Virginia Woolf vita e opere

 

 

 

Virginia Woolf vita e opere

 

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Virginia Woolf

 

Fa parte di quegli artisti che cercano un nuovo linguaggio per dare voce al complesso mondo interiore dei sentimenti e dei ricordi, delle impressioni e delle emozioni.

 

E’ ovviamente influenzata dalla psicanalisi di Freud e dalla concezione di Bergson del tempo ( distingue il tempo interiore da quello esteriore).

Utilizza un linguaggio quasi “impressionista”, con cui da luce e colore. Ad esso aggiunge una componente allusiva ed emozionale ( intangible, vague, shapeless) che esprime i sentimenti intimi.


La scrittura è fluida, piena di rime, ripetizioni e metafore.

 

Per dar voce all’interiorità utilizza non un narratore onnisciente ma i vari punti di vista della mente dei personaggi (subjective reality) con flashback, associazioni di idee e impressioni sul momento che assumono le connotazioni di un flusso di coscienza ( l’estremizzazione del monologo interiore).
I pensieri dei personaggi non sono costruiti come in un soliloquio ma immediati come nel monologo interiore.

Il monologo interiore può essere di 4 tipi, i primi due indiretti e il 3 e 4 diretti:

  1. presenza del narratore in terza persona, col controllo del testo.
  2. si mescola il mondo interno ed esterno [es Proust l’odore dei biscotti (reale-esterno) rievoca (ideale-interno) sensazioni vissute]
  3. mancano elementi esterni, cosi i pensieri scorrono in libertà, narratore in prima persona.
  4. vi è solo la componente interna, espressione del subconscio, così viene meno il controllo sul testo, il linguaggio è il linguaggio dell’interiorità, confuso sia nella grammatica che nella sintassi (è il flusso di coscienza = stream of consciousness)

V.Woolf predilige il monologo interiore di 2 tipo, cioè i pensieri dei suoi personaggi non vanno mai fuori controllo, mantengono sempre un’organizzazione logica e grammaticale: fonde il flusso di coscienza con il monologo di primo tipo: interiorità   + esterno, controllo (3rd person narrator).
Ciò a differenza di Joyce che a volte estremizza il monologo interiore con una sintassi incoerente e mancante ad esempio di punteggiatura.
Però in comune con Joyce vi è il moment of being che è una specie di epiphany.

Uno dei masterpiece di V.W è TO THE LIGHTHOUSE, “gita al faro”.
Il libro è diviso in tre sezioni e vede come protagonista la famiglia Ramsay: nella prima [the window]durante la vacanza in Irlanda Mrs Ramsay scende dalla finestra e dice al figlio James che il giorno successivo sarebbero andati in gita al faro, ma il padre boccia la proposta dicendo che sarebbe stato brutto tempo.
Nella seconda sezione [the time] V.W vuole dare la sensazione del tempo che è passato, Mrs Ramsay è morta e il marito è alla deriva, senza più nessuno che lo conforti e ha profondi dubbi sul suo valore di uomo.
Nella parte finale [to the lighthouse] la famiglia torna in Irlanda e stavolta il padre forza James e la sorella ad andare al faro, cosi mentre s’incamminano James cresce, matura, supera il contrasto col padre invece la sorellina ancora piccola non capendo rimane in silenzio col padre.
Il percorso di maturazione è sottolineato anche dal fatto che Lili Briscoe, un’amica di famiglia, mentre nella prima sezione cerca di dipingere la casa dei Ramsay nutrendo dei dubbi sull’arte e la sua vita, ora nell’ultima sezione completa l’opera con il faro.

To the lighthouse è un esempio lampante del monologo di 2 tipo; nell’opera, in cui è usato il pronome di terza persona, vi è la mescolanza tra esterno e interno, dalla realtà esterna alle sensazioni dei personaggi.
La casa trasandata di mrs Ramsay è la sua stessa trasandatezza, vi è una coincidenza e scambio tra l’esteriore e l’interiore; in più il disordine dei libri è il disordine dell’interiorità mrs di Ramsay.

 

L’altra grande opera di V.W. è MRS DALLOWAY.
Alle 10 del mattino di un mercoledì del giugno del 1923, Clarissa Dalloway si dirige a Bond Street per comprare dei fiori per il party che darà la sera stessa. Mentre entra nel negozio di fiori, una macchina passa rumorosamente per la strada di fronte il negozio. Clarissa guarda verso la strada e vede Septimus, un veterano della prima guerra mondiale, e sua moglie Lucrezia mentre stavano camminando. Septimus soffre di disordini mentali poiché durante la guerra vide il suo migliore amico Evans morire di fronte a lui. Per tale motivo è costretto dalla moglie a sedute con lo psicologo William Bradshaw. Clarissa torna a casa dopo aver comprato i fiori e riceve una visita inaspettata da Peter, un suo amico di infanzia. Dopo tale visita, Peter si dirige verso Regent's Park. Qui vede Septimus e Lucrezia mentre vanno dallo psicologo William Bradshaw per una seduta che durerà 45 minuti con il risultato che Septimus verrà riunchiuso in una clinica. Per tal motivo Septimus alle 6 di sera si getta dalla finestra di fronte agli occhi della moglie. Qualche ora dopo inizia la festa di Clarissa. La famiglia dello psicologo William Bradshaw arriva in ritardo portando a Clarissa la notizia della morte di Septimus. Nonostante Carissa non conoscesse Septimus, essa prova un forte senso di inquietudine, una forte connessione con il suicida.
Septimus suicide:
questo è l’ultimo momento in cui vediamo Rizia e Septimus ancora insieme. La donna, innamorata del marito e desiderosa di rimanere con lui, cambia idea e cerca in tutti i modi di non farlo portare nella clinica, comportandosi nei suoi confronti come una chioccia con il suo pulcino. Ella è l’unica che riesca a mettere ordine nella vita di suo marito. In contrapposizione, i medici sono visti come coloro che non capiscono nulla del loro paziente e che non agiscono nel suo vero interesse. Ciò che Septimus teme maggiormente è che venga violata la sua intimità, per proteggere la quale medita il suicidio. Un senso di angoscia opprimente lascia spazio alla lucida riflessione sulla maniera in cui morire: il coltello no, la morte deve essere pulita. Ma lui non otterrà una morte pulita, perché cadendo finirà sulle grate del cancello e il suo corpo finirà sfracellato. Aveva 33 anni. La porta è ciò che dal mondo esterno entra nel nostro animo [medico]; la finestra è quello che noi vogliamo portare all’esterno nel nostro io [l’ultimo grido, “te la faccio vedere io!”].

At Clarissa’s Party:
la donna sente la notizia della morte di Septimus e, anche se non conosceva l’uomo, ne rimane sensibilmente sconvolta. Dice di percepirne addirittura i sentimenti prima dell’istante finale. Septimus e Clarissa sono 2 facce di una stessa medaglia, doppi l’uno dell’altra: ma come Septimus ha deciso di uccidersi pur di proteggere la propria intimità così gelosamente custodita, Clarissa decide di vivere. Ella si rispecchia nella vecchietta che va a letto da sola e chiude le tende e la luce con gesto sicuro. Per avere un attimo di riflessione si era isolata in una stanza; ma adesso ella è pronta a tornare nel salotto, in mezzo ai suoi invitati, riprendendo la sua vita sociale e accettando di continuare a vivere.

 

Fonte: http://unitiresistiamo.altervista.org/Woolf.doc

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

Virginia Woolf
L’inferiorità della donna
in campo letterario
da Una stanza tutta per sé (1929), Newton Compton, Roma 1993, pp. 51, 54-55

Tipologia
saggio

n Virginia Woolf (Londra, 1882 - Rodmeil, 1941), scrittrice e saggista inglese, crebbe in un ambiente di grande cultura, stringendo amicizia con personaggi quali Bertrand Russell, John Maynard Keynes, Ludwig Wittgestein, Edward Morgan Forster. Interprete sensibilissima della condizione femminile scrisse tra le opere maggiori La signora Dalloway, Gita al faro, Orlando e il saggio sociologico Una stanza tutta per sé.
n Il saggio-romanzo, di cui presentiamo qui alcuni brani, ebbe grande risonanza: Una stanza tutta per sé (1929) ripercorre infatti con molto acume e con una gustosa vena ironica la storia della sottomissione femminile anche in campo letterario, che per Woolf si esemplifica e si spiega nella mancanza di due cose: una stanza per pensare in solitudine e una rendita di denaro di almeno cinquecento sterline all’anno. Prive di queste condizioni e circondate dal disprezzo sociale, se anche le donne hanno doti geniali (come l’ipotetica sorella di Shakespeare di cui Woolf inventa la tragica biografia), non possono che soccombere. Questa riflessione sarà ripresa dall’autrice anche nel saggio Tre ghinee (1938), sul tema delle donne e il pacifismo.

[…] Sarebbe stato completamente e interamente impossibile che una donna scrivesse i drammi di Shakespeare nell’epoca di Shakespeare. Consentitemi di immaginare, giacché ci riesce così difficile procurarci dei dati di fatto, cosa sarebbe successo se Shakespeare avesse avuto una sorella meravigliosamente dotata, di nome Judith, diciamo. Molto probabilmente Shakespeare frequentò – sua madre era un’ereditiera – la scuola secondaria, dove avrà imparato il latino – Ovidio, Virgilio e Orazio – ed elementi di grammatica e di logica. Era, come si sa, un ragazzo indisciplinato, che cacciava di frodo i conigli, e magari uccideva qualche daino; e dovette, un po’ a precipizio, sposare una donna dei dintorni, che gli dette un figlio un po’ prima del dovuto. Questa avventura lo spinse a cercar fortuna a Londra. Pare avesse inclinazione per il teatro; cominciò facendo la guardia ai cavalli all’ingresso degli attori. Cominciò prestissimo a recitare, diventò un attore di successo, e si trovò al centro della società contemporanea; incontrava tutti, conosceva tutti, sfoggiava la sua arte sulla scena, il suo spirito per strada, e riuscì perfino ad essere ricevuto a palazzo reale. Intanto la sua sorella così straordinariamente dotata, supponiamo, restava in casa. Non era meno avventurosa, fantasiosa e desiderosa di conoscere il mondo di quanto lo fosse lui. Ma non l’avevano mandata a scuola. Non aveva avuto la possibilità di imparare la grammatica e la logica, non diciamo di leggere Orazio e Virgilio. Di tanto in tanto prendeva un libro, forse uno di suo fratello, e leggeva qualche pagina. Ma poi arrivavano i genitori e le dicevano di rammendare le calze o di ricordarsi dello stufato, e di non perder tempo fantasticando tra libri e carte. Avranno parlato con decisione ma con gentilezza, perché erano persone agiate, che sapevano come deve vivere una donna, e amavano la loro figlia; anzi, è molto probabile che lei fosse la pupilla dell’occhio di suo padre. Forse, in soffitta, scribacchiava furtivamente qualche pagina, ma aveva cura di nasconderla o di bruciarla. Ad ogni modo, ancora adolescente, era stata promessa al figlio di un vicino mercante di lane.
[…] Ma per le donne, pensavo guardando gli scaffali vuoti, queste difficoltà erano infinitamente più formidabili. In primo luogo, avere una stanza tutta per sé, e non diciamo una stanza tranquilla o a prova di rumore, era fuori questione, a meno che i suoi genitori fossero eccezionalmente ricchi o molto nobili, perfino all’inizio dell’Ottocento. Poiché il suo denaro per le piccole spese, che dipendeva dalla buona volontà di suo padre, bastava appena a tenerla vestita, era privata di certe consolazioni che venivano perfino a Keats, a Tennyson o a Carlyle, che erano poveri, da un viaggio a piedi, da un’escursione in Francia, da un alloggio separato che, pur se abbastanza miserabile, li proteggeva dalle pretese e dalle tirannie della famiglia. Queste difficoltà materiali erano formidabili: ma assai peggiori erano quelle immateriali. L’indifferenza del mondo, tanto dura da sopportare per Keats e Flaubert e altri uomini di genio, nel caso della donna non era indifferenza, ma ostilità. Il mondo a lei non diceva, come diceva a loro: «Scrivete, se volete; per me non fa differenza». Il mondo diceva sghignazzando: «Scrivere? A che serve che scriviate?». E qui potrebbero venirci in aiuto le psicologhe di Newnham e di Girton, pensavo, guardando ancora gli spazi vuoti negli scaffali. Perché sarebbe davvero ora di misurare l’effetto dello scoraggiamento sulla mente dell’artista, così come ho visto una centrale del latte misurare l’effetto del latte comune e del latte di prima qualità sul corpo del topo. Mettevano due topi in gabbia, fianco a fianco, e uno dei due era furtivo, timido e piccolo, mentre l’altro era lustro, ardito e grosso. Ora, con quale alimento nutriamo le donne artiste? mi chiedevo ricordando, suppongo, quella cena di prugne e crema.

 

Fonte: http://www.pbmstoria.it/unita/bimdonne/documenti/doc26.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 


 

Virginia Woolf vita e opere

 

Dedicato alle donne
Intervista a Laura Curino
di Patrizia Bologna

 

Cosa l’affascina della personalità di Virginia Woolf, in quanto donna e artista?

 

L’immagine che si ha di Virginia è corrosiva, lucida, affascinante, ma spesso tutta la sua vicenda umana viene letta alla luce della sua decisione di finire la vita col suicidio. Così tutto si tinge di cupo, triste, depresso.  Coloro che l’hanno conosciuta la descrivono come una donna estremamente brillante, passionale, piena di vita. Nonostante l’ambiente cupo e luttuoso in cui cresce. I suoi genitori avevano un precedente matrimonio alle spalle. Suo padre, Leslie Stephen, era un intellettuale piuttosto famoso, un uomo ipocondriaco, convinto sempre di essere malatissimo, sull’orlo della morte. La madre, Julia Duckworth, muore quando Virginia è bambina: è una figura intensissima di cui sentirà sempre la mancanza, per questa ragione per tutta la vita cercherà di trasferire l’amore per la figura materna sulla sorella Vanessa. La madre aveva già tre figli prima di sposarsi con Leslie (Stella, George e Gerald), mentre dal secondo matrimonio nascono Vanessa, la primogenita, Thoby, Virginia e Adrian. Nonostante i sette figli, Julia trovava anche il tempo di fare beneficenza, curare i poveri, con un senso del dovere assoluto,  cancellava se stessa mettendosi al servizio degli altri . Avrebbe forse voluto diventare infermiera, ma non le fu permesso. Pur appartenendo a una famiglia borghese, entrambi i coniugi Stephen lavoravano come matti: non è escluso che la povera Julia sia morta di sfinimento. Virginia avrà il suo primo crollo nervoso proprio in seguito a questo abbandono, ma si riprende e  torna ad essere la bambina brillante e divertente che con i suoi scherzi letterari prede in giro tutta la famiglia. Anche la sorellastra, Stella, a cui Virginia si affeziona molto dopo la perdita della madre, si sposa e quando aspetta un bambino muore. Per questa bambina il matrimonio diventa un luogo pericoloso in senso fisico, prima che politico… Tutto il dolore per queste perdite viene trasferito su Vanessa, con cui ha un rapporto di amore fortissimo, di dipendenza, di complicità. Sono entrambe bellissime. Vanessa è più silenziosa, riservata. Virginia più brillante e caustica.
Le ragazze non vedono l’ora di lasciare la vecchia casa. Lì vivono anche i due fratellasti, più grandi di loro, di cui devono sopportare l’autorità e anche attenzioni fisiche meno che gradite.
La vita per le ragazze comincerà veramente a Boomsbury il quartiere in cui si traferiscono con i fratelli dopo la morte dei genitori. Lì il loro fratello Thoby porta i suoi compagni di università e lì inizierà quel fervore di nottate passate a discutere nuove idee, in cui vita e arte si incroceranno per sempre.
Vanessa viene chiamata l’Ape regina di Bloomsbury, è una figura di una straordinaria  indipendenza, è artista, è pittrice, madre.
A Virginia, invece, verrà proibito dai medici avere figli ed è una cosa di cui lei si rammaricherà sempre.
Si chiederà spesso se la sua opera  possa avere il valore dei figli che lei non ha mai avuto e accosterà sempre la sua vita - spesa per la scrittura - alla vita di Vanessa, divisa fra la pittura, i suoi uomini, i suoi figli, la sua casa, gli amici. 
Anche la storia di Virginia è segnata da relazioni ed amicizie. Quella con Vita Sackville West, la nobildonna scrittrice, omosessuale, la ispirerà addirittura a scrivere il suo romanzo più famoso: Orlando.
Ma la scrittura e la malattia circoscriveranno molto la sua quotidianità attorno alla figura discreta e silenziosa di Leonard Woolf, il marito che si prende cura di lei per tutta la.vita.

Leggendo la biografia di Virginia Woolf sembra che sia ossessionata dalla ricerca di uno spazio e di un tempo in cui potersi dedicare alla scrittura...

Per tutta la vita Virginia cercherà un posto dove scrivere. Le donne, lei scrive,  vengono continuamente interrotte. Parla evidentemente  di quelle che sanno scrivere e che possono farlo. Quielle povere, semplicemente…non scrivono. Le donne devono sempre fare qualcosa: devono servire il the, devono rispondere alle lettere, devono curare, devono accudire, devono ascoltare, ... Virginia cambierà tantissime case, alla spasmodica ricerca di un luogo in cui poter trovare serenità e tempo per scrivere. In realtà non ce lo avrà mai... E’ molto invidiosa di Vanessa che ha la possibilità di dipingere con la casa piena di gente, mentre parla con chi entra nel suo studio, mentre lei ha bisogno di un posto e un posto tranquillo, dove nessuno la venga a disturbare mentre lavora.
E’ preoccupata sin da quando è ragazzina  che il suo sia considerato un vero lavoro.  Ammirava a tal punto Vanessa che dipinge in piedi davanti al suo  cavalletto, che si era fatta costruire una scrivania in cui poter scrivere in piedi - cosa che non è nemmeno così desueta perché ho scoperto che anche Günther Grass scrive in piedi a uno scrittoio alto -!
Poi lo scrittoio fu abbandonato per normali tavoli da lavoro, ma il posto per se’, veramente per se…è una illusione.
Il luogo in cui ha più a lungo lavorato è il  sotterraneo dove era situata la Hogarth Press, la casa editrice fondata con il marito Leonard. In questo edificio vi era una stanza in cui si evadevano gli ordini e si facevano i pacchi. Scriveva sul tavolo dei pacchi… ogni tanto in tanto interrompeva la scrittura per impacchettare libri. Uno dei suoi amici racconta che quando qualcuno arrivava alla casa editrice per conoscere la famosa Virginia Woolf, qualche volta lei  diceva che non c’era e chissà cosa avrebbe pensato il giovanotto venuto a cercarla, se avesse saputo che quella signora un po’ in disparte che faceva i pacchi era proprio lei!
Virginia ama Londra, le piace la città, le piace la vita, il problema è che si stanca terribilmente e quando si stanca cominciano i guai.
Quando non è interrotta da incombenze, arriva la malattia. Quando è malata viene marcata a vista da medici, infermieri, parenti.

Nelle conferenze che costituiscono la fonte di Una stanza tutta per sé emerge  il fatto che le donne non hanno, all’epoca di Virginia e ancor peggio prima di lei, una vera intimità, vera privacy, tutti possono entrare nelle loro stanze, per chiedere, sollecitare, conversare.
Oggi questo non è più un problema solo femminile, ma riguarda tutti poiché viviamo in un mondo di continua distrazione: il telefono, una visita... per i ragazzi soprattutto... penso alla strenua  difesa dei ragazzi che cercano concentrazione nel chiudere a chiave la porta della propria stanza e a quanto invece si sia sospettosi di fronte a questo gesto... All’epoca di Virginia trovare la concentrazione per fare veramente quello che si desidera senza lasciarsi distrarre era una difficoltà prettamente femminile, oggi è un problema comune a molti giovani e no... trovare la propria strada è veramente complicato, specie se si vuole fare non dico solo la scrittrice, lo scrittore, ma un qualsiasi  un lavoro non convenzionale.
E qui arriva il momento di parlare anche del secondo tema fondamentale per Virginia:  trovare del denaro. In miseria non si riesce a fare niente, forse in povertà sì, ma la miseria scatena solo paura, confusione, rancore, se non odio.

E’ ciò che Virginia Woolf afferma in Una stanza tutta per sé a proposito degli uomini...

Esatto, lei parla della rabbia degli uomini.
Gli uomini sono arrabbiati perché temono di perdere la fiducia in se’ stessi e il coraggio. Il pensiero maschile, secondo Virginia, ha dato origine alle guerre e agli antagonismi. Dar spazio al pensiero femminile permetterà di dare spazio a una concezione del mondo diversa.
Suo nipote, Quentin Bell, un uomo di una grandissima simpatia, ha scritto alcuni libri di memorie su Bloomsbury e conclude un breve ritratto Virginia più o meno così:  (legge un testo in inglese traducendolo a vista, ndr): “Io sono grato al destino che ha impedito che mia zia vivesse abbastanza da vedere una donna primo ministro gettare il paese in una guerra sanguinosa e assurda per la conquista di un luogo che non ha altro valore se non la gloria del suo nome”. Si sta riferendo alla guerra delle Malvinas ed è sollevato che sua zia non abbia visto le azioni di una donna al potere. Virginia ha grande fiducia nelle donne, crede che costruiranno un mondo  senza guerra, e scriveranno storie diverse e dunque diversa la Storia..
Solo che  sia permesso loro di studiare, di avere gli stessi diritti dei loro fratelli.
Le prime università inglesi maschili di cui si ha notizia nascono intorno al 1096, mentre nel 1870, ottocento anni dopo, si ha la prima raccolta fondi per creare un college per ragazze.
Virginia non ha frequentato né college né università, potevano falo solo i maschi di famiglia. Lei sarà educata in casa. Ma quanto se ne rammaricherà sempre.

Virginia era sempre preoccupata quando le veniva affidato un compito, prendeva estremamente sul serio le cose, faticava molto ad accettare un impegno, era lusingata all’idea,  tuttavia era sempre in grande apprensione.
Sì, il testo di partenza per lo spettacolo sono le due conferenze da lei accorpate in un unico testo. Partiamo di lì, ma poi l’invenzione spazia e la riscrittura è totale.
Il testo è anche un ringraziamento a tutte le donne che hanno lottato per l’emancipazione femminile. Ciò che  muove Virginia interessa anche noi:  il tentativo di dare degli esempi, perché gli esempi ti confortano, ti fanno sentire meno solo, ti indicano una strada;  e l’intenzione di non dimenticare, di dire “grazie”.
Quando la invitano a tenere la conferenza lei ha appena pubblicato Orlando, forse per questa ragione è così presente il tema dell’androgino.
Finalmente è una autrice alla moda: dopo quindici anni in cui ha scritto e pubblicato, scritto e pubblicato,  senza uscire dalle …quattrocento copie vendute,  Orlando vende quattromila copie il primo mese: è una scrittrice di successo! Che vertigine, che responsabilità.
E’ abbastanza impegnata con i temi dell’emancipazione femminile, anche se non sarà mai una vera femminista militante; il politico di famiglia è il marito Leonard progressista assai impegnato.
Durante gli anni caldi della rivolta delle suffraggette al massimo si impegnò a  scrivere indirizzi per diffondere materiali e petizioni. Poi per quattro o cinque anni mette a disposizione la sua casa per periodiche  riunioni di donne, ma la politica attiva non è sicuramente il suo ambiente. Questo atteggiamento “pacato” le verrà anche rimproverato: una certa distanza dal mondo della contemporaneità mentre questa contemporaneità vibra e trema fin nelle sue fondamenta...
E quasi quasi ci credi anche tu.
Poi, a distanza di tanti anni,  leggi i suoi scritti e ti sembrano scritti adesso...
La scrittura è la sua forma di interpretazione del mondo.
Sicuramente si è attirata delle critiche: Edith Sitwell, che era una delle grandi  signore della cultura dell’epoca, la chiamava “una splendida lavoratrice a maglia”!
Virginia era alla ricerca costante di una forma, sul come scrivere una frase: pare che camminasse per delle ore rimasticando una frase, cambiando una parola, rimettendola... E spesso le è stato rimproverata un’attenzione eccessiva alla forma a scapito della contemporaneità del contenuto.
In realtà era una lente che andava in profondità, un bisturi... era come... c’era un vecchio video dell’Ibm che si chiamava qualcosa come …“i misteri dell’universo”, non ricordo,  in cui si vedeva dall’alto una famigliola fare  pic-nic. Poi lo zoom si avvicinava ai cesti, ai panini, alla mano che prende un oggetto, poi entrava nella mano, nella pelle, nelle cellule, nelle molecole, nei neutroni, nei neutrini e le molecole ruotavano il loro movimento perenne, si trasformavano in pianeti, universo, sistema solare, terra... la zoomata tornava sulla terra, sulle montagne, su quel piccolo luogo del mondo in cui una famigliola  faceva  pic-nic.
Virginia fa un po’ questo: parte dall’universo e poi chirurgicamente osserva il mondo fin nnelle intime fibre  e lo restituisce formalmente elaboratissimo.

Come è nata l’idea di farne uno spettacolo?

Michela Marelli ha avuto l’idea. La proposta è venuta da lei, il problema è stato che io l’ho presa sul serio! Collaboro con Michela da diversi anni: è stata assistente per diversi miei spettacoli, poi ha cominciato a lavorare con me nei laboratori di narrazione e di scrittura.
Ho sempre adoperato Una stanza tutta per sé come testo di riferimento dei miei laboratori - che spesso si chiamavano “Se Shakespeare avesse avuto una sorella “.
“Perché non trasformi il racconto che fai agli allievi in spettacolo?”.

Dopo tanta scrittura di donne forgiata su modelli maschili, La Woolf cerca una una scrittura al femminile che, come dice Virginia, non è detto che sia qualcosa di immediatamente nuovo e  interessante. Ma è il ponte rivoluzionario attraverso il quale arrivare all’androgino.
Lo scopo è arrivare a scrivere ( io direi essere) esattamente quello che si vuole in un equilibrio che non è né maschio né femmina o che è tutti e due.
I ragazzi i giovani artisti, comprendono bene questo desiderio di non essere ingabbiati, di non essere etichettati già a partire dall’identità sessuale: scrittura per maschi, pittura per femmine, letteratura per bambini…

Altro tema emotivamente forte:  “non c’è assolutamente un braccio a cui appoggiarsi” .
Virginia afferma (e per lei, che cerca appoggio e protezione per tutta la vita è duro ammetterlo) che ognuno è completamente solo davanti a se stesso, la propria opera, i propri obiettivi.
Bisogna fare i conti con questa solitudine e non cercare scuse.
Ma se tutti sono soli, allora come diventano preziosi gli incontri che si fanno lungo la strada!
E’ con questo senso del prezioso che bisogna vivere!

Ho parlato di questa idea con Roberto Tarasco, con cui lavoro da molti anni, e lui l’ha immediatamente concretizzata in progetto.

Come ha scelto il gruppo di lavoro per lo spettacolo?

La necessità per me era trovare delle collaborazioni che non negassero nei fatti la teoria. Mi sembrava che dovesse essere realmente un lavoro di collaborazione con persone molto giovani., esattamente come la conferenza è il rapporto di Virginia con persone molto più giovani di lei.
Lavoro sempre volentieri con persone più giovani. Nell’ultimo lavoro era Serena Sinigaglia e tutto il gruppo dell’Atir. Qui Michela Marelli, naturalmente,  e  la regista, Claudia Sorace che ha al suo attivo la direzione di spettacoli con giovani attori ed è stata assistente di Vacis per il Teatro Stabile con Vocazioni.  Sempre, negli spettacoli, cerco delle solidarietà tra diverse generazioni, affiancando a collaborazioni di lunga data delle scommesse d’arte su esordienti di talento.
Questa scelta mi è sembrata molto vicina al pensiero di Virginia e alle sue lunghe solidarietà d’arte e amicizia col circolo di Bloomsbury.
Abbiamo chiesto poi un lavoro sulle immagini video A Lucio Diana, lo scenografo con cui ho lavorato per molto tempo, e soprattutto a  due persone che sono letteralmente  cresciute con l’esperienza teatrale del Teatro Settimo, Eleonora Diana e Giulietta Vacis. I video creano un dialogo tra il testo e la contemporaneità e suggeriscono altri punti di vista.
Il discorso  è  doppio: da una parte si tratta di  far risuonare Virginia in una contemporaneità che è anche anagrafica (Michela ha trent’anni, Claudia  ventiquattro, Eleonora e Giulietta  diciotto) dall’altra parte mi interessa scoprire le diverse interpretazioni che loro danno alla nostra scrittura di scena.
E poi c’è Luca Scarlini, un giovane autore fiorentino,  con cui ho già lavorato in diverse occasioni e che in questo progetto ha avuto il compito di evocare  “tutto il resto del mondo”. Attraverso le ricerche bibliografiche ci ha  disegnato l’ambiente storico e artistico in cui il lavoro di virginia riverberava.
Chi ascoltava Virginia  era appena uscito da una guerra mondiale, era affondato il Titanic e col Titanic l’Impero inglese e molte delle convinzioni che lo avevano creato…
La guerra aveva sconvolto le vite e i pensieri.
Molto del lavoro di preparazione dello spettacolo è stato dedicato a cercare di districare la matassa fra eredità della tradizione e avanguardie...
Non ultimo e ugualmente prezioso e il rapporto con il Teatro Stabile di Torino anche dal  punto di vista della costruzione del progetto e della sua praticabilità, nonché il lavoro di realizzazione delle scene e dei materiali di promozione:  uno spettacolo è sempre  la relazione tra le persone che lo costruiscono. Tutte hanno in mano la possibilità di togliere o aggiungere  mettere vita al progetto.
Le persone sono preziose.

Che lavoro avete fatto sul materiale di cui disponevate? Sul testo avete fatto un’operazione solo di riduzione o anche di adattamento?

Il compito che mi sono data è proprio di rendere viva questa conferenza. Virginia parla di “un nocciolo di verità pura da tenere tra le pagine del tuo quaderno e conservare per sempre sulla mensola del caminetto”. Questa immagine è molto Virginia: verità pura e caminetto, cioè infinitamente grande e poi infinitamente intimo.
Lo spettacolo si chiama Una stanza tutta per me perché in realtà il testo si discosta totalmente dalla scrittura della conferenza, pur conservandone naturalmente i temi e gli obiettivi.
Non ci sono parole di Virginia, ma c’è la sua fase di preparazione del lavoro, il suo vagabondare, in senso reale e fantastico, per cercare le giuste immagini, i giusti personaggi.
Nello spettacolo moltissimi personaggi prendono la parola e raccontano direttamente al pubblico.
La conferenza aveva una base  ferocemente autobiografica: nascosta sotto a tutte le scrittrici di cui lei racconta c’è la stessa Virginia.
Noi mettiamo allo scoperto questa relazione.
Raccontiamo – e questa è una cifra che io uso sempre – raccontiamo la fatica che Virginia ha fatto per mettere insieme le idee, le rabbie e  le scoperte, gli incidenti di percorso, i personaggi, buffi o malefici con cui deve avere a che fare.
Tutto diventa  storia. Ci sono poi passi semplicemente lirici, quando le donne di cui lei racconta vanno in primo piano e  Virginia scompare: scrittrici, ma anche quelle  donne che ci hanno regalato la possibilità di entrare in una università o di votare e che per farlo sono state incarcerate, hanno fatto scioperi della fame, sono state nutrite a forza,  picchiate...
E forse il testo è dedicato proprio alle donne per cui queste lotte sono ancora fatica quotidiana.

Quindi nello spettacolo non sarà presente Laura Curino? Non ha prestato a Virginia i suoi propri ricordi, le sue immagini, come era accaduto per Olivetti?

No, per niente, anzi, ho cercato di trattenermi dal farlo!
E’impossibile che non ci sia qualcosa di sé, anche semplicemente per la  selezione dei alcuni temii... però ho cercato di sottrarmi alla rappresentazione di me perché…. eravamo già in troppe! Virginia, sua sorella Vanessa, le suffragette, Emmeline Pankhurst, Aphra Behn, Charlotte Brontë, Jane Austen... sono talmente tante …che ho detto “Curino, anche se stai a casa non succede nulla di grave!”.

Perché ha deciso di fare questo spettacolo?

Si fa uno spettacolo per capire perché l’hai fatto, non è una cosa che si sa prima...
I temi sono così tanti, che solo quando scopri dove è arrivato il retino che hai immerso nell’acqua, e vedi che cosa ha trattenuto. Parto dal fascino di un personaggio e dal fatto che un’idea mi ritorna costantemente a parlare...  non sei tanto tu che vuoi fare uno spettacolo su Virginia Woolf ma è tutt’attorno che, al di là della tua decisione, sembrerebbe volerlo.
Prendiamo uno dei sentimenti sottesi: la nostalgia furibonda di Virginia per non aver frequentato l’università e per non aver studiato il greco e il latino.
Allora sembrava formazione inutile per una donna.
Non potevano servire alle madri di famiglia, signore per bene al massimo dedicate a far da assistenti al marito.
Ma non si sapeva niente delle donne che sarebbero arrivate dopo,  dimostrare quello che potevano e volevano fare davvero.
Si chiedeva alle donne di  studiare “cose pratiche”.
Oggi siamo arrivati a una semplificazione del desiderio di formazione: studiare cose pratiche.
Pratiche per chi? Fino a quando?
Il linguaggio dell’università oggi parla di debiti e crediti formativi.  Una curiosa partita doppia per la gestione di una contabilità  per una attività che non esiste ancora: la mente delle generazioni future.
Cosa succede se tutto diventa un  quiz, come quelli per ottenere la patente di guida? Si perde completamente il senso. Tu fai i quiz per imparare a guidare e non ammazzare te stesso e gli altri, non per accontentare gli esaminatori col minor impegno  possibile.
Se la formazione diventa un certo numero di quiz per conseguire un risultato sotto forma di compravendita, di gara o di gioco e non serve invece a costruire persone che sappiano creare futuro per tutti senza ammazzare le persone,… allora a cosa serve?
All’epoca di Virginia si chiudevano orizzonti alle donne perché non si aveva alcuna fiducia in ciò che avrebbero potuto fare.
Chiudere orizzonti alle persone significa veramente compiere un delitto gravissimo.
Lo studio e la cultura, il coltivare il pensiero nelle persone e la loro vocazione – questo è ciò che pensa Virginia - è il regalo più grande che si possa fare alle nuove generazioni.
Insegnare loro con generosità più di quello che sembrerebbe essere banalmente utile.
Vale a dire insegnare loro a capire cosa vogliono.
Non puoi chiedere a un ragazzo troppo presto  “Dove vuoi andare?” se non apri con lui tutto l’atlante del mondo.
E’ una domanda crudele.

Come è nato, o rinato, il Teatro di narrazione?

Il Teatro di narrazione è sempre esistito, è rinato nel momento in cui qualcuno ha deciso di dargli questo nome. Il Teatro di narrazione è il continuum, attraverso la storia del teatro, che parte da una nonna che racconta ad un bambino, un cantore che racconta un avvenimento con un certo ritmo perché venga meglio ricordato e tramandato, un “postino” delle foreste africane che gira di villaggio in villaggio e racconta le novità nei diversi villaggi, …
E’ sostanzialmente la comunicazione diretta e fisica dell’esperienza.
Queste esperienze di comunicazione e di racconto le troviamo anche in teatro.
Con Teatro Settimo abbiamo spesso raccontato in assenza dei protagonisti: La storia di Romeo e Giulietta era il racconto dei due innamorati affidato ai sopravvissuti alla tragedia.
Istinto occidentale, Tenera è la notte di Fitzgerald, cominciava con il funerale di Dick Diver e gli altri parlando di lui ricostruivano le vicende.

Quando il teatro di narrazione è diventato teatro di narrazione così filologicamente definito? Quando, ad un certo punto, si è tornati al narratore solista.
Molto del teatro contemporaneo è raccontato, ma è solo in un momento ben preciso che sono ricomparsi i narratori solisti. In quella circostanza la critica è stata determinante: l’aver coniato il termine “teatro di narrazione” ha dato dignità ad una forma.
La forma era molto presente nella contemporaneità:  nelle modalità dell’autocoscienza del movimento femminista, nella  psicanalisi...
Il  protagonista che racconta è una figura del Novecento che quasi sempre ha narrato la propria vicenda intima, privata.
La novità del narratore teatrale in Italia, non è così dappertutto,  risiede nel fatto che, fingendo di raccontarsi, racconta un’epoca, un mondo, delle persone, dei contesti, racconta la Storia.
La memoria collettiva passa così attraverso la memoria del singolo.
Credo che in questa esplosione della narrazione abbia avuto una grande importanza la reazione alla dimenticanza; ho l’impressione che in questi anni la funzione che aveva la politica, che aveva l’associazionismo, che aveva il collettivo di rappresentare e tramandare se stessi,  siano venuti meno e denunciare questa mancanza, questo vuoto, sia un  ruolo che è stato in qualche modo affidato agli artisti. Gli artisti sono persone che sentono con anticipo il vuoto,  una perdita di senso  o una necessità, e che in questo caso hanno capito che il teatro di narrazione poteva contare su un pubblico enorme che sentiva lo stesso disagio.

Quando si è verificata la svolta? Quale è stato l’evento fondatore?

Il declic, la prova, è stato il Vajont di Marco Paolini in televisione,  perché ha dimostrato che non era solo il prodotto, pur sensibile, di un artista in un momento particolarmente felice della sua vita teatrale., ma era un evento straordinario, che generava un momento di  kairos,   cioè quel momento in cuiè un artista incontra  un pubblico che in proprio allora vuole sentirsi raccontare esattamente quella storia. La perfetta contemporaneità di motivazione e realizzazione.
Marco portava in giro da due anni Vajont per piccoli gruppi, me lo ricordo qui a Rueglio, un paesino della Val Chiusella, in una chiesetta in cui ogni spettatore aveva portato una propria seggiola. Lo spettacolo si svolgeva all’interno del Festival degli emigranti. Durante questo festival Marco raccontò la storia ancora con i libri sottomano e tutta la documentazione sfogliata col pubblico. Dopo due anni di composizione, Carlo Freccero e Felice Cappa gli chiesero di portarlo in televisione: quattro milioni e mezzo di spettatori, una cifra enorme per quel tipo di spettacolo, per quell’orario, per quella trasmissione... Di lì in poi c’è stato un cammino di riconoscimento reciproco,  un teatro che ha trovato un proprio pubblico e un pubblico che ha trovato un proprio teatro.

Perché è avvenuto questo incontro? Di cosa aveva bisogno il pubblico e di cosa il teatro?

Sembra che siano lavori che rispondono a una domanda silenziosa:  “Parlami di me! Guardami! Dimmi che mi hai visto!”.  Rispondono alla stessa domanda,   a cui altre situazioni rispondono in maniera terribile: gente che si confessa in tv a ogni costo per il semplice valore dell’essere ripresi,  di essere visti.
Perché questo bisogno di essere visti, ascoltati?
Nessuno ci vede più. La persona non è più al centro dell’attenzione e dei valori e ha paura di sparire.
Il narratore racconta con la luce accesa, non c’è la quarta parete, il narratore può parlare direttamente con il pubblico. Lo “vede” e dunque parla proprio a lui.
Questo linguaggio tiene conto della memoria, della necessità e della voglia di ascoltare memoria. Raccontami la mia storia, raccontami una storia che non conosco, ma “raccontami” vuol dire “fallo per me”.
C’è uno splendido passo di Pennac in Come un romanzo in cui l’autore cerca di spiegare il motivo per cui i bambini non leggono. I genitori dicono “Ma come, quando era piccolo voleva sempre che gli raccontassimo delle storie, e invece adesso che va a scuola non si riesce a fargli leggere un libro!”. Pennac spiega  che quando vostro figlio era piccolo voi vi siete trasformati in grandi narratori per lui e ogni sera alla remissione dei peccati, vale a dire prima di andare a letto, diventavate tutte le sue meraviglie. Quando non vi sentivate abbastanza forti per inventare,  siete diventati lettori meravigliosi e quando non avevate tempo né per leggere né per inventare,  mescolavate le storie e lui sempre stava ad ascoltarvi rapito. Poi quando ha cominciato a leggere, finalmente, voi - sollevati e grati di poter avere un po’ di tempo per voi - gli avete messo un libro in mano. “Leggi!”. Leggi …da solo. Ma come pensavate che non odiasse la lettura, che gli ha tolto il bene più prezioso, cioè  voi che raccontavate?”.
E’ importante che tu sia qui.
E naturalmente i temi: il teatro di narrazione parla di argomenti spariti dal dibattito su  altri mezzi di comunicazione. Temi civili, spesso scottanti.
Il fatto che la nostra società  affidi agli artisti il compito di diventare delle specie di grilli parlanti è abbastanza disperante,... Negli spettacoli di Bebo Storti, di Antonio Albanese, di Roberta Biagiarelli, Marco Paolini, Paolo Rossi, Lella Costa, Ascanio Celestini e chiedo scusa se non li cito tutti, sono davvero tanti…si parla di argomenti che non vengono trattati se non da loro.

Come nasce il suo bisogno di fare teatro? Perché ha scelto la strada della narrazione?

A me piace tutto il teatro, anche quello meno riuscito o distante da me. Già mi sembra un miracolo che della gente stia in una sala per due ore ad ascoltare qualcuno in silenzio, senza berciare, contraddire, polemizzare. Mi sembra un atto di grande civiltà. In secondo luogo amo il teatro perché mi affascina il gioco antico e bambino  del  “facciamo che io ero...” oppure “se eri un principe chi eri?”. Meravigliosa trasformazione.  Insomma,  è banale dirlo, ma è la vita che trasforma e si trasforma.
Anche il narratore è trasformazione continua.
Raccontare,  recitare e qualche volta, se ti va bene, essere parlati…
Il messaggio al pubblico: guarda, puoi essere veramente tutto quello che vuoi, se vuoi e se lavori per crearti le condizioni per poterlo fare.
Mi piace il travestimento del teatro così come mi piaceva la sensazione di mettere le scarpe dei genitori.
Quello che detesto è la falsità, non la finzione che invece mi piace tantissimo.
Amo la tradizione, non la convenzione usata per rinuncia, per abitudine.
In genere il teatro mi è sempre piaciuto tutto,  e questo,quando ero ragazzina, era un problema.
Sono cresciuta all’epoca delle grandi contrapposizioni: o eri “terzo teatro” o eri “postmoderno” o avanguardia o tradizione.  Io andavo a vedere tutto: Dario Fo mi piaceva tantissimo,  Re Lear di Strehler mi piaceva e anche Ionesco, del Gruppo della Rocca, il  Bread and Puppet, il Living, Barberio Corsetti, Falso Movimento, Grotowski….”ma cosa sei?” mi dicevo, “da che parte stai?”.  “Laura, non sei né carne né pesce!”...

E come ha fatto a compiere la scelta della strada da seguire?

Ho scelto le persone. E gli spettacoli sono stati la mediazione tra quello che volevo fare io e quello che volevano fare i miei compagni  o piuttosto la moltiplicazione. In questa strada di Settimo Torinese dove io vivo, una volta passavano i tir a doppio senso. Era una città orribile, aveva diecimila abitanti nel 1950 e trentamila nel 1960. Era più terribile delle peggiori periferie, un luogo di una tale emergenza sociale che non si poteva fare altro che costruire dormitori.
Abbiamo cominciato a lavorare su questo. “Perché qui tutto deve essere così brutto? Chi ha scelto per me questo paesaggio?  Come posso modificarlo?”
Allora i miei compagni erano ragazzini: Lucio Diana aveva quattordici anni e Vacis ne aveva diciassette. Abbiamo cominciato col chiederci “Come diavolo siamo finiti qui?” e il primo lavoro che abbiamo fatto era sulla storia di Settimo e si chiamava Questa storia non ci piace; il secondo era Signorine, raccontava di tutte le persone non sposate in  questa città che non volevamo figliasse città simili a lei.
Il teatro era uno strumento per spiegare a noi stessi ciò che non riuscivamo a capire.
La cifra del gruppo si formava attraverso una grande insofferenza per l’artificio, ci irritavano le cose finte che non arrivavano mai al sodo, noi eravamo alla ricerca di spiegazioni...
Bread and Puppet, il collettivo teatrale americano, di cui non capivamo una parola,  riempiva il Palasport di forza spettacolare e di fascino, di marionette, trampoli, materia,  ma anche corpi di attori con i  loro figli piccolini in braccio, testimonianza d’arte mescolata alla vita , senza riserve e confini.
Quando vedevamo Ariane Mnouchkine e il Thêatre du soleil eravamo completamente stregati da uno spettacolo che durava otto ore, pasti del pubblico inclusi nella scena.
E quando vidi Ottavia Piccolo nel Re Lear di Strehler rimasi commossa perché mostrò che si poteva fare teatro giovanissimi in modo superbo e nuovo, pur con un testo antico, già percorso mille volte.
I contenuti sono determinanti, ma sono anche affascinata dalla forma. Penso al Canto per Torino, spettacolo che resta fra quelli che ho amato di più. Attori di tutte le compagnie torinesi, allievi di tante scuole e accademie.  La Mole Antonelliana vuota per l’ultima volta. Una voce che comincia a cantare, poi un’altra e un’altra ancora finché si trasforma in un coro di trenta persone che cantano... e riempiono lo spazio di suono, di danza, di parole dedicate a una città. Una immagine bellissima, una emozione che sostiene molto del mio desiderio di teatr.
Va bene il narratore da solo, però spero che ci sia ancora teatro in cui potremo essere in  venti, trenta,  in cinquanta... e che sia sostenuto, amato, accompagnato per molte città, per molte repliche. Sogno?

Credo che la narrazione sia anche una metafora dell’individualismo in cui viviamo.
In uno spettacolo collettivo c’è una metafora meravigliosa di un mondo di collaborazione, coabitazione che si può costruire, cioè “se ci riescono loro ad andare d’accordo, così tanti, sulla scena  e a realizzare un’opera d’arte.. vuoi vedere che si riesce anche nel mondo reale?”.
Qualche volta mi chiedo se noi single non siamo invece un po’ i  testimoni di questo bozzolo involuto e solitario.
Dopo di che mi tornano in mente le facce…Celestini! Si può parlare di tutto fuorché di involuto... Marco Paolini ha una grande lucidità perché ogni tanto sperimenta il suo lavoro anche con  musicisti e altri artisti, una scelta che qualcuno gli ha rimproverato perché presenta risultati meno armonici, però …bisogna pur mettere le mani in pasta se si vuole cucinare qualcosa di diverso!
La lingua del narrare?
Molti hanno il vantaggio di una lingua teatralmente sperimentata e duttile, penso al siciliano di Davide Enia... Il siciliano, il veneto e  il napoletano sono lingue rimaste fortemente teatrali, anche  il toscano perché gli si dà dignità  di lingua patria, mentre noi a Torino... abbiamo qualche difficoltà in più, ma il melting pot linguistico dell’emigrazione ci aiuta con una varietà di stili, linguaggi e ritmi inimitabile!

 

Fonte: http://www.teatrostabiletorino.it/pressdata/060334.doc
Sito web : http://www.teatrostabiletorino.it/

Autrici :
Intervista a Laura Curino
di Patrizia Bologna

 

VIRGINIA WOOLF

 

Fa parte di quegli artisti che cercano un nuovo linguaggio per dare voce al complesso mondo interiore dei sentimenti e dei ricordi, delle impressioni e delle emozioni.

E’ ovviamente influenzata dalla psicanalisi di Freud e dalla concezione di Bergson del tempo ( distingue il tempo interiore da quello esteriore).

Utilizza un linguaggio quasi “impressionista”, con cui da luce e colore. Ad esso aggiunge una componente allusiva ed emozionale ( intangible, vague, shapeless) che esprime i sentimenti intimi.
La scrittura è fluida, piena di rime, ripetizioni e metafore.

Per dar voce all’interiorità utilizza non un narratore onnisciente ma i vari punti di vista della mente dei personaggi (subjective reality) con flashback, associazioni di idee e impressioni sul momento che assumono le connotazioni di un flusso di coscienza ( l’estremizzazione del monologo interiore).
I pensieri dei personaggi non sono costruiti come in un soliloquio ma immediati come nel monologo interiore.

Il monologo interiore può essere di 4 tipi, i primi due indiretti e il 3 e 4 diretti:

  1. presenza del narratore in terza persona, col controllo del testo.
  2. si mescola il mondo interno ed esterno [es Proust l’odore dei biscotti (reale-esterno) rievoca (ideale-interno) sensazioni vissute]
  3. mancano elementi esterni, cosi i pensieri scorrono in libertà, narratore in prima persona.
  4. vi è solo la componente interna, espressione del subconscio, così viene meno il controllo sul testo, il linguaggio è il linguaggio dell’interiorità, confuso sia nella grammatica che nella sintassi (è il flusso di coscienza = stream of consciousness)

V.Woolf predilige il monologo interiore di 2 tipo, cioè i pensieri dei suoi personaggi non vanno mai fuori controllo, mantengono sempre un’organizzazione logica e grammaticale: fonde il flusso di coscienza con il monologo di primo tipo: interiorità   + esterno, controllo (3rd person narrator).
Ciò a differenza di Joyce che a volte estremizza il monologo interiore con una sintassi incoerente e mancante ad esempio di punteggiatura.
Però in comune con Joyce vi è il moment of being che è una specie di epiphany.

Uno dei masterpiece di V.W è TO THE LIGHTHOUSE, “gita al faro”.
Il libro è diviso in tre sezioni e vede come protagonista la famiglia Ramsay: nella prima [the window]durante la vacanza in Irlanda Mrs Ramsay scende dalla finestra e dice al figlio James che il giorno successivo sarebbero andati in gita al faro, ma il padre boccia la proposta dicendo che sarebbe stato brutto tempo.
Nella seconda sezione [the time] V.W vuole dare la sensazione del tempo che è passato, Mrs Ramsay è morta e il marito è alla deriva, senza più nessuno che lo conforti e ha profondi dubbi sul suo valore di uomo.
Nella parte finale [to the lighthouse] la famiglia torna in Irlanda e stavolta il padre forza James e la sorella ad andare al faro, cosi mentre s’incamminano James cresce, matura, supera il contrasto col padre invece la sorellina ancora piccola non capendo rimane in silenzio col padre.
Il percorso di maturazione è sottolineato anche dal fatto che Lili Briscoe, un’amica di famiglia, mentre nella prima sezione cerca di dipingere la casa dei Ramsay nutrendo dei dubbi sull’arte e la sua vita, ora nell’ultima sezione completa l’opera con il faro.

To the lighthouse è un esempio lampante del monologo di 2 tipo; nell’opera, in cui è usato il pronome di terza persona, vi è la mescolanza tra esterno e interno, dalla realtà esterna alle sensazioni dei personaggi.
La casa trasandata di mrs Ramsay è la sua stessa trasandatezza, vi è una coincidenza e scambio tra l’esteriore e l’interiore; in più il disordine dei libri è il disordine dell’interiorità mrs di Ramsay.

 

L’altra grande opera di V.W. è MRS DALLOWAY.
Alle 10 del mattino di un mercoledì del giugno del 1923, Clarissa Dalloway si dirige a Bond Street per comprare dei fiori per il party che darà la sera stessa. Mentre entra nel negozio di fiori, una macchina passa rumorosamente per la strada di fronte il negozio. Clarissa guarda verso la strada e vede Septimus, un veterano della prima guerra mondiale, e sua moglie Lucrezia mentre stavano camminando. Septimus soffre di disordini mentali poiché durante la guerra vide il suo migliore amico Evans morire di fronte a lui. Per tale motivo è costretto dalla moglie a sedute con lo psicologo William Bradshaw. Clarissa torna a casa dopo aver comprato i fiori e riceve una visita inaspettata da Peter, un suo amico di infanzia. Dopo tale visita, Peter si dirige verso Regent's Park. Qui vede Septimus e Lucrezia mentre vanno dallo psicologo William Bradshaw per una seduta che durerà 45 minuti con il risultato che Septimus verrà riunchiuso in una clinica. Per tal motivo Septimus alle 6 di sera si getta dalla finestra di fronte agli occhi della moglie. Qualche ora dopo inizia la festa di Clarissa. La famiglia dello psicologo William Bradshaw arriva in ritardo portando a Clarissa la notizia della morte di Septimus. Nonostante Carissa non conoscesse Septimus, essa prova un forte senso di inquietudine, una forte connessione con il suicida.
Septimus suicide:
questo è l’ultimo momento in cui vediamo Rizia e Septimus ancora insieme. La donna, innamorata del marito e desiderosa di rimanere con lui, cambia idea e cerca in tutti i modi di non farlo portare nella clinica, comportandosi nei suoi confronti come una chioccia con il suo pulcino. Ella è l’unica che riesca a mettere ordine nella vita di suo marito. In contrapposizione, i medici sono visti come coloro che non capiscono nulla del loro paziente e che non agiscono nel suo vero interesse. Ciò che Septimus teme maggiormente è che venga violata la sua intimità, per proteggere la quale medita il suicidio. Un senso di angoscia opprimente lascia spazio alla lucida riflessione sulla maniera in cui morire: il coltello no, la morte deve essere pulita. Ma lui non otterrà una morte pulita, perché cadendo finirà sulle grate del cancello e il suo corpo finirà sfracellato. Aveva 33 anni. La porta è ciò che dal mondo esterno entra nel nostro animo [medico]; la finestra è quello che noi vogliamo portare all’esterno nel nostro io [l’ultimo grido, “te la faccio vedere io!”].

At Clarissa’s Party:
la donna sente la notizia della morte di Septimus e, anche se non conosceva l’uomo, ne rimane sensibilmente sconvolta. Dice di percepirne addirittura i sentimenti prima dell’istante finale. Septimus e Clarissa sono 2 facce di una stessa medaglia, doppi l’uno dell’altra: ma come Septimus ha deciso di uccidersi pur di proteggere la propria intimità così gelosamente custodita, Clarissa decide di vivere. Ella si rispecchia nella vecchietta che va a letto da sola e chiude le tende e la luce con gesto sicuro. Per avere un attimo di riflessione si era isolata in una stanza; ma adesso ella è pronta a tornare nel salotto, in mezzo ai suoi invitati, riprendendo la sua vita sociale e accettando di continuare a vivere.

 

Fonte: http://unitiresistiamo.altervista.org/Woolf.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

Virginia Woolf vita e opere

 

 

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