Alberto Moravia vita opere e biografia

 

 

 

Alberto Moravia vita opere e biografia

 

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Alberto Moravia (1907-1990)

«Secondo me i privilegiati sono quelli che sia nel senso creativo, sia nel senso conoscitivo hanno a che fare con l’arte. Dico questo perché, nonostante una lunga vita piena di difficoltà di tutti i generi, alla fine mi considero un privilegiato per il fatto di essere un artista…».
[da Alberto Moravia - Alain Elkann, Vita di Moravia, Bompiani, Milano 1990]Alberto Moravia (per l’anagrafe Alberto Pincherle: il cognome Moravia è quello della nonna paterna) nasce il 28 novembre 1907 a Roma, in via Sgambati, da un’agiata famiglia borghese. Il padre, Carlo Pincherle Moravia, architetto e pittore, è di origine veneziana, mentre la madre, Gina de Marsanich, è di Ancona. Terzo di quattro figli (Adriana, Elena e Gastone, nato nel 1914), Alberto ha una «prima infanzia normale benché solitaria». All’età di nove anni si verifica «il fatto più importante della sua vita», quello che l’autore stesso riteneva avesse inciso «sulla sua sensibilità in maniera determinante»: la malattia da cui non guarirà del tutto che verso i diciassette anni, lasciandolo leggermente claudicante. All’età di nove anni, infatti, Alberto si ammala di tubercolosi ossea, malattia dagli atroci dolori che lo costringe a letto per cinque anni: i primi tre a casa, e gli ultimi due nel sanatorio Codivilla di Cortina d’Ampezzo. Durante questo periodo i suoi studi (interrotti alla licenza ginnasiale, suo unico titolo di studio) sono irregolari. Tuttavia, legge innumerevoli libri, soprattutto i classici e i massimi narratori dell’Ottocento e del primo Novecento (Dostoevskij, Joyce, Goldoni, Shakespeare, Molière, Mallarmé, Leopardi e molti altri); scrive versi in francese e in italiano, e studia tedesco.Dopo aver lasciato il sanatorio nell’autunno del 1925, durante la convalescenza a Bressanone, in provincia di Bolzano, dà inizio alla stesura de Gli indifferenti, che verrà pubblicato con gran successo nel 1929. La sua salute rimane fragile ed è costretto a vivere in alberghi di montagna passando da un luogo all’altro. Nel frattempo, tuttavia, entra in contatto con Corrado Alvaro, Massimo Bontempelli e la rivista «900», su cui pubblica nel ’27 la novella Cortigiana stanca.Grazie al successo del suo primo romanzo, Moravia s’inserisce nell’ambiente letterario e giornalistico, e si intensificano le sue collaborazioni su riviste. Nel 1930 alla Consuma, presso Firenze, dove si stabilisce per due mesi, conosce Berenson e gli fa leggere Gli indifferenti.Intanto il conflitto con il fascismo, iniziato in seguito all’uscita proprio di quel romanzo, si acuisce. Spinto dall’ansia d’evasione dal clima oppressivo del regime, inizia a viaggiare. Con vari articoli di viaggio, collabora dal 1930 a «La Stampa», allora diretta da Curzio Malaparte. Soggiorna a lungo in Inghilterra, dove conosce E. M. Forster, H. G. Wells, Yeats; e a Parigi, dove nel salotto letterario della principessa di Bassiano (cugina di T. S. Eliot), incontra Fargue, Giono, Valéry e il gruppo che si chiamerà «Art 1926».Nel 1933 con Pannunzio fonda sia la rivista «Caratteri», di cui escono solo quattro numeri, sia la rivista «Oggi», l’attuale testata omonima. Nel 1935 una cattiva accoglienza è riservata al suo secondo romanzo, Le ambizioni sbagliate (censurato dal regime). Nello stesso anno passa a collaborare alla «Gazzetta del Popolo»; e si allontana dall’Italia dove la vita gli stava diventando difficile. Tra il ’35 e il ’36 è negli Stati Uniti, su invito di Giuseppe Prezzolini, che dirige la Casa Italiana della Columbia University di New York; qui tiene tre conferenze sul romanzo italiano, discutendo di Nievo, Manzoni, Verga, Fogazzaro, D’Annunzio. Dopo una breve parentesi in Messico, ritorna in Italia, dove in poco tempo scrive L’imbroglio (1937), libro di racconti lunghi con cui inizia la sua collaborazione con la casa editrice Bompiani.Se si eccettua il viaggio in Cina nel ‘36, e il breve soggiorno in Grecia nel ’38 (dove ad Atene frequenta saltuariamente Montanelli), gli anni tra il 1933 e il 1943 sono per Moravia, che è ebreo per parte paterna, «dal punto di vista della vita pubblica, i peggiori della sua vita».Per eludere il controllo e la censura del regime, che guarda con sospetto alla sua produzione narrativa, Moravia sceglie la strada dell’allegoria, dell’apologo, della satira e dell’analogia. Ne nascono i racconti surrealistici e satirici, I sogni del pigro (1940) e il romanzo La mascherata (1941). Ma quest’ultimo viene sequestrato alla seconda edizione e Moravia non può più scrivere sui giornali, se non con uno pseudonimo — quello di Pseudo. Sotto questo nome collabora spesso alla rivista di Curzio Malaparte, «Prospettive».Nel 1941 sposa Elsa Morante, che ha conosciuto nel ’36 e con cui vive a lungo a Capri. Qui scrive Agostino, apparso con gran successo nel 1944. Dopo il matrimonio con la Morante, inizia per lo scrittore un periodo di fuga, latitanza e sbandamento: il suo nome è sulle liste della polizia fascista come «sovversivo». Dopo l’8 settembre del ’43, fugge da Roma con la Morante e si rifugia a Fondi, in Ciociaria. «Fu questa la seconda esperienza importante della sua vita, dopo quella della malattia». E da quell’esperienza nascerà il romanzo La ciociara (1957). Nel 1944, durante l’occupazione tedesca, vengono pubblicati i racconti de L’epidemia e il saggio La Speranza, ovvero Cristianesimo e Comunismo. Dopo la liberazione, torna a Roma e riprende una fitta attività letteraria e giornalistica, collaborando a «Il Mondo», «L’Europeo», e al «Corriere della Sera». Su quest’ultimo giornale, tra l’altro, dagli anni Cinquanta fino alla morte, la presenza di Moravia sarà costante: con una fitta serie di réportages, riflessioni e racconti. Nel dopoguerra inizia la sua fortuna letteraria e cinematografica. Dopo la pubblicazione de La romana (1947), escono i racconti lunghi La disubbidienza (1948), L’amore coniugale e altri racconti (1949) e il romanzo Il conformista (1951). Non solo, ma iniziano anche le traduzioni dei suoi romanzi all’estero e le realizzazioni di film tratti dai suoi racconti e romanzi: La provinciale (1952) con la regia di Mario Soldati, La romana (1954) di Luigi Zampa, Racconti romani (1955) di Gianni Franciolini, La ciociara (1960) di Vittorio de Sica, Agostino e la perdita dell’innocenza (1962) di Mauro Bolognini, Il disprezzo (1963) di Jean-Luc Godard, La noia (1963) di Damiano Damiani, Gli indifferenti (1964) di Francesco Maselli, Il conformista (1970) di Bernardo Bertolucci, Io e lui (1973) di Luciano Salce e così via via fino a L’attenzione di Giovanni Soldati (1985). Vanno ricordate, inoltre, le sceneggiature di Un colpo di pistola (1941) e Zazà (1943) di Renato Castellani, e le collaborazioni, nei primissimi anni del dopoguerra, a Il cielo sulla palude di Augusto Genina e a La freccia nel fianco di Alberto Lattuada.Nel 1952 — anno in cui gli viene assegnato il Premio Strega per I racconti, appena pubblicati — tutte le sue opere sono messe all’Indice dal Sant’Uffizio.L’anno successivo fonda a Roma, insieme con Alberto Carocci, la rivista «Nuovi argomenti», su cui scriveranno Jean-Paul Sartre, Elio Vittorini, Italo Calvino, Eugenio Montale, Franco Fortini e Palmiro Togliatti. Moravia dirigerà la rivista fino all’ultimo: dal ’66 insieme con Carocci e Pasolini, a cui si aggiungeranno Attilio Bertolucci e Enzo Siciliano; mentre a Milano, nel 1982, i direttori della terza serie saranno, oltre a lui, Siciliano e Sciascia.Nel ’54 pubblica I racconti romani (cui viene assegnato il Premio Marzotto), il romanzo Il disprezzo e, su «Nuovi argomenti», il saggio L’uomo come fine, scritto fin dal 1946. Negli anni successivi scrive la prefazione al volume del Belli, Cento sonetti, al Paolo il caldo di Vitaliano Brancati e a Passeggiate romane di Stendhal. Nel ’57 comincia a collaborare all’«Espresso», su cui curerà una rubrica cinematografica: alcune di quelle recensioni nel 1975 saranno pubblicate nel volume Al cinemaNegli anni Cinquanta Moravia si accosta anche alla scrittura teatrale e per il teatro scrive La mascherata e Beatrice Cenci. Frutto di un primo viaggio nell’Unione Sovietica, nel ’58 esce il saggio Un mese in URSS.Dopo la pubblicazione nel ’59 dei Nuovi racconti romani, nel 1960 l’uscita del romanzo La noia (vincitore nel ‘61 del Premio Viareggio) segna nella sua carriera un successo simile a quello ottenuto con Gli indifferenti e La romana. Cresce così la sua fama di sottile indagatore della vita sessuale, di intellettuale impegnato a sinistra, di leader del mondo letterario romano, e la sua figura diviene sempre più bersaglio dei conservatori e dei conformisti. Negli anni successivi, poi, in virtù del suo giudizio sicuro su qualsiasi evento culturale, politico e sociale, Alberto Moravia diverrà una sorta di di maître à penser.Nell’aprile del ’62 si separa da Elsa Morante, lascia l’appartamento romano in via dell’Oca e va a vivere in Lungotevere della Vittoria con la giovane scrittrice Dacia Maraini. In quello stesso anno escono sia Un’idea dell’India (a seguito del viaggio nel ‘61 in India, con la Morante e Pasolini), sia L’automa, il primo di tre volumi di racconti sul tema dell’alienazione, già apparsi sulla terza pagina del «Corriere della Sera». Seguiranno gli altri due volumi Una cosa è una cosa (1967) e Il paradiso (1970). Nel ’63 nel volume dal titolo L’uomo come fine e altri saggi raccoglie, invece, svariati saggi scritti a partire dal ’41. Dopo la polemica con Il Gruppo 63, nel ’65 pubblica L’attenzione, un esperimento di “romanzo nel romanzo”.A partire dal ’66 — anno in cui in occasione del Festival del Teatro Contemporaneo viene rappresentato Il mondo è quello che è — Moravia si occupa sempre più di teatro. Con Dacia Maraini ed Enzo Siciliano fonda la compagnia teatrale «del Porcospino», che ha come sede il teatro di via Belsiana a Roma. Vi vengono rappresentate L’intervista, dello stesso Moravia, La famiglia normale di Dacia Maraini, Tazza di Enzo Siciliano e opere di Carlo Emilio Gadda, Wilcok, Strindberg, Goffredo Parise e Kyd. Per mancanza di fondi l’esperimento si interromperà nel ’68. Nel ’67 Moravia spiega le sue idee sul teatro moderno in La chiacchiera a teatro, pubblicata su «Nuovi argomenti». Sempre nel ’67 insieme a Dacia Maraini, si reca, oltre che in Giappone e in Corea, anche in Cina. Le sue corrispondenze per il «Corriere della Sera» vengono riunite nel volume La rivoluzione culturale in Cina, uscito nel 1968 — anno in cui, tra l’altro, Moravia viene contestato in diverse occasioni dagli studenti.Dopo Il dio Kurt (1968), nel ’69 pubblica La vita è gioco, rappresentato nel 1970 al teatro Valle di Roma con la regia della Maraini. Con un intervento su L’informazione deformata commenta l’attentato dinamitardo alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano.Dopo l’uscita del nuovo romanzo Io e lui e la pubblicazione del saggio Poesia e romanzo (1971), nel ’72 intraprende dei lunghi viaggi in Africa, da cui nascerà A quale tribù appartieni? (1972). Seguiranno altri due libri sull’Africa: Lettere dal Sahara (1981), una raccolta di articoli scritti tra il ’75 e l’81 come “inviato speciale” del «Corriere della Sera», e Passeggiate africane (1987).Nel 1973 esce un nuovo libro di racconti (già apparsi sul «Corriere della Sera»), Un’altra vita, seguito nel ’76 da un’altra raccolta Boh. Nel 1978 esce il romanzo tanto atteso, a cui ha lavorato per ben sette anni, La vita interiore.Quindi, nel 1980, dà alle stampe la raccolta di saggi Impegno controvoglia, mentre il romanzo 1934 e la raccolta di fiabe Storie della Preistoria escono nel 1982, anno in cui fa un viaggio in Giappone, fermandosi a Hiroshima. A tal riguardo, per l’«Espresso» farà tre inchieste sul problema della bomba atomica. E proprio sull’incubo della bomba atomica e sul dissidio tra la cultura umanistica e quella scientifica è centrato il romanzo edito nell’85, L’uomo che guardaNel 1983 esce la raccolta di racconti La cosa, dedicata a Carmen Llera, la sua nuova compagna, una donna spagnola di quasi quarantasette anni più giovane di lui, che sposerà nel 1986, suscitando grande clamore. Tra il 1984 e il 1989 è deputato al Parlamento europeo, eletto come indipendente nelle liste del Pci.Sul «Corriere della Sera» nel 1984 inizia una corrispondenza da Strasburgo, il Diario europeo. Nell’86 pubblica in volume, L’angelo dell’informazione e altri scritti teatrali, L’inverno nucleare (a cura di Renzo Paris) e il primo volume delle Opere (1927-1947), a cura di Geno Pampaloni. Il secondo volume delle Opere (1948-1968), a cura di Enzo Siciliano, uscirà nel 1989. Nel 1987 dà alle stampe Il viaggio a Roma, e nel 1990 La villa del venerdì e Vita di Moravia, scritta assieme a Alain Elkann. Il 26 settembre 1990, alle nove del mattino, Alberto Moravia muore nella sua casa di Roma.Postumi escono, nel 1993, Romildo (a cura di Enzo Siciliano), una prima raccolta di racconti rimasti sepolti nelle pagine dei quotidiani e delle riviste, cui è seguito nel 2000 un secondo volume, Racconti dispersi.A dieci anni dalla morte, una serie di articoli giornalistici, di incontri ed iniziative, di tipo editoriale e non, ha ricordato Alberto Moravia.Sulle pagine del «Corriere della Sera», il 6 settembre 2000, Antonio Debenedetti pubblica in prima pagina un articolo dal titolo: Dieci anni dopo. Quegli amici smemorati di Moravia, e accende così nei giorni successivi un’interessante discussione, in cui sono intervenuti molti degli amici dello scrittore romano.Negli articoli Una specie di porcile con un'anima, e Il ricordo dei Mosillo, la Redazione Virtuale de «La Libreria di Dora» fornisce alcune testimonianze dirette sul soggiorno di Moravia a Fondi insieme alla Morante.In esclusiva per «ItaliaLibri», Roberta Simonis, editrice della rivista internazionale «Sahara», rievoca un incontro fortuito con Alberto Moravia, durante uno dei suoi viaggi di studio nello Yemen del Sud, tra il dicembre 1989 e gennaio 1990. Paolo Di Paolo, autore affascinato dalle sfaccettate tematiche della memoria, a quindici ann dalla morte dello scrittore, nell'articolo Tornare a Moravia rivisita le pagine dei quotidiani e l'abbondante saggistica pubblicata negli anni intorno alla figura e all'opera di Alberto Moravia, alla ricerca di una risposta all'interrogativo che inquieta ogni scrittore degno di questo titolo: come avviene che un personaggio tanto amato in vita possa venire così presto dimenticato?

Gli indifferenti
Ricordando la genesi de Gli indifferenti, il suo primo romanzo, pubblicato nel 1929, Moravia ha più volte affermato che alla base del suo progetto c’era la volontà di recuperare in sede narrativa la compattezza della tragedia, ponendo al centro dell’opera un nodo drammatico che ne occupasse l’orizzonte nella sua totalità (Cfr. A. Moravia, Gli italiani non sono cambiati, «L’Espresso», 2 agosto 1959: «Volevo scrivere un lungo racconto che avesse una struttura teatrale con unità di tempo, di luogo e con pochissimi personaggi. La mia ambizione era di scrivere una tragedia, invece ne venne fuori un romanzo»; Cfr. E. Siciliano, Milano 1971, p. 39: «Se avevo un’idea di cui andavo in cerca al tempo de Gli indifferenti era un’idea o una fissazione stilistica: fare uso della tecnica teatrale nel romanzo»). In effetti, soluzioni e scansioni tipicamente drammaturgiche sono evidenti fin dalle parole d’esordio del primo capitolo («Entrò Carla», come se si fosse appena alzato il sipario), influenzando gli elementi basilari della struttura romanzesca. La vicenda, infatti, si svolge in un arco di tempo quanto mai unitario — quarantotto ore disaminate quasi senza soluzione di continuità — dipanandosi pressoché interamente nell’ambito di tre distinti «interni» borghesi, che di capitolo in capitolo si succedono e ritornano esattamente come le scene di un dramma. La struttura de Gli Indifferenti è interamente basata sulle interrelazioni di cinque soli caratteri drammatici, dei quali fin dal terzo capitolo il lettore è in grado di individuare le psicologie, nonché di ricostruire correttamente i reciproci rapporti.La prima prova di Moravia, che conserva intatti alcuni schemi narrativi del romanzo tradizionale, non è esente da limiti, quali l’esposizione cronologica dei fatti, la consistenza degli sfondi che fanno da cornice alle vicende, o l’intreccio degli avvenimenti, realisticamente concepiti come sottofondo consequenziale all’analisi psicologica dei personaggi.Tuttavia ne Gli indifferenti c’è un motivo nuovo che in altri romanzi del tempo o appena precedenti (come Il podere di Tozzi, Rubè di Borgese e la Velia di Cicognani) non era stato delineato con altrettanta efficacia: l’analisi e la rappresentazione acre dell’ambiente borghese, visto nella sua crisi di trapasso da un’epoca all’altra, seguito da Moravia con dovizia di esemplificazioni, fino a trarne una visione esistenzialistica, contraddistinta dalla sua "indifferenza". Tale indifferenza si traduce in inerzia morale, incapacità a vivere la vita, superficialità con cui la società borghese si pone di fronte ai problemi dell’esistenza, ai valori più profondi e genuini dell’uomo. I personaggi del primo romanzo moraviano sono dunque colpiti da questa malattia morale, da una sorta di «debolezza della volontà» e versano in una condizione di annientamento, di perdizione, di disfatta, atta a far ritrovare nella distruzione di ogni valore, o nel male — toccato nelle sue pieghe più riposte — il senso acuto dell’esistenza. (Per una prospettiva interessante sulle implicazioni sociali del romanzo, vedi anche l'articolo Il rococò del mondo borghese, di Gabriela Iliuta).Carla, la giovane figlia di Mariagrazia Ardengo, è insidiata dal libertino Leo Merumeci, amante della madre, il quale mira ad impadronirsi del patrimonio di famiglia. Merumeci è facilitato nel suo proposito dalla particolare situazione in cui si trova la ragazza, desiderosa di uscire da un’esistenza mediocre, contrassegnata da una decadenza e una corruzione insostenibili: tenta l’approccio una prima volta nel salotto della villa, ma ne è impedito dal sopraggiungere della madre di lei, gelosa di ogni gesto e atteggiamento dell’amante, assolutamente ignara della nascente tresca con la propria figlia. Leo, dopo tanti tentativi, invita Carla a casa sua. Lo stupro avviene e, nel suo attuarsi così meccanico e impartecipe, lascia la ragazza in una depressione ancor più tragica e dolente.Il tradimento di Leo è scoperto da Lisa, amica di famiglia degli Ardengo, innamorata respinta di Michele, fratello di Carla e vecchio amore di Leo, contro la quale si rivolge ogni gelosia di Mariagrazia. Lisa rivela a Michele il nuovo imbroglio amoroso di Leo: il giovane, soggiogato dall’apatia morale, incline a una vita fondata più sui sogni e le fantasticherie, che su un’effettiva partecipazione al corso degli eventi concreti dell’esistenza, tenta di ribellarsi a questa assurda novità, affrontando ripetutamente Leo Merumeci fino a tentare di ucciderlo.L’attuazione di ogni disegno di Michele viene a naufragare in quella sua impotenza, che si risolve solo in un sogno di autenticità e in un desiderio di purezza, privi di qualsiasi valore sul piano concreto, indicativi — semmai — di un velleitario rifiuto della finzione e della corruzione in cui, al contrario, gli altri personaggi sembrano passivamente affondare. Il romanzo si chiude con l’integrazione di Carla nella vita borghese, culminante nel matrimonio con Leo, con il rifiuto rassegnato di Michele e il pieno successo di Merumeci.L’esile vicenda, schematicamente tracciata, non è determinante per comprendere appieno gli intenti del primo romanzo moraviano, impostato quasi esclusivamente sul tratteggio psicologico dei cinque personaggi e delle loro reazioni in un mondo che sta scivolando interamente sulla china della più profonda dissoluzione. Proprio seguendo tali reazioni si potrà giungere al centro della crisi, assunta da Moravia come segno di decadenza, come prova di un trapasso da un secolo all’altro, colmo di malessere e di tragica impotenza.Carla avverte che il vecchio mondo puro e intatto dell’infanzia è ormai sepolto nella sua anima come una cosa lontana e intoccabile. Un nuovo atteggiamento occorre per affrontare l’incerta dimensione del vivere quotidiano, sorretto da valori fittizi, improntato al più abietto conformismo: in questo intermedio e transitorio momento un atto di violenza è necessario a rompere le abitudini meschine di una vita piena di noia e tuttavia le sembra «di recitare una parte falsa e ridicola». La ragazza resiste a Leo e alle sue profferte interessate per un senso di vergogna, combattuta tra il desiderio di «rovinare tutto» — e mettere così fine alla provvisorietà del suo stato di apatia — e un senso di paura per le conseguenze di quella violenza sconosciuta. Nonostante ciò, le sembra che questa «avventura familiare» sia il solo epilogo degno di inaugurare la sua nuova esistenza, una frattura che rompa e laceri per sempre il vecchio mondo, fatto di immobilità, dominato da una meschina fatalità, pieno di atti e di gesti ripetuti fino alla nausea, in cui le stesse parole, i discorsi e le scene di gelosia tra la madre e Leo appaiono consunti e angosciosi, perché già in anticipo previsti, già esperimentati nella loro falsità in mille modi e occasioni diverse.Nell’identica situazione psicologica — forse con più netta coscienza e volontà di riscattarsi della sorella — si trova Michele, anche lui oscillante tra una vanità subdola e falsa e l’indifferenza, «meschina voragine» in cui sembra al contrario lasciarsi andare, senza combattere, per un gusto fatalistico di soccombere.Michele reagisce, a volte. Sembra che voglia rompere la crosta della finzione, strappare le maschere a quei volti della sua vita duri, patetici, inespressivi, denudare i propri istinti. La ribellione, però, quando avviene, è tiepida e mite, minata nelle sue più intime intenzioni: la noia, l’indifferenza svuotano ogni azione, anche quella più vera come l’attentato alla vita di Leo, che Michele sente quanto mai necessario per ridare un senso alla propria esistenza. Nell’epilogo della drammatica vicenda, prima di uscire di scena, egli rivela la sua totale abnegazione: la pistola scarica — un atto mancato — mentre Leo, impaurito, sovrasta per l’ultima volta la sua debole volontà.Michele è vero ai nostri occhi nella misura in cui combatte con una realtà disfatta, quella di Leo, di Mariagrazia e di Lisa, ossia di un mondo che non fa nulla per riscattarsi dalla propria corruzione.Se Lisa, l’amante respinta, che sogna con Michele un amore puro e romantico, rappresenta un aspetto della decadenza borghese, Mariagrazia ne incarna il risvolto più triste e patetico. La sua è veramente la «commedia» di una società che sta perdendoprogressivamente ogni legame con la realtà autentica della vita e si appunta ai gesti, alle parole, agli atteggiamenti più esteriori e insulsi, per salvarsi dal naufragio. Il suo ruolo è quello di chi si accorge di andare alla deriva, di affondare ogni giorno di più, ma non accenna ad alcuna reazione per impedire il fallimento. Ella sogna, invece, soluzioni impossibili, ricchezze e agi come le sole che permettano di sopravvivere. La paura di Mariagrazia per la povertà è un ribrezzo atavico, la miseria una condizione marginale del mondo, una colpa per chi ci vive in mezzo, un indice di mediocrità che ispira timore. Eccitata da false e ridicole ambizioni, non si accorge del mondo che frana intorno a lei, dell’ira e del disgusto che provoca nei figli con le sue scenate di gelosia, delle intenzioni ambigue di Leo, del suo tradimento con la figlia, delle cadute morali di Michele.Quello della madre è un personaggio che ritorna con una certa insistenza nella narrativa moraviana ed è esemplare come modello di una figura borghese che ha chiusure vaste e intoccabili relativamente ai pregiudizi di casta. Il carattere di Mariagrazia è indice di una decadenza disfatta e decrepita, quasi volgare nella sua supponenza di prestigio, di superiorità legata a doppio filo con l’idea del possesso materiale e della ricchezza. Per Mariagrazia Leo è il mondo borghese del decoro sociale, della supremazia dei sentimenti superficiali sulle verità più genuine: è Leo che conta sopra ogni cosa.
In questa prospettiva Leo ci si presenta come la figura più negativa del romanzo moraviano, ma che tuttavia ha un suo fascino interno, una sua funzione narrativa ben precisa nell’economia de Gli Indifferenti. Leo Merumeci è il punto focale di un quadro immobile, un personaggio fatalmente soggiogato dalla sensualità, dal gusto sottile della predominanza, che tiene avvinti a sé — nella vicenda familiare — i destini dei «suoi» pupazzi, li fa muovere e agire secondo uno schema preordinato, pronto ad adattarsi a ogni situazione con la furbizia, felice di colpire la propria vittima quando questa gli si inginocchia ai piedi, conquistata dal suo fascino o vinta dalla sua perversità.Egli insidia Carla nello stesso modo subdolo in cui tenta di impossessarsi della villa Ardengo, con la stessa fatalistica pervicacia con cui mira al nuovo approccio con Lisa, con la stessa sottile perfidia con cui abbandona Mariagrazia per una ben più giovane donna.Quando cerca di sedurre Carla, Leo è cosciente del dramma intimo della giovane. Ha già subodorato che la ragazza è ormai preda della sua cupidigia: egli la domina come un perfetto stratega, la stupra con sagacia libertina che non lascia respiro. Carla è già nella sua rete. La praticità, l’esperta velocità di esecuzione con cui agisce inquadrano perfettamente la sua sostanza morale.Leo ha un solo istinto, un solo impulso per volta, e quello segue fino in fondo, pienamente convinto della sua scelta, integrato mirabilmente alla sua vita borghese e ai suoi istituti; sa discriminare razionalmente tra i sentimenti che gli si presentano alla coscienza e asseconda ora l’uno ora l’altro in modo impeccabile, senza interferenze o inibizioni. In Leo si sublimano, quindi, l’ipocrisia, la falsa coscienza e la convenzionalità, aspetto saliente che Carla e Michele tentano appunto di rovesciare, anche se con debole convinzione, ma del quale alla fine restano vittime.Carla e Michele invidiano Leo, pur disprezzandolo, ma odio e disprezzo si compenetrano in una forma di amore edipico, che ha lontane origini in un padre mancante, sconosciuto: Carla lo desidera inconsciamente, ma solo come illusoria possibilità di riscatto; Michele lo odia e su di lui tenta un’esercitazione e una prova della sua debole volontà. In Leo, infine, il ragazzo cerca un modello comportamentale che lo scuota e lo tiri fuori dalla sua indifferenza.L’odio di Michele per Leo è tutto fantasticato, trasportato dal piano reale a quello dell’immaginazione: gli atti violenti e il mancato assassinio attestano tutti l’incapacità del giovane a odiarlo realmente. E insieme all’avversione, Michele prova per Leo una segreta ammirazione che si traduce, sul piano dell’azione e della realtà — e rispetto la suo desiderio di un mondo puro e autentico — in un risibile fallimento.Le conclusioni del romanzo moraviano stanno a indicare proprio la pienezza di questa sconfitta e il trionfo degli individui come Leo, di una società in crisi, ma ancora saldamente legata ai suoi pregiudizi:«Carla avrebbe sposato Leo… vita in comune, dormire insieme, mangiare insieme, uscire insieme, viaggi, sofferenze, gioie… avrebbero avuto una bella casa, un bell’appartamento in un quartiere elegante della città… qualcheduno entra nel salotto arredato con lusso e buon gusto, è una signora sua amica, ella le viene incontro… prendono il tè insieme, poi escono; la sua macchina le aspetta alla porta; salgono; partono… Ella si sarebbe chiamata signora, signora Merumeci!»…Michele è avvolto nel suo dubbio, si dibatte inutilmente tra il desiderio di ribellione e i duri aspetti della vita, le sue più consistenti ragioni pratiche, infime manifestazioni di una realtà che egli non può cambiare e che infine accetterà con disgusto, vinto per sempre. Gli rimane un rimpianto: «… un po’ più di fede — dirà — e avrei ucciso Leo… ma ora sarei limpido come una goccia d’acqua».Mariagrazia, infine, «si era travestita da spagnola» per il ballo in maschera, l’atto finale della «commedia», che vedrà la madre e la figlia — questa nel suo costume da Pierrot bianco — recitare le ultime battute, unite entrambe nella finzione e destinate a riprendere il gioco delle parti, senza fine.Tutta l’opera del Moravia è un grido contro l’ingiustizia e non solo quella di cui fu personalmente testimone: egli critica tutti i sistemi sociali ingiusti o estremi. È dimostrato che, in principio, ogni ordine sociale si presenta essere quello ideale, come se l’umanità non aspettasse altro: così è avvenuto con l'ascesa della borghesia, una reazione alla decadenza della nobiltà sul finire del Medioevo. Questo nuovo ordine sociale fu salutato come uno sviluppo inevitabile e benefico. Se per gli storici e i sociologi il problema fu capire se si sia trattato di uno sviluppo inevitabile, il problema fondamentale posto dal romanzo Gli Indifferenti è capire quanto sia stato benefico per l’umanità. Gabriela Iliuta nell'articolo Il rococò del mondo borghese, analizzando il romanzo trae le conclusioni e si domanda se non si sia piuttosto trattato dell'immeritata ascesa di un ceto decadente che ha portato con sé un tracollo profondo dei costumi della società.

 

Agostino

Era il 1944: i tedeschi occupavano Roma e Mussolini, di lì a un anno, sarebbe stato fucilato a Dongo. Presso la casa editrice Documento, pubblicato da Federico Valli in un’edizione limitata e illustrata da Renato Guttuso, vedeva la luce Agostino, lo scritto che valse a Moravia il primo premio letterario della sua vita: il Corriere Lombardo. La critica tutta, o quasi tutta, da Fernandez a Flora a Gadda, ha concentrato la propria indagine sulla tematica sessuale affrontata dal testo. Ne I viaggi, la morte, Gadda si chiedeva che cosa fosse questo «romanzetto», e si rispondeva, poi: «È l’incontro di un ragazzo tredicenne, di famiglia "civile", Agostino, coi fatti e coi problemi del sesso».Il termine “civile”, usato con una certa qual sicurezza da Gadda, ha dato modo alla critica più acuta di andare a fondo e scoprire la messa a punto, da parte di Moravia, dell’analisi sulla realtà delle classi sociali, dopo un primo approccio ancora in fieri approntato ne Gli indifferenti. A tal proposito, scrive Sanguineti: «Nessuno ha così efficacemente trascritto il fatale masochismo del borghese che, incapace di spontanea autocoscienza, finalmente, accusato di essere quello che precisamente egli è, e per intanto alienato in un mondo artefatto, innaturale, privo di ogni vitalità vera e di ogni autentica resistenza, e autenticamente, nel suo fondo, corrotto, si riconosce, e gode di quella stessa spietatezza con cui infine colto nella sua reale condizione e spiegato a se stesso». (E. Sanguineti, Alberto Moravia).Agostino è un bambino come tanti, colto nel momento del suo transitare lento, ma inesorabile, dalla fanciullezza all’età adulta; qui, tra le pagine di questo romanzo, egli ha ancora i contorni dell’adolescente incompleto. Il suo mondo si risolve interamente nella figura della madre che egli contempla, affascinato e sazio, come non volendo più altro dalla vita, se non l’affetto e le attenzioni di lei. Nella pudica visione che Agostino ha dell’esistenza campeggia, solitario, un solo anelito: «(il) desiderio di seguirla ovunque, anche in fondo al mare».Nel rapporto madre-figlio tutto procede senza intoppi, né rivalità, nell’esclusivo senso di possessione e si direbbe, azzardando, quasi “ossessione” da parte del figlio, fin quando un giorno, durante una vacanza al mare, Agostino non si vede scalzato da un bagnino, «un giovane bruno e adusto che tendeva la mano alla madre». I suoi sentimenti, da quel momento, cambiano direzione, diventano ciò che non erano mai stati: l’acredine e la gelosia, infatti, nel cuore di Agostino prendono il posto della tranquillità e della pace. Sembra di vederlo, nella stessa percezione che il ragazzo ha di se stesso, mentre ruzzola velocemente: «giù da un’illusione come da una montagna, restando tutto ammaccato e dolente».Quella stessa madre, perfetta e castamente rappresentata dai suoi occhi di bambino, è ora il punto di partenza per l’osservazione della donna, di un universo che il giovane protagonista non ha mai esplorato: «Il primo impulso di Agostino, a tale vista, fu di ritrarsi in fretta; ma subito questo nuovo pensiero, “È una donna”, lo fermò, le dita aggrappate alla maniglia, gli occhi spalancati. Egli sentiva tutto il suo antico animo filiale ribellarsi in quella immobilità e tirarlo indietro; ma quello nuovo, ancora timido, eppure già forte, lo costringeva a fissare spietatamente gli occhi riluttanti là dove il giorno prima non avrebbe osato levarli».Il nuovo sentimento di Agostino, dunque, tutto giocato tra la ripugnanza e l’attrazione, tra il volersi discostare e il sentirsi morbosamente attirato dalla madre, trova un nuovo sbocco, una strada aperta su cui correre verso la totale libertà. Ciò che il ragazzo vive nel profondo gli è insopportabile: non può non sentirsi trascinare dal “cordone ombelicale” che sempre l’ha legato alla figura materna, ma, nello stesso tempo, atterrito, sente che gli innocenti presupposti dell’antico vincolo sono stati sostituiti da nuovi e più audaci impulsi.Tuttavia, dopo uno schiaffo, la lacerazione è definitivamente compiuta: Agostino scopre un iperuranio diverso e sconosciuto, che non ha nulla a che fare con la condizione di ricco borghese, calato nelle gioie dell’infanzia. Il giovane protagonista entra a contatto con una banda di ragazzi del popolo. Questi vivono alla giornata, ai confini della legalità, in una conoscenza tutta naturale e degradante del sesso, della donna e della vita in genere. Non hanno limiti nell’espressione di se stessi, né moralità. In mezzo a loro il giovane protagonista comprende oscuramente «di pagare la sua diversità e la sua superiorità».Agostino è costretto a distaccarsi, oltre che dalla madre, dal suo modo primitivo di giostrarsi, per entrare a occhi chiusi in un’età di «difficoltà e miserie», in un tempo «oscuro e pieno di tormenti». I gesti della madre, i vezzeggiamenti e le carezze fino a quel momento tanto graditi, diventano per Agostino «un fastidio», «un malessere», azioni che in lui destano sentimenti controversi, dalla curiosità alla repulsione.Per Agostino il cambiamento è destabilizzante, è un turbamento profondo che lo porta a perdere l’equilibrio: «Copriti, lasciami, non farti più vedere — avrebbe voluto gridarle — non sono più quello di un tempo». Sente di attraversare un corridoio, non sa quando arriverà alla fine, si chiede come abbiano fatto i ragazzi più grandi di lui «ad amare la propria madre e al tempo stesso a sapere quello che egli stesso sapeva; e concludeva che questa consapevolezza doveva in loro uccidere a tempo l’affetto filiale, mentre in lui l’una non riusciva a scacciare l’altro e, coesistendo, torbidamente si mescolavano».E l’epilogo non tarda ad arrivare: un po’ scontato, a dire il vero, ma realistico. Il Tortima, uno dei ragazzi della banda, convince Agostino ad andare a bussare alla porta di una prostituta. La scena è bellissima, la si può vedere mentre si legge, così come se si fosse seduti al cinema: «La donna li scrutò un momento senza benevolenza, quindi, in silenzio, accennò al Tortima come per invitarlo a passare. Il Tortima sorrise rinfrancato e si slanciò verso la porta a vetri. Agostino fece per seguirlo. "Tu no", disse la donna fermandolo per la spalla. (…) "Sei troppo piccolo, Pisa", disse il Tortima beffardo».Chissà se poi, davvero, Agostino avrebbe avuto il coraggio di entrare. Moravia non ce lo dice, si limita a chiudere questo romanzo con una dolcezza insolita: «Come un uomo, non poté fare a meno di pensare prima di addormentarsi. Ma non era un uomo; e molto tempo infelice sarebbe passato prima che lo fosse». Cos’era dunque Agostino?Il Pandini parla di «distacco insanabile tra quello che si è chiamati ad essere per gli altri e quello che si sente di essere per sé». In effetti, molti dei personaggi Moraviani subiscono, prima o poi, questo distacco che assume, nelle loro vite, la forma della violenza. Più o meno traumatico, l’abbandono della vecchia vita per la nuova, sia per il Dino de La Noia, che per la Rosetta de La ciociara, piuttosto che per la Carla de Gli indifferenti, è qualcosa di fronte a cui si accetta di piegarsi nella rassegnata coscienza di una sorta di inevitabile evolvere della vita.
La ciociara
A detta di Moravia, La ciociara era già in gestazione al tempo de La romana, anzi appena poco prima, nel 1946. Venne interrotto dopo ottanta pagine e ripreso dieci anni più tardi, fino alla stesura definitiva in cui fu pubblicato nel 1957. L’interruzione è indicativa del fatto che l’esperienza di cui l’autore voleva rendere conto in questo romanzo – esperienza del suo rifugio a Fondi in casa Mosillo e Marrocco con Elsa Morante durante i nove mesi dell’occupazione tedesca, dal settembre 1943 al maggio 1944 – era troppo a ridosso dei fatti patiti e vissuti, per essere narrata con quel distacco necessario al giudizio degli avvenimenti e bisognosa dunque di una più consona celebrazione.«Il Moravia del romanzo forse più riuscito della sua carriera dopo Gli indifferenti» – come afferma Giacinto Spagnoletti – «è prima di tutto lo scrittore che ha preso a cuore il problema della guerra non più solo come racconto di cocenti esperienze del recente passato, ma soprattutto come fatto ideologico da valutare nella sua violenza profanatrice, tanto più dura da affrontarsi quanto meno se ne possono prevedere le conseguenze» (1).Ancora una volta è una donna del popolo a narrare ore rotundo la sua storia, facendolo con un linguaggio assai aderente al livello della sua esperienza. Mentre ne La romana alla voce della protagonista si sovrapponeva spesso quella dell’autore, ne La ciociara il modulo del discorso e l’intonazione del giudizio su ogni singolo fatto appartengono unicamente alla donna che parla. Cesira è una contadina originaria della Ciociaria trasferitasi a Roma, dopo il matrimonio, con un pizzicagnolo molto più anziano di lei, onesta nel fondo del cuore al modo sano dei contadini, anche se tenacemente attaccata alla roba. Ha allevato la figlia Rosetta – adolescente che nel suo riserbo e nella sua timidezza rispecchia ciò che la madre avrebbe voluto essere – ad una trepida confidenza.La sopraggiunta vedovanza induce la giovane donna ad assumersi tutte le responsabilità nella gestione del negozio di alimentari lasciatole dal marito, e, poiché i beni scarseggiano, ella non disdegna un po’ di borsa nera, che le fa guadagnare una discreta somma di denaro.La guerra che preme su Roma e poi l’occupazione tedesca nel settembre del ’43 costringono Cesira ad abbandonare la capitale e, con la figlia e due valigie di fibra, a cercare rifugio verso Fondi, nella casa paterna. Prima le rotaie del treno interrotte, poi i bombardamenti impediscono che il progetto sia portato a termine e, con sacrifici notevoli, dopo quasi un mese di soggiorno presso una famiglia di contadini resa avida dalle privazioni e dalla miseria, le due donne trascorrono circa un anno a Sant’Eufemia, di fronte alla valle di Fondi e, quando il cielo è limpido, all’isola di Ponza.Il tempo passa attendendo gli inglesi, in quel frangente sinonimo di libertà; ma a causa delle cattive condizioni climatiche gli Alleati sono fermi al fiume Garigliano, mentre i tedeschi rastrellano la zona portando via tutto. La «ciociara» e la figlia prendono coscienza di una realtà in cui il giusto e l’ingiusto si confondono, emergono i vizi e le viltà degli uomini, fino a dare al mondo un assetto diverso e sconvolgente. La guerra distrugge alle radici ogni risorsa umana:«La guerra sconvolge tutto e, insieme con le cose che si vedono, ne distrugge tante altre che non si vedono eppure ci sono».Non è che una delle innumerevoli considerazioni che fa Cesira, perfettamente consapevole dell’immane flagello che incombe. E di un’altra cosa si accorge con orrore:«Uno dei peggiori effetti delle guerre è di rendere insensibili, di indurire il cuore, di ammazzare la pietà».Moravia ci descrive l’esilio delle due donne in modo unitario, «con uno stile che cerca di distanziarsi dalla sofisticazione intellettuale della didatticità ideologica e costruisce il paesaggio come un luogo dell’innocenza in cui Cesira e Rosetta “ritornano alla natura” ed in cui è possibile alimentare una speranza che si lega in modo conseguente e felice alla primordialità della terra». (G. Pandini).Morta la pietà e a liberazione avvenuta, quando Cesira e Rosetta con l’arrivo degli angloamericani lasciano quest’angolo di mondo che le ha viste spogliate di tutto, ma arricchite di una nuova e significativa esperienza, proprio allora la vicenda si scioglie nel dramma più cruento: in una chiesa abbandonata, davanti all’altare e ad un’immagine rovesciata della Madonna, un gruppo di soldati marocchini usa violenza alle due donne.Questa violenza, unita alla violenza collettiva della guerra, muta radicalmente il carattere remissivo e conciliante di Rosetta, che sfugge al controllo della madre e si chiude in un mutismo che esaspera Cesira.Rassegnata, la «ciociara» osserva nella figlia innocente le conseguenze della guerra, così com’è per i luoghi devastati e distrutti del paesaggio che fa da cornice al dramma umano. Nella sua dolente rassegnazione, nell’impotenza della sua sorte, Cesira vede la figlia cambiare sotto i propri occhi e darsi agli uomini con amara determinazione «come se nel rapporto fisico cercasse una vita che per essere completa dovesse essere riconquistata con la cancellazione di ogni residuo d’innocenza.» (2)«Il vero dramma della guerra – ha scritto Ciro Raia – si consuma per questa famigliola nell’alterazione dei rapporti, nella consapevolezza di una madre che sa di aver perso una figlia, strappata all’innocenza e abbandonata alle lussurie e alle miserie umane» (3).Ma prima di questo drammatico episodio, nell’ultimo atto di resistenza ai tedeschi tocca ad uno studente, Michele, il solo personaggio idealistico del romanzo, sacrificarsi per i suoi parenti, i contadini e gli altri sfollati, lasciandosi portar via da un gruppo tedeschi in ritirata. Da allora del giovane non resta che il ricordo. Alla fine del romanzo si saprà che egli è stato fucilato.Michele è l’ «eroe positivo», l’opposto dell’omonimo amletico personaggio de Gli indifferenti, di cui rappresenta l’ideale prosecuzione e conclusione. È un Michele più maturo e consapevole, disposto a morire per un ideale in cui crede fino in fondo. Aspira ad un mondo più vero e più giusto e reagisce alla violenza della guerra con la sottomissione, immolando se stesso.Ciò d’altronde era nelle intenzioni dell’autore, il quale, facendo riferimento al turbamento intellettuale e politico derivante dalla situazione mondiale, ha dichiarato:«Con La ciociara si chiude idealmente la mia fase di apertura e di fede nel comunismo», «Si consumava in me l’identificazione tra comunista e intellettuale. In altri termini, il personaggio di Michele, il Michele de Gli indifferenti, si conclude là, ne La ciociara. Non a caso, il protagonista maschile del romanzo l’ho chiamato appunto Michele».Giancarlo Pandini si dimostra alquanto scettico nei confronti di una tale affermazione, affermando che essa «se viene a rischiarare l’ideazione di un personaggio come il Michele de Gli indifferenti, non giustifica l’anonimo dramma tutto popolare de La ciociara se non nella trasparenza con la quale Moravia ha voluto indicare la spinta ideologica che determina nel popolo la ‘coscienza’ del dolore e dell’ingiustizia di fronte allo scontro duro e drammatico con la guerra. Si potrebbe pensare che Moravia in questo romanzo abbia voluto redimere Michele dalla sua «indifferenza» di fronte agli eventi politici, rendendolo consapevole e corresponsabile degli avvenimenti, fino a farne l’eroe di un altruismo e di un sacrificio, che hanno troppo il sapore di costruzione letteraria ed astratta per riscattarlo completamente. Il suo Vangelo letto in chiave marxista, se pur è sufficientemente positivo da far comprendere alla popolana Cesira qual è il senso della sua esistenza durante la guerra fino a infondere in lei un sentimento di giustizia e di comprensione della vita, non lo è altrettanto nell’artificiosa saggezza con cui si rivela. Perché Michele, più che da se stesso e dalla sua ideologia, trae incitamento alla sua apertura verso il mondo sconvolto e a gettarsi nell’azione proprio dal buon senso della popolana Cesira» (4).Ben più convincenti e suggestive sono invece le argomentazioni portate da Giacinto Spagnoletti a sostegno della maturazione umana e politica di Michele, quando definisce il sacrificio del giovane studente «l’unica limpida opposizione alla crudeltà degli avvenimenti e al male portato dalla guerra che Moravia ha messo in evidenza quasi a lasciar intravedere uno spiraglio di altruismo e di fede nei valori dell’esistenza di fronte alla cecità e all’aberrazione generali. […] [Michele] è un personaggio nuovo emerso da una diversa situazione storica, come un avvertimento, un segno di quanto è stato e non si ripeterà più» (5).Di ciò e della carica ideale che Michele rappresenta, al termine delle sue traversie prende coscienza l’umile Cesira. Ricordando la situazione a cui erano giunte lei e la figlia, «morte alla pietà che si deve agli altri e a se stessi», la ciociara sente di non potersi più staccare da quel momento della sua vita in cui Michele, prima di morire, aveva letto il passo del Vangelo su Lazzaro. Allora egli si era adirato con i contadini che non lo avevano compreso, gridando che «erano tutti morti in attesa della risurrezione come Lazzaro».Mettere in bocca ad una donna del popolo questa cocente e straordinaria rivelazione, e lasciare che sia lei semplicemente a condannare gli orrori trascorsi e a far sentire come gli uomini possano trasformarsi a contatto con un flagello come la guerra, ha indubbiamente rappresentato per Moravia un’esperienza di grande importanza: ma quel che più conta è che questa «lezione morale» nasca da un libro di straordinaria presa narrativa, uno dei romanzi migliori del tempo.Il ritorno a Roma segna molti cambiamenti per Cesira e Rosetta, che dall’esperienza della guerra, dal pericolo di morte sempre incombente hanno appreso, attraverso il sacrificio personale e la spietata violenza subita, tutta la brutalità del mondo scosso da una sorta di apocalittico sconvolgimento. Nonostante tutto, viva è la speranza di riprendere la vecchia vita nella normalità del quotidiano, mentre la guerra continua in tutta la sua empietà e follia.Così è ancora vero quanto la ciociara ha sempre pensato: «Tedeschi, inglesi, americani, russi, per me – come dice il proverbio – ‘ammazza ammazza è tutta una razza’».

 

Fonte: http://xoomer.virgilio.it/semidiluce/_private/Alberto%20Moravia.doc
Fonte: http://xoomer.virgilio.it/semidiluce/900.htm

autore del testo non indicato nel documento di origine

 

ALBERTO MORAVIA
(Liberamente tratto da Giuseppe Giacalone –La Pratica della Letteratura Novecento–Guida Modulare alla storia della letteratura Italiana Antologia Tomo II F.lli Ferraro Editori 1997 Pag. 858-899;  Redazione Virtuale de «La Libreria di Dora» )

 

Vita
Alberto Moravia è nato a Roma il 28 novembre del 1907 da Carlo Pincherle architetto e pittore e da madre anconetana della famiglia De Marsanich. Fino all’età di 9 anni "la vita del piccolo Alberto si dipana in una duplice direzione: nella reale consistenza del mondo borghese in cui è nato, tra le cure affettuose delle sorelle Adriana ed Elena; e in quello ben più vero, ma crudo e disarmante, d'una Roma suburbana, con le sue miserie e le sue costrizioni esistenziali" (Pandini).
A circa dieci anni, Moravia si ammalò di tubercolosi ossea secca e per questa ragione dovette interrompere gli studi ginnasiali e, costretto a stare a letto, si diede alle letture degli autori preferiti: Dostoevskji, Goldoni, Shakespeare, Baudelaire, Leopardi, Manzoni, il teatro classico, Eliot, Apollinaire. In questo clima nasce la sua vocazione di scrittore precoce. Dal 1923 al 1924 la malattia raggiunse punte assai gravi, ma le cure indovinate e precise del sanatorio lo portarono alla guarigione e nel 1925 poté trascorrere a Bressanone un periodo di convalescenza.
Moravia intraprese a scrivere Gli indifferenti sin dal 1925, ma lo pubblicò nel 1929 a proprie spese, in quanto l’editore Alpes di Milano pretese cinquemila lire per la pubblicazione del suo romanzo.
Il romanzo per il suo successo critico e per il suo spirito polemico-realistico mise in contrasto Moravia col regime fascista, tanto che preferì evadere dal clima oppressivo del regime recandosi a Londra nel 1931 e poi a Parigi, quindi a New York nel 1934, chiamato da Prezzolini alla Columbia University, dove tenne conferenze su Manzoni, Verga, Fogazzaro, D'Annunzio. Nel 1935 ritorna in Italia e intanto finisce la guerra etiopica e Mussolini si avvicina alla Germania, dando luogo a una politica imperialistica culminante nell'Asse Roma-Berlino.
Ricominciò di nuovo i viaggi, e gli anni tra il 1933 e il 1943 furono i peggiori della sua esistenza dal punto di vista della vita pubblica, per le persecuzioni naziste contro gli ebrei. Egli stesso dichiarava:
Forse per questo facevo tanti viaggi, per sottrarmi ad un'atmosfera avvelenata dalla menzogna, dalla paura e dal conformismo.
Avvenimenti importanti in questo periodo furono il matrimonio con Elsa Morante (1940) e, subito dopo un periodo di fuga e latitanza, in seguito al quale riuscì ad arrivare con la moglie a Fondi, dove trovò ospitalità presso la famiglia di un conoscente, il giudice Mosillo, che lo fece alloggiare in un cascinale; ne La Ciociara rivivranno molte delle esperienze di questo periodo. Nel 1945 fu premiato per il romanzo Agostino, scritto nel 1943. La fine della guerra dette la possibilità all’autore di riprendere la sua attività con la pubblicazione de La romana (1947), La disubbidienza (1948) e Il conformista (1951).
Nel 1952 gli viene assegnato il premio Strega e i suoi libri, mentre da un lato venivano messi all’indice, erano tradotti in quasi tutte le lingue e alcuni utilizzati come argomenti di grandi films di successo in chiave neorealistica: La romana con la regia di Zampa, i Racconti romani con la regia di Franciolini, La ciociara con la regia di De Sica, Gli indifferenti con la regia di Maselli.
La produzione moraviana, dal '47 al '59, cioè da La romana ai Nuovi racconti romani (1959) è stata infatti giudicata da certa critica come quella più aderente alla poetica del Neorealismo. "Ma a ben vedere Moravia, se si eccettua il linguaggio neorealistico dei bozzetti di tipo popolare, resta ancora fedele alla sua "indifferenza" di inizio, quale sostanza d'una pena esistenziale nei confronti della crisi sviluppatasi in seno all'umanesimo tradizionale" (Pandini).

La classe dirigente italiana nell’immediato dopoguerra provocò una forte reazione al neorealismo, suscitando atteggiamenti polemici più impegnati sul fronte della neoavanguardia, e Moravia, intravedendo nella polemica l’ipocrisia di una società rimasta conformista, riprese a lavorare nel teatro, nella speranza di avere la possibilità di un colloquio più diretto e di una denunzia più efficiente e costruttiva per il pubblico. Testimonianza di questa crisi sono i suoi numerosi viaggi all'estero e La noia (1960) in cui Moravia recuperava "il suo tema preferito, ricollegabile alle sorti di scacco e d'impotenza della indifferenza d'inizio, con abbondanza di tesi da dimostrare intorno al tema antico della sua atonia morale, che trova nel clima sociale e ideologico degli anni Sessanta una nuova significazione e una sempre maggiore evidenza nel senso di distacco da una realtà inautentica.

L'inizio del nuovo decennio segna anche una svolta nella produzione e nell'impegno culturale di Moravia. Il romanzo, come forma espressiva tradizionale, è messo in crisi dal nascere delle neoavanguardie. Il Gruppo 63, in un convegno tenutosi a Palermo, entra in polemica con Moravia [...] Moravia, molto sensibile a queste pressioni, rivede il suo lavoro e inizia la composizione di un nuovo romanzo, L'attenzione, che si configura come “romanzo nel romanzo" (Pandini).

Con Siciliano e Dacia Maraini (intanto si era separato da Elsa Morante) fonda una compagnia teatrale detta del Porcospino. Ma l'opera teatrale di Moravia, pur testimoniando la vivacità e la vitalità di uno scrittore di forte vena, non aggiunge nulla alla sua validità di artista narrativo; testimonia soltanto la minore fiducia del nostro autore nel romanzo, mentre lo fa rivolgere sempre più al saggio-racconto. Il segno della sua insoddisfazione traspare nel romanzo Io e lui (1971).

Tra le altre opere si ricordano i romanzi: La vita interiore (1978); 1934 (1982); L'uomo che guarda 1985); Ritorno a Roma (1989) e, postumo, La donna leopardo; i volumi di racconti: La cosa (1983), La villa del Venerdì e altri racconti (1990).

Muore  a Roma il 26 settembre 1990. Negli ultimi anni si era ''impegnato-controvoglia''  per il disarmo e contro le guerre come parlamentare europeo-indipendente eletto nel Partito comunista

 

Opere
GLI INDIFFERENTI
Pubblicato nel 1929, Gli indifferenti fu l'opera che consacrò la fama di Alberto Moravia
RIASSUNTO.
Per la sua diagnosi Moravia ha preso ad esempio tipico la famiglia Ardengo che possiede una sontuosa villa al centro di Roma, la cui area fabbricabile ha un valore inestimabile. Leo Merumeci, spregiudicato dongiovanni della società bene romana degli anni fascisti, ha prestato denari alla vedova Mariagrazia proprietaria della villa ed anche sua amante. Ma egli è ormai annoiato di questa relazione, anche perché, avendo ipotecato la villa, si ritiene già virtualmente il proprietario legittimo. Michele, il figlio di Mariagrazia, è disgustato di questo rapporto di Leo con la madre, anche perché disprezza Leo per la sua natura di affarista e di dongiovanni, per la sua natura ambigua in cui sesso e denaro sembrano cooperare ai fini di un tornaconto vergognoso. Ma, nonostante le sue idee sane e tradizionali, egli è troppo inetto per prendere una decisione radicale e cacciare via di casa Leo, e in realtà finisce con l'accettare la situazione di fatto. Intanto, la sorella Carla, nonostante sia a conoscenza del rapporto amoroso di Leo con la madre, accetta, sia pure senza entusiasmo, la corte di questi, dandogli un appuntamento in una rimessa della villa; lo stupro qui non può avvenire perché la ragazza, essendo stata ubriacata da Leo, si sente molto male. Leo, però, non disarma; va a cercare Lisa, sua vecchia amante, ma ora innamorata di Michele. Respinto da questa, torna alla carica con Carla, invitandola a casa sua e, finalmente, possedendola.
Soltanto Lisa è a conoscenza del rapporto amoroso di Leo con Carla, e lo rivela a Michele, cercando di svegliarlo dal suo torpore morale e dalla sua indifferenza, e, nello stesso tempo, dimostrandogli chiaramente di amarlo. Suggestionato da Lisa, Michele prende la decisione di affrontare Leo, compra una pistola e si reca alla casa di lui, sorprendendo anche la tresca amorosa con la sorella. Preme il grilletto, ma l'arma è scarica, perché egli ha dimenticato di caricarla. Fallito questo tentativo supremo dell'azione di Michele, questa velleità di rivalsa morale, la vita di quella famiglia precipita di nuovo nella corruzione morale. Leo, preoccupato di perdere la villa, decide di sposare Carla, la quale accetta; lo stesso Michele accetta il fatto compiuto, diventando socio nei loschi affari di Leo.
Il romanzo termina con una mascherata. Mariagrazia si è travestita da spagnola, la figlia Carla da Pierrot bianco per recarsi a un ballo in maschera, invitati e accompagnati da Leo, recitando ormai senza fine il ruolo delle loro parti ipocrite, come del resto anche Michele e Lisa. La conclusione del romanzo indica la piena sconfitta degli ideali onesti e tradizionali della famiglia e il trionfo di Leo, cioè dell'individuo spregiudicato espressione di una società in crisi, ma tuttavia ancora ipocritamente legata ai suoi pregiudizi. Infatti Leo "ripara" alla sua colpa sposando Carla, ma della morale della famiglia non resta in realtà che la sola apparenza:
Carla avrebbe sposato Leo... vita in comune, dormire insieme, mangiare insieme, uscire insieme, viaggi, sofferenze, gioie... avrebbero avuto una bella casa, un bell'appartamento in un quartiere elegante della città... qualcheduno entra nel salotto arredato con lusso e buon gusto, è una signora sua amica, ella le viene incontro... prendono il tè insieme, poi escono; la sua macchina le aspetta alla porta; partono... Ella si sarebbe chiamata signora, signora Merumeci.
Questa è la morale ipocrita della società borghese descritta da Moravia: e tutti l'accettano con indifferenza, anche Michele che pure si era dibattuto in tutte le sequenze del romanzo tra il desiderio di ribellarsi e la necessità di accettare quella situazione ipocrita; gli è sempre mancata, però, la fede nell'azione. Un po' più di fede, ed egli avrebbe ucciso Leo e sarebbe diventato puro e limpido nella sua coscienza come una goccia d'acqua.
La verità è che la società corrotta finisce col corrompere anche i puri, con l'inquinare anche le coscienze oneste, che non vorrebbero accettare la corruzione e l'ipocrisia. In una società, come quella descritta da Moravia, il successo è quel che conta, i sentimenti autentici non hanno alcun posto; e Leo è il simbolo dell'uomo borghese perfettamente in linea con la corruzione di una società che ha elevato a idoli denaro e sesso. Tutto in questa società diviene comico e falso, perché non c'è sincerità e autenticità di sentimenti; e Michele non è fatto per questa vita, ma la sua incomunicabilità lo rende anche inetto.
L’incapacità del romanzo di assurgere al tono tragico, nonostante la materia drammatica e la virtuale strutturazione teatrale, è condizionata all'alienazione vitale e all'indifferenza costituzionale di Michele, a cui è sempre mancata la fede per raggiungere la catarsi uccidendo Leo. Questa incapacità di adattamento e di azione rende grottesco non solo Michele, ma anche tutto il tono del romanzo, che ha perso appunto ogni tono da tragedia, sebbene narri una tragedia.

Gli indifferenti (1929) costituiscono un romanzo di rottura con ogni aspetto della cultura italiana del tempo, non solo per il fatto che nel contesto di una cultura surrealista e decadente in crisi diede un primo esempio di realismo, ma anche per il fatto che egli immetteva nell'arte narrativa un mondo inconsueto. "La realtà che l'autore traduceva ne Gli indifferenti e i modi linguistici, di cui si valeva, accusavano una franchezza morale e una disinvoltura tecnica veramente singolari e, in gran parte, inedite nella nostra letteratura contemporanea. Quel che colpiva in questo suo primo romanzo era la convergenza d'un contenuto ostensivamente immorale e squallido con un'espressione secca e sbrigativa, anch'essa disadorna e impoetica. Il trattamento ch'egli riservava ai suoi attori era contrassegnato da un distacco intellettuale che gli permetteva di alienarli da se stesso e di atteggiarli in una parvenza di oggettività talmente fredda e scostante da poter sembrare quasi una diagnosi clinica" (Battaglia).

L’autore, come si è detto, non aveva l’intenzione di porre sotto accusa diretta il fascismo, ma gli stessi modi realistici della narrazione costituivano già un segno di protesta e di rottura. Il romanzo infatti implicava una violenta accusa della struttura morale della famiglia borghese, e della società che aveva mistificato i valori dell'etica ufficiale piccolo-borghese del Fascismo.

''Gli Indifferenti'' per lo stile, la descrizione, le atmosfere è molto vicino ad un realismo di tipo esistenziale, esso anticipa di qualche anno ''La Nausea' di Sartre un romanzo che segna la letteratura e la filosofia esistenzialista europea.
Siamo certo nel solco del Decadentismo e nello stesso tempo oltre
-il punto di partenza è rappresentato dalla crisi dei valori del secolo XIX
-il personaggio, i personaggi, operano e vivono privi di affetti e di slanci ideali in una maschera di ipocrisia, ma l'impostazione di Moravia è ''esistenziale'' vale a dire descrive in modo crudo e realistico il deserto ove si muovono gli uomini criticando implicitamente tutto un ambiente borghese decadente, nello stesso tempo manca ogni rifugio o esaltazione o ancora fuga puramente esteriore da quella situazione
Decadentismo esistenziale, quindi o realismo esistenziale

 

Moravia esordì con Gli indifferenti, concependo un romanzo compiutamente realizzato, come si può di solito riscontrare in uno scrittore all’acme della propria carriera. La materia è greve, focalizzata su un groviglio di esistenze prive di qualsiasi ideale, grette e moralmente meschine, prive di volontà, i cui incerti tentativi di riscatto sono destinati a fallire in un contesto freudiano. Paradigmatica è la pistola, che Michele “dimentica” di caricare, rifiutando a livello inconscio quella volontà di reazione che pare animarlo. Non resta che continuare ad avvoltolarsi “come porci nel brago”, senza stabilire un rapporto autentico con gli altri e con la realtà in un’opacità di coscienza che Moravia constata con un rancore affatto privo di pietà ricollegandosi al filone dell’inetto incapace di vivere percorso anche da Svevo e facendo dell’indifferenza un paradigmatico atteggiamento esistenziale. Sul piano formale il romanzo fornisce un esempio di prosa sagace, precisa, aderente alle cose, realistica in aperto contrasto con quella dominante in quel periodo e nel precedente. Un certo alone di scandalo, per la scabrosità della vicenda non fu estraneo al successo del romanzo, ma il vero “scandalo” era la demistificazione dello stereotipato moralismo fascista che Moravia aveva osato attuare, svelando la carenza di valori etici e civili celata sotto l’asserita rispettabilità e “sanità morale” della borghesia, e quindi della classe dirigente. Tale valore polemico non sfuggì alle gerarchie fasciste e il romanzo subì violenti attacchi ed ostacoli per le successive edizioni. L’indifferenza per Moravia, consiste nell’incapacità di interessarsi al problema etico. Tale amoralismo implica l’incapacità dell’individuo di rapportarsi con il mondo avviluppandosi in un bozzolo di solitario egoismo. L’indifferenza si trasforma in impotenza, in accettazione passiva della realtà in ipocrisia e totale incomunicabilità. Lo smarrimento dei valori tradizionali non è stato riempito da nuovi significati. L’alienazione dell’uomo moderno, l’incomunicabilità di cui è vittima, sono per Moravia abominevoli e la ricerca di un’adesione alla vita, anche a scapito della problematica morale, è compiuta fisicamente, per mezzo di elementari certezze che possono far ritrovare il rapporto con gli altri mediante la liberazione dal conformismo. L’indagine di Moravia si articola sul piano psicologico, sociologico, etico. Moravia percepisce la problematicità della realtà e persegue la demistificazione delle contraddizioni celate da atteggiamenti speciosi, da convenzioni, da ipocrisie che falsificano i rapporti umani. L’indagine sociale, negli “indifferenti” rivela l’involuzione dei principi che giustificarono storicamente l’egemonia borghese. L’iniziativa e le capacità individuali sono degenerate nel culto del successo, dell’apparenza, della prevaricazione. Sesso e denaro sono gli stimoli dell’egocentrismo, mentre i valori più elevati sono sistematicamente elusi con giustificazioni pretestuose. La ricerca egoistica del piacere e del potere è l’unico scopo, destinato a perpetuarsi all’infinito restando sempre inappagato in una banalizzazione dell’esistenza e dello spirito. Il realismo di Moravia coniuga acuta analisi psicologica e minuziosa descrizione ambientale che visualizza l’interiorità del personaggio che quindi si manifesta non con teatrali prese di coscienza, bensì con movimenti ed atteggiamenti quasi istintivi, che restano a livello del subconscio. La realtà si sfalda nell’irrealtà di getti meccanici e consunti dal conformismo e dall’abitudine. La scelta, più o meno inconscia, dell’indifferenza è un cammino dalla coscienza all’incoscienza, al rifiuto di pensare, al lasciarsi vivere.

La vicenda narrata si concentra su pochi personaggi ed ha come ambientazione principale il salone di casa Ardengo.
Ritratto della disgregazione di una famiglia borghese, Gli indifferenti è un romanzo scandaloso perché contraddice i valori marziali ed eroici propagandati dal regime fascista. Si tratta di un romanzo "decadente", i cui protagonisti non brillano per irreprensibili qualità morali.
Per questi motivi il libro di Moravia fu sottoposto a censura dal regime.
Mentre gli adulti  condividono esteriormente  i valori tradizionali, si manifestano al contrario nei fatti, ipocriti, interessati, mossi da appetiti elementari, egoisti, illusi. Personaggi dunque quasi ripugnanti.
Leo è un uomo con un forte senso di realtà, calato nell'azione e nella vita pratica, ma è anche un seduttore, un volgare mistificatore, capace di speculare sui guai economici della famiglia Ardengo, interessato esclusivamente ai soldi e al sesso. Non ha una vita  interiore, un saldo codice morale che ne indirizzi i comportamenti, è soltanto un fascio di desideri, ha un istinto animale che lo guida, è un rapace.
Mariagrazia è un personaggio fatuo, dagli orizzonti culturali assai limitati. È patetica nella sua gelosia e nei suoi sogni di ascesa sociale. Il suo microcosmo mentale è fatto di recriminazioni e di stupide chiacchiere.
Lisa, che aspira all'amore di Michele, non è molto meglio. Donna matura, esperta,  ma ormai sfiorita, sembra interessata soprattutto al piacere; non le riesce di comprendere i turbamenti psicologici del suo acerbo amante.
I giovani ne escono forse meglio. Sono almeno attraversati da un'inquietudine cui non riescono ancora a dare un nome; esprimono disagio, noia, disperazione di fronte a orizzonti esistenziali poco entusiasmanti, al conformismo e all'ipocrisia del mondo adulto. Aspirano a una nuova vita, più sincera e autentica.
"È inutile" si ripeteva toccando con le dita incerte i bordi della finestra, "è inutile... questa non è la mia vita".
Carla è una bella ragazza, amorale e sensuale, impaziente e confusa. È ossessionata dal bisogno di cambiare vita, di uscire dal soffocante e mefitico clima familiare. Cerca di farlo attraverso il suo corpo, la sua sensualità, ma si accorge che è tutto inutile. Il fallimento la convince all'acquiescenza verso i valori borghesi correnti.
Michele è il vero "indifferente" del romanzo. La sua volontà è minata alla radice da un'apatia profonda, dalla noia, dalla disperazione. Michele si osserva agire, non è convinto di alcunché. È un non -persuaso che si ripiega su se stesso in uno sconsolato oblomovismo ; è un uomo superfluo, abitato dal senso di vuoto.
Per lui, gesti, parole, sentimenti, tutto era un gioco vano di finzioni.
(...) Come sempre sarebbe ricaduto in quella mentale indifferenza che gli impediva di agire e di vivere come tutti gli uomini.
(...) "E in fin dei conti" pensò "tutto mi è indifferente".
La prosa di Moravia è, in questo che è il suo romanzo più importante, asciutta, essenziale, fredda e analitica.
Di certo Gli indifferenti anticipano i temi esistenzialisti sviluppati da Jean Paul Sartre ne La nausea.
Valentino Sossella

Ricordando la genesi de Gli indifferenti, il suo primo romanzo, pubblicato nel 1929, Moravia ha più volte affermato che alla base del suo progetto c’era la volontà di recuperare in sede narrativa la compattezza della tragedia, ponendo al centro dell’opera un nodo drammatico che ne occupasse l’orizzonte nella sua totalità (Cfr. A. Moravia, Gli italiani non sono cambiati, «L’Espresso», 2 agosto 1959: «Volevo scrivere un lungo racconto che avesse una struttura teatrale con unità di tempo, di luogo e con pochissimi personaggi. La mia ambizione era di scrivere una tragedia, invece ne venne fuori un romanzo»; Cfr. E. Siciliano, Milano 1971, p. 39: «Se avevo un’idea di cui andavo in cerca al tempo de Gli indifferenti era un’idea o una fissazione stilistica: fare uso della tecnica teatrale nel romanzo»). In effetti, soluzioni e scansioni tipicamente drammaturgiche sono evidenti fin dalle parole d’esordio del primo capitolo («Entrò Carla», come se si fosse appena alzato il sipario), influenzando gli elementi basilari della struttura romanzesca. La vicenda, infatti, si svolge in un arco di tempo quanto mai unitario- quarantotto ore disaminate quasi senza soluzione di continuità- dipanandosi pressoché interamente nell’ambito di tre distinti «interni» borghesi, che di capitolo in capitolo si succedono e ritornano esattamente come le scene di un dramma. La struttura de Gli Indifferenti è interamente basata sulle interrelazioni di cinque soli caratteri drammatici, dei quali fin dal terzo capitolo il lettore è in grado di individuare le psicologie, nonché di ricostruire correttamente i reciproci rapporti.
La prima prova di Moravia, che conserva intatti alcuni schemi narrativi del romanzo tradizionale, non è esente da limiti, quali l’esposizione cronologica dei fatti, la consistenza degli sfondi che fanno da cornice alle vicende, o l’intreccio degli avvenimenti, realisticamente concepiti come sottofondo consequenziale all’analisi psicologica dei personaggi.
Tuttavia ne Gli indifferenti c’è un motivo nuovo che in altri romanzi del tempo o appena precedenti (come Il podere di Tozzi, Rubè di Borgese e la Velia di Cicognani) non era stato delineato con altrettanta efficacia: l’analisi e la rappresentazione acre dell’ambiente borghese, visto nella sua crisi di trapasso da un’epoca all’altra, seguito da Moravia con dovizia di esemplificazioni, fino a trarne una visione esistenzialistica, contraddistinta dalla sua «indifferenza». Tale indifferenza si traduce in inerzia morale, incapacità a vivere la vita, superficialità con cui la società borghese si pone di fronte ai problemi dell’esistenza, ai valori più profondi e genuini dell’uomo. I personaggi del primo romanzo moraviano sono dunque colpiti da questa malattia morale, da una sorta di «debolezza della volontà» e versano in una condizione di annientamento, di perdizione, di disfatta, atta a far ritrovare nella distruzione di ogni valore, o nel male – toccato nelle sue pieghe più riposte – il senso acuto dell’esistenza.

L’esile vicenda, schematicamente tracciata, non è determinante per comprendere appieno gli intenti del primo romanzo moraviano, impostato quasi esclusivamente sul tratteggio psicologico dei cinque personaggi e delle loro reazioni in un mondo che sta scivolando interamente sulla china della più profonda dissoluzione. Proprio seguendo tali reazioni si potrà giungere al centro della crisi, assunta da Moravia come segno di decadenza, come prova di un trapasso da un secolo all’altro, colmo di malessere e di tragica impotenza.
Carla avverte che il vecchio mondo puro e intatto dell’infanzia è ormai sepolto nella sua anima come una cosa lontana e intoccabile. Un nuovo atteggiamento occorre per affrontare l’incerta dimensione del vivere quotidiano, sorretto da valori fittizi, improntato al più abietto conformismo: in questo intermedio e transitorio momento un atto di violenza è necessario a rompere le abitudini meschine di una vita piena di noia e tuttavia le sembra «di recitare una parte falsa e ridicola». La ragazza resiste a Leo e alle sue profferte interessate per un senso di vergogna, combattuta tra il desiderio di «rovinare tutto» – e mettere così fine alla provvisorietà del suo stato di apatia – e un senso di paura per le conseguenze di quella violenza sconosciuta. Nonostante ciò, le sembra che questa «avventura familiare» sia il solo epilogo degno di inaugurare la sua nuova esistenza, una frattura che rompa e laceri per sempre il vecchio mondo, fatto di immobilità, dominato da una meschina fatalità, pieno di atti e di gesti ripetuti fino alla nausea, in cui le stesse parole, i discorsi e le scene di gelosia tra la madre e Leo appaiono consunti e angosciosi, perché già in anticipo previsti, già esperimentati nella loro falsità in mille modi e occasioni diverse.
Nell’identica situazione psicologica – forse con più netta coscienza e volontà di riscattarsi della sorella – si trova Michele, anche lui oscillante tra una vanità subdola e falsa e l’indifferenza, «meschina voragine» in cui sembra al contrario lasciarsi andare, senza combattere, per un gusto fatalistico di soccombere.
Michele reagisce, a volte. Sembra che voglia rompere la crosta della finzione, strappare le maschere a quei volti della sua vita duri, patetici, inespressivi, denudare i propri istinti. La ribellione, però, quando avviene, è tiepida e mite, minata nelle sue più intime intenzioni: la noia, l’indifferenza svuotano ogni azione, anche quella più vera come l’attentato alla vita di Leo, che Michele sente quanto mai necessario per ridare un senso alla propria esistenza. Nell’epilogo della drammatica vicenda, prima di uscire di scena, egli rivela la sua totale abnegazione: la pistola scarica – un atto mancato – mentre Leo, impaurito, sovrasta per l’ultima volta la sua debole volontà.
Michele è vero ai nostri occhi nella misura in cui combatte con una realtà disfatta, quella di Leo, di Mariagrazia e di Lisa, ossia di un mondo che non fa nulla per riscattarsi dalla propria corruzione.
Se Lisa, l’amante respinta, che sogna con Michele un amore puro e romantico, rappresenta un aspetto della decadenza borghese, Mariagrazia ne incarna il risvolto più triste e patetico. La sua è veramente la «commedia» di una società che sta perdendo progressivamente ogni legame con la realtà autentica della vita e si appunta ai gesti, alle parole, agli atteggiamenti più esteriori ed insulsi, per salvarsi dal naufragio. Il suo ruolo è quello di chi si accorge di andare alla deriva, di affondare ogni giorno di più, ma non accenna ad alcuna reazione per impedire il fallimento. Ella sogna, invece, soluzioni impossibili, ricchezze e agi come le sole che permettano di sopravvivere. La paura di Mariagrazia per la povertà è un ribrezzo atavico, la miseria una condizione marginale del mondo, una colpa per chi ci vive in mezzo, un indice di mediocrità che ispira timore. Eccitata da false e ridicole ambizioni, non si accorge del mondo che frana intorno a lei, dell’ira e del disgusto che provoca nei figli con le sue scenate di gelosia, delle intenzioni ambigue di Leo, del suo tradimento con la figlia, delle cadute morali di Michele.
Quello della madre è un personaggio che ritorna con una certa insistenza nella narrativa moraviana ed è esemplare come modello di una figura borghese che ha chiusure vaste e intoccabili relativamente ai pregiudizi di casta. Il carattere di Mariagrazia è indice di una decadenza disfatta e decrepita, quasi volgare nella sua supponenza di prestigio, di superiorità legata a doppio filo con l’idea del possesso materiale e della ricchezza. Per Mariagrazia,  Leo è il mondo borghese del decoro sociale, della supremazia dei sentimenti superficiali sulle verità più genuine: è Leo che conta sopra ogni cosa.
In questa prospettiva Leo ci si presenta come la figura più negativa del romanzo moraviano, ma che tuttavia ha un suo fascino interno, una sua funzione narrativa ben precisa nell’economia de Gli Indifferenti. Leo Merumeci è il punto focale di un quadro immobile, un personaggio fatalmente soggiogato dalla sensualità, dal gusto sottile della predominanza, che tiene avvinti a sé – nella vicenda familiare – i destini dei «suoi» pupazzi, li fa muovere ed agire secondo uno schema preordinato, pronto ad adattarsi ad ogni situazione con la furbizia, felice di colpire la propria vittima quando questa gli si inginocchia ai piedi, conquistata dal suo fascino o vinta dalla sua perversità.
Egli insidia Carla nello stesso modo subdolo in cui tenta di impossessarsi della villa Ardengo, con la stessa fatalistica pervicacia con cui mira al nuovo approccio con Lisa, con la stessa sottile perfidia con cui abbandona Mariagrazia per una ben più giovane donna.
Quando cerca di sedurre Carla, Leo è cosciente del dramma intimo della giovane. Ha già subodorato che la ragazza è ormai preda della sua cupidigia: egli la domina come un perfetto stratega, la stupra con sagacia libertina che non lascia respiro. Carla è già nella sua rete. La praticità, l’esperta velocità di esecuzione con cui agisce inquadrano perfettamente la sua sostanza morale.
Leo ha un solo istinto, un solo impulso per volta, e quello segue fino in fondo, pienamente convinto della sua scelta, integrato mirabilmente alla sua vita borghese e ai suoi istituti; sa discriminare razionalmente tra i sentimenti che gli si presentano alla coscienza e asseconda ora l’uno ora l’altro in modo impeccabile, senza interferenze o inibizioni. In Leo si sublimano, quindi, l’ipocrisia, la falsa coscienza e la convenzionalità, aspetto saliente che Carla e Michele tentano appunto di rovesciare, anche se con debole convinzione, ma del quale alla fine restano vittime.
Carla e Michele invidiano Leo, pur disprezzandolo, ma odio e disprezzo si compenetrano in una forma di amore edipico, che ha lontane origini in un padre mancante, sconosciuto: Carla lo desidera inconsciamente, ma solo come illusoria possibilità di riscatto; Michele lo odia e su di lui tenta un’esercitazione ed una prova della sua debole volontà. In Leo, infine, il ragazzo cerca un modello comportamentale che lo scuota e lo tiri fuori dalla sua indifferenza.
L’odio di Michele per Leo è tutto fantasticato, trasportato dal piano reale a quello dell’immaginazione: gli atti violenti e il mancato assassinio attestano tutti l’incapacità del giovane ad odiarlo realmente. Ed insieme all’avversione, Michele prova per Leo una segreta ammirazione che si traduce, sul piano dell’azione e della realtà – e rispetto al suo desiderio di un mondo puro e autentico – in un risibile fallimento.
Le conclusioni del romanzo moraviano stanno ad indicare proprio la pienezza di questa sconfitta ed il trionfo degli individui come Leo, di una società in crisi, ma ancora saldamente legata ai suoi pregiudizi:
«Carla avrebbe sposato Leo… vita in comune, dormire insieme, mangiare insieme, uscire insieme, viaggi, sofferenze, gioie… avrebbero avuto una bella casa, un bell’appartamento in un quartiere elegante della città… qualcheduno entra nel salotto arredato con lusso e buon gusto, è una signora sua amica, ella le viene incontro… prendono il tè insieme, poi escono; la sua macchina le aspetta alla porta; salgono; partono… Ella si sarebbe chiamata signora, signora Merumeci!»…
Michele è avvolto nel suo dubbio, si dibatte inutilmente tra il desiderio di ribellione e i duri aspetti della vita, le sue più consistenti ragioni pratiche, infime manifestazioni di una realtà che egli non può cambiare e che infine accetterà con disgusto, vinto per sempre. Gli rimane un rimpianto: «… un po’ più di fede-dirà- e avrei ucciso Leo… ma ora sarei limpido come una goccia d’acqua».
Mariagrazia, infine, «si era travestita da spagnola» per il ballo in maschera, l’atto finale della «commedia», che vedrà la madre e la figlia – questa nel suo costume da Pierrot bianco – recitare le ultime battute, unite entrambe nella finzione e destinate a riprendere il gioco delle parti, senza fine. (A cura della Redazione Virtuale de «La Libreria di Dora»   Milano, 23 febbraio 2001)

IL FILM: GLI INDIFFERENTI  REGIA: Francesco Maselli   1964
TRAMA
E' la storia del fallimento d'una famiglia borghese romana, gli Ardengo, un tempo ricchi ma ormai in dissesto. Sul loro patrimonio ha messo progressivamente le mani Leo Merumeci, un uomo deciso e privo di scrupoli il quale, stanco della relazione con la matura vedova Ardengo, diventa l'amante della figlia di lei, Carla, una ragazza smaniosa di evadere dalle ristrettezze in cui ormai vive. La tresca viene scoperta da Michele, fratello di Carla, il quale vorrebbe indignarsene e difendere l'onore della famiglia, senza pero' riuscirvi. Leo e' sempre il piu' forte e Michele, alla fine, non puo' che soggiacere alla propria indecisione e fondamentale indifferenza per quanto gli accade intorno. Il probabile matrimonio fra Carla e Leo permettera' a quest'ultimo di impadronirsi delle ultime sostanze degli Ardengo. La vedova verra' in qualche modo tacitata, mentre Michele si accontentera' d'un buon impiego procuratogli da Leo.
PREMI: NASTRO D'ARGENTO PER LA MIGLIOR SCENOGRAFIA (1964).
CRITICA
E' il racconto di un mondo conformistico che si fa fagocitare da un'aggressiva nuova borghesia. Ma la descrizione dei falsi valori della società italiana è realizzata con troppa minuziosa eleganza e troppa partecipata fascinazione per essere veramente efficace.(P.Mereghetti "Dizionario dei film 1998")

 

Agostino(1945)
Il tredicenne Agostino, unico figlio di una vedova dell’alta borghesia, orgoglioso della bellezza materna, raggiunge una località della costa toscana per le vacanze estive. I suoi sentimenti per la madre si incrinano quando il giovane Renzo diventa ospite abituale delle gite in pattìno. Agostino si accorge dell’influenza del giovane sulla madre e, ingelosito, cerca di evitare di incontrare Renzo. Il ragazzo conosce Berto, un coetaneo di tutt’altra estrazione sociale che gli fa conoscere un gruppo di ragazzi: Tortimi, Sandro e il nero Homs. I ragazzi sono molto diversi da Agostino, e perciò lo affascinano. I nuovi amici gettano una nuova luce sui rapporti tra Renzo e la madre di Agostino che, gradualmente si ribella alla propria condizione di bambino e comincia a vedere nella madre una donna ancora giovane e piacente. Il ragazzo è convinto che tale cambiamento, che non è rilevato dalla madre, debba interessare i nuovi compagni, che invece si comportano crudelmente nei suoi confronti. Saro, un bagnino frequentato dai ragazzi, porta in barca Agostino da solo, nonostante le proteste di Homs. Le offese e gli sberleffi degli altri fanno intuire ad Agostino la natura equivoca di Saro e i suoi reali rapporti con Homs. Agostino non riesce a convincere i ragazzi del fatto che tra lui e Saro non è avvenuto ciò che essi immaginano. Agostino è soffocato dalla crudeltà seducente del gruppo, dalla perdita dell’innocenza e dalla nuova realtà assunta dalla figura materna. Tortimi mostra al ragazzino una casa d’appuntamenti e il ragazzo decide d’andarvi, senza avere un’idea precisa di come comportarsi con una donna. Con tale gesto spera di negare ciò che Berto e gli altri ragazzi credono di lui e Saro e, contemporaneamente, di superare i propri sentimenti contrastanti nei confronti della madre. Sulla soglia del lupanare il ragazzino è fermato, perché troppo giovane e, quando torna a casa, assiste ad un bacio tre Renzo e la madre. La sera, in un colloquio con la madre, il ragazzo chiede di non essere più trattato come un bambino e la madre gli promette di considerarlo un uomo. "non è soltanto, come parve ai più, la storia della scoperta del sesso, e non è nemmeno soltanto la storia di una iniziazione sessuale dolorosamente frustrata: è piuttosto, in tale veste di narrato, la storia […] di un ragazzo che si sforza, faticosamente, amaramente, di pervenire a vivere e a sentire come un uomo" (Sanguineti).
Per questo Agostino costituisce un’evoluzione nella tematica di Moravia e porta in primo piano il problema, particolarmente sentito dall’autore, del passaggio dalla adolescenza alla virilità.

Moravia sembra vagheggiare un mondo anteriore alla moralità e a ogni divieto, lontano da ipocrisie e convenzioni sociali.
Mentre Michele ne Gli indifferenti e Girolamo in Inverno di malato, cercano il loro modello in un amico a loro vicino, agli occhi di Agostino, "chiuso nella fittizia innocenza-ignoranza dell'educazione e della situazione vitale borghesi, la realtà non è afferrabile e percepibile se non attraverso il mondo della banda, cioè attraverso il tipo di alienazione affatto diverso, anzi direttamente antitetico. Il mondo della banda, insomma, riflettendo la realtà in altra e proprio in contraria alienazione, è lo specchio unico e indispensabile in cui Agostino può vedere riflessa, sia pure confusamente, e comprendere più con il sangue che con il cervello, qualche realtà che ha vagamente intuito e mai riconosciuto, e che è, prima di tutto, la condizione effettiva del suo essere, la verità della sua esistenza alienata. in una formula schematica: il ricco non può conoscersi e intendersi nella sua essenza più profonda, che è quell'essere ricco che lo condiziona integralmente, se non attraverso l'immagine che il povero ne riflette, immagine non assoluta davvero, non oggettiva, ma certo più vera e reale di quella che egli ha fabbricato, per sé, nella sua coscienza, immagine insomma non alienata dalla ricchezza" (Sanguineti).

Nel romanzo La disubbidienza(1948) Luca, il protagonista, giunge alla conclusione che non esiste paese innocente nel mondo borghese e che solo la morte potrebbe permettere di raggiungere questa dimensione dell’innocenza. Ma alla fine cede all’impulso vitale e accetta il rapporto sessuale che si rivela come un ritorno al seno materno, alle sorgenti della vita; e il romanzo concluderà:
Sì, concluse, la vita doveva proprio essere questo; non il cielo, la terra, il mare, gli uomini e le loro sistemazioni, bensì una caverna buia e stillante di carne materna e amorosa in cui egli entrava fiducioso, sicuro che vi sarebbe stato protetto come era stato protetto da sua madre finché ella l'aveva portato in seno.

Nel romanzo La romana in un momento in cui il poliziotto fascista Astarita sta in ginocchio con la testa nel grembo di Adriana, lei osserva con una frase che molto somiglia alla finale de La disubbidienza:
In quei momenti non mi pareva più un amante bensì un bambino che cercasse il buio e il caldo del grembo materno. E pensavo che molti uomini vorrebbero non esser mai nati; e che, in quel suo gesto, forse inconsapevolmente, si esprimeva il desiderio oscuro di essere di nuovo riassunto dentro le viscere tenebrose dalle quali con dolore era stato cacciato alla luce.
Si tratta come si è detto di un pessimismo cosmico e materialistico, che molto da vicino ci richiama Lucrezio, il grande poeta latino che Moravia ha assimilato benissimo.
Ma al di là del pessimismo, che nel romanzo è legato al personaggio di Mino, l’intellettuale che non crede ad un'alternativa storica al mondo borghese, non va dimenticata l'umana pietà che avvolge il personaggio della romana, della prostituta, così sollecita e devota nel sopportare la sua croce, così rassegnata e di cui Moravia ha fatto quasi un’eroina, vittima degli ideali della borghesia. Mino arriva al suicidio perché è incapace di liberarsi dal complesso della borghesia, pur negandone i valori; pertanto la rassegnazione di Adriana è l'unica via che rende possibile la speranza di una vita migliore. La vita, del resto, migliora soltanto vivendola fin nelle sue assurde contraddizioni esistenziali. Questo è il problema essenziale ed esistenziale del libro.

Con La ciociara Moravia ha voluto pagare il suo tributo alla letteratura della Resistenza e dell'antifascismo; ma ha anche ripreso i grandi problemi esistenziali e ideologico-politici che animavano già i drammi di altri suoi personaggi. Ce lo indica Moravia stesso:
Con La ciociara si chiude idealmente la mia fase di apertura e di fede senza incrinatura nei confronti del Comunismo. Si consumava dentro di me l'identi-ficazione tra comunista e intellettuale. In altri termini il personaggio di Michele de Gli indifferenti si conclude là, ne La ciociara. Non a caso, il protagonista maschile del romanzo l'ho chiamato appunto Michele.
Ne La ciociara c’è il superamento dell’indifferenza di Michele che diviene responsabile e consapevole della lotta antifascista, e la sua elevazione ad esempio di eroe del sacrificio e dell'altruismo.
Questo processo di purificazione e superamento appare tuttavia come problema esistenziale più che problema politico. Forse più che l'ideologia marxista, spingono Michele all'azione attiva e diretta contro i fascisti e i nazisti la situazione drammatica del mondo sconvolto e il buon senso di popolano. Anche qui, come sempre, l'intellettuale è il prodotto migliore che è venuto fuori dalla borghesia, e che ha saputo mettere in netta crisi quella stessa classe sociale.

LA CIOCIARA A detta di Moravia, La ciociara era già in gestazione al tempo de La romana, anzi appena poco prima, nel 1946. Venne interrotto dopo ottanta pagine e ripreso dieci anni più tardi, fino alla stesura definitiva in cui fu pubblicato nel 1957. L’interruzione è indicativa del fatto che l’esperienza di cui l’autore voleva rendere conto in questo romanzo – esperienza del suo rifugio a Fondi in casa Mosillo e Marrocco con Elsa Morante durante i nove mesi dell’occupazione tedesca, dal settembre 1943 al maggio 1944 – era troppo a ridosso dei fatti patiti e vissuti, per essere narrata con quel distacco necessario al giudizio degli avvenimenti e bisognosa dunque di una più consona celebrazione.
«Il Moravia del romanzo forse più riuscito della sua carriera dopo Gli indifferenti» – come afferma Giacinto Spagnoletti – «è prima di tutto lo scrittore che ha preso a cuore il problema della guerra non più solo come racconto di cocenti esperienze del recente passato, ma soprattutto come fatto ideologico da valutare nella sua violenza profanatrice, tanto più dura da affrontarsi quanto meno se ne possono prevedere le conseguenze» (1).
Ancora una volta è una donna del popolo a narrare la sua storia, facendolo con un linguaggio assai aderente al livello della sua esperienza. Mentre ne La romana alla voce della protagonista si sovrapponeva spesso quella dell’autore, ne La ciociara il modulo del discorso e l’intonazione del giudizio su ogni singolo fatto appartengono unicamente alla donna che parla. Cesira è una contadina originaria della Ciociaria trasferitasi a Roma, dopo il matrimonio, con un pizzicagnolo molto più anziano di lei, onesta nel fondo del cuore al modo sano dei contadini, anche se tenacemente attaccata alla roba. Ha allevato la figlia Rosetta – adolescente che nel suo riserbo e nella sua timidezza rispecchia ciò che la madre avrebbe voluto essere – ad una trepida confidenza.
La sopraggiunta vedovanza induce la giovane donna ad assumersi tutte le responsabilità nella gestione del negozio di alimentari lasciatole dal marito, e, poiché i beni scarseggiano, ella non disdegna un po’ di borsa nera, che le fa guadagnare una discreta somma di denaro.
La guerra che preme su Roma e poi l’occupazione tedesca nel settembre del ’43 costringono Cesira ad abbandonare la capitale e, con la figlia e due valigie di fibra, a cercare rifugio verso Fondi, nella casa paterna. Prima le rotaie del treno interrotte, poi i bombardamenti impediscono che il progetto sia portato a termine e, con sacrifici notevoli, dopo quasi un mese di soggiorno presso una famiglia di contadini resa avida dalle privazioni e dalla miseria, le due donne trascorrono circa un anno a Sant’Eufemia, di fronte alla valle di Fondi e, quando il cielo è limpido, all’isola di Ponza.
Il tempo passa attendendo gli inglesi, in quel frangente sinonimo di libertà; ma a causa delle cattive condizioni climatiche gli Alleati sono fermi al fiume Garigliano, mentre i tedeschi rastrellano la zona portando via tutto. La «ciociara» e la figlia prendono coscienza di una realtà in cui il giusto e l’ingiusto si confondono, emergono i vizi e le viltà degli uomini, fino a dare al mondo un assetto diverso e sconvolgente. La guerra distrugge alle radici ogni risorsa umana:
«La guerra sconvolge tutto e, insieme con le cose che si vedono, ne distrugge tante altre che non si vedono eppure ci sono».
Non è che una delle innumerevoli considerazioni che fa Cesira, perfettamente consapevole dell’immane flagello che incombe. E di un’altra cosa si accorge con orrore:
«Uno dei peggiori effetti delle guerre è di rendere insensibili, di indurire il cuore, di ammazzare la pietà».
Moravia ci descrive l’esilio delle due donne in modo unitario, «con uno stile che cerca di distanziarsi dalla sofisticazione intellettuale della didatticità ideologica e costruisce il paesaggio come un luogo dell’innocenza in cui Cesira e Rosetta “ritornano alla natura” ed in cui è possibile alimentare una speranza che si lega in modo conseguente e felice alla primordialità della terra». (G. Pandini).
Morta la pietà e a liberazione avvenuta, quando Cesira e Rosetta con l’arrivo degli angloamericani lasciano quest’angolo di mondo che le ha viste spogliate di tutto, ma arricchite di una nuova e significativa esperienza, proprio allora la vicenda si scioglie nel dramma più cruento: in una chiesa abbandonata, davanti all’altare e ad un’immagine rovesciata della Madonna, un gruppo di soldati marocchini usa violenza alle due donne.
Questa violenza, unita alla violenza collettiva della guerra, muta radicalmente il carattere remissivo e conciliante di Rosetta, che sfugge al controllo della madre e si chiude in un mutismo che esaspera Cesira.
Rassegnata, la «ciociara» osserva nella figlia innocente le conseguenze della guerra, così com’è per i luoghi devastati e distrutti del paesaggio che fa da cornice al dramma umano. Nella sua dolente rassegnazione, nell’impotenza della sua sorte, Cesira vede la figlia cambiare sotto i propri occhi e darsi agli uomini con amara determinazione «come se nel rapporto fisico cercasse una vita che per essere completa dovesse essere riconquistata con la cancellazione di ogni residuo d’innocenza.» (2)
«Il vero dramma della guerra – ha scritto Ciro Raia – si consuma per questa famigliola nell’alterazione dei rapporti, nella consapevolezza di una madre che sa di aver perso una figlia, strappata all’innocenza e abbandonata alle lussurie e alle miserie umane» (3).
Ma prima di questo drammatico episodio, nell’ultimo atto di resistenza ai tedeschi tocca ad uno studente, Michele, il solo personaggio idealistico del romanzo, sacrificarsi per i suoi parenti, i contadini e gli altri sfollati, lasciandosi portar via da un gruppo tedeschi in ritirata. Da allora del giovane non resta che il ricordo. Alla fine del romanzo si saprà che egli è stato fucilato.
Michele è l’ «eroe positivo», l’opposto dell’omonimo amletico personaggio de Gli indifferenti, di cui rappresenta l’ideale prosecuzione e conclusione. È un Michele più maturo e consapevole, disposto a morire per un ideale in cui crede fino in fondo. Aspira ad un mondo più vero e più giusto e reagisce alla violenza della guerra con la sottomissione, immolando se stesso.
Ciò d’altronde era nelle intenzioni dell’autore, il quale, facendo riferimento al turbamento intellettuale e politico derivante dalla situazione mondiale, ha dichiarato:
«Con La ciociara si chiude idealmente la mia fase di apertura e di fede nel comunismo», «Si consumava in me l’identificazione tra comunista e intellettuale. In altri termini, il personaggio di Michele, il Michele de Gli indifferenti, si conclude là, ne La ciociara. Non a caso, il protagonista maschile del romanzo l’ho chiamato appunto Michele».
Giancarlo Pandini si dimostra alquanto scettico nei confronti di una tale affermazione, affermando che essa «se viene a rischiarare l’ideazione di un personaggio come il Michele de Gli indifferenti, non giustifica l’anonimo dramma tutto popolare de La ciociara se non nella trasparenza con la quale Moravia ha voluto indicare la spinta ideologica che determina nel popolo la ‘coscienza’ del dolore e dell’ingiustizia di fronte allo scontro duro e drammatico con la guerra. Si potrebbe pensare che Moravia in questo romanzo abbia voluto redimere Michele dalla sua «indifferenza» di fronte agli eventi politici, rendendolo consapevole e corresponsabile degli avvenimenti, fino a farne l’eroe di un altruismo e di un sacrificio, che hanno troppo il sapore di costruzione letteraria ed astratta per riscattarlo completamente. Il suo Vangelo letto in chiave marxista, se pur è sufficientemente positivo da far comprendere alla popolana Cesira qual è il senso della sua esistenza durante la guerra fino a infondere in lei un sentimento di giustizia e di comprensione della vita, non lo è altrettanto nell’artificiosa saggezza con cui si rivela. Perché Michele, più che da se stesso e dalla sua ideologia, trae incitamento alla sua apertura verso il mondo sconvolto e a gettarsi nell’azione proprio dal buon senso della popolana Cesira» (4).
Ben più convincenti e suggestive sono invece le argomentazioni portate da Giacinto Spagnoletti a sostegno della maturazione umana e politica di Michele, quando definisce il sacrificio del giovane studente «l’unica limpida opposizione alla crudeltà degli avvenimenti e al male portato dalla guerra che Moravia ha messo in evidenza quasi a lasciar intravedere uno spiraglio di altruismo e di fede nei valori dell’esistenza di fronte alla cecità e all’aberrazione generali. […] [Michele] è un personaggio nuovo emerso da una diversa situazione storica, come un avvertimento, un segno di quanto è stato e non si ripeterà più» (5).
Di ciò e della carica ideale che Michele rappresenta, al termine delle sue traversie prende coscienza l’umile Cesira. Ricordando la situazione a cui erano giunte lei e la figlia, «morte alla pietà che si deve agli altri e a se stessi», la ciociara sente di non potersi più staccare da quel momento della sua vita in cui Michele, prima di morire, aveva letto il passo del Vangelo su Lazzaro. Allora egli si era adirato con i contadini che non lo avevano compreso, gridando che «erano tutti morti in attesa della risurrezione come Lazzaro».
Mettere in bocca ad una donna del popolo questa cocente e straordinaria rivelazione, e lasciare che sia lei semplicemente a condannare gli orrori trascorsi e a far sentire come gli uomini possano trasformarsi a contatto con un flagello come la guerra, ha indubbiamente rappresentato per Moravia un’esperienza di grande importanza: ma quel che più conta è che questa «lezione morale» nasca da un libro di straordinaria presa narrativa, uno dei romanzi migliori del tempo.
Il ritorno a Roma segna molti cambiamenti per Cesira e Rosetta, che dall’esperienza della guerra, dal pericolo di morte sempre incombente hanno appreso, attraverso il sacrificio personale e la spietata violenza subita, tutta la brutalità del mondo scosso da una sorta di apocalittico sconvolgimento. Nonostante tutto, viva è la speranza di riprendere la vecchia vita nella normalità del quotidiano, mentre la guerra continua in tutta la sua empietà e follia.
Così è ancora vero quanto la ciociara ha sempre pensato: «Tedeschi, inglesi, americani, russi, per me – come dice il proverbio – ‘ammazza ammazza è tutta una razza’». A cura della Redazione Virtuale de «La Libreria di Dora»

NOTE
(1) Cfr. G. Spagnoletti, Storia della letteratura italiana del Novecento, Roma 1994, p. 424.
(2) Cfr. G. Pandini, Invito alla lettura di Moravia, Milano 1985, p. 90.
(3) Cfr. C. Raia, Dal Novecento ad oggi, Milano 1988, p. 142.
(4) G. Pandini, Invito alla lettura di Moravia, Milano 1985, p. 92.
(5) Cfr. G. Spagnoletti, op. cit., ibidem.

Milano, 18 aprile 2001


IL FILM di DE SICA (1960)TRAMA
La guerra, che non risparmia a Roma i suoi bombardamenti, induce Cesira, una giovane vedova, proprietaria d'un modesto negozio d'alimentari, a cercare rifugio tra i monti della Ciociaria dov'è nata. Sua costante preoccupazione è che alla figlioletta tredicenne, Rosetta, siano risparmiati per quanto possibile, i patimenti, le angosce e le sofferenze che la guerra infligge anche ai civili. Ad accogliere le due donne sono amici, parenti e la serenità dei luoghi che sembrano tagliati fuori dalla tragicità di quelle ore. Ma il fronte, in movimento continuo lungo la penisola, si avvicina inesorabile. La prima vittima di quella piccola comunità è Michele, un timido innamorato di Cesira, che nel proprio tormentato spirito di contadino letterato e sapiente soffre più degli altri la crisi profonda della guerra. Un gruppo di tedeschi, che cerca scampo all'incalzare degli Alleati, costringe il giovane a fare da guida attraverso i monti. Arrivano le truppe alleate e, nella generale euforia, Cesira decide di tornarsene a Roma, insieme con la figlioletta. Per lei, la guerra e' finita, l'incubo è passato. A piedi, le due donne s'incamminano ma, fermatesi per riposare in una chiesa diroccata ecco fulminea la tragedia. Un gruppo di soldati marocchini aggregati all'esercito americano aggredisce e violenta le due donne. Il disperato dolore di Cesira è, più che per sé, per l'innocente figliola. Rosetta si rinchiude in un agghiacciante silenzio. La sua serenità di fanciulla, il suo confidente amore sono d'un colpo sostituiti da una sorta di freddo rancore. La triste notizia che Michele è stato fucilato dai tedeschi, scioglierà infine quel ghiaccio in un pianto benefico.
PREMI
OSCAR PER LA LOREN; NASTRO D'ARGENTO PER LA LOREN.
XIV FESTIVAL DI CANNES (MIGLIOR INTERPRETAZIONE FEMMINILE)
DAVID DI DONATELLO A TAORMINA
PREMIO DEI CRITICI A NEW YORK E INNUMEREVOLI ALTRI RICONOSCIMENTI IN TUTTO IL MONDO
REVISIONE MINISTERO OTTOBRE 1994

CRITICA
Tratto da un romanzo di Moravia, il film ha il merito di avere saputo ridurre a dimensioni più umane i personaggi, addolcendo molte delle asperità polemiche o descrittive dell'opera ispiratrice. L'interpretazione della protagonista è aderente al proprio personaggio, psicologicamente bene strutturato. Attenta ed abile la regia. (Segnalazioni Cinematografiche)
Dramma naturalistico tratto dall'omonimo romanzo di Alberto Moravia, con alternanza di scene madri e parentesi bozzettistiche. Uno spettacolo europeo prodotto all'americana, puntando sul divismo della Loren che fu puntualmente premiata.(P.Mereghetti "Dizionario dei Film 19998")

NOTE
La Loren è tornata ad interpretare lo stesso personaggio per la televisione: nel 1989 è ancora Cesira in "La ciociara" (di Dino Risi, con Sidney Penny, Andrea Occhipinti, Robert Loggia) un tv-movie in due puntate di 100' ognuna.

 

Indubbiamente ne La ciociara, che rimane un romanzo autobiografico, una specie di documentario delle esperienze che l'autore ha fatto nel suo rifugio a Fondi, Moravia ha voluto sottolineare precisamente la tragedia della guerra, queste nuove forme di alienazione degli uomini imbarbariti prima dal bisogno e dalla fame, e poi dal profitto e dalla violenza. La vita è questa triste esperienza, e non c'è alcun paese innocente che possa sfuggire alla realtà drammatica e alienante della guerra e della violenza. Questo è il tono drammatico de La ciociara, uno dei romanzi più autentici e veristici scritti su quest'ultima guerra, sofferta da Moravia nelle carni e nello spirito.

IL CONFORMISTA (1951)
Come si diventa «assassini»? Si comincia con delle innocue lucertole, poi si uccide un gatto... e si finisce per ammazzare anche l'uomo, come l'inevitabile avverarsi di una premonizione: un pervertito, in fondo, un essere disgustoso, un prete spretato, un «diverso» che insidia l'innocenza di un bambino. Ma essere umano.
E Marcello è un bambino speciale, come speciali sono spesso i bambini che nascono nelle case di una classe «superiore», nelle quali aleggia la decadenza di una genìa in disfacimento. Il padre di Marcello è impazzito (letteralmente) d'amore per la moglie, edonista e infedele, una madre che ama il proprio bambino distrattamente. In mancanza di una guida valida, in una fase delicata dello sviluppo, in balia dei luoghi comuni e delle superstizioni della servitù, Marcello crea un collegamento tra la propria estraneità ai compagni e l'infantile transitoria crudeltà dei suoi giochi solitari. Il desiderio di normalità è «una voglia di essere simile a tutti gli altri, dal momento che essere diverso voleva dire essere colpevole».
Ma non c'è come il desiderio di essere in qualche modo per innescare comportamenti opposti. Marcello diventa un esperto di normalità, che sa riconoscere e apprezzare nelle sue molteplici forme, di cui si circonda come se fosse, non la negazione dello stile, ma -in contraddizione con le proprie intenzioni - uno stile in se stesso: il lavoro al ministero (funzionario di polizia con incarichi "speciali"), una fidanzata piccolo-borghese, con una casa piccolo-borghese, con una storia piccolo-borghese di stupri sopportati da parte dell'attempato «amico di famiglia». Giulia e Marcello si avviano a un matrimonio piccolo-borghese, con tutto l'abbigliamento, il menù, la lista di anonimi e grigi ospiti piccolo-borghesi e la cerimonia in una «chiesa molto ricca ed ornata, [...] dedicata ad un santo della controriforma». Sono questi «gli scacchi di una normalità che andava ricostruita faticosamente, dubbiosamente, sanguinosamente».
Il «classico» viaggio di nozze a Parigi è un'occasione ideale per portare a termine una missione importante.
Moravia, in una lettera a Prezzolini, datata alla fine del ’49, scrive: «Io ho finito un lungo romanzo che si chiama il Conformista e ora lo riscrivo. Uscirà verso la fine del 1950, spero». Nel gennaio, febbraio ’51 la rivista «Comunità» pubblica Il conformista. Racconto di A. Moravia, quasi contemporaneamente all’uscita del romanzo, ma il racconto non ha una vita propria, e altro non appare (come sostiene Tornitore) che un capitolo del romanzo stesso.
Il protagonista ha quasi la stessa età dell’Autore - ma lo stesso Moravia rivelerà in un’intervista a Elkann, di non ricordare molto del periodo in cui si svolge l’infanzia di Marcello - e la storia si dipana dagli anni venti fino alla caduta del fascismo. Questo darà luogo a qualche incongruenza tra la giovane età di Marcello e gli incarichi importanti che gli vengono assegnati nella sua veste di funzionario del Servizio Segreto. Incongruenze peraltro impercettibili, in una storia che, alla maniera moraviana, segue binari lucidi e totalmente privi di asperità, eppure, forse talvolta ignoti allo stesso scrittore, che amava affermare, a proposito di altre sue opere, di aver cominciato a scrivere «senza alcun piano preciso».
Lo stile, pur chiaro e asciutto come solo una meditata semplicità può produrre, in questo romanzo appare forse meno «arido», meno da «Codice Civile» – accusa e sommo elogio che accompagnò sempre il giudizio critico su Moravia - e, soprattutto nel racconto dell’infanzia di Marcello e in alcune descrizioni centrali dell’opera, sembra ammorbidirsi e addolcirsi in echi quasi ottocenteschi. La penna si accanisce a volte su certi personaggi con un piacere che lascia trasparire la personale comica insofferenza dell'autore per questa normalità da operetta, che va ritraendo così magistralmente. Così la suocera è «una donna corpulenta, in cui i cedimenti dell'età matura parevano manifestarsi in una specie di disfacimento così del corpo come dell'animo, il primo afflitto da una grassezza tremolante e disossata, il secondo inclinato agli sdilinquimenti di una bontà fisiologica e smancerosa».
E quasi da un angolo della Comédie Humaine, sembra a tratti ritagliarsi la personalità complessa e sfaccettata del protagonista: la sua ansimante ricerca di una normalità che lo riscatti dalla follia del padre, dall’influsso negativo della madre, e dalla sua propria deviazione interiore, che lo spinge alla violenza, vera o presunta.
«Normalità», d’altra parte, significa, per Marcello, non avere idee quasi su niente: «…Questa convinzione gli era venuta dal nulla, come è da credersi che venga alla gente ignorante e comune; dall’aria, insomma, come s’intende quando si dice che un’idea è nell’aria». O piuttosto, l’impossibilità di provare altri sentimenti se non l’orrore, il ribrezzo verso l’anormalità e tutto ciò che in qualche modo può rammentargliene la presenza nel suo stesso passato. O forse ancora, la malinconia che sembra accompagnare qualsiasi riflessione: «…E la sua malinconia era la malinconia, appunto, mischiata di rimpianto che suscita il pensiero delle cose che avrebbero potuto essere e a cui, scegliendo, bisognava per forza rinunziare».
Perfino il breve attimo di confusione amorosa per Lina - la donna del professore che Marcello dovrà uccidere a Parigi - conclusosi davanti al traumatizzante spettacolo degli ambigui, disperati comportamenti di lei, non potrà che disperdersi in un’amara e generica considerazione sull’assenza d’amore tra gli esseri umani, comune fattore di vacuità, e cioè di normalità universale.
Il finale, corposo, risolutore, non lascia spazio ad aperture verso altre soluzioni, che non siano quelle che Marcello stesso propone: «…Ma avrebbe voluto esser sicuro che tutto quello che era avvenuto doveva avvenire; cioè che egli non avrebbe potuto puntare in modo diverso né con esito diverso: di questa sicurezza aveva bisogno più che di una liberazione dai rimorsi che non provava.».
A cura della Redazione Virtuale de «La Libreria di Dora»
Il conformista indifferente e il delitto Rosselli
recensione di Andrea Cacciuttolo - 24 aprile 2003
Il delitto Rosselli è stato l'oggetto di un romanzo di Alberto Moravia, "Il conformista" e del film omonimo di Bernardo Bertolucci. Questo libro di Paolo Pillitteri attraverso le cose dette da Moravia e filmate da Bertolucci cerca una ragione in più per tentare di dare a noi lettori la verità sul caso Rosselli.
Fa da scenario la Guerra di Spagna e intervengono come protagonisti uomini come Stalin, Togliatti e ancora spie, agenti del Kgb (a quei tempi NKvd), dissidenti, persone astute e terribili.
La matrice del delitto, nel caso Rosselli, è spagnola, ma l'esecuzione è francese. Scaturisce da un "progetto a freddo" suggerito dai nostri servizi segreti. Si doveva decidere l'eliminazione di persone scomode, o meglio "incomode", nel contesto del conflitto in atto in Spagna. Era la logica stessa della guerra che lo imponeva, in un teatro di stermini reciproci fatto di spionaggio e controspionaggio. Mentre a Mosca imperversavano le purghe, i processi farsa e le numerose fucilazioni, a Madrid il doppio livello della guerra introdotto dai servizi segreti sovietici doveva venire a capo della sedizione trotzkista e qualsiasi gioco sporco era consentito. Eliminare Rosselli conveniva a Stalin quanto ai fascisti. Entrambi disponevano in Spagna di agenti e specialisti di azioni criminali liquidatorie. Per la tesi di Massimo Caprara ci fu un vero e proprio "voto di scambio" tra fascisti e comunisti per eliminare Rosselli. Assolvere dopo il fatto i mandanti e i responsabili del delitto Rosselli significava per il Pci, ma in sostanza per tutta la sinistra, compresi gli intellettuali, aver abbassato la guardia sulla lotta al fascismo, lotta che diventava l'unico baluardo politico alla dittatura e al suo ritorno. Le loro complicità, le loro colpe, a cominciare da quelle di cui si erano macchiati in Spagna, svanirono e si dissolsero nel tempo, come fece pure Moravia. Se pensiamo che " il conformista " di Moravia era uscito appena dopo la sentenza di assoluzione di Perugia, per Pillitteri si può ben comprendere il danno che lo scrittore Alberto Moravia aveva procurato a Carlo Rosselli, pure suo cugino. Rosselli fu descritto come un debosciato e un incapace, bisognava in sostanza far risaltare l'antifascismo autentico, quello "comunista".
"Garantito dal silenzio e dall'omertà di schiere di intellettuali, l'italocomunismo assunse addirittura il ruolo del Giovanni Battista nel battezzare e mondare da ogni peccato fascisti, ex fascisti, postfascisti, socialisti e neofiti vari in cerca d'autore".
"Il conformista" moraviano ed il film di Bertolucci confermavano purtroppo un lato tristemente noto del carattere degli italiani, la superficialità. Pillitteri parla di "oblio, luogocomunismo, variante peggiorativa, se possibile, della parte seconda del neologismo ", a dimostrazione di quanta ancora sia lunga ed irta la strada da compiere per molti uomini, soprattutto quelli cosiddetti di "cultura".
Andrea Cacciuttolo

IL FILM IL CONFORMISTA   REGIA: Bernardo Bertolucci 1971
TRAMA,CRITICA e NOTE
Marcello Clerici (Trintignant) accetta di recarsi a Parigi per conto della polizia politica fascista: deve avvicinare uno dei rifugiati antifascisti più noti, il professor Quadri (Tarascio), suo vecchio insegnante all'università, e prepararne l'assassinio. Tratto dall'omonimo romanzo di Alberto Moravia sceneggiato dallo stesso Bertolucci, il film, tutto centrato sull'aspirazione all'ordine e al conformismo come compensazione di un'inconfessata e repressa omosessualità, affronta in maniera molto personale il nodo complesso dei rapporti tra fascismo e borghesia: l'ambiguità di Marcello, il suo voler uccidere il proprio padre ideale, il panorama di donne vili e personaggi brutali che accompagnano il viaggio a Parigi (rievocata con bel gusto nostalgico) portano a leggere nel fascismo la parte nera della borghesia, la sua tentazione "malata", in eterna lotta con la parte sana (qui l'antifascismo). Un'interpretazione che ai tempi procurò al regista più di un'incomprensione e di cui, bisogna aggiungere, Bertolucci "subisce la fascinazione più di quanto non sembri capace di analizzarla e scavarla". Primo successo commerciale del regista. L'edizione integrale, presentata solo al festival di Berlino del 1970 e restaurata nel 1993, dura 10' in più.  Paolo Pillitteri

 

La produzione moraviana, dal '47 al '59, cioè da La romana ai Nuovi racconti romani (1959) è stata  giudicata da certa critica come quella più vicina al Neorealismo. A ben vedere Moravia, se si eccettua il linguaggio neorealistico dei bozzetti di tipo popolare, resta ancora fedele alla sua "indifferenza" di inizio, quale sostanza d'una pena esistenziale nei confronti della crisi sviluppatasi in seno all'umanesimo tradizionale, una Indifferenza di tipo esistenzialistico molto lontana dal Neorelismo italiano, come il suo impegno controvoglia (sua la frase), una indovinata espressione ad indicare anche la lontananza da un impegno politico della letteratura spesso ingenuo e poco propenso a distinguere letteratura e politica.
In Moravia la crisi dei Valori Borghesi di inizio secolo pur trovando uno sviluppo in una maggiore coscienza anti-borghese e anche politica (Marx e Freud sono sempre stati dei riferimenti per lo scrittore romano), non troveranno mai uno sbocco positivo in un capovolgimento di valori o prospettive. L'indifferenza bisogna attraversarla tutta senza  illusioni senza decadentisticamente accettarla ma non cadendo nell’errore di riproporre valori ormai consunti e superati.
Moravia è molto più vicino a posizioni e ottiche Esistenzialistiche, che non escludono comunque una critica e un impegno, sempre in confronto continuo con lo ''scacco'' che l'assurdo della vita ci riserba  

La classe dirigente italiana nell’immediato dopoguerra provocò una forte reazione al neorealismo, (censura) e Moravia, intravedendo nella polemica l’ipocrisia di una società rimasta conformista, riprese a lavorare nel teatro, (gli Indifferenti è considerato un romanzo teatrale) nella speranza di avere la possibilità di un colloquio più diretto e di una denunzia più efficiente e costruttiva per il pubblico. Così come a viaggiare
Testimonianza - il romanzo  La noia (1960) in cui Moravia recuperava il suo tema preferito, ricollegabile alle sorti di scacco e d'impotenza della indifferenza d'inizio, con abbondanza di tesi da dimostrare intorno al tema antico della crisi morale, che trova nel clima sociale e ideologico degli anni Sessanta una nuova vitalità concettuale (paragonabili agli anni venti)e una sempre maggiore evidenza nel senso di distacco-indifferenza come rifiuto da una realtà inautentica.(tema della alienazione molto sentito in quegli anni di boom economico).
L'indifferenza è quindi un valore negativo tipico della borghesia fascista degli anni venti ma è anche una posizione-punto di osservazione per colui che non ne nasconde l'esistenza dietro falsi valori, un modo di osservazione che permette realmente di guardare e cercare qualcosa di autentico, di vedere nella sua realtà un  mondo falso, mediato da rapporti di potere.
Michele il personaggio che goffamente cerca di uscire dall'ambiente degli indifferenti, lo ritroviamo tanti anni dopo nella Ciociara, militante antifascista, quasi un itinerario obbligato non portatore di un mondo nuovo a tutto tondo, ma di un sentimento di impegno comunque che in quel momento bisogna avere anche rischiando -perchè è giusto così- la verità negativa sia pur parziale del fascismo e della guerra

Nel 1960 Moravia affronta nel personaggio di Dino, protagonista de La noia il tema della incomunicabilità, che è l’aspetto più desolato dell’alienazione. E se nel 1929 aveva scelto i personaggi e l'ambiente storico-sociale della società borghese fascista, ora sposta la sua indagine sulla borghesia italiana neocapitalistica del secondo dopoguerra. Protagonista sarà la società industrializzata e alienata del dopoguerra, la borghesia fondata sul denaro. "Analizzando un Dino, come personaggio tipico della società borghese contemporanea, Moravia viene a suggerire e rappresentare che ciò che vi è di tipico in siffatta società, è il fenomeno per cui, mentre la società borghese classica poteva vantare una pienezza di rapporti con il reale prepotentemente assoluta e di grande ricchezza vitale almeno per la classe borghese, e anzi una pienezza di rapporti crescente, quanto più ci si poteva accostare al vertice di quella stessa classe sociale, riservando l'alienazione ai soli strati inferiori, o moravianamente, ai poveri, oggi l'alienazione investe, nel processo fatale di corruzione di siffatta società, anche gli strati più alti, e raggiunge, nei termini di Moravia, anche i ricchi" (Sanguineti).
Quello de La noia è quindi un dramma di ordine sociale, perché basato sull'analisi dei rapporti fra l'uomo e il sistema neocapitalistico del secondo dopoguerra.

Il romanzo può apparire quasi pornografico, ma la prima impressione è smentita dal dramma umano ed esistenziale che matura attraverso il rapporto sessuale, sentito come unico mezzo disperato di comunicazione in una società alienata dal denaro e dal benessere. E questo è chiaramente detto da Dino: eravamo madre e figlio e il legame che ci univa non era l'amore bensì il denaro.
Qui il denaro non è più psicologicamente nobilitato dalla verghiana religione della roba, unica realtà che possa dare l’eternità a Mastro don Gesualdo; è, invece, un potente mezzo che condiziona la solitudine e l'incomunicabilità umana nel mondo borghese. E quindi "se la sua efficacia di denaro viene meno, se la sua essenza di strumento per possedere la realtà è sconfitta, è la realtà stessa che è perduta e diviene assolutamente enigmatica. Perché il denaro, in sostanza, è lo strumento non soltanto dell'alienazione, ma della conoscenza stessa, nel mondo borghese; ciò che non si spiega in termini di denaro, non si spiega affatto. Il che chiarisce ancora meglio quanto si affermava più sopra: la realtà è tanto più amabile e desiderabile quanto più non è economicamente valutabile, cioè proprio in quanto si sottrae al possesso e rende vano quell'amore e quel desiderio" (Sanguineti).
E Dino stesso lo confessa:
Proprio perché Cecilia non si lasciava possedere attraverso il denaro, io mi sentivo, adesso, spinto, irresistibilmente, a dargliene; così come proprio perché non riuscivo a possederla attraverso l'atto sessuale, mi sentivo spinto a ripetere più e più volte l'atto medesimo. In realtà, così il denaro come l'atto sessuale mi davano per un istante l'illusione del possesso; e io non potevo più fare a meno, ormai, di quell'istante, benché sapessi che era sempre regolarmente seguito da un sentimento di profonda delusione.

RACCONTI ROMANI  (1954-1959)
I sessantun racconti della raccolta evocano la Roma popolare con un nuovo realismo, lontano sia dalla satira di Belli, sia dalla bonomia di Trilussa, ma con simpatia e con un sincero interesse per un'umanità tormentata, Moravia racconta la semplice vita di disoccupati, emarginati e poveri che formano il sottoproletariato romano. Nei racconti compaiono tutti i personaggi e ed i tipi del neorealismo, una coloratissima umanità, formata da bottegai, camerieri, pataccari, ladruncoli, donnette che si dibattono tra delusioni, speranze, odi, amori, gelosie, sogni irrealizzabili, piccole gioie, ripicche, meschinità, generosità inattese, nel quotidiano romanzo della vita. Il linguaggio, crudo e gergale non è dialettale, bensì un italiano colorito di locuzioni e modi sintattici romaneschi. I racconti sono affreschi di vita quotidiana, quasi rapide sceneggiature, a volte quasi caricaturali. I racconti nel loro insieme formano un testo omogeneo, coinvolgente, vario. I motivi ricorrenti sono il denaro mal guadagnato, il sogno della tavola imbandita, le strade afose e maleodoranti, la sessualità, la casa misera e la famiglia insopportabile. L'occasione da cui sono nati questi "racconti romani" va collegata alla sensibilità di Moravia, suggestionabile in non poca misura dalle direzioni che si aprono alla cultura nel suo vario sviluppo. Nel 1952 e piú oltre, fino al 1958-59, le tesi populiste che scaturiscono dalle teorie di Gramsci su una letteratura popolare, non lasciano indifferente Moravia, che si illude di vincere il conflitto borghese con l'adozione di forme e modi e gusti nati in seno al proletariato, come i piú spontanei a verificare un'etica umana ancora genuina, disponibile e piena di fervore.
Moravia inizia questo ciclo con il romanzo La romana, nel 1947 e, passando attraverso i Racconti romani e il romanzo La ciociara del 1957, lo chiude nel 1959 con i Nuovi racconti romani. Ma va subito sottolineato che i Racconti romani - appunto perché nati da un'occasione esterna - non valgono a rappresentare compiutamente l'immagine del popolo cosí com'era nelle intenzioni dello scrittore, sia dal punto di vista linguistico che da quello della "sanità morale" che lo scrittore cercava di ravvisarvi. E per un fatto semplicissimo, perché dal popolo, dalla sua parlata, dai suoi vizi "elementari" circoscritti in questi racconti, emerge quasi sempre il difetto fondamentale di tipo esistenziale del Moravia de Gli indifferenti, qui, nei racconti, frantumato in mille modi imprecisi, rappresentati da tipi umani che nulla serbano della schiettezza e dell'istintività popolare.
L'occasione esterna da cui sono nati questi racconti e di cui si diceva all'inizio, è da ricercarsi nella collaborazione alla terza pagina del "Corriere della Sera", sulla quale Moravia puntualmente li pubblicava.

L'impostazione di quasi tutti i racconti delle due raccolte è in prima persona (eccetto Gli occhiali) e lo scenario è la Roma popolare e suburbana degli Anni Cinquanta, ma anche la Roma strana e ciarliera, carica di umori, costruita da Moravia. Sono da sottolineare, tuttavia, la concretezza del disegno, la rapidità dell'azione chiusa in poche pagine, e la singolarità dei personaggi che sono visti da Moravia con sguardo benevolo, nella loro realtà elementare.
Il tema centrale che li contraddistingue è quasi sempre ravvisabile nella reazione ad una condizione infima, sofferta, di gente che vive in modo precario, in mezzo a mille difficoltà, a mille preoccupazioni, ricorrendo ad infiniti espedienti per chiudere la giornata in modo proficuo, ma nel solo senso elementare della soddisfazione fisica. Oppure, tra rivenduglioli, bottegai, operai, camerieri, o uomini tutto fare, si ravvisano esseri che, marchiati da una condizione ancestrale di miseria, sono costretti - quotidianamente - a soffocare motivi internamente validi e morali, pur di sfamarsi.
L'istinto di conservazione di questi personaggi è uguale per intensità a quello di altri esseri "naturali", che non hanno princípi d'etica e di morale, che non guardano al futuro o si sorprendono inclini alla conservazione o al possesso, ma vivono piuttosto alla giornata, catturando ogni occasione propizia: l'espediente, l'imbroglio, l'inganno, sono per loro necessari.
Ogni racconto è concatenato agli altri, anzi legato ad essi da questa comune impronta di sofferenza, tanto che la serie potrebbe continuare all'infinito, nella stessa misura in cui sono infiniti i casi umani da narrare e portare alla luce

La vita interiore
La vita interiore, cervellotico sforzo moraviano, è una narrazione privata di sterili fronzoli, un giudizio volto a incorniciare una particolare classe sociale: la borghesia.
Seduto di fronte alla propria macchina da scrivere, Moravia impiegò sette travagliati anni di stesure («…era un enorme groviglio di fili. Così prima ho dovuto fare il gomitolo e poi sfilarlo», La Vita di Moravia, Moravia – Elkann), prima di lasciare che il romanzo, nel 1978, giungesse fra le mani di chi, fermandosi alla superficie, non ne comprese da subito il significato simbolico.
In una prosa scarica di artifici letterari e buone maniere, in un linguaggio parlato, spesso insistentemente volgare, ma non ipocrita, un’adolescente romana di nome «Desideria» racconta di sé all’autore, indicato con il pronome «Io».
Dalle prime battute il romanziere s’accorge d’avere di fronte non una persona, ma due: oltre a Desideria, una Voce. Quest’ultima, come la protagonista stessa spiega, insieme alla verginità è ciò che la rende somigliante alla figura di Giovanna D’arco; la Voce parla, decide, guida e comanda dalla sede dei pensieri della ragazza, dalla sua mente.
La narrazione non ha tempo, si svolge in un presente non databile ricco di flashback attraverso cui la protagonista ripercorre esperienze vissute, talvolta meditate e volute, più spesso frutto di un inesorabile plagio della Voce. Come annebbiata dagli effetti di una droga, Desideria si lascia trasportare da essa fino a cercarla, ad accorgersi di non poterne più fare a meno, ad esserne paralizzata e sconcertata, ma succube.
Figlia adottiva di una madre ricchissima e spietata, perversa e ossessionata dall’erotismo, Desideria comincia ad esserne amata solo quando, da «grassona» (come lei stessa si definisce), diventa bellissima; ciò nonostante, il sentimento di Viola, non è mai ben piantato, ma sempre oscillante fra l'affetto materno e l'amore incestuoso. Desideria non odia la madre, le è sostanzialmente scostante, ma il vero disprezzo per Viola è della Voce: «Ogni volta che mi attribuisco dei pensieri ostili a Viola, devi intendere che questi pensieri mi erano suggeriti oppure imposti dalla voce e che io non c’entravo», spiega la protagonista al romanziere.
Il testo ha due motori a dargli lo stimolo narrativo: da una parte il senso simbolico, come Desideria stessa spiega («nella vita pratica si agisce realmente, ma nella vita interiore tutto avviene simbolicamente»), dall’altra la «rivolta», elemento costante e ossessivo nella vita e nelle opere di Moravia. La stessa verginità della ragazza è votata alla rivolta: ella aspetterà l’uomo che saprà attuare la rivoluzione, prima di dissolvere la propria purezza.
Attraverso un «piano di trasgressione e dissacrazione», la Voce pone Desideria di fronte al fatto compiuto: simbolicamente le fa vivere l’esperienza della prostituzione e poi, di seguito, la lascia scivolare lungo «gli anni criminali» durante i quali, seppure in una staticità di conseguenze pratiche, la ragazza non indugia nel lasciarsi andare al furto, alla fuga, alla dissacrazione del linguaggio, della cultura, della religione, della famiglia, del denaro e della stessa vita umana. Infine, come Desideria racconta, si svolge «l’ultima e suprema dissacrazione», quella dell’amore.
La protagonista, in un istante del veloce evolvere degli eventi, sente il freno della coscienza, le apparizioni della lucidità e giunge a disubbidire a ciò che le è dettato da dentro innamorandosi di Giorgio, un ragazzo borghese del suo stesso quartiere.
E’ il momento in cui lo stimolo interiore scompare e Desideria resta «atterrita dall’idea di tornare ad essere come era prima dell’apparizione della Voce: un pezzo di carne massiccio, anche se dotato di smaniosa, fisiologica vitalità». L’assenza della Voce non dura molto: spinta da un invincibile bisogno, in ultimo la giovane decide di respingere Giorgio e di riaccoglierla più che mai nella propria vita.
In modo quasi crescente, il desiderio di rivoluzione e un'ubbidienza ormai totale ai suggerimenti interiori la spingono oltre, in un vortice senza ritorno che la coinvolge in situazioni estreme: un’orgia, la pianificazione del sequestro della madre e, da ultimo, l’azione, la rivolta e il suo cinico e truce risvolto nel duplice omicidio. E’ interessante notare come Moravia indugi sull’abbigliamento di Desideria per simboleggiare la rivoluzione che in lei è fine ultimo; in un passo del romanzo Tiberi, amante e amministratore dei beni di Viola, si rivolge alla giovane protagonista dicendole: «Parlano per te i tuoi vestiti, il tuo maglione, i tuoi pantaloni»; in effetti essi non sono certo quelli di una ragazza ricca, borghese, «pariolina», come la stessa Voce, con intento provocatorio, usa definirla.
Nel primo romanzo di Moravia, Gli indifferenti, Michele vorrebbe uccidere Leo, amante della madre e della sorella, ma a causa del suo essere «indifferente», non ha una giustificazione morale per farlo e finisce, così, col dimenticare di caricare la pistola. Ne La vita interiore, invece, quella che per Michele era stata solo un’intenzione, per Desideria diventa azione. La ragazza spara e Moravia la lascia fare, poiché ella, a differenza di Michele, ha un motivo per farlo. La protagonista segue il dettato della Voce e uccide due volte. Si potrebbe dire che con La vita interiore Moravia abbia ripreso, continuato e portato a termine ciò che ne Gli indifferenti aveva solo accennato senza risolvere.
Il romanzo non termina, resta sospeso. Desideria se ne va, rincorsa dall’autore che le grida di aspettare. Tuttavia, lei conclude: «La tua immaginazione mi ha bruciata, consumata. Alla fine non esisterò più, se non nella tua scrittura, come impronta, come personaggio». Moravia segue, in questo modo, una tradizione già calcata da scrittori illustri come Kafka, in definitiva la tradizione della vicenda non compiuta secondo cui «fine del romanzo non è quello di avere una conclusione, ma piuttosto quello di permettere ai personaggi di manifestarsi» (D. Bellezza).   A cura della Redazione Virtuale de «La Libreria di Dora» Milano, 18 aprile 2001

Con E. Siciliano e Dacia Maraini  fonda una compagnia teatrale detta del Porcospino. Ma l'opera teatrale di Moravia, pur testimoniando la vivacità e la vitalità di uno scrittore di forte vena, non aggiunge nulla alla sua validità di artista narrativo; testimonia soltanto la minore fiducia del nostro autore nel romanzo, mentre lo fa rivolgere sempre più al saggio-racconto.  
Moravia ci sembra quindi sulla linea del romanzo anti naturalistico del primo novecento: la mancanza di una ''storia'' nei suoi romanzi, lo stile disadorno e impoetico ne  è non un limite ma un pregio, uno stile antiromantico e antidecadente: ciò ha evitato allo scrittore romano tanti equivoci su di un improbabile realismo impegnato e una maggiore chiarezza nel rapporto politica- letteratura.
L'impegno per Moravia non si confonde con la scrittura ma non gli è estraneo, i rapporti umani si svolgono comunque in un contesto sociale, in una società,  attraversata da una crisi epocale di valori che trovano origine nella borghesia del sec. XIX e nel cattolicesimo italiano.
L'essere stato a fianco dei neorealisti e spesso dei comunisti italiani era per Moravia un modo per superare almeno parzialmente i limiti del decadentismo. Negli anni sessanta insieme a Pasolini divenne il bersaglio più colpito dai conservatori e dalla cultura bigotta molto viva nel nostro Paese.
Spesso le opere di questi due autori erano censurate e bersagliate per i loro ''contenuti'' non conformi al ''comune senso del pudore''.
                 
Poetica
La critica successiva non ha modificato sensibilmente il giudizio dato dal Russo, secondo cui Moravia sarebbe uno scrittore privo di effettivo svolgimento, uno scrittore senza storia.
L’equivoco da cui è nata questa valutazione deriva da un fatto di cui Moravia appare assai consapevole: c'è un tempo storico, in cui lo scrittore intraprende a scrivere una sua opera, ma c'è anche un tempo storico-sociale che egli rappresenta e in cui inquadra le avventure dei suoi personaggi.
Questo rapporto tra il tempo dello scrittore e quello dell'ambiente storico-sociale dei suoi romanzi, ha indubbiamente contribuito a creare l'equivoco di Moravia scrittore senza svolgimento. D'altra parte, nonostante la ripetitività di alcuni temi, bisogna tener conto che questi sono presentati sempre in una situazione psicologica e narrativa sempre variata e in costante evoluzione stilistica. Ancora, ha contribuito al mito di un Moravia astorico il fatto che, sin da Gli indifferenti, egli sia apparso già uno scrittore maturo. Ma è anche vero che La noia, che dopo trent'anni ripropone quasi i medesimi temi, indica un'evoluzione notevole anche se lo sfondo storico-sociale presenta ancora lo stesso clima alienante della incomunicabilità sociale proprio del periodo fascista.

Vanno considerati quindi almeno quattro momenti nello svolgimento della sua opera: quello de Gli indifferenti e dei racconti che gravitano intorno ai suoi motivi esistenziali e autobiografici, come Inverno di malato e altri racconti; quello caratterizzato da Agostino e da La disubbidienza; quello indicato da Il disprezzo e da La noia e che comprende anche il periodo romano, da La romana a La ciociara e ai Racconti romani; e infine quello in cui il romanzo viene messo in crisi dallo scrittore e viene scoperta la vocazione del teatro e dei saggi-racconti.
Già dal suo primo romanzo Moravia adotta la tecnica che sarebbe stata poi detta "deduttiva" e che consiste nel fatto che egli parte sempre da un’idea astratta da cui sviluppa poi personaggi ed intreccio.
Per questo i personaggi non hanno svolgimento interiore e nel corso del romanzo non si hanno sorprese, per cui si è detto che la vita dei protagonisti cresce per accumulazione e non per evoluzione; in sostanza essi non hanno storia come sembra non averne il loro autore. Ma, come si è detto, questa caratteristica dei personaggi deriva da un procedimento tecnico voluto, in quanto lo scrittore parte sempre da una tesi da dimostrare, e i suoi personaggi sono soltanto mezzi.
Del resto Moravia, fa un’attenta analisi dei personaggi e si interessa agli aspetti della vita e della società che rappresenta, ma non arriva mai ad approfondire le cause dei fenomeni. Rappresenta volti, gesti,comportamenti, restando sul piano dell’evidenza, senza fare opera di scavo morale. "Questa mancanza di complicità sentimentale tra lo scrittore e l'umanità rappresentata, questo impegno senza adesione, la sua partecipazione senza simpatia e talvolta disgustata, se non addirittura neutrale, il suo stile stesso sgraziato e azzardato (ma sempre scorrevole), sono qualità che rimarranno elementi fondamentali della sua arte narrativa: per cui si può ben dire che già nel suo primo romanzo Moravia ha messo sul tappeto gli interessi contenutistici e formali della sua poetica, che poi si svilupperanno e si matureranno nelle opere posteriori in toni diversi." (Giacalone)

Tematica
L’analisi del tipo umano dell’inetto e l’interpretazione della crisi della coscienza moderna collegano l’opera di Moravia alla narrativa italiana che va da Svevo a Tozzi e a Borgese, anche se "ha sempre dichiarato di non voler esser stato mai uno scrittore politico impegnato deliberatamente in chiave polemica o scolastica, bensì uno che scopre le parole insieme con le cose e con i fatti; uno scrittore senza eccessiva preparazione politica, ma che sa scoprire le grandi crisi alienanti del mondo moderno, la cui analisi socio-psicologica investe anche profondamente la demolizione dei falsi valori della borghesia industriale (Giacalone)
Marx, Freud, Dostoevskij e i tragediografi europei furono fondamentali per la sua formazione, anche se di Marx e Freud condivise l’aspetto critico e analitico ma non gli elementi propositivi.
Un profonda esigenza moralistica, una ricerca di autenticità umana, di un paese innocente e puro, un'ansia di stabilire una comunicazione autentica con gli altri sono alla base della ricerca di Moravia. Ma la narrazione dei fatti da lui esaminati dimostra la vita come è, nella sua dura e crudele realtà alienante e nella sua disperata incomunicabilità. La crisi della società moderna viene svelata dalla relazione tra sesso e denaro, che a causa dell’avidità riduce i rapporti umani a quelli puramente sessuali. La prostituta un personaggio-tipo, un esempio di umanità alienata, incapace di stabilire rapporti sociali, al di là di quelli sessuali; un esempio di persona sopraffatta dai valori mistificanti della società borghese; la scoperta e la rivelazione di una moderna solitudine che è espressione di una impossibilità a comunicare con gli altri. Tutti gli uomini, in fondo, hanno il destino della prostituta; rimangono schiavi dei falsi valori proposti dalla vita.
Smarrita ogni traccia di valori metafisici, ridotti quelli materiali al sesso e al denaro, è impossibile ogni rapporto autentico tra gli uomini.
Negli "infiniti intrighi sessuali dei personaggi di Moravia il possesso della donna e della ricchezza viene elevato a nume tutelare e univoco di una società borghese ormai in piena crisi di valori. E Moravia si fa interprete della crisi della borghesia moderna, alienata dalla ricchezza, dal denaro, dalla produzione, dalla tecnologia, dal lusso, il cui unico mezzo di comunicazione sembra essere il rapporto sessuale. Ma anche tale rapporto non è autentico, se è vero che difficilmente chi veramente ama riesce a possedere la persona amata - come accade per la Romana - in quanto gli uomini moderni hanno inquinato anche i rapporti stessi dell'amore, mistificandoli con quelli della loro ricchezza oppure delle loro manie ossessive" (Giacalone).
In una situazione così alienata "il riconoscimento senza riserve del fattore sessuale allora è una via per il riscatto, la possibilità che si apre all'eroe moraviano per ricongiungersi alla realtà [...]. Siamo entrati nel vivo di una crisi di cui Moravia non ha saputo indicarci la soluzione in alcun modo: l'illusione oscillante della conquista del mondo che poteva esprimersi nel possesso fisico attraverso il sesso, l'esperienza che i suoi adolescenti prima, poi i giovani, e infine l'uomo adulto avevano tentato di portare in atto attraverso il rapporto sessuale, si è svelata alla fine come impossibilità di raggiungere un equilibrio psicologico: e ciò è più chiaro proprio nello stadio della malattia mortale, della noia, quando appunto l'uomo, malgrado l'esperienza conquistata attraverso la sessualità, dovrà ammettere che quello stesso rapporto nonché placare la diversità, la inasprisce ancor più" (Pandini).
Dopo Gli indifferenti Moravia fa della realtà sessuale il solo movente possibile per l'azione. Giustamente osserva il Fernandez: "Il contrario dell'indifferenza non sarà mai, per gli eroi moraviani, una coscienza morale diritta e coerente; soltanto il riconoscimento senza riserva del fattore sensuale permetterà loro di riscattarsi dell'indifferenza e di aderire di nuovo con forza alla realtà [...]. Ma il riconoscimento senza riserva del fattore sessuale non poteva essere immediato; esso supponeva una inchiesta preliminare delle possibilità del cuore umano […]la verità è che un rapporto armonioso col mondo e con gli altri è impossibile per gli eroi di Moravia, ognuno è chiuso nel circolo velenoso della sua solitudine, il crollo dei valori morali ha trascinato con sé la rovina dei sentimenti" (Giacalone).
E da qui deriva, probabilmente, la ragione interiore della sua vocazione narrativa che denunzia gli infiniti casi che la realtà ci presenta, attraverso quei personaggi che dal fallimento e dal dramma dell'esperienza approdano finalmente alla riva dell'arte che li rivela a tutti gli uomini. Ed ecco anche la ragione per cui il tema del sesso non è mai narrato con compiacimento sensuale, bensì con senso di disperazione e di amara solitudine.
In lui il contrasto tra ricco e povero, tra puri e corrotti non assume però una fisionomia ideologica o politico-sociale, bensì è posto in un rapporto tutto esistenziale per cui soffrono sia ricchi che poveri, sia puri che corrotti, tutti presi da un delirio senza speranza
Elemento fondamentale della tematica di Moravia è il pessimismo, un pessimismo cosmico e materialistico che ne La romana diventa quasi elegiaco, giacché tutta la concezione del personaggio è improntata alla nostalgia, al desiderio di un paese innocente, di un ideale, quello della famiglia a cui lei aspira con tutte le sue forze. "Moravia ha travasato in questo romanzo la concezione pessimistica che s'era andata accumulando nella sua narrazione per quasi vent'anni, senza divenire mai così esplicita, così elementare come in questa sua opera, anche se ancora una volta siamo di fronte a personaggi tarati o afflitti da quel male di vivere che si erano già riscontrati in altre opere, appesantiti da certe intellettualistiche velleità dimostrative" (Pandini)
Con La ciociara Moravia ha comunque fornito un ulteriore elemento per superare il conflitto interiore che determina l'indifferenza. "Quasi tutti i personaggi moraviani sono consapevoli che la fine di un modo vecchio di vita e la metamorfosi salutare per attingere uno stato esistenziale diverso, coincidono con una violenza: Carla, Agostino, Luca, Michele, Giacomo, Cesira e Rosetta l'accettano come un tributo da pagare all'autenticità della vita. Il processo naturale di questa crisi è nell'impossibilità di definire l'identità dell'io alienato alla perdita della propria coscienza. Il tema dell'alienazione - nelle sue varie schematizzazioni di indifferenza, disubbidienza, conformismo, disprezzo, attenzione diverrà nel personaggio di Dino più scopertamente noia". (Pandini)

 


Oblomovismo: dal nome di Oblomov, protagonista dell'omonimo romanzo di Gončarov. Il termine derivato dall'atteggiamento di assoluta apatia di Oblomov, che neppure il sentimento dell'amore riesce a mutare, espresse in maniera precisa la posizione etica e la concezione di diritto all'ozio della società borghese della Russia anteriore alle riforme del 1861, vittima a rovescio della rassegnazione che si era impadronita della servitù della gleba;  De Mauro: atteggiamento indolente tipico della nobiltà terriera russa dell’Ottocento, incapace di sottrarsi a un ottuso stato di apatia fatalistica e sterile | estens., apatia, indolenza

 

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Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 


 

Alberto Moravia vita opere e biografia

 

ALBERTO   MORAVIA

 

GLI INDIFFERENTI

 

 

La carriera letteraria di Moravia inizia nel 1929 con il romanzo  “Gli indifferenti”. Lo scrittore vi dipinge con sguardo penetrante il suo mondo,quello borghese, di cui coglie lo sfacelo morale, l’ipocrisia, la menzogna, propri di un’epoca di decadenza come quella fascista.
Il giovane Michele vede chiaramente la negatività di ciò che lo circonda, ma non riesce ad agire e si perde nella sua “indifferenza”.E’ indifferente alla rovina della famiglia, alla perdita della casa e non cerca lavoro.La sua unica attività è pensare, ma è completamente  incapace di agire. Non agisce perché non ha impulsi (rabbia, indignazione, ira), non ha sentimenti .
L’altro personaggio “indifferente” per eccellenza è Carla, sua sorella.Nel descrivere Carla , Moravia dice che i suoi impulsi sono come  un’onda morta. Sono un’onda  tumultuosa e schiumosa che si dissolve in niente.
La vita quotidiana, con i lunghi pranzi, le vuote chiacchierate in salotto, gli spettacoli teatrali costituisce lo sfondo della narrazione
L’indifferenza non è altro che una nuova sfaccettatura  dell’inettitudine a vivere , caratteristica dei personaggi sveviani. A differenza, però, dello Zeno di Svevo, gli inetti di Moravia sono schiacciati da un’infelicità cupa e senza sbocco e la loro “malattia” esistenziale li condanna ad una vita meschina, priva di luce e di riscatto.
Inoltre, la scrittura di Moravia non conosce l’ironia di Svevo: è distaccata, fredda, ha il tono di un pezzo giornalistico su fenomeni di costume, con una cura quasi naturalistica nella rappresentazione degli interni, degli abiti, degli ambienti. Lo scrittore è, però, distante dalla narrativa naturalistica di fine Ottocento, infatti il realismo si impone soprattutto nella violenza di molte pagine nelle quali l’autore si sofferma ad analizzare gli aspetti più sordidi o disgustosi dei personaggi. Molte scene presentano situazioni e linguaggi di crudo realismo, che risultava decisamente nuovo nella narrativa degli anni venti.
Si tratta di un realismo affine a quello di certi romanzieri del Settecento (De Foe, Fielding), attenti a descrivere la realtà senza illudersi di modificarla; lontano invece da quello dei maestri francesi del secondo Ottocento (Zola, De Maupassant) che, pur consapevoli dei limiti e delle miserie della borghesia,ne interpretavano anche l’aspirazione a liberare la società da ingiustizie e pregiudizi

CONNOTAZIONI STORICHE

L’indifferenza si carica nel romanzo di connotazioni storiche. Il conflitto che è all’origine dell’”indifferenza” può configurarsi infatti come la dissonanza dell’individuo con una determinata società:la narrativa di Moravia prende di mira  la società conformista del ventennio fascista,(“Gli indifferenti”,1929,”Il conformista”,1951),  successivamente quella violenta tra guerra e dopoguerra (“La romana”,1947, “La ciociara”,1957)) e quella alienata del neocapitalismo industriale (“La noia”1960, “La vita interiore”,1978)
In altri termini Moravia verifica la sua concezione esistenziale attraverso le varie fasi storiche di cui è stato spettatore dal fascismo ai giorni nostri. Verifica e testimonia, ma il bilancio non cambia, tanto che in ogni opera la visione della vita e degli uomini risulta invariata:nera, greve, senza riscatto.
Non a caso, i temi del primo romanzo si ripetono in tutti quelli successivi, sia pure con le varianti determinate dall’evolversi dei tempi; e i personaggi – chiave presentano le stesse caratteristiche esistenziali, in qualsiasi ambiente storico o sociale siano calati.
Sono caratteristiche che ci permettono di raggruppare i personaggi moraviani in due opposte schiere: quella dei vinti e quella dei vincitori.

  • La prima schiera comprende dei personaggi che lo scrittore stesso definisce attivi e che sono

destinati allo scacco, in quanto tentano di ribellarsi al destino (Michele negli “Indifferenti”).

  • All’altra appartengono i personaggi  passivi che accettano la vita e che proprio per questo

      alla fine risultano vincitori o almeno non sconfitti (Mariagrazia negli “Indifferenti”).

 

TECNICHE TEATRALI
La presenza di tecniche teatrali negli Indifferenti è rilevabile dalla rappresentazione dei personaggi, che sono introdotti non con una descrizione, bensì con una sorta di entrata in scena. La prima frase del romanzo esemplifica bene questo procedimento:” Entrò Carla”. E il primo capitolo si chiude con l’uscita di scena della stessa Carla, che si allontana proprio come su un palcoscenico”uscì nel corridoio dietro la madre”.
Il gioco delle entrate e delle uscite dei personaggi da un palcoscenico, dove ciascuno recita fino in fondo una parte già stabilita dall’inizio, prosegue per tutto il romanzo sino alla scena finale, i cui quattro protagonisti scendono una rampa di scale, scomparendo così agli occhi del lettore.

 

 PSEUDO LIETO FINE DEGLI “INDIFFERENTI”
Nelle pagine conclusive, la famiglia al completo, con il miglior decoro possibile, può prepararsi a un ballo in maschera. La società borghese è ipocrita e l’uomo vive sempre mascherato. Il ballo in maschera diventa così lo pseudo lieto fine di una condizione di ipocrisia della società

 

 Trama degli “Indifferenti”

Leo è ormai annoiato della relazione che ha con Mariagrazia e, per trovare un diversivo, corteggia Carla, la giovane figlia di lei che accetta senza entusiasmo le premure dell’uomo. Più di Carla, il fratello Michele è disgustato del mènage familiare: disprezza Leo per la sua natura di affarista e di dongiovanni ed è irritato dalla condotta della madre. Ma, nonostante ciò, accetta le cose come stanno, è troppo inetto per prendere una qualsiasi decisione .Michele si comporta inoltre senza determinatezza anche nei riguardi di Lisa, la precedente amica di Leo che ora è attratta da lui: più che corteggiarla si lascia corteggiare da lei. Proprio Lisa cerca di svegliarlo dal suo torpore morale quando lo mette al corrente della nuova relazione di Leo e Carla: e così Michele prende finalmente una decisione ed affronta Leo. Ma dall’arma che dovrebbe servirgli èper lavare l’onta della famiglia non parte il colpo, perché si è dimenticato di caricarla. Tutto precipita di nuovo nella corruzione.
Leo sposa Carla imbrogliando anche economicamente Mariagrazia. Michele accetta tutto, anche di diventare socio in affari del cognato.

 

Nel clima postbellico Moravia scopre il proletariato come alternativa ad una classe borghese priva di valori. Alcune opere riflettono questa tendenza: “La romana” (1947), “La ciociara” (1957), a cui si affiancano i “Racconti ” e i “Nuovi racconti romani”.

 

“I  RACCONTI” (1952)  
Ripropongono i temi degli “Indifferenti”, infatti l’indagine è compiuta nell’ambito della borghesia, di cui lo scrittore mette  a nudo la miseria morale. Sfilano così figure di donne insoddisfatte, rassegnate o nevrotiche; di borghesi ambiziose; di giovani – bene  pronti a tutto pur di uscire dal vuoto della loro vita.
Ricorre frequentemente in questo gruppo di opere il personaggio dell’adolescente (“Agostino”, nel racconto lungo omonimo, Girolamo in “Inverno di malato”), che sconta in sé, attraverso la sofferenza e la delusione, il primo impatto con la vita, dalla quale emergerà uomo.

Agostino: è la storia della maturazione di un ragazzo tredicenne, di famiglia agiata, che durante una vacanza al mare scopre due aspetti da lui fino ad allora ignorati della vita: il sesso e l’esistenza delle classi sociali. Sono scoperte cui Agostino è iniziato brutalmente da una banda di ragazzi del popolo, la banda del “Bagno Vespucci”. L’esperienza , traumatica e dolorosa , lo induce a guardare con occhio critico il mondo borghese in cui è sempre vissuto

Un altro gruppo di opere fa capo a “RACCONTI ROMANI”,(1954), e ai “NUOVI RACCONTI ROMANI”, ( 1959)
In quest’opera il gusto del narrare prevale sull’impegno morale e intellettuale dello scrittore. Sfondo dei “Racconti” è Roma, di cui l’autore mette a fuoco i palazzi nobiliari ridotti ad uffici, i ministeri, le villette di periferia, le osterie, i casermoni di borgata.Qui si muove la massa popolare e suburbana degli anni Cinquanta, ma, pur nella varietà delle situazioni e dei personaggi, il risultato complessivo è quello di una umanità anonima, congela nei suoi vizi secolari:lussuria, calcolo, avarizia.

Nel terzo tempo della produzione moraviana i temi esistenziali prevalgono sui temi storici. Si tratta di romanzi a tesi : “Il disprezzo”,(1954), “La noia”(1960), “La vita interiore”(1978).
Protagonista tipico di questi romanzi è l’intellettuale borghese alienato.

 

LA NOIA

Una ripresa più precisa dei temi più profondi della visione moraviana si ha con “La noia”(1960), una delle opere più significative dello scrittore. Il romanzo si collega direttamente al lontano “Gli indifferenti”. Il protagonista, Dino, è un pittore che non riesce più a dipingere perché non può più stabilire rapporti autentici con la realtà, che gli appare assurda, priva di ogni senso.E’ questa la “noia” che non è altro che l’antica indifferenza di Michele. Nel romanzo, tuttavia, Moravia aggiorna questi temi collegandosi a problematiche che erano molto vive nel dibattito di quegli anni e che erano proposte dall’avvento della società industriale avanzata: l’alienazione e la spersonalizzazione dell’uomo.
Dino si illude di ritrovare un rapporto con le cose attraverso la relazione con una giovane modella, Cecilia, che ai suoi occhi diviene  il simbolo stesso della realtà. Ma Cecilia è sfuggente, inafferrabile. Il fatto è che Dino, per Moravia, sconta in sé il peccato d’origine della sua classe: non sa concepire il rapporto con la realtà se non attraverso il possesso; per cui ossessivamente ricerca il rapporto sessuale con Cecilia, nell’illusione di arrivare a possederla. Poi, insoddisfatto, ricorre al denaro, pagandola dopo ogni amplesso, ma va sempre incontro alla delusione.Per questo,  nel romanzo , accanto a quello del denaro, il motivo sessuale è dominante. Moravia è convinto che il sesso sia uno strumento conoscitivo indispensabile, quindi la rappresentazione del sesso nei suoi romanzi  è largamente presente, talora molto cruda, ma  non vi è mai in lui compiacimento morboso.


Fonte: http://digilander.libero.it/quintai2/ita/08/moravia.doc

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

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