Salvatore Quasimodo

 

 

 

Salvatore Quasimodo

 

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- Salvatore Quasimodo -

La poesia italiana degli anni Trenta è condizionata dal Fascismo (attraverso una dura politica di censura), che ha portato al ritorno dei canoni classici e della tradizione letteraria italiana. Molti letterati in questo periodo preferiscono tacere e non protestare nei confronti del regime. Uno di questi artisti è Salvatore Quasimodo. Nei versi del secondo dopoguerra, si avverte un mutamento significativo: Quasimodo aderisce ai temi politici della Resistenza con generoso impegno di poeta civile, cercando un dialogo con il mondo e con gli uomini sulla scia delle nuove problematiche sociali.
“La posizione del poeta non può essere passiva nella società, perché con la poesia si può attivare il cuore degli uomini e indurli alla riflessione per cambiare il mondo” afferma lo stesso Quasimodo.


La vita
Salvatore Quasimodo nacque a Modica (Ragusa) nel 1901. Nel 1908 si trasferisce con il padre, ferroviere, a Messina, distrutta dal terremoto. Dopo aver seguito studi tecnici a Palermo ed a Roma (che non porterà a termine a causa di difficoltà economiche) , nel 1929 si trasferisce a Firenze su invito di alcuni amici (fra cui Vittorini) legati all’ambiente della rivista “Solaria”. Nello stesso anno esordisce con la raccolta Acque e terre. Si trasferisce a Milano dove lavora come giornalista. Nel 1942 esce Ed è subito sera, che raccoglie tutta la produzione precedente. Molto importanti sono le traduzioni raccolte nel volume Lirici greci , Nel 1959 riceve il premio Nobel per la letteratura. Muore improvvisamente a Napoli nel 1968.


L’Ermetismo


In Italia, negli anni compresi tra le due guerre mondiali, si affermò un movimento letterario, l'ermetismo, caratterizzato dalla difficile comprensione dei suoi testi, a causa delle innovazioni apportate al linguaggio tradizionale (“ermetico” significa appunto “oscuro”, “incomprensibile”). Salvatore Quasimodo è da considerarsi tra i maggiori rappresentanti dell' ermetismo, per aver voluto restituire alla parola la sua carica espressiva, una parola pura in cui l'attenzione è rivolta al singolo termine e al suo valore ritmico.

 

Ride la gazza, nera sugli aranci – Ed è subito sera

 

Forse è un segno vero della vita:

intorno a me fanciulli con leggeri
moti del capo danzano in un gioco
di cadenze e di voci lungo il prato
della chiesa. Pietà della sera, ombre
riaccese sopra l'erba così verde
bellissime nel fuoco della luna !
memoria vi concedete breve sonno
ora destarvi. Ecco, scroscia il pozzo
per la prima marea. Questa è l'ora;
non più mia, arsi, remoti simulacri.
E tu vento del sud forte di zàgare,
spingi la luna dove nudi dormono
fanciulli, forza il puledro sui campi
umidi d'orme di cavalle, apri
il mare, alza le nuvole dagli alberi:
già l'airone s'avanza verso l'acqua
e fiuta lento il fango tra le spine
ride la gazza, nera sugli aranci.

La geografia della lirica di Quasimodo è l'isola nativa, la Sicilia, tuttavia non la Sicilia reale, ma quella mitica (in questo è influenzato da d’Annunzio). Il poeta ricorda la sua infanzia in quella terra, descrivendo i momenti di svago e la natura circostante in maniera mitizzata. La lirica è molto musicale grazie alla metrica in endecasillabi sciolti.

 

Milano, agosto 1943

Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
E’ morta: s’è udito l’ultimo rombo
Sul cuore del Naviglio. E l’usignolo
È caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.

Quasimodo dà voce ai bombardamenti che portano la devastazione di Milano e l’uccisione di civili innocenti non facendo distinzioni per età e sesso.  Descrive la sofferenza dei sopravvissuti che tra le macerie cercano invano oggetti perduti o persone care disperse.

 

Alle fronde dei salici

 

E come potevamo noi cantare

con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull'erba dura di ghiaccio, al lamento
d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero
 della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo ?
Alle fronde del salici, per voto,
anche le nostre cetre appese,
oscillavano lievi al triste vento.

La poesia viene scritta nel momento di pentimento di Quasimodo, per non essere intervenuto ad opporsi al fascismo. Quasimodo si ispira a un'immagine molto suggestiva, presente nel Salmo 137 della Bibbia: i poeti del popolo ebraico, schiavo a Babilonia, si rifiutarono di cantare per i loro oppressori e appendono i rami dei salici le crete con cui erano soliti accompagnare i loro versi. Quasimodo in questa poesia esprime tutto il suo odio verso gli “oppressori” (i nazisti). Alle fronde infatti sono appese le “cetre” che i poeti hanno messo da parte per quel periodo in modo da chiedere al Signore la grazia di far cessare il supplizio nazista. Un altro significato simbolico è il “piede straniero”, inteso come i soldati tedeschi che freddamente calpestano i sentimenti (il cuore) di tutto il popolo. Quasimodo, poi, fa dei riferimenti alla religione, usando altri significati simbolici come la “madre (Maria) che va incontro al figlio croci-fisso (Gesù)” oppure quando usa “l’agnello” come animale per rappresentare i lamenti dei bambini. Lui usa molto spesso questi riferimenti al Vangelo. “Il palo del telegrafoè messo quasi in antitesi con  il “figlio crocifisso”, proprio per accentuare il legame tra il Vangelo e la vita moderna, grazie anche ad un enjambements che divide crocifisso da figlio per metterlo più vicino possibile al “palo del telegrafo”. Malgrado questo, la poesia è scorrevole e l’italiano usato è quasi quotidiano, nonostante alcuni significati simbolici e alcune metafore che potrebbero bloccare la scorrevolezza della poesia. Inoltre è presente una sinestesia molto famosa: “l’urlo nero”, che rimanda all’urlo straziante delle madri per i loro figli partigiani (ed anche all’urlo della Madonna per Gesù).

 

 

fonte: http://riassuntibuse.altervista.org/Salvatore%20Quasimodo.doc Autore: non indicato nel documento

 


 

Salvatore Quasimodo

Salvatore Quasimodo

Salvatore Quasimodo nacque a Modica (Ragusa) il 20 agosto del 1901 e trascorse gli anni dell'infanzia in piccoli paesi della Sicilia orientale (Gela, Cumitini, Licata, ecc.), seguendo il padre che era capostazione delle Ferrovie dello Stato. Subito dopo il catastrofico terremoto del 1908 andò a vivere a Messina, dove Gaetano Quasimodo era stato chiamato per riorganizzare la locale stazione. Prima dimora della famiglia, come per tanti altri superstiti, furono i vagoni ferroviari.
Un'esperienza di dolore tragica e precoce che avrebbe lasciato un segno profondo nell'animo del poeta. Nella città dello Stretto Quasimodo compì gli studi fino al conseguimento nel 1919 del diploma presso l'Istituto Tecnico "A. M. Jaci", sezione fisico-matematica.
All'epoca in cui frequentava lo "Jaci" risale un evento di fondamentale importanza per la sua formazione umana e artistica: l'inizio del sodalizio con Salvatore Pugliatti e Giorgio La Pira, che sarebbe poi durato tutta la vita. Negli anni messinesi Quasimodo cominciò a scrivere versi, che pubblicava su riviste simboliste locali. Nel 1919, appena diciottenne, Quasimodo lasciò la Sicilia con cui avrebbe mantenuto un legame edipico, e si stabilì a Roma.
In questo periodo continuò a scrivere versi che pubblicava su riviste locali soprattutto di Messina, trovò il modo di studiare in Vaticano il latino e il greco presso monsignor Rampolla del Tindaro.
L'assunzione nel 1926 al Ministero dei Lavori Pubblici, con assegnazione al Genio Civile di Reggio Calabria, assicurò finalmente a Quasimodo la sopravvivenza quotidiana.
Ma l'attività di geometra, per lui faticosa e del tutto estranea ai suoi interessi letterari, sembrò allontanarlo sempre più dalla poesia e, forse per la prima volta, Quasimodo dovette considerare naufragate per sempre le proprie ambizioni poetiche.
Tuttavia, il riavvicinamento alla Sicilia, i contatti ripresi con gli amici messinesi della prima giovinezza, soprattutto il "ritrovamento" con Salvatore Pugliatti, insigne giurista e fine intenditore di poesia, valsero a riaccendere la volontà languente, a far sì che Quasimodo riprendesse i versi del decennio romano, per limarli e aggiungerne di nuovi.
Nasceva così in ambito messinese il primo nucleo di Acque e terre. Nel 1929 Quasimodo si recò a Firenze, dove il cognato Elio Vittorini lo introdusse nell'ambiente di "Solaria", facendogli conoscere i suoi amici letterati, da Alessandro Bonsanti, ad Arturo Loira, a Gianna Manzini, a Eugenio Montale, che intuirono subito le doti del giovane siciliano. E proprio per le edizioni di "Solaria" (che aveva pubblicato alcune liriche di Quasimodo) uscì nel 1930 Acque e terre, il primo libro della storia poetica di Quasimodo, accolto con entusiasmo dai critici dell'epoca, che salutarono la nascita di un nuovo poeta.
Nel 1932 vinse il premio dell'Antico Fattore, patrocinato dalla rivista e nello stesso anno, per le edizioni di "circoli", uscì Oboe sommerso. Nel 1934 Quasimodo si trasferì a Milano, che segnò una svolta particolarmente significativa nella sua vita e non solo artistica. Accolto nel gruppo di "corrente" si ritrovò al centro di una sorta di società letteraria, di cui facevano parte poeti, musicisti, pittori, scultori. Nel 1936 Quasimodo pubblicò con G. Scheiwiller Erato e Apòllion (prefazione di Sergio Solmi) ancora un libro fortunato con cui si concluse la fase ermetica della sua poesia. Nel 1938 lasciò il lavoro al Genio Civile e iniziò l'attività editoriale come segretario di Cesare Zavattini, che più tardi lo farà entrare nella redazione del settimanale il "Tempo". Nel 1938, per le "edizioni primi piani" uscì la prima importante raccolta antologica Poesie, con un saggio introduttivo di Oreste Macrì, che rimase tra i contributi fondamentali della critica quasimodiana. Il poeta intanto collaborava alla principale rivista dell'ermetismo, la fiorentina "letteratura". Nel 1939-40 Quasimodo mise a punto la traduzione dei Lirici greci, che uscì nel 1942 nelle edizioni di "corrente" e che, per il suo valore di originale opera creativa, sarà poi ripubblicata e riveduta più volte.
Sempre nel 1942 presso Mondadori uscì Ed è subito sera. Nel 1941 gli venne concessa, per chiara fama, la cattedra di Letteratura Italiana presso il Conservatorio di musica "G. Verdi" di Milano. Insegnamento che terrà fino all'anno della sua morte.
Durante la guerra, nonostante mille difficoltà, Quasimodo continuò a lavorare alacremente: mentre continuava a scrivere versi, tradusse parecchi Carmina di Catullo, parti dell'Odissea, Il fiore delle Georgiche, il Vangelo secondo Giovanni, Epido re di Sofocle (tutti lavori che vedranno la luce dopo la liberazione). Un'attività questa di traduttore, che Quasimodo portò avanti negli anni successivi, parallelamente alla propria produzione e con risultati eccezionali, grazie alla raffinata esperienza di scrittore. Numerosissime le sue traduzioni: da Ruskin, Eschilo, Shakespeare, Molière, Dall'Antologia Palatina, Dalle Metamorfi di Ovidio; e ancora da Cummings, Neruda, Aiken, Euripide, Eluard (quest'ultima uscita postuma).
Nel 1947, edita da Mondadori, uscì la sua prima raccolta del dopoguerra, Giorno dopo giorno, libro che segnò una svolta nella poesia di Quasimodo, al punto che si parlò e si continua a parlare di un primo e un secondo Quasimodo. Di fatto l'esperienza tragica e sconvolgente della seconda guerra mondiale, il profondo convincimento che l'imperativo categorico era quello di "rifare luomo" e che ai poeti spettava un ruolo importante in questa ricostruzione, fecero sì che Quasimodo sentisse inadeguata ai tempi una poesia troppo soggettiva, rinunciasse al trobar clus della sua prima maniera e si aprisse a un dialogo più aperto e cordiale, soffuso di umana pietà, rimanendo però fedele al suo rigore, al suo stile. Quest'ultimo aspetto spiega da un lato perché la poesia resistenziale di Quasimodo supera quasi sempre lo scoglio della retorica e si pone su un piano più alto rispetto all'omologa poesia europea di quegli anni; dall'altro, che non c'è vera rottura: solo che, rimanendo coerente con le proprie ragioni poetiche, il poeta, sensibile al tempo storico che viveva, accoglieva temi sociali ed etici e di conseguenza variava il proprio stile.
Dal 1948 Quasimodo tenne la rubrica teatrale sul settimanale "omnibus" (nel 1950, sempre come titolare della stessa rubrica, passò al settimanale il "tempo"). Nel 1949 uscì presso la Mondadori La vita non è un sogno, ancora ispirato, anche se un po' stancamente, al clima resistenziale.
Nel 1950 Quasimodo ricevette il premio San Babila e nel 1953 l'Etna-Taormina insieme a Dylan Thomas. Nel 1954 uscì per la casa editrice Schwarz Il falso e vero verde; un libro di crisi, con cui inizia una terza fase della poesia di Quasimodo, che rispecchia un mutato clima politico. Dalle tematiche prebelliche e postbelliche si passa a poco a poco a quelle del consumismo, della tecnologia, del neocapitalismo, tipiche di quella "civiltà dell'atomo" che il poeta denuncia mentre si ripiega su se stesso e muta ancora una volta la sua strumentazione poetica. Il linguaggio ridiventa complesso, più scabro; Quasimodo media lessemi anche dalla cronaca, il ritmo si fa più secco, suscitando perplessità in quanti vorrebbero il poeta sempre uguale a se stesso. Seguì nel 1958 La terra impareggiabile (Mondadori, Milano), premio Viareggio. Ancora nel 1958 Quasimodo mise a punto l'antologia della Poesia italiana del dopoguerra; nello stesso anno compì un viaggio in URSS, nel corso del quale venne colpito da infarto, cui seguì una lunga degenza all'ospedale Botkin di Mosca.
Il 10 dicembre 1959, a Stoccolma, Salvatore Quasimodo ricevette il premio Nobel per la letteratura e lesse il discorso Il poeta e il politico, venne pubblicato l'anno dopo nell'omonimo volume (Schwarz, Milano 1960) che raccoglie i principali scritti critici di Quasimodo. Al Nobel seguirono moltissimi scritti e articoli sulla sua opera, con un ulteriore incremento delle traduzioni.
Nel 1960, dall'Università di Messina gli venne conferita la laurea honoris causa; inoltre fu insignito della cittadinanza di Messina.
Sempre nel 1960 sul settimanale "Le Ore" gli venne affidata una rubrica di "colloqui coi lettori", che tenne fino al 1964, quando passò al "tempo" con una rubrica simile.
Nel 1966 Quasimodo pubblicò il suo ultimo libro, Dare e avere; un titolo emblematico per una raccolta che è un bilancio di vita, quasi un testamento spirituale (il poeta infatti sarebbe morto appena due anni dopo). Nel 1967 l'Università di Oxford gli conferì la laurea honoris causa. Colpito da ictus il 14 giugno 1968 ad Amalfi, dove si trovava per presiedere un premio di poesia, morì sull'auto che lo trasportava a Napoli.

 

Poetica

Il percorso poetico di Salvatore Quasimodo si apre con la raccolta "Acque e terre", che contiene alcuni temi fondamentali della successiva produzione. La raccolta oscilla tra la celebrazione di una mitica e serena infanzia nella lontana Sicilia e un senso di sofferta, ma a volte ricercata, condizione di sradicato; tra il senso di debolezza e caduta della carne e il rimpianto di una primitiva innocenza e di una perduta comunione con le cose. L'oscillazione si concretizza in alcuni motivi di fondo: malinconia e pena dell'esule, senso del male di vivere, angosciosa solitudine esistenziale, ansia di infinito e di assoluto, assalto dei sensi, preghiera di ascesi e di purezza.
Il nucleo tematico della lirica "Vento a Tindari" nasce, infatti, dalla conflittualità, sempre presente in Quasimodo e spesso anche ricercata, tra la memoria che ha bloccato nell'animo paesaggi e ricordi della terra siciliana e l'"aspro esilio" lontano dall'isola. Dal dissidio tra memoria e realtà germinano altre conflittualità: tra la fanciullezza cara e la maturità pensosa, tra l'amore di un tempo e la tristezza del presente che è "ansia di morire", amarezza e fatica.
In questo mondo poetico, fondato sull'amore della terra d'origine e sui ricordi d'infanzia e della famiglia, risuonano, ma con accenti personali, cadenze pascoliane, echi dell'"Alcyone" di D'Annunzio, suggestioni della "poesia nuova": dalla tecnica dell'analogia all'uso di forme ellittiche.
Con "Oboe sommerso" (1932) ed "Erato e Apollion" (1936), Quasimodo si adegua al gusto e alla sensibilità di tanto Ermetismo fiorentino, spesso esasperando la ricerca della parola essenziale, scarnificata e suggestiva, fino al limite dell'abuso di forme ellittiche e di analogismi. Il Quasimodo di queste opere traduce tutto, anche l'universo privato e dei ricordi della mitica Sicilia, in eleganze formali che mascherano però l'approssimazione e i limiti di tale esperienza. Esemplare in questo senso l'uso di immagini-formule, quali: nuvole, colombe, angeli, isole, fiumi, cielo, vento, aria, ecc.; e della parola-tema "luce" che diventa, anche per la solarità mediterranea dell'ambiente siciliano, un vero polo aggregante di analogie. Certe formule poi non hanno autenticità poetica, ma appaiono piuttosto come una forzatura intellettualistica: "Sono un uomo solo / un solo inferno".
L'ermetismo dominante di "Oboe sommerso" e di "Erato e Apollion" ha indotto molti critici a giudicare Quasimodo uno dei rappresentanti più qualificati di quella scuola. Ma Carlo Bo, esponente della critica ermetica e in un certo senso il teorico della scuola, afferma che molto arbitrariamente Quasimodo è stato ritenuto il responsabile maggiore dell'ermetismo, o, per lo meno, il rappresentante poetico più equilibrato. Oggi a distanza di tempo, secondo il critico, le cose hanno preso un altro rilievo e Quasimodo ci appare come un compagno di strada dell'ermetismo, come uno che vi si è trovato a vivere in un dato momento e per spirito di cameratismo ha creduto di dover condividere motivi critici e posizioni che, in fondo, contrastavano con la sua vera natura. L'ermetismo, dunque, non apparterrebbe alla più autentica fisionomia di Quasimodo; l'ermetismo, come qualcun altro ha sottolineato, sarebbe stato per il poeta siciliano un " equivoco ".
(La Sicilia-Eden) La poesia di Quasimodo trae un elemento di chiarificazione dalla traduzione dei "Lirici greci", apparsa nel 1940. (Traduce anche Omero, i tragici greci, i poeti latini Catullo, Virgilio, Ovidio, e poi Shakespeare, Neruda e altri). Lo stesso Quasimodo spiega che non ha inteso restituire alla poesia greca le sue forme originarie, bensì rivestirla di una forma moderna. Queste versioni, pertanto, devono collocarsi nell'area creativa di Quasimodo, perché il poeta riesce a conferire al testo originale una nuova "scrittura" che risente del gusto ermetico del tempo. Ma la nuova retorica ermetica, applicata a sentimenti e situazioni poetiche sciolte da ogni contesto contemporaneo, vi raggiunge la massima purezza. È razionale perciò la diffusa persuasione che in esse il poeta tocchi il suo punto più alto; comunque è certo che quelle versioni esercitarono sul linguaggio poetico medio e medio-alto un influsso pari e forse superiore e più duraturo della lirica "originale" del loro autore. L'esito felice di queste traduzioni, con la raggiunta purezza e trasparenza espressiva dopo tanta oscurità allusiva, influisce anche sulla contemporanea produzione poetica di Quasimodo, soprattutto sulle "Nuove poesie" che concludono il volume "Ed è subito sera" del 1942, caratterizzata da un più ampio respiro espressivo, da una resa musicale più sciolta, dal recupero di forme metriche tradizionali. Il sapore e i colori della sua terra, ossia la Sicilia dell'infanzia fermentante di umane presenze e di struggenti memorie, l'"alta malinconia dell'esiliato" trovano ora accenti e forme più autentiche. Di fronte allo sgretolarsi del vivere, alla monotonia dell'esistere, al dolore e alla disgregazione senza scampo che il poeta ha scoperto nella vita, la Sicilia, e con essa l'infanzia, mitizzate e favolose, divengono un rifugio, un paradiso perduto di una beata comunione con la natura, un Eden nostalgicamente contemplato nella memoria e a cui il poeta di tanto in tanto approda pacificato.

La poesia "sociale" del dopoguerra

La parabola creativa di Quasimodo riflette la storia della nostra poesia contemporanea: dall'Ermetismo al bisogno di un colloquio più aperto con gli uomini. L'irrompere tragico della guerra, infatti, porta il poeta a una revisione dei suoi modi di fare poesia, soprattutto incidendo sui contenuti. Con le raccolte "Giorno dopo giorno" (1947) e "La vita non è sogno" (1949) si ha, almeno apparentemente, il rifiuto del passato alla ricerca di un più marcato impegno civile e sociale. Per Quasimodo la guerra ha interrotto una cultura e proposto nuovi valori dell'uomo; e se le armi sono ancora nascoste, il dialogo dei poeti con gli uomini è necessario, più delle scienze e degli accordi tra le nazioni che possono essere traditi.  Nella nuova realtà dunque c'è bisogno di poesia sociale che aspira al dialogo più che al monologo. C'è bisogno soprattutto di "rifare l'uomo": questo è il problema capitale, questo è l'impegno, secondo Quasimodo. A coloro i quali credono che la poesia sia solo un gioco letterario e che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita Quasimodo risponde che "il tempo delle speculazioni è finito".
Sono dichiarazioni che si sintonizzano con l'impegno propugnato dalla narrativa neorealistica che si andava affermando e dibattendo in quegli anni post-bellici, e che testimoniano una volontà di rinnovamento, lo sforzo di uscire dalla solitudine aristocratica della "lirica pura". La voce del poeta si leva sulle rovine e sui dolori della guerra, condanna la barbarie consumata e la violenza dell'uomo diventato peggiore di Caino. Ma su questo deserto di morte e di distruzione sembra intravedersi un raggio di speranza: sulla legge dell'odio trionferà quella dell'amore, l'umanità risorgerà dalle rovine della guerra come è risorto Lazzaro dalla tomba. Di fronte alla nuova poesia "impegnata" di Quasimodo la critica si è divisa, e sostanzialmente lo è tuttora. Alcuni vedono una continuità di ispirazione tra il poeta ermetico e il poeta della realtà della storia vera e attuale, e insistono sull'unità del cammino artistico rivendicandone il valore morale. Altri, forse i più, nella tematica umanistico-sociale avvertono, al di là di alcune zone di intensa significazione e di felice resa poetica, un sapore di insincerità e di retorica, anche se di nobile retorica.
"Uomo del mio tempo" è l'ultima lirica di "Giorno dopo giorno" e, come le altre che compongono la raccolta, riflette la "svolta impegnata" di Quasimodo, la sua intenzione di "rifare l'uomo" attraverso una poesia che affondasse la tematica nella realtà e nelle condizioni dell'uomo del suo tempo. Il compito era indubbiamente alto, forse troppo per gli strumenti a disposizione di Quasimodo, e la poesia approda spesso a risultati di nobile retorica, di alto magistero morale, ma distante da un felice esito artistico.
"Uomo del mio tempo" è un implacabile atto di accusa contro l'agghiacciante disumanità della guerra, contro la ferocia, bestiale e razionale allo stesso tempo, a cui si sono abbandonati gli uomini nella seconda guerra mondiale. Agli occhi del poeta appare un'umanità mostruosa che inizia il suo cammino col più belluino dei suoi gesti: il fratricidio. Su di un piano morale, l'uomo dell'epoca attuale non si discosta dall'uomo dell'età della pietra, che scaricava la sua istintualità selvaggia contro i suoi simili con il sasso scagliato dalla fionda. Il progresso della civiltà non ha certamente mutato quegli istinti primordiali: l'odio è rimasto uguale e insaziabile. 
L'insistita ripetizione nella poesia del verbo "uccidere" vuole, infatti, sottolineare la continuità della violenza e di una condizione dell'uomo che, dalle origini a oggi, non ha mutato i suoi animaleschi istinti aggressivi. L'uomo ripete ancora oggi il fratricidio della " Genesi ", quasi a scontare la maledizione biblica di quell'originaria colpa.
Quasimodo rimprovera all'uomo del suo tempo non solo di essere ancorato ancora alla dimensione morale della preistoria, ma anche di aver costretto la sua scienza così superbamente perfezionata a divenire strumento di sterminio, piuttosto che di civile progresso, senza curarsi di un sia pur minimo sentimento di solidarietà e d'amore per i suoi simili, senza Cristo, simbolo d'amore oltre ogni fede e ogni ideologia. Non solo, quindi, non è mutato nulla da allora, ma l'uomo ha mirato a perfezionare sempre di più gli strumenti dello sterminio; ha rivestito la guerra di ideali, legittimando perfino gli assassini. La cosiddetta "civiltà", quindi, invece di rendere gli uomini più buoni, li lasciò fermi nei loro istinti di primitivi, di uomini-belva, alla barbarie di Caino. Ma le nuove generazioni devono avere ora il coraggio di vergognarsi dei loro padri e di dimenticarli, piuttosto che vergognarsi di essere uomini, e devono sostituire, finalmente, la legge di Caino con quella di Cristo.

 

Fonte: http://www.studenti.it/download/scuole_medie/Salvatore%20Quasimodo.doc
Autore: non indicato nel documento

 

Salvatore Quasimodo

Salvatore Quasimodo nacque e visse l’infanzia in Sicilia.  I suoi esordi letterari sono collegati al gruppo della rivista fiorentina “Solaria”, al quale fu introdotto dal cognato Elio Vittorini.  Proprio su “Solaria” venne pubblicata la sua prima raccolta “Acque e terre” (1930).  Fu però con le due successive raccolte: “Oboe sommerso” (1932) e “Erato ed Apollion” (1936) che il poeta raggiunge la fama ed iniziò ad essere considerato uno dei rappresentanti di punta dell’ermetismo.
L’Ermetismo è una corrente poetica che si sviluppa nel primo dopoguerra, soprattutto negli anni trenta, attorno alle riviste fiorentine “Il Frontespizio” e “Campo di Marte” e deve il suo nome alla definizione negativa data da un critico avverso, Flora.  Essa nasce come risposta sia al «dannunzianesimo più enfatico e morboso»(3) sia al «pascolismo più flebile»(3), rifacendosi alle esperienze del simbolismo francese, in particolare a poeti come Mallarmè e Valere.  I poeti ermetici, tra cui ricordiamo, oltre a Quasimodo, Ungaretti, Gatto, Sinisgalli e Luzi, avevano in comune il desiderio di restituire alla parola poetica la sua carica espressiva, di cercare una poesia pura, fuori dal tempo e spogliata di ogni elemento autobiografico se non come testimonianza della vocazione a poeta.  Il critico ermetico Bo suggeriva difatti una «letteratura come vita»: la poesia proviene da una zona remota dell’essere, come una sorta di intuizione-rivelazione che procede per enigmi ed analogie.  La parola pertanto perde i caratteri comunicativi per conservare solamente quelli evocativi, con la presenza anche di implicazioni religiose.  Sul piano stilistico, con la parola divenuta cosa, unico modo di catturare una realtà intangibile, vi è abbondanza di frasi nominali, con la rinuncia ad una trama ragionativo-narrativa, al quale si sostituisce un messaggio verticale, per accumulo cioè di rivelazioni prive di concatenazione e sviluppo.
Le influenze più importanti sull’ermetismo furono le correnti irrazionalistiche del secolo e la cultura cattolica italiana e francese, ma si può notare anche come l’ermetismo continui atteggiamenti del Decadentismo come ad esempio il carattere lirico-evocativo, la chiusura del letterato in una “torre d’avorio”, il rifiuto del contatto col pubblico, il disimpegno politico.  Tuttavia l’isolamento degli ermetici dallo spazio della storia proprio mentre si imponeva il fascismo venne criticato dai letterati impegnati del secondo dopoguerra, ai quali gli ermetici risposero che d’altronde l’isolamento era l’unica forma di rifugio contro la retorica trionfalistica del regime.

 

Ed è subito sera (da “Acque e terre”, 1930)
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

Questa «brevissima illuminazione lirica»(2) è una delle più famose di Quasimodo e delle più significative dell’Ermetismo.  Si noti la mancanza di articoli, particolarità che caratterizza tutta la corrente ed è in accordo con la ricerca della forza evocativa della parola essenziale e suggestiva.  Essa presenta motivi e stili frequenti nella poesia moderna: il verso libero, il frammento rapido e suggestivo, la cupa solitudine dell’uomo, l’esistenza sentita come un angoscioso andare fra le tenebre.  Ogni uomo è difatti solo nel mondo e lo inchioda alla vita un raggio di sole, una speranza di amore che è anche tormento, ma che presto trapassa nella sera della morte.
«Questi famosi versi si possono considerare esemplare espressione della poesia ermetica per il tema, per l’ardito rapporto analogico (trafitto / raggio), per l’epigrammatica essenzialità dell’ultimo verso che continua e ribalta l’immagine espressa nel secondo (sole / sera) ed è ricco di una forte carica emblematica»(1).

Caratteristica che distingue però Quasimodo dagli altri ermetici è il suo linguaggio musicale, probabilmente ricavato dall’incontro coi grandi poeti greci di cui fu grande traduttore e «la tendenza a un discorso poetico più spiegato, legato al fluire della memoria».(2)  Con la pubblicazione della raccolta “Nuove poesie” (1936-42), poi confluita assieme a tutte le precedenti in “Ed è subito sera” (1942) appare difatti un motivo dominante della poesia di Quasimodo: i ricordi.  Essi sono soprattutto fissati nel paesaggio della Sicilia.  Essa è l’infanzia, simbolo di una primitiva innocenza e comunione con le cose che è ormai perduta.  «Come tanti altri intellettuali meridionali, Quasimodo sente l’allontanamento dalla terra natia come uno “strappo”, come un’esperienza traumatica che alimenterà però tanta parte della sua poesia»(1).  La rievocazione autobiografica non è però di stampo romantico bensì ermetico (gli ermetici proponevano una lirica spogliata di qualsiasi elemento autobiografico): nella sua pena legge la pena di tutti gli uomini.  Liriche esemplari è a tale riguardo sono “Strada di Agrigentum” e “Ride la gazza, nera sugli aranci”.

 

Strada di Agrigentum (da “Nuove Poesie”, 1938)
Là dura un vento che ricordo acceso
nelle criniere dei cavalli obliqui
in corsa lungo le pianure, vento
che macchia e rode l'arenaria e il cuore
5     dei telamoni lugubri, riversi
sopra l'erba. Anima antica, grigia
di rancori, torni a quel vento, annusi
il delicato muschio che riveste
i giganti sospinti giù dal cielo.
10   Come sola nello spazio che ti resta!
E più t'accori s'odi ancora il suono
che s'allontana verso il mare
dove Espero già striscia mattutino
il marranzano tristemente vibra
15   nella gola del carraio che risale
il colle nitido di luna, lento
tra il murmure d' ulivi saraceni.

La poesia “Strada di Agrigentum” è emblematica di uno dei motivi della poesia di Quasimodo: la trasfigurazione della Sicilia, attraverso il ricordo (si noti il verso primo), in un paradiso perduto (tante sono le immagini di una natura che sembra paradisiaca) che acquista tanto più fascino quando il poeta si pone come “esiliato”.  Questo suo esilio rende la terra natia lontana sia nello spazio che nel tempo e pertanto tipicamente ermetica.  La lirica si presenta come una nostalgica rievocazione che, seppure contenga riferimenti autobiografici, ha qualcosa di vago: i paesaggi, gli animali e le cose sembrano remotamente lontani, come immagini che appaiono in un sogno in lento movimento e poi svaniscono subito per la sovrapposizione di altre.  L’anima del poeta sembra incarnare attraverso il ricordo tutta la storia (è «antica») e la nostalgia (grigia) della sua terra.  Il ricordo della bellezza della terra fa pensare al poeta la sua solitudine attuale (verso 10) ed evoca allora immagini tipiche della Sicilia: il marranzano e un uomo che spinge il carretto.  Il recupero della tradizione, storica e letteraria, era per Quasimodo un mezzo per resistere alla barbarie nazifascista.

 

 

Nelle raccolte dopo la guerra avviene una sostanziale svolta nella poesia di Quasimodo.  Si possono difatti distinguere due fasi nella produzione del poeta: prima del 1945 e dopo.  Nella prima sono ricorrenti una serie di temi che Finzi ha così sintetizzato: «Sicilia infanzia mito esilio», con moduli sofisticati ed ermetici.  Nella seconda subentrano invece i temi legati alla guerra e alle questioni sociali, con moduli più narrativi e corroborati da un vero e proprio impegno politico.  Sono di questo periodo le raccolte “Con il piede straniero sopra il cuore” (1946), “Giorno dopo giorno” (1947), “La vita non è sogno” (1949).
«Io non credo alla poesia come "consolazione", ma come moto a operare in una certa direzione in seno alla vita, cioè "dentro" l’uomo. Il poeta non può consolare nessuno, non può "abituare" l’uomo all’idea della morte non può diminuire la sua sofferenza fisica, non può promettere un eden, né un inferno più mite... Oggi poi, dopo due guerre nelle quali l’"eroe" è diventato un numero sterminato di morti, l’impegno del poeta è ancora più grave, perché deve "rifare" l’uomo, quest’uomo disperso sulla terra, del quale conosce i più oscuri pensieri, quest’uomo che giustifica il male come una necessità, un bisogno al quale non ci si può sottrarre... Rifare l’uomo, è questo il problema capitale. Per quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita, uno che sale di notte le scalette della sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo delle speculazioni è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno.»
(Salvatore Quasimodo, La Fiera Letteraria, giugno 1947)

 

Alle fronde dei salici (da “Giorno dopo giorno”, 1947)
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

Nel settembre 1943 l’Italia risultava divisa in due parti: nella parte meridionale, controllata dagli Alleati, era stata restaurata la monarchia, sotto il re Vittorio Emanuele III. Nella parte centro-settentrionale, occupata dai tedeschi, Mussolini aveva creato la Repubblica sociale italiana.  Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 l’esercito di liberazione condusse una lotta senza esclusione di colpi contro i tedeschi e i fascisti, che rispondevano con rastrellamenti, deportazioni e veri e propri massacri.  Di fronte agli orrori, ai mali della guerra, i poeti non potevano scrivere poesie, ma solo agire, così come gli antichi ebrei schiavi a Babilonia che appesero le loro cetre ai rami dei salici.  Particolarmente forti, dure, crude sono le immagini di questa lirica: i morti nelle piazze, la madre che vede il figlio crocifisso sul palo del telegrafo.  Il testo, costituito da una sola strofa presenta due periodi: il primo è una lunga interrogazione, il secondo una rapida dichiarazione.  I temi principali esposti sono due: i mali della guerra che non lascia spazio ad alcuna pietà e la poesia come impegno civile, per rifare l’uomo e con esso la società, abbruttiti dagli orrori del conflitto.

 

Milano, agosto 1943 (da “Giorno dopo giorno”, 1947)
Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio. E l’usignolo
È caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.

Nell’agosto del 1943 violenti bombardamenti colpiscono Milano.  L’abituale immagine della città viene sconvolta: ovunque si possono vedere segni di violenza, di distruzione, di morte.  Il poeta, testimone di tanta tragedia, si fa interprete del dolore di tutti.  Dapprima descrive il bombardamento: tra le macerie (polvere è metonimia) inutilmente si cercano i propri cari mentre sul Naviglio scoppia un ultima bomba.  Successivo al bombardamento vi è il silenzio, che forse è ancora peggio perché è un silenzio di morte, che non è turbato da nulla, nemmeno dal canto di un usignolo.  Infine lo smarrimento impotente e la disperazione della popolazione sopravvissuta che non può fare nulla, nemmeno seppellire i morti, già custoditi sotto le macerie. Anche qui le immagini sono dure, supportate da un linguaggio fatto di parole semplici, vicine al parlato: “invano cerchi tra la polvere, povera mano”, “la città è morta”, è l’usignolo caduto dall’antenna”, “non scavate pozzi nei cortili: i vivi non hanno più sete”, “non toccate i morti … lasciateli nella terra delle loro case …”.  Come “Alle fronde dei salici”, anche questa lirica è una condanna alla guerra, macchina infernale di violenza, distruzione, omicidi che uccide affetti, desideri e voglia di vivere.

 

 

Lamento per il Sud (da “La vita non è sogno”, 1946-1948)

La luna rossa, il vento, il tuo colore
di donna del Nord, la distesa di neve …
Il mio cuore è ormai su queste praterie,
in queste acque annuvolate tra le nebbie.
5   Ho dimenticato il mare, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani
le cantilene dei carri lungo le strade
dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,
ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru
10 nell’aria dei verdi altipiani
per le terre e i fiumi della Lombardia.
Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria.
Più nessuno mi porterà nel Sud.

Oh, il Sud è stanco di trascinare morti
15 in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,
20 che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,
costringono i cavalli sotto coltri di stelle,
mangiano fiori d’acacia lungo le piste
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.
25 Più nessuno mi porterà nel Sud.

E questa sera carica d’inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
Il mio assurdo contrappunto
di dolcezze e di furori,
un lamento d’amore senza amore.

Il poeta, vivendo da molto nel Nord, non sente più lo “strappo” dalla sua terra natia ed ormai al mare, alla gente ed ai paesaggi siciliani si è sostituita la natura del Nord, il viso della sua donna, le nebbie.  Con un grido forte (verso 12) il poeta rivendica però la sorte della sua patria ed esprime una aspra denuncia per le condizioni in cui si trova.  Il divario esistente tra Sud e Nord era già allora molto ampio ed il poeta tenta così di inserirsi nelle voci che richiamano l’attenzione della classe politica italiana riguardo alla questione del Meridione.  Le solite immagini dure, che contrastano fortemente con quelle dei ricordi del poeta, nelle quali la pietà e il senso di umanità sembrano non solo essere dimenticati, ma quasi non fossero mai state presenti sono assimilabili a quelle delle due poesie “Alle fronde dei salici” e “Milano, Agosto 1943”.  La sua denuncia si rivolge anche alla esperienza storica dell’Italia Meridionale: incrocio di popoli che combattevano sulla sua terra (“bestemmie di tutte le razze che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi”) dove poi eserciti occupanti sfiancavano sia morale che risorse del paese (“hanno bevuto il sangue del suo cuore”).  Per questo ora i fanciulli, simbolo di speranza per la vita futura, sono costretti a badare alle bestie fino a tarda sera, soffrendo la fame.  Lo sdegno del poeta è sincero ma discorde (contrappunto): da una parte i suoi ricordi dolci e pieni d’amore, dall’altra la realtà attuale cruda e colma di sdegno.  È per questo “un lamento d’amore senza amore” e niente lo riporterà nel Sud se non i ricordi.

Nel 1959 Quasimodo ricevette il Premio Nobel per la letteratura, non senza riserve dei critici italiani, con la seguente motivazione: «per le sue poesie che, con ardore classico, esprimono il sentimento tragico della vita del nostro tempo».  Nel 1968, mentre presiedeva la giuria per l’assegnazione di un premio di poesia, morì a seguito di una emorragia cerebrale.
La critica degli ultimi decenni (Mengaldo e Contini) hanno ridimensionato il valore ed il significato della poesia di Quasimodo, sottolineando più «la sua abilità nel rimodellare echi e movenze altrui che la sua originalità»(1).  Concorde resta il giudizio positivo sulla sua traduzione con stile ermetico dei “Lirici greci”.

 

Bibliografia:

  1. Salvatore Guglielmino, Guida al novecento   ed. Principato, 1998
  2. Mario Pazzaglia, Il Novecento   ed. Zanichelli 2000
  3. Enciclopedia della letteratura Garzanti, 1997
  4. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Palombo Editore, 1991
  5. http://www.guidamaturita.it/mappe/quasimodo/antologia1.htm

 

fonte: http://www.ghiacciato.it/scientifico/ita/Salvatore%20Quasimodo.doc
Autore: non indicato nel documento

 

Salvatore Quasimodo

 

 

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