Italo Calvino

 

 

 

Italo Calvino

 

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APPUNTI SU ITALO CALVINO
VITA E OPERE

 

  • Nasce a Cuba il 15 ottobre 1923 in una famiglia di scienziati.
  • La famiglia si trasferisce a Sanremo quando Calvino è piccolo dove rimane fino a 20anni.
  • Si appassiona alla letteratura
  • Invece di andare militare si aggrega ai partigiani, le Brigate Garibaldi, vicini al Partito Comunista Italiano (PCI).
  • Dopo la II Guerra Mondiale si iscrive alla facoltà di lettere di Torino e frequenta gli intellettuali della casa editrice Einaudi e si impegna nel Partito Comunista Italiano (PCI).
  • Si laurea nel 1947 e subito iniziano le pubblicazioni:
  • Opere sulla guerra:
    • Il romanzo “Il sentiero dei nidi di ragno” è un romanzo-documento sulla Resistenza, viene considerato il capolavoro del Neorealismo ed è il primo best-seller dell’editoria italiana del dopoguerra.
    • Nel 1949 pubblica i racconti di “Ultimo viene il corvo” sulla guerra partigiana che viene raccontata con equilibrio, come spunto per una riflessione simbolica. Il protagonista “il ragazzo dalla mira infallibile”, è dominato da un incontrollabile impulso omicida e per gioco spara ad ogni cosa che si muove. E’ determinato nel suo comportamento ed aggressivo. La figura del ragazzo simboleggia la morte che colpisce infallibilmente ma casualmente.
  • La trilogia fantastica chiamata i “nostri antenati” è composta da 3 storie fantastiche che somigliano a fiabe e che contengono una riflessione filosofica. I romanzi sono:
      • “Il Visconte dimezzato” che esce nel 1952. Racconta la storia di un “visconte” dimezzato da una cannonata che ha diviso la parte buona da quella cattiva. Il visconte è il simbolo dell’uomo moderno che è buono e cattivo, folle e intelligente, sadico e sensibile.
      • Il barone rampante” del 1957; nel quale un giovane nobile ligure si rifugia a vivere sugli alberi per protestare contro la famiglia. Calvino evidenzia il contrasto tra le regole della società e la libertà della natura.
      • “Il cavaliere inesistente” del 1959, nel quale un cavaliere senza corpo combatte a fianco di Carlo Magno. Il cavaliere inesistente è il simbolo del ruolo dell’uomo moderno nella società industriale che non ha una sua individualità ma è una parte del sistema, vive solo perché produce e funziona.
  • Ritorno al realismo. La narrativa degli anni 50:

Comprende romanzi e racconti nei quali la società e la storia sono rappresentati in modo realistico.

    • Nel 1963 esce “La giornata di uno scrutatore” che racconta l’esperienza di Calvino come scrutatore al Cottolengo di Torino. Si tratta di un romanzo autobiografico in cui Calvino si identifica con Amerigo, l’intellettuale comunista.
    • Nel 1963 esce “Marcovaldo”dove si raccontano le avventure di un operaio che affronta i problemi quotidiani della vita in città. Calvino critica la società industriale delle città del Nord Italia che produce inquinamento e consumismo.
  • Periodo parigino: la passione per la scienza
    • Nel 1964 si trasferisce a Parigi, sposa Esther Singer e ha una bambina.
    • Inizia una stagione letteraria caratterizzata da interessi scientifici e una maggiore attenzione alle tecniche narrative.
    • Nel 1965 escono “le Cosmicomiche”.

Si tratta di una raccolta di racconti sulle teorie della creazione dell’universo e del sistema solare e sulla vita prima dell’uomo. Calvino prende spunto dall’astronomia, dalla matematica e dalla fisica per raccontare cose che gli stanno a cuore ed affrontare argomenti importanti con il filtro della comicità.

  • Ritorno in Italia: la disillusione dell’intellettuale progressista

Questo periodo è caratterizzato dal pessimismo sul futuro dell’uomo e dall’idea che non si può raggiungere una visone oggettiva delle cose.

    • Nel 1980 ritorna in Italia ma continua a viaggiare
    • Nel 1985 viene colpito da un Ictus cerebrale e muore.

 

 

SINTESI DEL SENTIERO DEI NIDI DI RAGNO

Nonostante il romanzo racconta la Resistenza come una realtà caratterizzata da crudeltà e assassinio, il racconto visto con gli occhi di un bambino assume un clima fiabesco, che caratterizza l’opera di Calvino nell’ambito del neorealismo.
Il romanzo è ambientato a Sanremo, nel 1944. Il protagonista è Pin, un “bambino vecchio” cresciuto in fretta a causa della perdita dei genitori. Abita con la sorella, Rina, che fa la prostituta nella stessa casa in cui vive con il fratello. Pin è il garzone del ciabattino e frequenta le osterie e i vicoli della città. E’ spaccone ed aggressivo e per mostrare il suo coraggio ruba la pistola ad un soldato tedesco cliente della sorella e la nasconde in un bosco in un luogo segreto lungo: “il sentiero del nidi di ragno”, ma viene catturato dai fascisti ed imprigionato. In carcere conosce Lupo Rosso un giovane partigiano che lo aiuta ad evadere. Insieme si uniscono al distaccamento dei partigiani comandato dal Dritto. Qui conosce Cugino, un omone buono ma implacabile con le spie. Quando il rifugio dei partigiani prende fuoco il distaccamento dei partigiani si scioglie. Pin torna a casa ma capisce che la sorella è diventata una spia perché trova a casa sua la pistola che aveva nascosto nel bosco rubata da Pelle, un partigiano traditore che frequenta la sorella. Deluso ed arrabbiato Pin decide di tornare nei boschi con Cugino che considera un “padre”, senza sapere che cugino con la stessa pistola nascosta da Pin ha ucciso la sorella.

DEFINIZIONE DI NEOREALISMO

Il Neorealismo è un movimento letterario e cinematografico che si sviluppa tra il 1943 e il 1950, dopo la seconda guerra mondiale con l’obiettivo di raccontare in modo realistico la realtà di un’ Italia povera, straziata dalla dittatura e dalla guerra. Il tema principale del neorealismo è la resistenza grazie alla quale si riacquista la libertà. Per rappresentare la realtà scelsero di usare un linguaggio diretto, secco. I neorealisti credevano di potere cambiare la società denunciando ed affermando valori come la lotta per la libertà e la ricerca di una giustizia sociale.

 

DEFINIZIONE DI RESISTENZA

La Resistenza è l’opposizione alla dittatura fascista di Mussolini del 1925. Inizialmente si oppongono gli intellettuali attraverso scritti politici che circolano clandestinamente, nel 1943 dopo che Mussolini viene destituito e Badoglio firma l’armistizio con gli Stati Uniti la resistenza diventa lotta armata contro i tedeschi ed i repubblichini nel Nord Italia. I tedeschi reagiscono compiendo stragi sui civili nelle quali morirono circa 15.000 persone.

 

SINTESI DE “ LA GIORNATA DI UNO SCRUTATORE”

Il protagonista, Amerigo Ormea, è un intellettuale comunista chiamato a fare lo scrutatore alle elezioni politiche nel Cottolengo, (un istituto di Torino che ospita molti invalidi e disabili gravi), con il fine di difendere gli interessi del partito comunista dal tentativo delle suore di influenzare il voto dei malati non autonomi nelle scelte. Federico nel vedere il dolore dei malati e delle loro famiglie e i corpi deformati entra in crisi tanto che al termine di una telefonata si lascia con la fidanzata, Lia. Le motivazioni politiche dello scrutatore si sostituiscono a domande sul dolore, sul destino e sulla disuguaglianza, (qual è il senso del dolore e della malattia? Perché alcuni sono malati?).

 

http://www.isgallarate.it/public/sys.insegnanti/MaterialeDidattico/113823APPUNTI%20SU%20CALVINO%20II%20G.doc

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 


 

Italo Calvino

Qualche nota sull'aggettivo "classico"

Storia della parola

l'aggettivo classicus ha la radice di clamo-as e clarus-a-um, la stessa che compare nel greco kalèo ; è la radice di ciò che si sente in modo chiaro e distinto. Classes erano  i gruppi chiamati all'appello nei comizi e così anche i contingenti chiamati alle armi. 

Classici furono anche detti i cittadini della prima classis nella costituzione di Servio Tullio. Ad un certo punto, per metafora, ci si cominciò a riferire agli scrittori indiscutibilmente più importanti come a  Scriptores cassici, qualcosa come  "scrittori di primo ordine" . Di qui la parola prese il volo

Definizioni

Tra le tante definizioni del "classico" che può capitar di leggere, una delle più suggestive (e meno note) è quella di Thomas Stearns Eliot. Per lui è "classico" il poeta maturo di un'età matura, vale a dire l'artista che ha sviluppato al meglio le potenzialità di una cultura, nell'epoca in cui quella cultura ha raggiunto il suo acme. Va da sé che questa definizione restringe molto la pattuglia degli autentici classici. Anzi, per Eliot, di classico vero nella storia dell'Occidente ce n'è stato uno solo, Virgilio.

Le definizioni più note, però, sono quelle di Italo Calvino, riportate qui di seguito.

 

Italo Calvino: perché leggere i classici

I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito:
«Sto rileggendo...» e mai «Sto leggendo...»

 

Questo avviene almeno tra quelle persone che si suppongono «di vaste letture»; non vale per la gioventù, età in cui l'incontro col mondo, e coi classici come parte del mondo, vale proprio in quanto primo incontro.
Il prefisso iterativo davanti al verbo «leggere» può essere una piccola ipocrisia da parte di quanti si vergognano d'ammettere di non aver letto un libro famoso. Per rassicurarli basterà osservare che per vaste che possano essere le letture «di formazione» d'un individuo, resta sempre un numero enorme d'opere fondamentali che uno non ha letto.
Chi ha letto tutto Erodoto e tutto Tucidide alzi la mano. E Saint-Simon? E il cardinale di Retz? Ma anche i grandi cicli romanzeschi dell'Ottocento sono più nominati che letti. Balzac in Francia si comincia a leggerlo a scuola, e dal numero delle edizioni in circolazione si direbbe che si continua a leggerlo anche dopo. Ma in Italia se si facesse un sondaggio Doxa temo che Balzac risulterebbe agli ultimi posti. Gli appassionati di Dickens in Italia sono una ristretta élite di persone che quando s'incontrano si mettono subito a ricordare personaggi e episodi come di gente di loro conoscenza. Anni fa Michel Butor, insegnando in America, stanco di sentirsi chiedere di Emile Zola che non aveva mai letto, si decise a leggere tutto il ciclo dei Rougon-Macquart. Scoperse che era tutto diverso da come credeva: una favolosa genealogia mitologica e cosmogonica, che descrisse in un bellissimo saggio.
Questo per dire che il leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un piacere straordinario: diverso (ma non si può dire maggiore o minore) rispetto a quello d'averlo letto in gioventù. La gioventù comunica alla lettura come a ogni altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza; mentre in maturità si apprezzano (si dovrebbero apprezzare) molti dettagli e livelli e significati in più. Possiamo tentare allora quest'altra formula di definizione:

 

2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza
per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza
non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli
 per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli.

 

Infatti le letture di gioventù possono essere poco proficue per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l'uso, inesperienza della vita. Possono essere (magari nello stesso tempo) formative nel senso che danno una forma alle esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, schemi di classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza: tutte cose che continuano a operare anche se del libro letto in gioventù ci si ricorda poco o nulla. Rileggendo il libro in età matura, accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l'origine. C'è una particolare forza dell'opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che lascia il suo seme. La definizione che possiamo darne allora sarà:

 

3. I classici sono libri che esercitano un'influenza particolare
sia quando s'impongono come indimenticabili, sia quando
si nascondono nelle pieghe della memoria
mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale.

 

Per questo ci dovrebbe essere un tempo nella vita adulta dedicato a rivisitare le letture più importanti della gioventù. Se i libri sono rimasti gli stessi (ma anch'essi cambiano, nella luce d'una prospettiva storica mutata) noi siamo certamente cambiati, e l'incontro è un avvenimento del tutto nuovo.
Dunque, che si usi il verbo «leggere» o il verbo «rileggere» non ha molta importanza. Potremmo infatti dire:

 

4. D'un classico ogni rilettura
è una lettura di scoperta come la prima.

 

5. D'un classico ogni prima lettura
è in realtà una rilettura.

 

La definizione 4 può essere considerata corollario di questa:

 

6. Un classico
è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

 

Mentre la definizione 5 rimanda a una formulazione più esplicativa, come:

 

7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando
su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra
e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura
o nelle culture che hanno attraversato
 (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume).

 

Questo vale per i classici antichi quanto per i classici moderni. Se leggo l'Odissea leggo il testo d'Omero ma non posso dimenticare tutto quello che le avventure d'Ulisse sono venute a significare durante i secoli, e non posso non domandarmi se questi significati erano impliciti nel testo o se sono incrostazioni o deformazioni o dilatazioni. Leggendo Kafka non posso fare a meno di comprovare o di respingere la legittimità dell'aggettivo «kafkiano» che ci capita di sentire ogni quarto d'ora, applicato per dritto e per traverso. Se leggo Padri e figli di Turgenev o I demoni di Dostoevskij non posso fare a meno di pensare come questi personaggi hanno continuato a reincarnarsi fino ai nostri giorni.
La lettura d'un classico deve darci qualche sorpresa, in rapporto all'immagine che ne avevamo. Per questo non si raccomanderà mai abbastanza la lettura diretta dei testi originali scansando il più possibile bibliografia critica, commenti, interpretazioni. La scuola e l'università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d'un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario. C'è un capovolgimento di valori molto diffuso per cui l'introduzione, l'apparato critico, la bibliografia vengono usati come una cortina fumogena per nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire solo se lo si lascia parlare senza intermediari che pretendano di saperne più di lui. Possiamo concludere che:

 

8. Un classico è un'opera che provoca incessantemente
un pulviscolo di discorsi critici su di sé,
ma continuamente se li scrolla di dosso.

 

Non necessariamente il classico ci insegna qualcosa che non sapevamo; alle volte vi scopriamo qualcosa che avevamo sempre saputo (o creduto di sapere) ma non sapevamo che l'aveva detto lui per primo (o che comunque si collega a lui in modo particolare). E anche questa è una sorpresa che dà molta soddisfazione, come sempre la scoperta d'una origine, d'una relazione, d'una appartenenza. Da tutto questo potremmo derivare una definizione del tipo:

 

9. I classici sono libri
che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire,
tanto più quando si leggono davvero
si trovano nuovi, inaspettati, inediti.

 

Naturalmente questo avviene quando un classico «funziona» come tale, cioè stabilisce un rapporto personale con chi lo legge. Se la scintilla non scocca, niente da fare: non si leggono i classici per dovere o per rispetto, ma solo per amore. Tranne che a scuola: la scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di classici tra i quali (o in riferimento ai quali) tu potrai in seguito riconoscere i «tuoi» classici. La scuola è tenuta a darti degli strumenti per esercitare una scelta; ma le scelte che contano sono quelle che avvengono fuori e dopo ogni scuola.
È solo nelle letture disinteressate che può accadere d'imbatterti nel libro che diventa il «tuo» libro. Conosco un ottimo storico dell'arte, uomo di vastissime letture, che tra tutti i libri ha concentrato la sua predilezione più profonda sul Circolo Pickwick, e a ogni proposito cita battute del libro di Dickens, e ogni fatto della vita lo associa con episodi pickwickiani. A poco a poco lui stesso, l'universo, la vera filosofia hanno preso la forma del Circolo Pickwick in un'identificazione assoluta. Giungiamo per questa via a un'idea di classico molto alta ed esigente:

 

10. Chiamasi classico un libro che si configura
come equivalente dell'universo, al pari degli antichi talismani.

 

Con questa definizione ci si avvicina all'idea di libro totale, come lo sognava Mallarmé. Ma un classico può stabilire un rapporto altrettanto forte d'opposizione, d'antitesi. Tutto quello che Jean-Jacques Rousseau pensa e fa mi sta a cuore, ma tutto m'ispira un incoercibile desiderio di contraddirlo, di criticarlo, di litigare con lui. C'entra la sua personale antipatia su un piano temperamentale, ma per quello non avrei che da non leggerlo, invece non posso fare a meno di considerarlo tra i miei autori. Dirò dunque:

 

11. Il «tuo» classico è quello
che non può esserti indifferente  e che ti serve
per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.

 

Credo di non aver bisogno di giustificarmi se uso il termine «classico» senza fare distinzioni d'antichità, di stile, d'autorità. (Per la storia di tutte queste accezioni del ter-mine, si veda l'esauriente voce Classico di Franco Fortini nell'Enciclopedia Einaudi, vol. III). Quello che distingue il classico nel discorso che sto facendo è forse solo un effetto di risonanza che vale tanto per un'opera antica che per una moderna ma già con un suo posto in una continuità culturale. Potremmo dire:

 

12. Un classico è un libro che viene prima di altri classici;
ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello,
riconosce subito il suo posto nella genealogia.

 

A questo punto non posso più rimandare il problema decisivo di come mettere in rapporto la lettura dei classici con tutte le altre letture che classici non sono. Problema che si connette con domande come: «Perché leggere i classici anziché concentrarci su letture che ci facciano capire più a fondo il nostro tempo?» e «Dove trovare il tempo e l'agio della mente per leggere dei classici, soverchiati come siamo dalla valanga di carta stampata dell'attualità?».
Certo si può ipotizzare una persona beata che dedichi il «tempo-lettura» delle sue giornate esclusivamente a leggere Lucrezio, Luciano, Montaigne, Erasmo, Quevedo, Marlowe, il Discours de la Méthode, il Wilhelm Meister, Coleridge, Ruskin, Proust e Valéry, con qualche divagazione verso Murasaki o le saghe islandesi. Tutto questo senza aver da fare recensioni dell'ultima ristampa, né pubblicazioni per il concorso della cattedra, né lavori editoriali con contratto a scadenza ravvicinata. Questa persona beata per mantenere la sua dieta senza nessuna contaminazione dovrebbe astenersi dal leggere i giornali, non lasciarsi mai tentare dall'ultimo romanzo o dall'ultima inchiesta sociologica. Resta da vedere quanto un simile rigorismo sarebbe giusto e proficuo. L'attualità può essere banale e mortificante, ma è pur sempre un punto in cui situarci per guardare in avanti o indietro. Per poter leggere i classici si deve pur stabilire «da dove» li stai leggendo, altrimenti sia il libro che il lettore si perdono in una nuvola senza tempo. Ecco dunque che il massimo rendimento della lettura dei classici si ha da parte di chi ad essa sa alternare con sapiente dosaggio la lettura d'attualità. E questo non presume necessariamente una equilibrata calma interiore: può essere anche il frutto d'un nervosismo impaziente, d'una insoddisfazione sbuffante.
Forse l'ideale sarebbe sentire l'attualità come il brusio fuori della finestra, che ci avverte degli ingorghi del traffico e degli sbalzi meteorologici, mentre seguiamo il discorso dei classici che suona chiaro e articolato nella stanza. Ma è ancora tanto se per i più la presenza dei classici s'avverte come un rimbombo lontano, fuori dalla stanza invasa dall'attualità come dalla televisione a tutto volume. Aggiungiamo dunque:

 

13. È classico ciò che tende a relegare l'attualità
al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo
di questo rumore di fondo non può fare a meno.

 

14. È classico ciò che persiste come rumore di fondo
anche là dove l'attualità più incompatibile fa da padrona.

 

Resta il fatto che il leggere i classici sembra in contraddizione col nostro ritmo di vita, che non conosce i tempi lunghi, il respiro dell'otium umanistico; e anche in contraddizione con l'eclettismo della nostra cultura che non saprebbe mai redigere un catalogo della classicità che fa al caso nostro.
Erano le condizioni che si realizzavano in pieno per Leopardi, data la sua vita nel paterno ostello, il culto dell'antichità greca e latina e la formidabile biblioteca trasmessigli dal padre Monaldo, con annessa la letteratura italiana al completo, più la francese, ad esclusione dei romanzi e in genere delle novità editoriali, relegate tutt'al più al margine, per conforto della sorella («il tuo Stendhal» scriveva a Paolina). Anche le sue vivissime curiosità scientifiche e storiche, Giacomo le soddisfaceva su testi che non erano mai troppo up to date: icostumi degli uccelli in Buffon, le mummie di Federico Ruysch in Fontenelle, il viaggio di Colombo in Robertson.

 

Oggi un'educazione classica come quella del giovane Leopardi è impensabile, e soprattutto la biblioteca del conte Monaldo è esplosa. I vecchi titoli sono stati decimati ma i nuovi sono moltiplicati proliferando in tutte le letterature e le culture moderne. Non resta che inventarci ognuno una biblioteca ideale dei nostri classici; e direi che essa dovrebbe comprendere per metà libri che abbiamo letto e che hanno contato per noi, e per metà libri che ci proponiamo di leggere e presupponiamo possano contare. Lasciando una sezione di posti vuoti per le sorprese, le scoperte occasionali.
M'accorgo che Leopardi è il solo nome della letteratura italiana che ho citato. Effetto dell'esplosione della biblioteca. Ora dovrei riscrivere tutto l'articolo facendo risultare ben chiaro che i classici servono a capire chi siamo e dove siamo arrivati e perciò gli italiani sono indispensabili proprio per confrontarli agli stranieri, e gli stranieri sono indispensabili proprio per confrontarli agli italiani.
Poi dovrei riscriverlo ancora una volta perché non si creda che i classici vanno letti perché «servono» a qualcosa. La sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici.
E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (non un classico, almeno per ora, ma un pensatore contemporaneo che solo ora si comincia a tra-durre in Italia): «Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un'aria sul flauto. "A cosa ti servirà?" gli fu chiesto. "A sapere quest'aria prima di morire"».

 

http://www.liceomontale.it/salvio/Calvino_classici.doc

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

ITALO  CALVINO

 

Attraverso di lui si vede l’evoluzione del romanzo del Novecento.

Prima fase: narrativa neorealistica

La prima strada tentata da Calvino è quella de’ “Il sentiero dei nidi di ragno” del 1947, romanzo vicino al neorealismo. Il neorealismo, in letteratura,  è la ricerca di un linguaggio nuovo per esprimere la Resistenza.
Nel romanzo, Calvino resta lontano da tentazioni ideologiche e propagandistiche, tanto è vero che sceglie come protagonista, un ragazzetto, Pin, che concepisce la vita come un’avventura..
Egli proviene dal sottoproletariato cittadino, (è cresciuto nei vicoli della città vecchia di Sanremo), è fratello di una prostituta, e, benché l’ambiente lo abbia reso smaliziato, mantiene un suo fondo di candore e di ingenuità.
Tutto il romanzo, quindi, si gioca attraverso gli occhi di un bambino, perciò quest’opera è incentrata sui temi  della favola e del mito, tanto è vero che la pistola che il bambino ruba ad un amante tedesco della sorella, viene nascosta  nel bosco dove sono i nidi di ragno.
Il bosco è l’ambiente tipico della fiaba.

Il romanzo, inoltre, connota un impegno ideologico da parte di Calvino, che vede nella Resistenza un momento di riscatto, di cui però non vuole dare un’immagine edulcorata e oratoria. Non rappresenta i partigiani come i migliori, ma partigiani come uomini con i loro vizi e le loro bassezze; ci rappresenta partigiani senza coscienza di classe, perché non vuole descrivere  l’eroe socialista come fecero tanti scrittori della Resistenza. Quello che importa , però, è che anche chi si è gettato nella lotta senza un vero perché, aveva in sé un’elementare spinta di riscatto umano.
La brigata partigiana è descritta , oltre che con gli occhi di un bambino, anche con gli occhi di due commissari che appartengono al direttivo della Resistenza, inviati a perlustrare la brigata.
Alla fine si arriva a questa conclusione: sia i fascisti che i partigiani combattono con lo stesso furore, ma gli uni sono nel giusto perché combattono per un’umanità nuova, gli altri non combattono per modificare, per riscattarsi, ma per perpetrare una condizione di schiavitù, perciò sono destinati alla sconfitta.
Nel “ Sentiero” appaiono in germe le due direzioni che Calvino seguirà nel suo percorso letterario degli anni successivi: il  realismo e la dimensione  fantastica.

 

Seconda fase : narrativa fantastica- allegorica

Nei primi anni Cinquanta, invece, Calvino sceglie di puntare decisamente sulla componente fantastica  della sua ispirazione.
Abbiamo la trilogia :”I nostri antenati”. Attraverso i protagonisti dei tre romanzi che la compongono, Calvino vuole rappresentare allegoricamente determinati aspetti della condizione umana. Il titolo allude al fatto che le vicende narrate in queste opere, sia pur nel loro impianto fiabesco collocato in un vago passato, hanno uno stretto legame con il presente e con i suoi problemi
Nel 1952 esce” Il visconte dimezzato”. Il visconte Medardo di Terralba ,durante la guerra contro i Turchi a fine Seicento, viene diviso in due da una palla di cannone: ne nascono due personaggi opposti, il Buono e il Cattivo, che incorrono in varie avventure, l’uno compiendo sistematicamente il bene, l’altro il male, finché un intervento chirurgico non li riunisce di nuovo in una sola persona.
L’autore vuole rappresentare un tema ricorrente nella letteratura otto e novecentesca, quello del “doppio”, alludendo alle componenti contrastanti della personalità umana. L’idea di fondo, però, è che solo  attraverso la scissione si può acquistare una più profonda conoscenza della realtà: al termine della vicenda il visconte, di nuovo unificato, può valersi dell’esperienza delle sue due metà separate.

Nel 1956 esce “Il barone rampante”, che si richiama al racconto filosofico settecentesco ed illuministico, di cui Voltaire aveva fornito gli esempi più rilevanti. (In particolare con Candido)
Il barone Cosimo Piovasco di Rondò, nel 1767, a dodici anni, in seguito a uno scontro con il padre autoritario, decide di salire sugli alberi e di non discenderne più per il resto dei suoi giorni. Riesce tuttavia ad organizzare perfettamente la propria esistenza e a condurre una vita a suo modo “normale” e operosa: non si isola, infatti, dal mondo, ma al contrario continua a partecipare alla vita che si svolge intorno a lui, collaborando con i suoi interventi a renderla migliore. La scelta di Cosimo è una metafora della condizione dell’intellettuale: questi ha bisogno di guardare la realtà da una posizione di distacco per poterla osservare e capire meglio, nonché per restare libero, per non farsi imprigionare da condizionamenti esterni.

Nel 1959 compare infine “Il cavaliere inesistente”, che si rifà invece al modello del romanzo cavalleresco (Ariosto).
Ambientato all’epoca di Carlo Magno e narrato dalla monaca Teodora, (che alla fine  si rivela non essere altri che l’eroina Bradamante), il breve romanzo segue le avventure di un cavaliere, Agilulfo, che non ha corpo e si riduce ad una vuota armatura
E’ la metafora di un’astratta razionalità, incapace di collegarsi con la dimensione fisica dell’esistenza, con la realtà concreta, e che per questo va incontro alla sconfitta: Agilulfo, infatti, si suicida, sfasciando l’armatura

Strutture  narrative limpide, chiare; linguaggio essenziale. La struttura della favola  e del racconto fantastico non ha mai per Calvino un significato di evasione, ma è sempre uno strumento per misurarsi, mediante un ironico straniamento, con il reale. Sul piano delle tecniche del racconto il distacco ironico si esprime nella scelta di adottare un punto di vista marginale, che assume un valore straniante: tutti e tre i romanzi sono raccontati non da un narratore onnisciente e nemmeno dai protagonisti in prima persona, ma da un narratore testimone che ha nella vicenda un ruolo secondario, il nipote del visconte Medardo, il fratello di Cosimo e suor Teodora.

Tra il 1952 e il 1956 il gusto fiabesco di Calvino prende ancora corpo in dieci racconti dedicati a Marcovaldo, un manovale di origine contadina, che con la sua famiglia si trova inserito nell’alienante città industriale moderna .
Le storie di Marcovaldo affrontano un problema  reale e urgente in quegli anni : l’impatto devastante che la seconda  rivoluzione industriale aveva sul tessuto sociale di un’Italia ancora contadina.
A queste storie, Calvino ne aggiunse poi altre dieci, raccogliendole nel volume “Marcovaldo ovvero le stagioni in città” (1963)

Nel corso degli stessi anni Cinquanta Calvino non abbandona però il filone per così dire realistico.
La speculazione edilizia”(1957) è dedicato al boom delle costruzioni che proprio in quel periodo deturpava la riviera ligure; “La nuvola di smog”(1958), affronta la realtà industriale, la devastazione operata dall’industria sull’ambiente. Questo filone realistico culmina con il breve romanzo “La giornata di uno scrutatore”(1963). Il protagonista, Amerigo Ormea, durante le elezioni politiche del 1953,è scrutatore in un seggio collocato all’interno del Cottolengo, e si scontra così con il mondo della sofferenza, della degradazione dell’uomo a livello subumano.


Terza fase : fase del Post- moderno

Il trasferimento a Parigi nel 1964 mette Calvino direttamente a contatto con la cultura francese.
A Calvino ora il cosmo si presenta come una combinazione di eventi possibili. La scienza non rivela certezze, ma semplicemente mette a nudo dei problemi, ne deriva un senso di estrema relatività.
Ecco allora che cerca di scrivere romanzi che rappresentino questa visione combinatoria del mondo.
Nel 1965 pubblica “ Le cosmicomiche”. Si tratta di una serie di racconti che traducono in forma narrativa ipotesi scientifiche sull’origine e l’organizzazione del cosmo, sui corpi celesti, sull’evoluzione della vita. Lo scenario è quello di un universo che non ha ancora visto la comparsa dell’uomo, ma le entità che lo compongono assumono forme umanizzate. Il comico scaturisce dall’attrito che si crea tra le complesse, severe teorie scientifiche e le situazioni quotidiane in cui esse si traducono.
La voce narrante in tutte queste storie è un personaggio denominato Qfwfq, che assume le più varie fisionomie e si è trovato presente nei più diversi momenti dell’evoluzione del cosmo, quindi può parlare come testimone diretto.

Nelle opere successive: “Il castello dei destini incrociati “(1969), “Le città invisibili” (1972),”Se una notte d’inverno un viaggiatore” (1979) Calvino s’interessa soprattutto della  combinatoria narrativa, cioè come si combinano i fatti nella scrittura. Le storie vengono costruite secondo un’architettura che può essere quella del gioco degli scacchi, del gioco con le carte ( i tarocchi), del gioco del caleidoscopio e del labirinto.
Il suo modello è Borges.

 

Fonte: http://digilander.libero.it/quintai2/ita/09/Italo_Calvino.doc

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

Italo Calvino
L’avventura di due sposi
L’operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte, quello che finisce
alle sei. Per rincasare aveva un lungo tragitto, che compiva in bicicletta nella
bella stagione, in tram nei mesi piovosi e invernali. Arrivava a casa tra le sei e
tre quarti e le sette, cioè alle volte un po’ prima alle volte un po’ dopo che
suonasse la sveglia della moglie, Elide.
Spesso i due rumori: il suono della sveglia e il passo di lui che entrava si
sovrapponevano nella mente di Elide, raggiungendola in fondo al sonno, il
sonno compatto della mattina presto che lei cercava di spremere ancora per
qualche secondo col viso affondato nel guanciale. Poi si tirava su dal letto di
strappo e già infilava le braccia alla cieca nella vestaglia, coi capelli sugli occhi.
Gli appariva così, in cucina, dove Arturo stava tirando fuori i recipienti vuoti
dalla borsa che si portava con sé sul lavoro: il portavivande, il termos, e li
posava sull’acquaio. Aveva già acceso il fornello e aveva messo su il caffè.
Appena lui la guardava, a Elide veniva da passarsi una mano sui capelli, da
spalancare a forza gli occhi, come se ogni volta si vergognasse un po’ di que-sta
prima immagine che il marito aveva di lei entrando in casa, sempre così in
disordine, con la faccia mezz’addormentata. Quando due hanno dormito
insieme è un’altra cosa, ci si ritrova al mattino a riaffiorare entrambi dallo
stesso sonno, si è pari.
Alle volte invece era lui che entrava in camera a destarla, con la tazzina
del caffè, un minuto prima che la sveglia suonasse; allora tutto era più natu-rale,
la smorfia per uscire dal sonno prendeva una specie di dolcezza pigra, le
braccia che s’alzavano per stirarsi, nude, finivano per cingere il collo di lui.
S’abbracciavano. Arturo aveva indosso il giaccone impermeabile; a sentirselo
vicino lei capiva il tempo che faceva: se pioveva o faceva nebbia o c’era neve,
a secondo di com’era umido e freddo. Ma gli diceva lo stesso: – Che tempo
fa? – e lui attaccava il suo solito brontolamento mezzo ironico, passando in
rassegna gli inconvenienti che gli erano occorsi, cominciando dalla fine: il
percorso in bici, il tempo trovato uscendo di fabbrica, diverso da quello di
quando c’era entrato la sera prima, e le grane sul lavoro, le voci che correvano
nel reparto, e così via.
A quell’ora, la casa era sempre poco scaldata, ma Elide s’era tutta spoglia-ta,
un po’ rabbrividendo, e si lavava, nello stanzino da bagno. Dietro veniva
lui, più con calma, si spogliava e si lavava anche lui, lentamente, si toglieva di
dosso la polvere e l’unto dell’officina. Così stando tutti e due intorno allo
stesso lavabo, mezzo nudi, un po’ intirizziti, ogni tanto dandosi delle spinte,
togliendosi di mano il sapone, il dentifricio, e continuando a dire le cose che
avevano da dirsi, veniva il momento della confidenza, e alle volte, magari
aiutandosi a vicenda a strofinarsi la schiena, s’insinuava una carezza, e si tro-vavano
abbracciati.
Ma tutt’a un tratto Elide: – Dio! Che ora è già! – e correva a infilarsi il
reggicalze, la gonna, tutto in fretta, in piedi, e con la spazzola già andava su e
giù per i capelli, e sporgeva il viso allo specchio del comò, con le mollette
strette tra le labbra. Arturo le veniva dietro, aveva acceso una sigaretta, e la
guardava stando in piedi, fumando, e ogni volta pareva un po’ impacciato, di
dover stare lì senza poter fare nulla. Elide era pronta, infilava il cappotto nel
corridoio, si davano un bacio, apriva la porta e già la si sentiva correre giù per
le scale.
Arturo restava solo. Seguiva il rumore dei tacchi di Elide giù per i gradi-ni,
e quando non la sentiva più continuava a seguirla col pensiero, quel trot-terellare
veloce per il cortile, il portone, il marciapiede, fino alla fermata del
tram. Il tram lo sentiva bene, invece: stridere, fermarsi, e lo sbattere della
pedana a ogni persona che saliva. “Ecco, l’ha preso”, pensava, e vedeva sua
moglie aggrappata in mezzo alla folla d’operai e operaie sull’”undici”, che la
portava in fabbrica come tutti i giorni. Spegneva la cicca, chiudeva gli spor-telli
alla finestra, faceva buio, entrava in letto.
Il letto era come l’aveva lasciato Elide alzandosi, ma dalla parte sua, di
Arturo, era quasi intatto, come fosse stato rifatto allora. Lui si coricava dalla
propria parte, per bene, ma dopo allungava una gamba in là, dov’era rimasto
il calore di sua moglie, poi ci allungava anche l’altra gamba, e così a poco a
poco si spostava tutto dalla parte di Elide, in quella nicchia di tepore che
conservava ancora la forma del corpo di lei, e affondava il viso nel suo guan-ciale,
nel suo profumo, e s’addormentava.
Quando Elide tornava, alla sera, Arturo già da un po’ girava per le stanze:
aveva acceso la stufa, messo qualcosa a cuocere. Certi lavori li faceva lui, in
quelle ore prima di cena, come rifare il letto, spazzare un po’, anche mettere
a bagno la roba da lavare. Elide poi trovava tutto malfatto, ma lui a dir la
verità non ci metteva nessun impegno in più: quello che lui faceva era solo
una specie di rituale per aspettare lei, quasi un venirle incontro pur restando
tra le pareti di casa, mentre fuori s’accendevano le luci e lei passava per le
botteghe in mezzo a quell’animazione fuori tempo dei quartieri dove ci sono
tante donne che fanno la spesa alla sera.

Alla fine sentiva il passo per la scala, tutto diverso da quello della matti-na,
adesso appesantito, perché Elide saliva stanca dalla giornata di lavoro e
carica della spesa. Arturo usciva sul pianerottolo, le prendeva di mano la
sporta, entravano parlando. Lei si buttava su una sedia in cucina, senza to-gliersi
il cappotto, intanto che lui levava la roba dalla sporta. Poi: – Su, dia-moci
un addrizzo, – lei diceva, e s’alzava, si toglieva il cappotto, si metteva in
veste da casa. Cominciavano a preparare da mangiare: cena per tutt’e due, poi
la merenda che si portava lui in fabbrica per l’intervallo dell’una di notte, la
colazione che doveva portarsi in fabbrica lei l’indomani, e quella da lasciare
pronta per quando lui l’indomani si sarebbe svegliato.
Lei un po’ sfaccendava un po’ si sedeva sulla seggiola di paglia e diceva a
lui cosa doveva fare. Lui invece era l’ora in cui era riposato, si dava attorno,
anzi voleva far tutto lui, ma sempre un po’ distratto, con la testa già ad altro.
In quei momenti lì, alle volte arrivavano sul punto di urtarsi, di dirsi qualche
parola brutta, perché lei lo avrebbe voluto più attento a quello che faceva,
che ci mettesse più impegno, oppure che fosse più attaccato a lei, le stesse più
vicino, le desse più consolazione. Invece lui, dopo il primo entusiasmo per-ché
lei era tornata, stava già con la testa fuori di casa, fissato nel pensiero di
far presto perché doveva andare.
Apparecchiata tavola, messa tutta la roba pronta a portata di mano per
non doversi più alzare, allora c’era il momento dello struggimento che li
pigliava tutti e due d’avere così poco tempo per stare insieme, e quasi non
riuscivano a portarsi il cucchiaio alla bocca, dalla voglia che avevano di star lì
a tenersi per mano.
Ma non era ancora passato tutto il caffè e già lui era dietro la bicicletta a
vedere se ogni cosa era in ordine. S’abbracciavano. Arturo sembrava che solo
allora capisse com’era morbida e tiepida la sua sposa. Ma si caricava sulla
spalla la canna della bici e scendeva attento le scale.
Elide lavava i piatti, riguardava la casa da cima a fondo, le cose che aveva
fatto il marito, scuotendo il capo. Ora lui correva le strade buie, tra i radi
fanali, forse era già dopo il gasometro. Elide andava a letto, spegneva la luce.
Dalla propria parte, coricata, strisciava un piede verso il posto di suo marito,
per cercare il calore di lui, ma ogni volta s’accorgeva che dove dormiva lei era
più caldo, segno che anche Arturo aveva dormito lì, e ne provava una grande
tenerezza.

 

Da: Italo Calvino, L’avventura di due sposi, i n I racconti, Einaudi, Torino, 1976

Fonte: http://www.medialeonardo.it/materialifranco/2008/Il%20lavoro/Italo%20Calvino-%20Avventura%20di%20due%20sposi.doc

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

 

 


Le città invisibili

(abstract)

 

"Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l'imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore".

 

le città e la memoria:
Diomira  -   chi vi arriva gli viene da invidiare quelli che ora pensano d'aver già vissuto una sera uguale e d'esser stati felici
Isidora  -   se il forestiero è incerto tra due donne ne incontra sempre una terza
Zaira  -   contiene [il suo passato] come le linee di una mano
Zora  -   chi l’ha vista una volta non può più dimenticarla
Maurilia  -   il viaggiatore è invitato a visitare la città e nello stesso tempo a osservare certe vecchie cartoline illustrate che la rappresentano com'era prima

le città e il desiderio:
Dorotea  -   sentii che non c'era bene della vita che non potessi aspettarmi
Anastasia  -   un tutto in cui nessun desiderio va perduto
Despina  -   città… di confine tra due deserti
Fedora  -   [in una sfera di vetro ci sono i modelli di città…] che la città… avrebbe potuto prendere se non fosse diventata come oggi la vediamo
Zobeide  -   [gli uomini] nella città…riconoscevano qualcosa delle vie del [proprio] sogno

                                 

le città e i segni:
Tamara  -   vie fitte d'insegne che sporgono dai muri come sia sotto questo fitto involucro di segni, cosa contenga o nasconda, l'uomo esce da [lì] senza averlo saputo
Zirma  -   è ridondante: si ripete perché‚ qualcosa arrivi a fissarsi nella mente
Zoe  -   luogo dell'esistenza indivisibile
Ipazia  -   "i segni formano una lingua, ma non come quelle che credi di conoscere" non c'è linguaggio senza inganno
Olivia  -   non si deve mai confondere la città col discorso che la descrive

le città sottili:
Isaura  -   si presume sorga sopra un profondo lago sotterraneo
Zenobia  -   sorge su altissime palafitte è inutile stabilire se [la città…] sia da classificare tra le città… felici o tra quelle infelici
Armilla  -   non ha nulla che la faccia sembrare una città…, eccetto le tubature dell'acqua
Sofronia  -   si compone di due mezze città…
Ottavia  -  c'è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città… è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle

le città e gli scambi:
Eufemia  -   città… in cui ci si scambia la memoria a ogni solstizio e a ogni equinozio
Cloe  -  [le persone] al vedersi immaginano mille cose uno dell'altro, gli incontri che potrebbero avvenire tra loro, le conversazioni, le sorprese, le carezze, i morsi. Ma nessuno saluta nessuno
Eutropia  -   non è una ma [tante] città… insieme; una sola è abitata, le altre sono vuote; e questo si fa a turno
Ersilia  -   per stabilire i rapporti gli abitanti tendono dei fili tra gli spigoli delle case. Quando i fili sono tanti che non ci si può passare più in mezzo [essi] vanno via
Smeraldina  -   una mappa [della città…] dovrebbe comprendere, segnati in inchiostri di diverso colore tutti  i tracciati, solidi e liquidi, palesi e nascosti
 


                                              

le città e gli occhi:
Valdrada  -   il viaggiatore vede arrivando due città…: una diritta sopra il lago e una riflessa capovolta
Zenrude  -   è l'umore di chi la guarda che dà alla città… la sua forma
Bauci  -   chi va a B. non riesce a vederla ed è arrivato
Fillide  -   milioni d'occhi si alzano da finestre ponti capperi ed è come scorressero su una pagina bianca
Moriana  -   le città… come questa hanno un rovescio: basta percorrere un semicerchio e si avrà la faccia nascosta

le città e il nome:
Aglaura  -   nulla è vero di quanto si dice [di essa] eppure se ne trae un'immagine solida e compatta di città…
Leandra  -   d‚i di due specie proteggono la città… gli uni e gli altri sono così piccoli che non si possono vedere e così numerosi che non si possono contare
Pirra  -   appena vi misi piede tutto quello che immaginavo era dimenticato
Clarice  -   ha una storia travagliata. Più volte decadde e rifiorì, sempre tenendo la prima C. come modello ineguagliabile d'ogni splendore
Irene  -   orse di Irene ho gi… parlato sotto altri nomi; forse non ho parlato d'altro che di I. [Irene = pace]


le città e i morti:
Melania  -   ogni volta che si entra nella piazza ci si trova in mezzo a un dialogo i dialoganti muoiono a uno a uno e intanto nascono coloro che prenderanno posto a loro volta nel dialogo
Adelma  -   forse è la città… cui si arriva morendo e in cui ognuno ritrova le persone che ha conosciuto
Eupasia  -   l'E. dei vivi ha preso a copiare la sua copia sotterranea [quella dei morti]
Argia  -   ciò che fa A. diversa dalle altre città… è che invece d'aria ha terra. Le vie sono completamente interrate
Laudomia  -   ha al suo fianco un'altra città… i cui abitanti si chiamano con gli stessi nomi: è la L. dei morti

le città e il cielo:
Eudossia  -   perdersi [qui] è facile [sembra che ] la vera mappa dell'universo sia la città così com'è, una macchia che dilaga senza forma
Bersabea  -   si tramanda [che] sospesa in cielo esista un'altra B., dove si librano le virtù e i sentimenti più elevati della città…
Tecla  -   gli abitanti senza smettere d'issare secchi, di calare fili a piombo [costruiscono la città… in continuazione e rispondono di far ciò perché‚ non cominci la distruzione
Perinzia  -   oggi incontri storpi, nani, gobbi, obesi, donne con la barba l'ordine degli dèi è proprio quello che si rispecchia nella città… dei mostri
Andria  -   così perfetta è la corrispondenza tra la città… e il cielo che ogni cambiamento d'A. comporta qualche novità tra le stelle


le città continue:
Leonia  -   rifà se stessa tutti i giorni, più L. espelle roba più ne accumula, il pattume di L. a poco a poco invaderebbe il mondo se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo immondezzai d'altre città…
Trude  -   il mondo è ricoperto da un'unica T. che non comincia e non finisce
Procopia  -   ogni anno prendo alloggio nella stessa stanza della stessa locanda, [tempo fa] ho potuto distinguere una faccia tonda e piatta che rosicchiava una pannocchia. [oggi] nella mia stanza si sono alloggiati in 26 tutte persone gentili per fortuna
Cecilia  -   è dappertutto
Pentesilea  -   sono ore che avanzi e non ti è chiaro se sei già in mezzo alla città o ancora fuori

le città nascoste:
Olinda  -   chi ci va con una lente può trovare da qualche parte un punto non più grande d'una capocchia di spillo [O. cresce e si ingrandisce a cerchi concentrici]
Raissa  -   a ogni secondo la città… la città… infelice contiene una città… felice che nemmeno sa d'esistere
Marozia  -   consiste di due città… entrambe cambiano nel tempo, ma non cambia il loro rapporto: la seconda è quella che sta per sprigionarsi dalla prima
Teodora  -   grande cimitero del regno animale nessun'altra specie vivente esisteva per rimettere [l'uomo] in forse
Berenice  -   città ingiusta tutte le B. future sono già presenti in questo istante, avvolte l'una dentro l'altra, strette pigiate indistinguibili

 

Come scriverei bene se non ci fossi! Se tra il foglio bianco e il ribollire delle parole e delle storie che prendono forma e svaniscono senza che nessuno le scriva non si mettesse di mezzo quello scomodo diaframma che è la mia persona!
Italo Calvino, Se una notte d'inverno un viaggiatore, cap.8

                                        Italo Calvino (1923 – 1985)

 

BREVE BIOGRAFIA E OPERE

 

Italo Calvino nacque a Cuba il 15 ottobre 1923 a Santiago de Las Vegas, un paese vicino all'Avana, dove il padre dirigeva una stazione sperimentale di agricoltura e una scuola d'agraria. Dai genitori  ricevette un'educazione laica. Nel 1925 la famiglia ritornò in Italia e si stabilì a San Remo. Compiuti gli studi liceali, venne avviato dai genitori agli studi di Agraria, che non concluse. Dopo l'8 settembre 1943, Calvino si sottrasse all'arruolamento nell'esercito fascista e si aggregò ai partigiani della Brigata Garibaldi. Dopo la liberazione (25 aprile 1945), aderì al Partito Comunista Italiano, collaborò a giornali e riviste e si iscrisse alla Facoltà di Lettere di Torino, dove si laureò nel 1947.  Nello stesso anno pubblicò Il sentiero dei nidi di ragno, cui seguì nel 1949 il volume di racconti Ultimo viene il corvo. Negli anni Cinquanta e Sessanta fu dirigente nella casa editrice Einaudi. Seguirono i Racconti (1958), I nostri antenati (1960) che comprende Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957) e Il cavaliere inesistente (1959). Trasportò dai dialetti in italiano Le fiabe italiane pubblicate nel 1956, l’anno in cui si ritirò, dopo gli avvenimenti dell’Ungheria, dal Partito Comunista Italiano. Tra il 1959 e il 1967 diresse con Elio Vittoriani la rivista culturale letteraria «Il Menabò», in cui pubblicò articoli di grande impegno quali Il mare dell'oggettività (1959) e La sfida del labirinto (1962). Nel 1963 pubblicò Marcovaldo ovvero Le stagioni in città e il racconto La giornata di uno scrutatore. Nel 1964 sposò l'argentina Judith Esther Singer e si trasferì a Parigi. Nel 1965 nacque la figlia Abigail e uscirono Le Cosmicomiche, cui seguì nel 1967 Ti con zero. Il nuovo interesse per le problematiche del linguaggio e della narrazione trovarono espressione in Le città invisibili (1972) e  Il castello dei destini incrociati (1973). Negli anni Settanta Calvino pubblicò numerosi interventi, prefazioni e traduzioni in molte lingue, e collaborò al «Corriere della Sera», poi a «La Repubblica». Nel 1979 uscì il romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore che divenne subito un best seller. Nel 1980 si trasferì a Roma e pubblicò la raccolta dei suoi saggi più importanti, Una pietra sopra. Nel 1983 uscirono i racconti di Palomar e  nel 1984, passato all'editore Garzanti, pubblicò Collezione di sabbia e la riedizione delle sue opere più importanti. Nel 1985, ricevuto l'incarico di tenere una serie di conferenze negli Stati Uniti a Cambridge alla Harvard University, stava preparando le Lezioni Americane - che rimarranno incompiute e saranno edite postume nel 1988 due anni dopo l’altro volume di racconti postumo Sotto il sole giaguaro -  quando all'inizio di settembre Calvino fu colpito da un'emorragia celebrale e morì all'ospedale di Siena.          

                                                   

Fonte: http://www.gorizia-edu.it/locchi/conoscere/calvino.doc

 

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

2. Dal neorealismo allo strutturalismo poetico:
Italo Calvino
Italo Calvino è indubbiamente uno dei grandi protagonisti della letteratura italiana della fine del Novecento, probabilmente lo scrittore più universalmente apprezzato di questo periodo. Forse sono state proprio le sue opere degli anni 70 e 80 a suscitare l’entusiasmo europeo per gli scrittori italiani che scoppiò verso la fine degli anni 70 nelle case editrici tedesche.
Italo Calvino che per una strana coincidenza nacque a Cuba nel 1923, morì a Siena, nel 1985, all’età di 62 anni. Già nel 1925 la sua famiglia si stabilì a San Remo, la città natale del padre cosicché egli passò la sua infanzia e la sua gioventù in Liguria. E malgrado i suoi numerosi trasferimenti e i lunghi anni vissuti in Toscana, Calvino è sempre rimasto e si è sempre considerato uno scrittore ligure: „Non posso certo dimenticare che i primi 25 anni della mia vita li ho trascorsi a San Remo. [...] Il vecchio fondo provinciale della mia regione ligure non l’ho mai rinnegato, rimane fortemente dentro di me...“ (p. 181) dice Calvino in un’intervista concessa a Claudio Marabini e pubblicata nel 1976 nella raccolta Le città dei poeti (Torino 1976). Alla domanda di Marabini: „Che cosa le ha lasciato la Liguria, quella sua prima provincia?“ Calvino risponde: „Tutta la mia prima produzione narrativa è ambientata in Liguria e anche linguisticamente è nutrita dalla parlata ligure.“ (p. 182)
Perciò anche la vicenda del suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, scritto nell’immediato dopoguerra e pubblicato nel 1947, è ambientata in Liguria, in parte in una cittadina fittizia e in parte nelle montagne circostanti. Se consideriamo il contenuto, questo romanzo ci pare a prima vista un’opera tipica del neorealismo: Pin, un ragazzo di 12 anni circa, sperando di attirare con il suo atto l’attenzione dei grandi, ruba la pistola di un marinaio tedesco, un cliente di sua sorella che fa la prostituta di quartiere. Viene arrestato dai tedeschi e in prigione conosce il giovane partigiano Lupo Rosso con cui scapperà dal carcere per unirsi ad un gruppo di partigiani per molti versi fuori del comune. Infatti, nella brigata del Dritto, ogni uomo si trascina dietro una sua storia sbagliata, come per esempio il grande e buono Cugino che fa la guerra perché la moglie lo ha tradito e perché tutte le donne sono cattive, meno sua madre. Dritto, il giovane capo di questa banda, s’innamora di Giglia, moglie del cuoco Mancino, leninista radicale. Il ragazzo Pin non riesce a capire né i desideri carnali dei grandi né il loro primitivo senso della guerra e comincia a sentirsi sempre più estraneo ai segreti e ai pasticci degli adulti. Siccome inoltre è deluso, perché non ha trovato la grande amicizia che sognava, lascia rassegnato la brigata durante uno scontro tra soldati e partigiani e torna in città. Decide di far la Resistenza da solo, con la pistola del marinaio tedesco che – durante la sua assenza – giaceva nascosta ai bordi di un sentiero che il ragazzo chiama sentiero dei nidi di ragno perché vi aveva osservato i ragni covare le loro uova. Ma, alla sua sorpresa, non solo ritroverà la pistola ma scoprirà, nella persona del partigiano Cugino, anche il Grande Amico da sempre sognato, con il quale si accompagna nella notte piena di lucciole, che, come le donne, viste da troppo vicino sono schifose, ma da lontano sono bellissime.
A parte l’originalità tematica che risiede nel raccontare la guerra partigiana attraverso un gruppo di anti-eroi, colpisce in questo primo romanzo di Calvino la vena narrativa che conferisce alla vicenda una nota di avventura e di fiaba. L’autore non ci confronta né con la crudeltà della guerra civile né con il patriottismo eroico dei partigiani; invece ha eletto protagonista un ragazzo ingenuo di cui adotta in modo stringente anche l’ottica; perciò è attraverso lo sguardo di un bambino sul mondo dei grandi che gli eventi ci vengono raccontati. Subito all’inizio del romanzo il lettore viene introdotto nel mondo del protagonista:
Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a forza d’arcate che traversano la striscia di cielo azzurro carico.
Scendono diritti, i raggi del sole, giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri, e cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali, e sottovesti stese appese a corde; fin giù al selciato, fatto a gradini e a ciottoli, con una cunetta in mezzo per l’orina dei muli.
Basta un grido di Pin, un grido per incominciare una canzone, a naso all’aria sulla soglia della bottega, o un grido cacciato prima che la mano di Pietromagno il ciabattino gli sia scesa tra capo e collo per picchiarlo, perché dai davanzali nasca un’eco di richiami e d’insulti. (Milano: Garzanti 1987, p. 31)

Questo avvio del racconto che sembra ispirato da Honoré de Balzac, contiene anche il programma della narrativa neorealista, in quanto – prima di tutto – viene postulato lo scopo sociale: per arrivare fino in fondo; la letteratura politica ha il dovere di scendere dall’Olimpo per dirigere la luce del sole su quella geometria fredda e disordinata che è la vita quotidiana, umile ed anonima. L’intellettuale deve mettere i piedi nella cunetta destinata a ricevere l’orina dei muli affinché venga capovolta la prospettiva tradizionale che va dall’alto verso il basso. Infatti, già nella prima frase che descrive il movimento dei raggi del sole dall’alto verso il basso, viene percepito d’improvviso una striscia di cielo azzurro; a quel punto la linea della frase esegue un cambiamento radicale dell’angolo di visione. L’autore adotta una nuova prospettiva dal basso verso l’alto, quella di un abitante del vicolo che leva gli occhi, un ragazzo proletario, orfano. In questo nuovo mondo contano evidentemente altri valori artistici: così per esempio basta un grido di Pin per svegliare tutti gli strumenti dell’orchestra proletaria che suona in quella buca miserabile. Ma la retorica di Calvino non sarà quella di Pasolini: il messaggio non è vero perché gridato dalla creatura sofferente, è vero perché fantasticamente evocato. Come dirà l’autore nell’introduzione alle Fiabe Italiane (2 vol. Torino: Einaudi 1956), dieci anni più tardi: „Le fiabe sono vere.“ (p. XVIII) L’ottica di Calvino nel Sentiero dei nidi di ragno è il punto d’osservazione di Pin che posa i suoi occhi su un mondo meraviglioso, spesso ingenuo ma ricco di valori autentici, un mondo più prossimo alla fiaba che alla realtà:
Pin va per i sentieri che girano intorno al torrente, posti scoscesi dove nessuno coltiva. Ci sono strade che lui solo conosce e che gli altri ragazzi si struggerebbero di sapere: un posto, c’è, dove fanno il nido i ragni, e solo Pin lo sa ed è l’unico in tutta la vallata, forse in tutta la regione: mai nessun ragazzo ha saputo di ragni che facciano il nido, tranne Pin.
Forse un giorno troverà un amico, un vero amico, che capisca e che si possa capire, e allora a quello, solo a quello, mostrerà il posto delle tane dei ragni. (p. 53)

Questo ragazzo che nella sua breve esistenza ha già accumulato tante esperienze, non appartiene più all’universo infantile ma non ancora a quello degli adulti. Si sente solo e perso tra i due universi che ambedue sembrano espellerlo; è disperato, ma anche crudele e pieno di angosce:
Pin è cattivo con le bestie: sono esseri mostruosi e incomprensibili come gli uomini: dev’essere brutto essere una piccola bestia, cioè essere verde e fare la cacca a gocce, e aver sempre paura che venga un essere umano come lui, con una enorme faccia piena d’efelidi rosse e nere e con dita capaci di fare a pezzi i grilli. (p. 53s.)

L’amico tanto sognato, a cui potrà far vedere i misteri del sentiero dei nidi di ragno, questo amico Pin lo troverà soltanto dopo aver lasciato la brigata partigiana. L’ingenuità di Pin durerà ancora un po’ e il romanzo finisce sulla nota di una nuova illusione:
Pin è tutto contento. E davvero il Grande Amico, il Cugino.
Il Cugino si rimette il mitra in ispalla e restituisce la pistola a Pin. Ora camminano per la campagna e Pin tiene la sua mano in quella soffice e calma del Cugino, in quella gran mano di pane. (p. 199)

Contrariamente al lettore, Pin non sa che proprio il suo Grande Amico gli ha tolto l’unica persona che aveva al mondo, ammazzando la sorella prostituta; comunque il mondo di Pin non finisce mai di essere impenetrabile perché è sempre pluridimensionale. Basta ricordare che la sorella è anche la traditrice di Pin che lo ha denunciato ai soldati. Chiudendo il libro il lettore prevede la disperazione del ragazzo quando scoprirà la vera dimensione della cattiveria e brutalità dei grandi.
Così, Il sentiero dei nidi di ragno si inserisce in una lunga serie di romanzi sulla resistenza partigiana la quale, da Cesare Pavese a Luigi Meneghello, rifiuta la glorificazione troppo semplificata dell’ideologia repubblicana degli anni 50 e si mette a riflettere sulla complessità del fenomeno sociale che si nasconde dietro il mito popolare. Verso la fine del Novecento e l’inizio di questo secolo, i fili intrecciati di quel periodo delle vendette, tra lotta politica e concorrenza privata, saranno poi felicemente sfruttati dal giallo moderno, da Carlo Lucarelli (Carta bianca, 1990; L’estate torbida, 1991; Via delle oche, 1996) a Loriano Macchiavelli e Francesco Guccini (Tango e gli altri, 2007).
L’invenzione di un mondo fantastico e fiabesco offre a Calvino una via d’uscita dal vicolo cieco del neorealismo. Mentre il neorealismo finisce per esaurirsi completamente negli anni 50, Calvino propone altre norme e altre regole che si concretizzano nella creazione dei suoi personaggi inesistenti. Sono loro i protagonisti di una trilogia di romanzi fantastici che Calvino chiama I nostri antenati. In essi sono descritte in maniera allegorica e emblematica le posizioni che assumono, possono o potrebbero assumere gli intellettuali: il primo, Il visconte dimezzato scritto nel 1952, viene seguito nel 1957 da Il barone rampante. Eccone l’incipit:
Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi. (Milano: Garzanti 1985, p. 7)

Il giovane Cosimo respinge un piatto di lumache e si alza dalla tavola familiare per arrampicarsi sugli alberi del parco attorno alla villa paterna. Inizia così – raccontata dal fratello – la strana vicenda del rampollo di una famiglia nobile che vivrà la sua intera vita a venti metri da terra: si costruisce una capanna, sceglie dei vestiti adatti alla sua nuova condizione, prende lezioni dall’abate Fauchelafleur, e si fa anche degli amici, per esempio il bassotto Ottimo Massimo e il brigante Gian dei Brughi. Le sue avventure sono numerose: intraprende vari spostamenti, tra cui uno per far visita ad una colonia di spagnoli esiliati nel villaggio vicino, anche loro sistemati sugli alberi perché non hanno il diritto di toccar terra. Entra nel gioco anche l’amore: Cosimo si innamora due volte, ma né la prima né seconda volta i suoi sentimenti vengono ricambiati. Disilluso dai suoi tentativi amorosi egli comincia a dedicarsi attivamente alle nuove tendenze politiche conseguenti alla Rivoluzione francese. Diventa un collaboratore talmente prezioso dell’esercito della Repubblica che – dopo aver portato trionfalmente a termine la guerra rivoluzionaria – Napoleone viene di persona a complimentarsi con lui. Più tardi però, quando comincia a soffiare il vento contrario della Restaurazione, il vecchio Cosimo si attacca alla fune di una mongolfiera e ascende al cielo dell’Illuminismo:
Così scomparve Cosimo, e non ci diede neppure la soddisfazione di vederlo tornare sulla terra da morto. Nella tomba di famiglia c’è una stele che lo ricorda con scritto: „Cosimo Piovasco di Rondò – Visse sugli alberi – Amò sempre la terra – Salì in cielo.“ (p. 286)

Hans Hinterhäuser osserva a proposito del Barone rampante:
Diese Geschichte ist eine Allegorie der Position des Intellektuellen in der Gesellschaft, so wie Calvino sie verstand, nachdem er sie sich als eigene Haltung erkämpft hatte: ein Miteinander von Distanz und Solidarität, die Rolle des selbstverantwortlichen Beobachters und Analytikers ohne eigentliche politische Heimat; der Aufklärer auf Abruf. (Streifzüge durch die romanische Welt. Wien 1989, p. 224)

Eppure Calvino stesso, in una lettera scritta ad Armando Bozzoli, l’8 gennaio 1958, nega che questo libro sia un racconto allegorico; riflette piuttosto il tempo di un doloroso dissenso: la crisi dell’autore come intellettuale autonomo e affermato e le sue dimissioni dal partito comunista. E probabilmente per questa ragione, Calvino scelse un personaggio storico dalla carriera molto ambigua e in una posizione sociale isolata per affermare la propria funzione. Infatti, Luca Fucini avanza nel suo libro Il barone dell’Impero Tomaso Borea d’Olmo (2000) per la prima volta l’ipotesi convincente che dietro Cosimo si nasconda un vero barone ligure dell’epoca napoleonica, rampollo di una ricchissima famiglia di antica nobiltà. Tomaso Borea mostrò nella realtà storica una capacità di destreggiarsi che non fu certo inferiore a quella mostrata da Cosimo Piovasco nello spostarsi da un albero all’altro. Membro della deputazione di San Remo durante la temporanea occupazione austro-russa, diventato poi sindaco incontrò due volte Napoleone, ricevette nel 1813 il titolo di barone e baciò infine il piede di papa Pio VII di ritorno dalla prigionia di Fontainebleau. Inconfutabili consonanze con il testo di Calvino le cui invenzioni espressive appartengono però tutte all’autonoma forza dell’autore e alla felicità della sua scrittura.
L’ultimo romanzo della trilogia, Il cavaliere inesistente, uscì nel 1959. Con le speculazioni fantastiche che caratterizzano I nostri antenati Calvino si allontana in modo totale dal pensiero neorealistico: ormai le vicende narrate trovano la loro ragione d’essere nella loro esemplarità simbolica invece che nell’evidenza realistica. Nello stesso tempo egli si distacca anche, e sempre di più, da quello che lui stesso chiama „l’immagine romantica della letteratura“: nega all’autore il suo ormai anacronistico ruolo di portatore di messaggi o direttore di coscienza; perciò questo autore secondo Calvino non è più né organo sensibile né strumento professionale di espressione estetica e non espone più la propria anima alla mostra permanente delle anime eccezionali. Ormai Calvino propone un’altra immagine della letteratura e attribuisce allo scrittore un’altra funzione: la creazione letteraria si realizza attraverso un gioco combinatorio di mondi e lo strumento dell’autore diventa qualche cosa di simile ad una macchina letteraria capace di afferrare un qualsiasi materiale realistico e di farlo passare per tutte le permutazioni immaginabili. Un buon esempio n’è il racconto Il conte di Montecristo, pubblicato nella raccolta Ti con zero (Torino: Einaudi 1967; il libro vince il premio Viareggio 1968 che Calvino rifiuta però per disprezzo dei premi letterari). Il protagonista Edmondo Dantès si sdoppia: mentre rimane osservatore della propria situazione di prigioniero diventa anche il personaggio creato da Alexandre Dumas. Il tema centrale dell’episodio, la fuga dal castello d’If, si colloca perciò su due piani: quello reale rappresentato dalla fortezza in cui Edmondo Dantès è prigioniero e quello fantastico di una fortezza che esiste solo nel suo pensiero. Ed è appunto quello sdoppiamento tra realtà e fantasia che renderà possibile l’evasione perché la soluzione del problema non deriva dalla considerazione diretta della realtà bensì dalla riflessione intorno ad un modello creato dal pensiero:
Se riuscirò col pensiero a costruire una fortezza da cui è impossibile fuggire, questa fortezza pensata o sarà uguale alla vera – e in questo caso è certo che di qui non fuggiremo mai; ma almeno avremo raggiunto la tranquillità di chi sa che sta perché non potrebbe mai trovarsi altrove – o sarà una fortezza dalla quale la fuga è ancor più impossibile che di qui – e allora è segno che qui una possibilità di fuga esiste: basterà individuare il punto in cui la fortezza pensata non coincide con quella vera per trovarla.

Dopo aver portato a compimento il ciclo degli Antenati, Calvino cominciò ad interessarsi alla scuola del gruppo di autori francesi Oulipo, abbreviazione che sta per Ouvroir de littérature potentielle. Vi si trovavano già riuniti scrittori come Raymond Queneau e Georges Perec, e più tardi ne avrebbe fatto parte anche Calvino stesso. È più che probabile che fosse la lettura delle traduzioni di alcune opere di Queneau ad avere rinforzato nella favolistica del nostro autore l’importanza del gioco combinatorio, il quale acquista la funzione di struttura letteraria e come tale trova la sua manifestazione più esplicita in due opere che sono Il castello dei destini incrociati (Torino: Einaudi 1969) ed Le città invisibili (Torino: Einaudi 1972). L’atmosfera che l’autore riesce a creare in questi due romanzi ci riporta sì agli Antenati, ma con una differenza fondamentale: l’obiettivo del narratore non è più di raccontare una storia, per quanto essa fosse simbolica, ormai sono le idee ad assumere il ruolo di protagoniste ed è la loro evoluzione che viene rintracciata nel corso della vicenda. Perciò quel che all’inizio della lettura appare semplicemente come „il luogo che non esiste“ oppure „la città invisibile“ diventa progressivamente „il luogo ideale“, „la città di Dio di Sant’Agostino“. Questa tecnica di giochi combinatori somiglia ad un gioco di carte; qualunque sia la carta che si toglie dal mazzo, essa deve venir inserita nella partita che si sta giocando. Nella stessa maniera il narratore diventa una specie di cronista che trascrive i fenomeni, le cose che appaiono. Così come il caso mescola le carte del gioco, determina quali saranno i personaggi della vicenda e anche l’ordine in cui appariranno. Vorrei aggiungere che nel frattempo questa tecnica – evidentemente accessibile anche a chi non potrebbe di buon diritto chiamarsi scrittore – è passata in un tutt’altro campo: è infatti stata scoperta dalla didattica delle lingue, dalla quale viene sfruttata per incitare gli studenti a inventare e raccontare episodi e storielle.
Come osserva Mario Barenghi in Italo Calvino, le linee e i margini ( Bologna 2007), la centralità critica della sua opera si impone soprattutto nel ventennio 1965-85, anni nei quali il romanzo si rivela progressivamente, sotto l’influsso francese, l’ostaggio della teoria strutturalistica e della semiologia. Respingendo il realismo ideologico, l’introspezione sentimentale, le grandi architetture romanzesche, la narrativa famigliare e lo sperimentalismo linguistico, Calvino non può che concentrarsi sulle forme fiabesche e mitologiche, sull’avventura del percepibile e del pensabile. Calvino, ormai lo scrittore italiano più accademicamente consacrato, diventa un autore enigmatico, segreto, un razionalista tanto tenace quanto instabile e dubbioso, un romanziere attirato dal fantastico e dall’immaginato che costringe il pubblico ad uno sforzo intellettuale per individuare di che cosa parla. Quanto grandi e nuovi sono i territori del raccontabile che ha esplorato, tanto vasta e varia è la vita sociale e materiale che i suoi libri distanziano gradualmente fino a renderla quasi irrilevante e invisibile. Calvino opera modifiche radicali nel rapporto fra narrativa e realtà, e lo fa con una tale immaginazione e coerenza che i lettori ne sono ipnotizzati e si lasciano volentieri trascinare in un mondo alternativo.
Con Se una notte dinverno un viaggiatore, pubblicato nel 1979 di nuovo dalla casa editrice Einaudi, Calvino prosegue la sua serie di opere costruite attorno al tema della narrazione. Pertanto l’argomento principale è il rapporto che l’autore intreccia con la finzione letteraria, argomento in cui l’autore coinvolge però a tal punto il lettore da renderlo partecipe alla vicenda. Uno dei personaggi-chiave del romanzo centrato sul lettore e sulla lettura è un vecchio autore che riflette sulla difficoltà di raccontare storie. A un certo punto questo personaggio riassume dentro il romanzo quel che in verità è l’idea e la struttura esterna di esso:
M’è venuta l’idea di scrivere un romanzo fatto solo d’inizi di romanzo. Il protagonista potrebb’essere un Lettore che viene continuamente interrotto. Il Lettore acquista il nuovo romanzo A dell’autore Z. Ma è una copia difettosa, e non riesce ad andare oltre l’inizio... Torna in libreria per farsi cambiare il volume...
Potrei scriverlo tutto in seconda persona: tu Lettore... Potrei anche farci entrare una Lettrice, un traduttore falsario, un vecchio scrittore che tiene un diario come questo diario... (p. 197)

Del resto, il passaggio illustra anche molto bene il modo in cui Calvino realizza all’interno del romanzo il coinvolgimento del lettore, tipico per il cosiddetto Nouveau roman francese. Bisogna aggiungere che si tratta di una tecnica di cui André Gide si servì già nel 1925 per il suo romanzo Les faux-monnayeurs, in cui appare un romanziere che si propone di scrivere un romanzo su un romanziere. In questa cornice, che Gide chiama mise en abîme cioè scesa in abisso, Calvino ha inserito 10 inizi di romanzi che fanno il verso ai diversi generi e stili: vi troviamo il poliziesco, il realistico, l’introspettivo, l’erotico, il modello americano e così via. Tutti però sono riconducibili a una sola unità tematica: un personaggio maschile, l’io narrante, assume un ruolo che non è il suo, in cui si sente contemporaneamente attratto da un personaggio femminile e minacciato da una collettività di nemici. Così il senso generale del libro sembra essere il vano inseguimento di un ordine in un mondo disordinato e disorientato, cui si potrebbe applicare la definizione che nel capitolo decimo è data della polizia: una grande forza unificatrice in un mondo altrimenti votato alla disgregazione. In questa maniera, la letteratura diventa una forza dell’ordine, uno strumento d’interpretazione della realtà. In questa ottica l’autore assume la funzione di fornitore di una cornice favolistica costruita in modo da lasciare un massimo numero di possibilità al gioco mistificatorio della letteratura. Calvino si affida dunque al fantastico per non annegare nel „mare dell’oggettività“, come ha scritto lui stesso in un articolo del 1960 contro il Nouveau Roman francese e in particolare contro Alain Robbe-Grillet. Guardando da vicino le sue opere ci troviamo però confrontati al fatto sorprendente che, nonostante le sue riserve di fronte alla nuova scuola francese, il nostro autore ricorre ad un certo numero di tecniche sviluppate o almeno ampiamente applicate da essa: ne fa parte il modo di rivolgersi direttamente al lettore di cui ho parlato sopra, una tecnica che Michel Butor adopera per esempio in La Modification (Paris: Minuit 1957): „Vous avez mis le pied gauche sur la rainure de cuivre, et de votre épaule droite vous essayez en vain de pousser un peu plus le panneau coulissant.“ (p. 7) Per concludere, ecco l’explicit di Se una notte dinverno un viaggiatore:
Ora siete marito e moglie, Lettore e Lettrice. Un grande letto matrimoniale accoglie le vostre letture parallele.
Ludmilla chiude il suo libro, spegne la sua luce, abbandona il capo sul guanciale, dice: – Spegni anche tu. Non sei stanco di leggere?
E tu: – Ancora un momento. Sto per finire Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. (p. 263)

Anche la prima immagine dell’ultimo libro di Calvino, Palomar (Torino: Einaudi 1983), ci stupisce per il suo parallelismo con il racconto La spiaggia di Alain Robbe-Grillet, pubblicato nella raccolta Istantanee (Milano 1963), traduzione di Instantanés del 1962:
Ma a intervalli regolari, un’onda improvvisa, sempre la stessa, sorta a pochi metri da riva, si gonfia a un tratto e subito si frange, sempre allo stesso punto. Non si ha l’impressione, allora, che l’acqua venga avanti, poi si ritiri; è, invece, come se tutto quel movimento si svolgesse sul posto. Il rigonfiarsi dell’acqua provoca prima una lieve depressione dalla parte verso riva, e l’onda prende come una rincorsa, in un brusio di ghiaia smossa; poi esplode e si spande, lattiginosa, sul declivio, ma solo per riguadagnare il terreno perduto. Di rado accade che un afflusso più forte, qua e là, venga momentaneamente a bagnare qualche decimetro in più.

La gobba dell’onda venendo avanti s’alza in un punto piú che altrove ed è di lí che comincia a rimboccarsi di bianco. Se ciò avviene a una certa distanza da riva, la schiuma ha il tempo d’avvolgersi su se stessa e scomparire di nuovo come inghiottita e nello stesso momento tornare a invadere tutto, ma stavolta spuntando da sotto, come un tappeto bianco che risale la sponda per accogliere l’onda che arriva. Però, quando ci si aspetta che l’onda rotoli sul tappeto, ci si accorge che non c’è più l’onda ma solo il tappeto, e anche questo rapidamente scompare, diventa un luccichio d’arena bagnata che si ritira veloce, come se a respingerlo fosse l’espandersi della sabbia asciutta e opaca che avanza il suo confine ondulato. (6s.)

Il libro contiene 27 brani di prosa, divisi in 3 gruppi (Le vacanze di Palomar, Palomar in città, e I silenzi di Palomar). Il protagonista Palomar, uomo di carattere solitario, osserva con una certa ossessione le cose più vicine come quelle più lontane: il mare, le stelle, gli animali, e così via. Però questo personaggio – e qui risiede la differenza con la tecnica del Nouveau Roman – passa con facilità dall’osservazione alla meditazione e ci fa ritrovare, in questa maniera, i noti temi del pensiero di Calvino: la lingua oppure il detto e il non detto, l’umano e il suo contrario, la storia e la natura. L’importanza attribuita alla lingua quale strumento filosofico risulta chiaramente dalla lettura del brano seguente:
Questo negozio è un dizionario; la lingua è il sistema dei formaggi nel suo insieme: una lingua la cui morfologia registra declinazioni e coniugazioni in innumerevoli varianti, e il cui lessico presenta una ricchezza inesauribile di sinonimi, usi idiomatici, connotazioni e sfumature di significato, come tutte le lingue nutrite dall’apporto di cento dialetti. È una lingua fatta di cose; la nomenclatura ne è solo un aspetto esteriore, strumentale; ma per il signor Palomar impararsi un po’ di nomenclatura resta sempre la prima misura da prendere se vuole fermare un momento le cose che scorrono davanti ai suoi occhi. (p. 75s.)

Se in questo testo i diversi sistemi semiotici creati dalla cultura assumono il ruolo di strutturatori del mondo, si tratta chiaramente della ripresa di un’idea già espressa in Se una notte dinverno un viaggiatore, dove – come abbiamo visto – veniva attribuita alla letteratura la funzione di forza d’ordine capace di strutturare il caos del mondo.
Questo volume è stato riletto e interpretato – dopo la mancanza di Calvino nel 1985 – come un’opera profetica e testamentaria in quanto il suo ultimo capitolo contiene i pensieri di Palomar intorno alla propria morte:
Palomar pensando alla propria morte pensa già a quella degli ultimi sopravvissuti della specie umana o dei suoi derivati o eredi: sul globo terrestre devastato e deserto sbarcano gli esploratori d’un altro pianeta, decifrano le tracce registrate nei geroglifici delle piramidi e nelle schede perforate dei calcolatori elettronici; la memoria del genere umano rinasce dalle sue ceneri e si dissemina per le zone abitate dell’universo. E così di rinvio in rinvio si arriva al momento in cui sarà il tempo a logorarsi e ad estinguersi in un cielo vuoto, quando l’ultimo supporto materiale della memoria del vivere si sarà degradato in una vampa di calore, o avrà cristallizzato i suoi atomi nel gelo d’un ordine immobile.
„Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante, – pensa Palomar, – e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede piú la fine.“ Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita; e finché non li avrà descritti tutti non penserà piú d’essere morto. In quel momento muore. (p. 128)

In ultimo, vorrei ricordare la critica rivolta post mortem da Enzo Siciliano a Italo Calvino: è il rimprovero di aver sacrificato il suo estro creativo all’intellettualismo imposto dagli esponenti del gruppo 63. Non tutti la pensano così; i suoi difensori più eccelsi sono senza dubbio la famosissima coppia di scrittori Carlo Fruttero e Franco Lucentini dei quali parleremo alla fine del semestre. La loro risposta a Enzo Siciliano in difesa di Italo Calvino termina con la seguente citazione di Arthur Schopenhauer:
È vero che anche i più ottusi, per non tradire la propria nullità, s’inchinano davanti alle opere riconosciute grandi; ma nell’ombra si tengono sempre pronti a condannarle, non appena li si lasci sperare che possono farlo senza compromettersi. Nel che gioiosamente si sfoga il loro astio a lungo trattenuto contro tutte le cose grandi e belle, che per non averli mai toccati li umiliavano, e contro i creatori di quelle. (Se Calvino non piace a ..., in Tuttolibri, supplemento di La Stampa del 23 giugno 1990).

 

Fonte: http://homepage.univie.ac.at/alfred.noe/Narrativa/Narrativa2.DOC

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

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