle (“In tanto nell'Epiro aspra e montana filano le sue vergini sorelle pel dolce Assente la milesia lana.”) e la madre (“Olympiàs in un sogno smarrita ascolta il lungo favellìo d'un fonte, ascolta nella cava ombra infinita le grandi quercie bisbigliar sul monte”).  Vi è un intrecciarsi nuovamente di materia classica e di sensibilità moderna, ugualmente che nell’Ulisse.

Bibliografia:

  1. Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Principato Editore, 1962
  2. Enciclopedia della letteratura Garzanti, 1997
  3. Salvatore Guglielmino, Guida al novecento   ed. Principato, 1998
  4. Mario Pazzaglia, Il Novecento   ed. Zanichelli 2000
  5. Binni, Scrivano, Antologia della critica letteraria, Principato Editore, 1968
  6. Fubini, Bonora, Antologia della critica letteraria, Petrini Editore, 1975
  7. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Palombo Editore, 1991
  8. Giovanni Pascoli a cura di Sandro Onofri, con introduzione di G. Petronio; L’Unità, 1993
  9. Carlo Salinari, Profilo storico della letteratura italiana, Editori Riuniti, 1972

 

Fonte: http://www.ghiacciato.it/scientifico/ita/Giovanni%20Pascoli.doc

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli è stato uno dei maggiori poeti italiani di fine ottocento. Nonostante la classicità della forma esterna, Pascoli ha saputo rinnovare la poesia nei suoi contenuti, toccando temi fino ad allora trascurati dai grandi poeti, capace di far capire nella sua prosa il piacere delle cose più semplici viste con la sensibilità infantile che ogni uomo porta dentro di sé. E’ sempre stato nella vita un personaggio malinconico, rassegnato alle sofferenze della vita e alle ingiustizie della società, convinto che la società che predominava in quel periodo fosse troppo forte per essere vinta. Nonostante ciò seppe conservare un senso profondo di umanità e di fratellanza.
Giovanni Pascoli nacque il 31 dicembre 1855 a San Mauro di Romagna (provincia di Forlì), quarto di dieci fratelli.   Il padre Ruggero era amministratore della tenuta La Torre dei principi di Torlonia. L'ambiente famigliare, di tipo patriarcale e tradizionalmente legato ai valori della cultura agreste, gli garantì fino all'età di dodici anni serenità e sicurezza: poté così frequentare il liceo Raffaello di Urbino, assai rinomato negli stati pontifici e nella vicina Romagna, regione di antiche tradizioni umanistiche.
La morte del padre Il 10 agosto del 1867 il padre Ruggero venne assassinato con una fucilata mentre tornava a casa da Cesena. Le ragioni e gli autori del delitto rimasero per sempre oscuri, almeno ufficialmente. Ma il trauma lasciò segni profondi nella vita di Giovanni. La famiglia cominciò dapprima a perdere il proprio status economico e poi a subire una serie impressionante di altri lutti, disgregandosi: costretti a lasciare la tenuta, l'anno successivo morirono la madre e la sorella Margherita, nel '71 il fratello Luigi e nel '76 il fratello maggiore Giacomo, che aveva tentato di ricostituire il nucleo famigliare. Pascoli dovette lasciare il liceo di Urbino, ma poté continuare gli studi a Firenze grazie all'interessamento di un suo professore.


Al periodo degli studi liceali risalgono alcuni componimenti d'occasione, in versi, che vanno visti alla luce delle esercitazioni retoriche in uso a quel tempo negli istituti religiosi. Ma sicuramente la fantasia di Pascoli cominciava già a elaborare, a livelli profondi, tutte quelle impressioni sentimentali e ambientali che le tragedie famigliari avevano scaricato su di lui.
Comunque per alcuni anni restò un ragazzo vivace, volitivo e tenace nell'impegno a terminare il liceo e a cercare i mezzi per gli studi universitari, nonché nel puntiglio, sempre frustrato, nel ricercare e perseguire l'assassino del padre. Il punto di rottura avvenne con la detenzione nel carcere di Bologna, in seguito a una retata della polizia tra i socialisti che avevano organizzato una manifestazione contro il governo a cui il giovane Pascoli aveva aderito più per curiosità che per convinzione politica. L'isolamento forzato - dopo la goliardica esperienza dell'università e dell'impegno politico nei movimenti della sinistra - lo costrinse forse a riflettere su di sé. È da qui che cominciò quella che la critica storica ha registrato come la regressione infantile di Pascoli.

Nella vita dei letterati italiani degli ultimi due secoli ricorre pressoché costantemente la contrapposizione problematica tra mondo cittadino e mondo agreste, intesi come portatori di valori opposti; mentre la campagna appare sempre più come il "paradiso perduto" dei valori morali e culturali, la città diviene simbolo di una condizione umana maledetta e snaturata, vittima della degradazione morale causata da un ideale di progresso puramente materiale.
Questa contrapposizione può essere interpretata sia alla luce dell'arretratezza economica e culturale di gran parte dell'Italia rispetto all'evoluzione industriale delle grandi nazioni europee, sia come conseguenza della divisione politica e della mancanza di una grande metropoli unificante come Parigi per la Francia e Londra per l'Inghilterra.I "luoghi" poetici della "terra", del "borgo", dell'"umile popolo" che ricorrono fino agli anni del secondo dopoguerra non fanno che ripetere il sogno di una piccola patria lontana, che l'ideale unitario vagheggiato o realizzato non spegne mai del tutto. Decisivo nella continuazione di questa tradizione fu proprio Pascoli, anche se i suoi motivi non furono quelli tipicamente ideologici degli altri scrittori, ma nacquero da radici più intimistiche e soggettive.
Costretto dalla sua professione di docente universitario a lavorare in città, anche se non proprio in metropoli tentacolari (Bologna, Firenze e Messina, ad esempio), egli non si radicò mai in esse, preoccupandosi sempre di garantirsi una "via di fuga" verso il proprio mondo di origine, quello agreste. Addirittura si può dire che la vita moderna della città non entrò mai, neppure come antitesi, come contrapposizione polemica, nella poesia pascoliana: egli, in un certo senso, non uscì mai dal suo mondo, che costituì in tutta la sua produzione letteraria l'unico grande tema, una specie di microcosmo chiuso su se stesso, come se il poeta avesse bisogno di difenderlo da un minaccioso disordine esterno che però rimase innominato e oscuro, privo di riferimenti e di identità, come lo era stato l'assassino di suo padre. Sull'ambiguo e tormentato rapporto con le sorelle - il "nido" famigliare che ben presto divenne "tutto il mondo" della poesia di Pascoli - ha scritto parole di estrema chiarezza il poeta Mario Luzi: «Di fatto si determina nei tre che la disgrazia ha diviso e ricongiunto una sorta di infatuazione e mistificazione infantili, alle quali Ida è connivente solo in parte. Per il Pascoli si tratta in ogni caso di una vera e propria regressione al mondo degli affetti e dei sensi, anteriore alla responsabilità; al mondo da cui era stato sbalzato violentemente e troppo presto.


Possiamo notare due movimenti concorrenti: uno, quasi paterno, che gli suggerisce di ricostruire con fatica e pietà il nido edificato dai genitori; di investirsi della parte del padre, di imitarlo. Un altro, di ben diversa natura, gli suggerisce invece di chiudersi là dentro con le piccole sorelle che meglio gli garantiscono il regresso all'infanzia, escludendo di fatto, talvolta con durezza, gli altri fratelli.
In pratica il Pascoli difende il nido con sacrificio, ma anche lo oppone con voluttà a tutto il resto: non è solo il suo ricovero ma anche la sua misura del mondo. Tutto ciò che tende a strapparlo di lì, in qualche misura lo ferisce; altre dimensioni della realtà non gli riescono, positivamente, accettabili. Per renderlo più sicuro e profondo lo sposta dalla città, lo colloca tra i monti della Garfagnana dove può oltre tutto mimetizzarsi con la natura.» [M. Luzi, Giovanni Pascoli].

La formazione letteraria. La fase cruciale della formazione letteraria di Pascoli va fatta risalire ai nove anni trascorsi a Bologna come studente alla Facoltà di Lettere (1873 - 1882). Allievo di Carducci, Pascoli visse nella cerchia ristretta dell'ambiente creatosi attorno al grande poeta gli anni più movimentati della sua vita. Qui, protetto comunque dalla naturale dipendenza tra maestro e allievo, Pascoli non ebbe bisogno di alzare barriere nei confronti della realtà, dovendo limitarsi a seguire gli indirizzi e i modelli del suo corso di studi: i classici, la filologia, la letteratura italiana.
Nel '75 perse la borsa di studio e con essa l'unico mezzo di sostentamento su cui poteva contare. La frustrazione e i disagi materiali lo spinsero verso il movimento socialista in quella che fu l'unica breve parentesi politica della sua vita. Come già menzionato, nel 1879 venne arrestato e assolto dopo tre mesi di carcere; l'ulteriore senso di ingiustizia e la delusione lo riportarono nell'alveo d'ordine del maestro Carducci e al compimento degli studi con una tesi in Poesia greca sul poeta Alceo.
Ai margini degli studi veri e propri, egli comunque condusse una vasta esplorazione del mondo letterario e anche scientifico straniero, attraverso le riviste francesi specializzate come la «Revue des deux Mondes», che lo misero in contatto con l'avanguardia simbolista, e la lettura dei testi scientifico-naturalistici. Tali testi utilizzavano la descrizione naturalistica - la vita degli insetti soprattutto, per quell'attrazione per il microcosmo così caratteristica del romanticismo decadente di fine Ottocento - in chiave poetica; l'osservazione era aggiornata sulle più recenti acquisizioni scientifiche dovute al perfezionamento del microscopio e della sperimentazione di laboratorio, ma poi veniva filtrata letterariamente attraverso uno stile lirico in cui dominava il senso della meraviglia e della fantasia.Era un atteggiamento positivista "romanticheggiante" che tendeva a vedere nella natura l'aspetto pre-cosciente del mondo umano.
Coerentemente con questi interessi, vi fu anche quello per la cosiddetta "filosofia dell'inconscio" del tedesco Eduard von Hartmann, l'opera che aprì quella linea di interpretazione della psicologia in senso anti-meccanicistico che sfociò nella psicanalisi freudiana È evidente in queste letture - come in quella successiva dell'opera dell'inglese James Sully sulla "psicologia dei bambini" - un'attrazione di Pascoli verso il "mondo piccolo" dei fenomeni naturali e psicologicamente elementari che tanto fortemente caratterizzò tutta la sua poesia. E non solo la sua.
Per tutto l'Ottocento la cultura europea aveva coltivato un particolare culto per il mondo dell'infanzia, dapprima in un senso pedagogico e culturale più generico, poi, verso la fine del secolo, con un più accentuato intendimento psicologico. I Romantici avevano paragonato, sulla scia di Vico e di Rousseau, l'infanzia allo stato primordiale "di natura" dell'umanità, inteso come una sorta di età dell'oro. Verso gli anni '80 si cominciò invece ad analizzare in modo più realistico e scientifico la psicologia dell'infanzia, portando l'attenzione sul bambino come individuo in sé, caratterizzato da una propria realtà di riferimento. La letteratura per l'infanzia aveva prodotto in meno di un secolo una quantità considerevole di libri che costituirono la vera letteratura di massa fino alla fine dell'Ottocento. Libri per i bambini, come le innumerevoli raccolte di fiabe dei fratelli Grimm (1822), di H.C. Andersen (1872), di Ruskin (1851), Oscar Wilde(1888), o come i capolavori di Carroll, Alice nel paese delle meraviglie (1865). Libri di avventura adatti anche all'infanzia, come i romanzi di Jiules Verne, Kipling, Twain, Salgari,o libri sull'infanzia, dall'intento moralistico ed educativo, come “Senza famiglia” di Malot (1878), “Il piccolo Lord Faunthleroy” di F.H. Burnett (1886), “Piccole donne” di Alcott (1869) e i celeberrimi “Cuore” di De Amicis (1886) e “Pinocchio” di Carlo Collodi.
La poetica del fanciullino. Tutto questo ci serve a ricondurre, naturalmente, la teoria pascoliana della poesia come intuizione pura e ingenua, espressa nella poetica del "Fanciullino",ai riflessi di un vasto ambiente culturale europeo che era assolutamente maturo per accogliere la sua proposta. In questo senso non si può parlare di una vera novità, quanto piuttosto della sensibilità con cui egli seppe cogliere un gusto diffuso e un interesse già educato, traducendoli in quella grande poesia che all'Italia mancava dall'epoca di Leopardi. La poesia come "mondo" che protegge dal mondo.

Dopo la laurea conseguita a Bologna nel 1882 ebbe inizio la sua carriera di professore di latino e greco nei licei di Matera e di Massa. Qui volle vicino a sé le due sorelle minori Ida e Maria, con le quali tentò di ricostituire il primitivo nucleo famigliare. Dal '87 al '95 insegnò a Livorno.
Intanto iniziava la collaborazione con la rivista «Vita nuova», su cui uscirono le prime poesie di Myricae (la raccolta continuò a rinnovarsi in cinque edizioni fino al 1900).
Vinse inoltre per ben tredici volte di seguito la medaglia d'oro al concorso di poesia latina di Amsterdam, col poemetto Veianus e coi successivi Carmina. Nel '94 fu chiamato a Roma per collaborare col Ministero della pubblica istruzione; nella capitale pubblicò la prima versione dei Poemi conviviali.
Nel 1895 si trasferì con la sorella Maria nella casa di Castelvecchio, che divenne la sua residenza stabile.
Le trasformazioni politiche e sociali che agitavano gli anni di fine secolo e preludevano alla catastrofe bellica europea e all'avvento del Fascismo gettarono progressivamente Pascoli, già emotivamente provato dall'ulteriore fallimento del suo tentativo di ricostruzione famigliare, in una condizione di insicurezza e pessimismo ancora più marcati. Nel '99 scrisse al pittore De Witt: «C'è del gran dolore e del gran mistero nel mondo; ma nella vita semplice e familiare e nella contemplazione della natura, specialmente in campagna, c'è gran consolazione, la quale pure non basta a liberarci dall'immutabile destino».
In questa contrapposizione tra l'esteriorità della vita sociale (e cittadina) e l'interiorità dell'esistenza famigliare (e agreste) si racchiude l'idea dominante - accanto a quella della morte - della poesia pascoliana.
Dalla casa di Castelvecchio, dolcemente protetta dai boschi della Garfagnana vicino al borgo medievale di Barga, Pascoli non "uscì" più (psicologicamente parlando) fino alla morte.
Pur continuando in un intenso lavoro di pubblicazioni poetiche e saggistiche, e accettando nel 1905 di succedere a Carducci sulla cattedra dell'Università di Bologna, egli ci ha lasciato del mondo una visione univocamente ristretta attorno ad un "centro", rappresentato dal mistero della natura e dal rapporto tra amore e morte.
Fu come se, sopraffatto da un'angoscia impossibile a dominarsi, il poeta avesse trovato nello strumento intellettuale del componimento poetico l'unico mezzo per costringere le paure e i fantasmi dell'esistenza in un recinto ben delimitato, al di fuori del quale egli potesse continuare una vita di normali relazioni umane. A questo "recinto" poetico egli lavorò con straordinario impegno creativo, costruendo una raccolta di versi e di forme che la letteratura italiana non vedeva, per complessità e varietà, da tempo.
Anche se l'ultima fase della produzione pascoliana è ricca di tematiche socio-politiche (Odi e inni del 1911, i Poemi italici e i Poemi del Risorgimento, postumi; nonché il celebre discorso “La grande Proletaria si è mossa" tenuto nel 1911 in occasione di una manifestazione a favore dei feriti della guerra di Libia), non c'è dubbio che la sua opera più significativa è rappresentata dai volumi poetici che comprendono le raccolte di Myricae e dei Canti di Castelvecchio (1903). Il "mondo" di Pascoli è tutto lì: la natura come luogo dell'anima dal quale contemplare la morte come ricordo dei lutti privati.
Uno dei tratti salienti per i quali Pascoli è passato alla storia della letteratura è la cosiddetta poetica del fanciullino, da egli stesso così bene esplicitata appunto nello scritto omonimo apparso sulla rivista " Il Marzocco " nel 1897.  In tale scritto, Pascoli dà una definizione assolutamente compiuta - almeno secondo il suo punto di vista - della poesia, vista come la perenne capacità di stupirsi tipica del mondo infantile, in una disposizione irrazionale che permane nell'uomo anche quando questi si è ormai allontanato, almeno cronologicamente, dall'infanzia propriamente intesa. Poesia quindi non come ragione o, peggio, come semplice logos, ma come possibilità di attribuire significati alle cose che ci circondano, viste da un punto di vista assolutamente soggettivo.
Per il Pascoli il fanciullino diviene simbolo della purezza e del candore, che sopravvivono nell'uomo adulto; il fanciullino ha le seguenti caratteristiche:

  • "Rimane piccolo anche quando noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce ed egli fa sentire il suo tinnulo squillo come di campanella".
  • "Piange e ride senza un perché di cose, che sfuggono ai nostri sensi ed alla nostra ragione".
  • Guarda tutte le cose con stupore e con meraviglia, non coglie i rapporti logici di causa- effetto, ma INTUISCE.
  • "Scopre nelle cose le relazioni più ingegnose".
  • Riempie ogni oggetto della propria immaginazione e dei propri ricordi (soggettivazione), trasformandolo in simbolo.

Il poeta allora mantiene una razionalità di fondo, organizzatrice della metrica poetica, ma:

  • Possiede una sensibilità speciale, che gli consente di caricare di significati ulteriori e misteriosi anche gli oggetti più comuni;
  • Comunica verità latenti agli uomini: è "Adamo", che mette nome a tutto ciò che vede e sente (secondo il proprio personale modo di sentire, che tuttavia ha portata universale).
  • Deve saper combinare il talento della fanciullezza (saper vedere), con quello della vecchiaia (saper dire);
  • Coglie l'essenza delle cose e non la loro apparenza fenomenica.

La poesia, quindi, è tale solo quando riesce a parlare con la voce del fanciullo ed è vista come la perenne capacità di stupirsi tipica del mondo infantile, in una disposizione irrazionale che permane nell'uomo anche quando questi si è ormai allontanato, almeno cronologicamente, dall'infanzia propriamente intesa. È una realtà ontologica (che riguarda la natura e la conoscenza dell’essere come oggetto in sé). Ha scarso rilievo per Pascoli la dimensione storica (egli trova suoi interlocutori in Omero, Virgilio, come se non vi fossero secoli e secoli di mezzo): la poesia vive fuori dal tempo ed esiste in quanto tale, ma per essere poeta è necessario confondersi con la realtà circostante senza che il proprio punto di vista personale e preciso interferisca: il poeta si impone la rinuncia a parlare di se stesso. È vero che la vicenda autobiografica dell'autore caratterizza la sua poesia, ma con connotazioni di portata universale;
Pascoli fu anche commentatore e critico dell'opera di Dante e diresse inoltre la collana editoriale "Biblioteca dei popoli". Nel 1912 morì a Bologna, nel cui Ateneo insegnava da sette anni succedendo al Carducci, e venne tumulato nel cimitero di Castelvecchio di Barga, dove verrà sepolta anche l’amata sorella Maria.

MYRICAE
Il titolo della prima raccolta poetica di Giovanni Pascoli, Myricae, riprende un verso che l'autore pone come epigrafe all’inizio della raccolta: «Arbusta iuvant, humilesque myricae» (Virgilio Egloga IV, 2). Lo stesso Pascoli illustra il significato di questo titolo: « Myricae [tamerici, piccoli arbusti comuni sulle spiagge] è la parola che Virgilio usa per indicare i suoi carmi bucolici: poesia che si eleva poca da terra – humilis».  Myricae apparve per la prima volta il 10 agosto 1890, come raccolta di 9 poesie, tuttavia la prima edizione ufficiale è del luglio 1891 e comprende 22 liriche. Le successive edizioni apparvero nel gennaio 1892 (72 liriche); marzo 1894 (116); febbraio 1897 (152); nel 1900 (156). Un'importate Prefazione dell'autore, in occasione della terza edizione del 1894, favorisce l'interpretazione autentica dell'opera, dedicata alla memoria del padre («A Ruggiero Pascoli, mio padre»):
«Ma l’uomo che da quel nero ha oscurata la vita, ti chiama a benedire la vita, che è bella, tutta bella; cioè sarebbe; se noi non la guastassimo a noi e agli altri. Bella sarebbe; anche nel pianto che fosse però rugiada di sereno, non scroscio di tempesta; anche nel momento ultimo, quando gli occhi stanchi di contemplare si chiudono come a raccogliere e riporre nell’anima la visione, per sempre. Ma gli uomini amarono più le tenebre che la luce, e più il male altrui che il proprio bene. E del male volontario danno a torto, biasimo alla natura, madre dolcissima, che anche nello spengerci sembra che ci culli e addormenti. Oh! Lasciamo fare a lei, che sa quello che fa, e ci vuol bene.» Livorno, marzo 1894.
I temi principali che caratterizzano la raccolta poetica sono:

  • La rievocazione dei famigliari scomparsi
  • il mistero che avvolge il mondo
  • l’incapacità del sapiente di scoprire e rivelare il mistero dell’universo
  • la vanità della vita
  • la rievocazione della morte del padre (X Agosto, dove prevale tutto il dolore, il pessimismo e l'impotenza di fronte al male del mondo)
  • la rappresentazione della natura vista nei suoi momenti più inquietanti e sinistri (L’Assiuolo), ma la natura è vista anche in altri particolari momenti della vita quotidiana (come Temporale, Novembre, Il lampo, Il Tuono, ecc…);
  • l’attività del poeta, che cerca di creare sensazioni gradevoli, ma non si sente abbastanza apprezzato dalla gente;
  • il disamore per la vita ricevuta dalla madre scomparsa
  • il sogno
  • Questi temi si intrecciano con il dolore per i bambini sottratti alla vita e altri temi ancora, solo accennati, suggeriti, sparsi tra le immagini e le scene della campagna e della natura. Sono versi isolati in mezzo a visioni campestri e astrali e a immagini simboliche che esprimono i sentimenti inquieti e malinconici del poeta.

«La raccolta si compone di brevi frammenti lirici e bozzetti che descrivono, a rapidi tocchi, fenomeni naturali, proiezioni di memorie, inquietudini e suggestioni simboliche» (Beatrice Panebianco).
Myricae è un’opera eterogenea in cui prevale l’oscurità del significato della vita e l'inconoscibilità del mistero dell’universo. In sintesi, è una rievocazione dei familiari scomparsi del poeta, il che giustifica il tono triste all’intera opera. I defunti lo invocano per non essere dimenticati, per ricevere quella giustizia che fu loro negata in vita. La tesi principale che emerge da Myricae riguarda certamente la vanità della vita e della felicità degli esseri umani, (La felicità, Paese notturno, Rammarico, Il nido). Tuttavia la presenza di piante e fiori serve a ristabilire intorno al poeta un mondo naturale e simbolico a lui familiare.
Il contesto storico si estende per più di un ventennio dal 1891 al 1903, ma la raccolta non fa alcun riferimento a fatti politici e storici accaduti in questo periodo. Ad eccezione delle poesie dedicate alla morte del padre, tutte le altre esulano dalla contemporaneità del poeta. Il contesto sociale è quello del contadino che guarda con apprensione alla natura, spaventato dal convulso e disordinato progredire della società. Pascoli si sente soprattutto contadino, a suo agio nella campagna ed estraneo al mondo caotico e rumoroso delle città. Nell’Europa di fine secolo, procedono da un lato il progresso industriale, dall'altro l'organizzazione del movimento socialista. La nuova cultura attinge sia dal socialismo, sia dal decadentismo europeo, che attraversa in tutta Europa un momento di grande popolarità. Positivismo e decadentismo. Come scrive Beatrice Panebianco: «La visione pessimistica del Pascoli prende avvio dal rifiuto della scienza, che non ha saputo dare la felicità all’uomo e arriva ad indagare proprio quella realtà – negata dal Positivismo – che si trova al di là di ciò che appare. Il suo Decadentismo si esprime nella concezione della poesia come rivelazione dell’ignoto, nella tendenza a cogliere nelle cose il senso del mistero, il simbolo che si cela dietro l’apparenza». Il contesto letterario è così caratterizzato dagli influssi del Simbolismo francese, del decadentismo europeo, del verismo e della tradizione umanistica italiana. Myricae è senza dubbio una opera poetica simbolista anche per la presenza di forme metriche e retoriche fonosimboliche, parole fono-espressive, per le moltissime onomatopee. Ma la raccolta è anche ricca di riferimenti al mondo classico, di cui il Pascoli era un profondo conoscitore.  Lo sviluppo dell'opera in senso simbolista tuttavia progressivo. Se le prime poesie della raccolta sono espressioni del verismo del secondo Ottocento, successivamente – dopo che il Pascoli chiarì la sua poetica nello scritto in prosa Il Fanciullino – le liriche prendono una piega prima impressionista e poi simbolista. Nella sua totalità, l’opera è una sintesi, o meglio un raffinato intrecciarsi di poesie naturalistiche, impressioniste e simboliste. Per questo motivo Myricae è considerata la raccolta che ha dato vita alla poesia moderna del primo Novecento. Ecco cosa scrive Marisa Carlà sull’evoluzione dell’opera:
«Le fasi di elaborazione di Myricae corrispondono all’evoluzione e alla definizione della poetica dell’autore, che procede da una scrittura di tipo descrittivo ad una di tipo simbolico, da un linguaggio preciso ed esplicativo ad un indeterminato e allusivo […] Subentrano a partire dall’edizione del 1894 tematiche più intime, legate ai ricordi, alla famiglia, al nido distrutto, allo stretto rapporto che lega i vivi e i morti; in queste liriche il linguaggio e le immagini assumono valenze simboliche sempre più profonde».
Myricae propone una grande varietà di forme metriche. Questa varietà metrica rompe con la tradizione poetica italiana, tanto che qualcuno è stato tentato di accennare a uno sperimentalismo del Pascoli. Come scrive Cannella: «Tale ricchezza di sperimentazione linguistica e metrica induce a considerare Myricae un’opera autonoma e ben individuata, la più originale, insieme ai Poemetti, della produzione pascoliana».
Sulla metrica ecco cosa scrive Marisa Carlà: «Rilevante anche il rinnovamento che Pascoli attua sul piano metrico. Infatti senza tralasciare i versi della tradizione, innesta forme e metri nuovi adatti ad esprimere assonanze ed allusioni. Il verso frantumato al suo interno mediante l’uso frequente della punteggiatura, l’uso frequente degli enjambements che spezzano sintagmi uniti, quali soggetto-verbo, aggettivo-sostantivo. Molti richiami fonici sono creati con la ripresa delle parole chiave, con le assenze, le allitterazioni e le rime interne che riducono l’importanza della rima a fine di verso.» Le figure retoriche sono numerose e di grande importanza: dalla analogia alla sinestesia, dalle onomatopee al fonosimbolismo, dall’ellissi(omissione) del verbo alla costruzione per asindeto (senza congiunzioni).
Il tono emotivo preminente dell’intera opera è portatore di due grandi sentimenti: al dolore per la morte del padre e della madre, che apre la raccolta, si sovrappone il senso di quiete e di rasserenamento che fornisce la natura. A questi due grandi moti dell'anima si assommano sentimenti più specifici del poeta: nostalgia, malinconia, angoscia, smarrimento.  Come il mondo paesano dei pescatori d’Abruzzo – apparentemente simile al suo equivalente verghiano – era cantato dal D’Annunzio, con quel gusto tipicamente decadente della rappresentazione di violenza, di barbarie e di sangue, così questo mondo campestre di Myricae non rappresentava per Pascoli la scoperta veristica, l’epopea del quotidiano, ma era lo scenario su cui proiettare inquietudini, smarrimenti e un senso del vivere fatto di ansiose perplessità. E allora quei dati realistici – i paesaggi, l’aratro dimenticato in mezzo al campo, quel secco ramo di biancospino – si caricano di significati e di simboli.
Il linguaggio della poesia pascoliana assomiglia molto all’italiano moderno ed implica un conscio allontanamento del Pascoli sia dal linguaggio aulico del Carducci, sia dal linguaggio alto del Leopardi.  L'autore propende per il linguaggio dei Simbolisti francesi, immettendovi l’analogia, la sinestesia, e le onomatopee. Il linguaggio preciso dei fiori e degli uccelli, in molte poesie Simboliste si intreccia con un linguaggio allusivo, evocativo, simbolico, fonosimbolico, così da creare un linguaggio nuovo e più moderno rispetto al linguaggio poetico tradizionale. Beatrice Panebianco scrive: «Da un punto di vista lessicale, il poeta accosta termini dotti e comuni; è sempre particolarmente preciso nel citare piante (tamerici, pruno, gelsomini) o uccelli (pettirossi, assiuoli, allodole), innovando una tradizione poetica, per cui tutti i fiori erano rose e tutti gli uccelli erano usignoli. La parola poetica è ricca di analogie e di allusioni, acquista valore evocativo e fonosimbolico, il cui suono, cioè, rinvia a un significato simbolico tale da creare emozioni e stati d’animo.».
Un testo magistrale sul linguaggio pascoliano è quello di Gianfranco Contini. In questo saggio del 1955, Contini afferma che Pascoli ha usato tre tipi di linguaggio diversi: un linguaggio pre-grammaticale composto dalla fitta presenza di onomatopee, di interiezioni proprio degli animali e delle cose, e non degli uomini. Un altro tipo è costituito dal linguaggio grammaticale, derivato dall’uso poetico comune. C’è infine un terzo livello, quello del linguaggio post-grammaticale, formato dai gerghi o da lingue speciali come l’italo-americano. Secondo Contini nell’ambito del linguaggio pre-grammaticale Pascoli è un grande innovatore, e come scrive Baldacci:
«Il Pascoli non inventa, ma accoglie l’interpretazione (fonosimbolica) che prima di lui, da sempre è stata data dal canto degli uccelli. Insomma se questa lingua del Pascoli non è registrata in nessun vocabolario, la sua radice è tuttavia in una continuata tradizione d’uso popolare. Il suo azzardo non fu di carattere inventivo, bensì traspositivo (il che non diminuisce nulla al suo merito): trasportare nel dominio della poesia scritta ciò che era appartenuto finora al dominio dell’intuizione linguistica al suo livello primo e nascente: cioè al livello della mimesi fonica».
A completare la presentazione del Pascoli,presentiamo una pagina del critico letterario Momigliano:

 

Il modo di concepire del Pascoli si stacca da tutta la tradizione della nostra poesia: e perciò è importante anche per i suoi riflessi nella storia della nostra lirica. Il Pascoli è l'iniziatore della poesia frammentaria che ha dominato dai suoi tempi sino ad oggi, cioè sino alla «poesia pura ». Fino a Carducci la nostra lirica ha uno scheletro, uno sviluppo lineare, un prima e un poi voluti dalla logica, un nucleo e una sintassi subordinativa: le liriche del Pascoli non hanno un filo né narrativo né logico; e quando egli lo cerca, forza la propria natura. La sua poesia è una vibrazione che si ripete ora più bassa ora più alta, è senza dimensioni e senza linee; è tutta atmosfera e stato d'animo. Il suo endecasillabo  è un fiotto di onde musicali distribuite senza una legge visibile; il suo periodare è grammaticalmente slegato. Lo stato d'animo dà a questi suoni vaganti un'unità poetica insolita e affascinante. La poesia riuscita del Pascoli è tutta di questo genere.
L'apparente oblìo di sé nella campagna velata e silenziosa e nell'elegia di un'età lontana, diede al Pascoli i momenti della sua vera e nuova poesia.

 

Fonte: http://www.istitutomontani.it/appunti/8/PASCOLI.doc

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 


 

Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli
La vita
Giovanni Pascoli è il maggior poeta italiano appartenente al filone simbolista decadente. Nasce nel 1855 a San Mauro di Romagna; trascorre un infanzia tranquilla fino a quando il 10 agosto del 1867 viene ucciso il padre Ruggero con una fucilata, da autori ancora ignoti. Morti anche due fratelli e la madre, nel ’71 si trasferisce a Rimini, dove conclude gli studi liceali. Nel ’73 si iscrive all’Università di Bologna (dove ha come maestro Carducci) grazie a una borsa di studio, successivamente persa per aver partecipato a una manifestazione contro il ministro della Pubblica Istruzione. Nel 1879 passa alcuni mesi in carcere per aver partecipato a una manifestazione socialista, dopo i quali riprende gli studi, laureandosi nel 1882 in letteratura greca. Nel ’95 viene nominato professore di grammatica latina e greca all’Università di Bologna. Dopo aver insegnato in diversi licei ed essersi trasferito in diverse università, nel 1905 Pascoli diventa titolare della cattedra di letteratura italiana a Bologna, succedendo a Carducci. Poco prima della morte, avvenuta a Bologna nel 1912, Pascoli pronunciò l’importante discorso, La grande Proletaria si è mossa, dedicato all’impresa coloniale italiana in Libia.
Il Fanciullino
Il fanciullino venne pubblicato nel 1897 sulla rivista fiorentina “Il Marzocco”; questa prosa è il più importante saggio poetico di Pascoli; il poeta coincide con il “fanciullino”, ovvero con quella parte infantile dell’uomo che negli adulti tende ad essere normalmente soffocata dalla ragione. Il poeta, invece, vedendo il mondo con gli occhi di un bambino, diventa l’unico interprete. In questo modo viene riaffermata la funzione sociale del poeta come vate e profeta.
Le Opere
Le raccolte poetiche più importanti sono: Myricae, Poemetti e Canti di Castelvecchio. I Canti di Castelvecchio furono pubblicati per la prima volta nel 1903 a Bologna; Castelvecchio è un paese della Garfagnana, dove Pascoli aveva acquistato una villetta e stabilito la propria dimora insieme alla sorella Maria. L’opera è composta da due filoni: quello naturalistico e quello familiare, riguardante la morte del padre. I due filoni si intrecciano: nel filone naturalistico, il ritmo delle stagioni allude all’alternanza della vita e morte, mentre l’uccisione del padre mostra una perdita irreparabile segnata dalla cattiveria umana e quindi estranea al ritmo naturale. Il tema della morte: la morte viene vista come minacciosa, perchè può avvenire in qualsiasi momento; la figura del morto diventa simbolo della morte stessa:Pascoli ricorda i morti con malinconia, ma allo stesso tempo ha paura, poichè avere un contatto con il morto significa morire. Pascoli riprende la denominazione “Canti” e alcuni temi dai canti leopardiani. La lingua è ricca di termini tecnici e popolari (ad esempio i nomi degli strumenti agricoli), ma anche di termini aulici della tradizione lirica e letteraria.
I Poemetti furono pubblicati per la prima volta nel 1897, una seconda nel 1900 e una terza nel 1904, con il titolo mutato in Primi Poemetti. C’è inanzitutto la tendenza alla narrazione, con l’introduzione di testi lunghi e di personaggi, spesso dialoganti. Come tutti gli intellettuali anche Pascoli teme l’innovazione: lui la vede in maniera negativa perchè commercializza l’arte e distrugge la bellezza della natura. Pascoli contrappone alla società di massa, nata dopo la rivoluzione industriale, alla natura e alla poesia; la poesia racchiude i valori cancellati dalla società industriale, mentre la bontà naturale si esprime nella vita umile del mondo contadino. Ma la natura viene vista da Pascoli anche come angosciosa e minacciosa. In quest’opera viene rispolverata la terzina dantesca, impiegata da Pascoli in quasi tutti i testi. Lo sperimentalismo di Pascoli si manifesta soprattutto nella lingua utilizzata, che si rivela nell’uso di termini dialettali, soprattutto garfagnini, e dal ricorso a lingue speciali, come l’italiano dialettale americanizzato parlato dagli emigranti negli Stati Uniti, presente nel poemetto Italy.
I Poemi conviviali e la poesia latina
Pascoli, che fino ad allora aveva scritto una poesia campagnola, capisce che la poesia per diventare un capolavoro deve essere scritta ricorrendo a tradizioni e lingue morte(latino e greco). I poemi conviviali vengono pubblicati nel 1904; il titolo deriva dalla rivista “Il convito”, alla quale Pascoli collaborava in quegli anni. Il motto posto all’apertura della raccolta, ripreso da Virgilio, era: “non a tutti piaciono le piante basse”; con il termine piante basse il poeta si riferiva alle “tamerici” che davano il titolo al primo libro pascoliano e quindi il motto stava a significare le intenzioni di Pascoli di alzare il tono rispetto alle opere precedenti. Pascoli si serve di operazioni di post-modernismo: per essere originale utilizza cose già fatte. L’opera è composta da 17 poemetti, situati soprattutto in ambientazioni greche classiche; il linguaggio è di tipo classico, riprodotto dall’utilizzo di termini tecnici e frequenti nomi propri di origine dotta. La poesia latina di Pascoli, raccolta nei Carmina, è un modo personale di Pascoli per esprimersi, ma in maniera artificiale, cioè non spontanea, ma ricercata.
La critica
I contemporanei di Pascoli lodano e criticano la sua poesia: a Benedetto Croce l’opera pascoliana non piace, mentre fra le posizioni più favorevoli spiccano Renato Serra, Contini e Pasolini. Quest’ultimi due hanno principalmente studiato il linguaggio della sua poesia e il suo ruolo nel’900.

 

Fonte: http://riassuntibuse.altervista.org/Giovanni%20Pascoli.doc

 

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