Dino Campana poesie e biografia

 

 

 

Dino Campana poesie e biografia

 

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     Campana Dino (1885/1932)

Nacque a Marradi, in provincia di Firenze, nel 1885. Campana visse una vita travagliata, irrequieta, tormentato da gravi problemi psichici. Infatti, fin dall’adolescenza la sua vita fu segnata dai sintomi di una nevrosi che lo condussero alla pazzia.
Iscrittosi alla facoltà di Chimica pura all’università di Bologna, interruppe gli studi perché iniziarono i primi problemi di salute e fu ricoverato in manicomio ad Imola.
Iniziò a viaggiare prima in Svizzera, poi in Francia.
Nel 1908 trovò lavoro in Argentina, poi si recò ad Odessa, Anversa e Parigi.
Ancora, nel 1909, verrà ricoverato, a Firenze, in clinica. Nel 1913, dopo aver concluso la stesura della sua raccolta di poesie “Canti Orfici” li lasciò a Ardengo Soffici e  a Giovanni Papini, per un loro giudizio. Vengono da questi smarriti, lui li riscrive e li fa stampare, a sue spese.
Nel 1916 inizia la sua tumultuosa e tempestosa relazione con Sibilla Aleramo che lo amò “per il suo talento, per la verità che le ispirava”. Anche lei scrittrice (“Una Donna”-1906) fu legata a Dino Campana da una passione tempestosa e, a volte, violenta.
Della loro relazione esistono, come testimonianza, le tante lettere che si inviarono e che furono pubblicate per la prima volta nel 1958.
Nel  1918 verrà definitivamente ricoverato nel manicomio di Castel Pulci dove rimarrà fino alla morte.
Fu riconosciuto un grande poeta solo dopo l’internamento definitivo in manicomio e dopo la morte.
“Dalla sua follia di poeta emergono visioni notturne,
di un giorno che precipita rapidamente nella malinconia della sera,
nel tremore notturno,
nel buio dello spirito”.
I suoi scritti, molti, saranno pubblicati dopo la morte:

  • Inediti (1942)
  • Taccuino (1949)
  • Canti orfici e altri scritti (1952)
  • Lettere (1958)
  • Taccuinetto faentino (1960)
  • Il più lungo giorno (1970).

I suoi “Canti Orfici” sono uno dei testi più importanti del ‘900. Influenzato dalla poetica del Carducci e di D’Annunzio. Essi si differenziano da altri tipi di poesia futurista in quanto offrono una visione modificata della realtà e per il linguaggio, spesso, cupo, oscuro e tenebroso.   
Il termine “Orfici” sottolineano una concezione simbolistica della sua poesia. Sono poesie (canti) che disegnano sfondi di città trasognanti.


IN UN MOMENTO

In un momento
Sono sfiorite le rose

I petali caduti

Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lacrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose
P.S. e così dimenticammo le rose.

O poesia poesia poesia
O poesia poesia poesia
Sorgi, sorgi, sorgi
Su dalla febbre elettrica del selciato notturno.
Sfrenati dalle elastiche silhouttes equivoche
Guizza nello scatto e nell'urlo improvviso
Sopra l'anonima fucileria monotona
Delle voci instancabili come i flutti
Stride la troia perversa al quadrivio
Poiché l'elegantone le rubò il cagnolino
Saltella una cocotte cavalletta
Da un marciapiede a un altro tutta verde
E scortica le mie midolla il raschio ferrigno del tram
Silenzio - un gesto fulmineo


Ha generato una pioggia di stelle

Da un fianco che piega e rovina sotto il colpo prestigioso
In un mantello di sangue vellutato occhieggiante
Silenzio ancora. Commenta secco
E sordo un revolver che annuncia
E chiude un altro destino



 

I Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
Questa lettera di Campana è per risposta alla prima, che Sibilla aveva scritto a Campana, dopo aver letto "Canti orfici", che è andata perduta. La raccolta di liriche le aveva consigliate a Sibilla, Emilio Cecchi, inviandole anche la recensione che aveva fatto su La Tribuna del 21 maggio 1916.
Cecchi per questo fu coinvolto da vicino nelle vicende Aleramo-Campana. Per quanto riguarda l'opera di Campana Cecchi si battè con forze e determinazione perché questa si affermasse, pubblicando su vari giornali e riviste specializzate recensioni e commenti.
[Barco] Rifredo di Mugello [22 luglio 1916]
Egregia Sibilla
Vorrei scrivervi ma non posso. Sono orribilmente annoiato. Conoscete Walt Whitman? Non capisco come facciate a vivere a Firenze e a conoscere certa gente. Non parlo di Cecchi che stimo e di Baldini. (Uno dei pochi amici di Dino sul quale mai si riversarono le sue ire) (n.d.r.).Studierò un tipo di voi. Bisognerebbe che avessi il vostro ritratto.
Guardatevi da S. Francesco. Una pecorella e voi? Vi preferisco cosi. Mi avete riconosciuto per italiano: credo, egregia Sibilla, che non avrò eredi. Anderò col mio famoso fardello dove anderò. Finita la guerra non esisterò più ammesso che esista ancora. Vi prego, se potete di trovarmi qualche acquirente per il mio libro. Lo invierò immediatamente. Vi bacio la mano
Dino Campana

 

II Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
La Topaia Borgo San Lorenzo lunedì [24 luglio 1916]
Ho avuto la vostra cartolina, poche ore prima di partire, ieri. Adesso siamo più vicini, forse. Non so dove si trovi Rifredo, non ho domandato, e tutto il Mugello m'è nuovo. Qui sono in una casa di campagna, grande, deserta. Gli ospiti me l'han lasciata durante questa loro assenza, per due settimane.
Caro Campana, sono vicina a S. Francesco perché, nata signora, mi son spogliata via via di molte cose, "felice d'esser povera ignuda" - vi parafraso. Ma non temete per il mio spirito. E ho amato Walt Whitman, come pochi altri. È già tanto tempo.
Vi mando qualche mio vecchio articolo: giornalismo, non altro. Ma in uno parlo appunto, come potevo farlo allora, con ingenua gravita, di Walt. E in un altro, più recente, di Assisi. E in un altro ancora, della Provenza e di Parigi. Poi un brano d'autobiografìa, ricordi d'infanzia Metto anche una pagina ch'è un poco più che giornalismo, e che sarei contenta se voi leggeste con adesione: è di questo inverno. Volevate il mio ritratto, e invece vi mando delle parole, stampate! Mah. Le fotografìe non mi somigliano. Ci vedremo, una volta. Dite che vorreste studiarmi come tipo. Forse m'avete conosciuta in essenza, in un lampo, se v'ha toccato qualche mio piccolo accento - e tutto il resto vi confonderà. Però siete annoiato, dubitate quasi d'esistere, mi mettete nella tremenda alternativa di veder finire Campana con la guerra o di dover desiderare che la guerra si perpetui... Non vi diverto? Sono un po' assonnata.
Ho scritto a varie persone che mandino a chiedervi il vostro libro, spero che qualcuna almeno m'ascolti. Mandatene due copie a me, ne regalerò una (con l'altra che già possiedo) e una la terrò, se ci mettete il vostro nome e il mio. Ho dato a tutti l'indirizzo di Rifredo - avvenite alla posta, se partite. Addio. Vorrei in questi quindici giorni mandar innanzi un libro, incominciato da tanto tempo e a cui lavoro soltanto "di dentro"...
A Firenze traduco dal francese articoli di politica! Vedete che questa mia lettera non somiglia alla prima. Cosi i ritratti non mi somigliano mai. Scrivetemi.
Sibilla Aleramo
Rimandatemi poi gli articoli, vi prego, perché non ne ho altre copie.
III Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
Chiudo il tuo libro,
snodo le mie treccie,
o cuor selvaggio,
musico cuore...

con la tua vita intera
sei nei tuoi canti
come un addio a me.
Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli,
meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo,
liberi singhiozzando, senza mai vederci,
ne mai saperci, con notturni occhi.

Or nei tuoi canti
la tua vita intera
è come un addio a me.

Cuor selvaggio,
musico cuore,
chiudo il tuo libro,
le mie treccie snodo...

Sibilla Aleramo
Mugello, 25-7-1916'.
V Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
Topaia, 28 luglio [1916] Borgo San Lorenzo
La solitudine ed io siamo buone compagne, perfino quando, come oggi, c'è un cielo pesante, e nella fattoria accanto bufonchia la "macchina".
Ho sentito molto il vostro spirito qui attorno, in questi giorni.
Ho guardato sulla vecchia carta dov'è Firenzuola. Più su di Marradi.
Vivere un poco sotto la tenda - perché no? Sebbene sarebbe rischioso. Devo guardarmi dal freddo e dall'umidità, dopo un attacco d'artrite che m'ha colta a tradi- mento, due o tre anni fa. Non sono più giovane, lo sapevate? Però ancora buona camminatrice - cotesta occhiata agli Apennini la darei volentieri, con voi. Quando vi dico che mi riguardo, non intendo mica conservarmi per la vecchiaia... Ma la malattia mi fa orrore, la mia santità non arriva fino ad accettar l'infermità...
Insomma, se venissi a trovarvi costassù come mi dovrei equipaggiare?
Vogliamo intanto vederci per un giorno a Marradi? Se non v'annoia troppo, se non siete troppo lontano. Io potrei venire, mettiamo, mercoledì o giovedì, col primo treno (8.55), e voi dirmi dove m'aspettereste. Credo che ci si riconoscerebbe facilmente.
Mi racconterete a voce quali altri tic bisogna perdonarvi, oltre a quelli che bisogna ignorare. Uomo diffidente! Se fossi una predicatrice, vi direi di imitarmi, che non ho mai fatto a nessuno, ne in terra ne in cielo, l'onore di chiamarlo mio "nemico".
Ed è per diffidenza postale che m'avete scritto in francese? Non vi venga in mente qualche altro giorno di farlo in inglese o tedesco, che non capisco, né in spagnolo.
Quella vostra Pampa, che cielo alto! Se ci si incontra a Marradi, mi darete il vostro libro e i miei articoli. Sono contenta che vi sian piaciute quelle righe di ricordo sulla mia infanzia. Vogliatemi bene.
Sibilla Aleramo

 

Dai Notturni
La Chimera
Non so se tra roccie il tuo pallido
Viso m'apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina O Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l'immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

 

http://xoomer.virgilio.it/semidiluce/_private/Dino%20Campana.doc

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 


 

Dino Campana poesie e biografia

 

Accanto alla biografia dello scrittore Dino Campana si addice, per simile ingegno e destino, quella di Evaristo Boncinelli scultore, sebbene molto differiscano il carattere e le abitudini.
Vide la luce il 29 marzo 1883 in Mantignano, villaggio su la riva sinistra dell’Arno, nel comune di Casellina e Torri presso Firenze. li padre apparteneva a una famiglia che da lunghi anni negoziava in cappelli di paglia fiorentina: diviso il patrimonio dovette lasciare l’azienda e impie­garsi presso una stamperia. La madre era una popolana : ebbe, come Niobe, quattordici figli, sette maschi e sette femmine; ultimo Evaristo, venti anni dopo il maggiore. Metà morirono bambini, per malattie della infanzia, esclusa la tubercolosi. In seguito palesarono indole e intelligenza regolari. Non si sanno alienati tra gli ascendenti.
Da ragazzo sofferse la scarlattina. Una volta, pescando, rischiò di annegare in Arno.
Appariva accorto e risoluto, crebbe sano e robusto.
Ottenne la licenza elementare, dopo la quinta classe; per l’aritmetica riusciva bene ed anche per il disegno che non lesinava su libri e qua­derni e sui muri dell’orto,
II padre lo mise nel ginnasio fiorentino dei Calasanziani. Restò male nel ricevere pagelle scadenti e nel vederlo interrompere la prima classe. Evaristo preferiva alle aule delle conoscenze razionali la campagna dove i sensi arricchivano la memoria visiva e 1’immaginazione che già prevalevano.  Rimproveri  e  castighi non lo piegavano: bisognò lasciare la speranza di una laurea in utroque e permettere seguisse il suo genio.
Entrava nello Studio di Adolfo Calducci allievo del Duprè e vi rimase cinque anni fino al diciassettesimo suo, ultimo del passato secolo, ricevendo da quel bravo modellatore utili precetti teorici e pratici. Per soddisfare il desiderio di aspetti nuovi e insoliti faceva spesso gite all’aperto. Frattanto addestrava occhio e mano intagliando figure plasmate da altri.
Nel principio del 1900 la famiglia paterna sofferse un dissesto e Evaristo dovette cercarsi un mestiere. Divenne lavorante e poi una specie di direttore dello Studio Brunelleschi, impresa di sculture commerciali con esportazione. Dal 1903 al 1914 vi trattò il marmo e l’alabastro meglio vendibile. Eseguiva soggetti di smercio che il proprietario dava da copiare. Per sveltezza e bravura nessuno lo superava.
Nel 1905 sposò, fidanzatesi due anni prima, una colta giovinetta fiorentina appartenente a onesta famiglia. Una fotografia di allora ritrae Evaristo a sedere scamiciato nel gruppo di quella azienda ; il braccio destro sopra la spalla del vicino, pensoso il bel volto e di artiere instancabile l’aspetto.
Per accrescere i guadagni aveva stabilito un laboratorio in casa e dai 1910 al 1914 fece, in alabastro o marmo, busti e figure di sua invenzione. Ecco temi propri : la campagnuola, la contadinella, i pescatori, ritorno dai campi, la vendemmia, la zingara, il napoletano, la sere­nata, il bacio del mattino, il puttino con la mosca, il sogno, l’onomastico della nonna, le prime letture, i primi passi, la poesia, l’aurora, la musica, Fiammetta, Giuditta, Beatrice, Margherita, Dante. Goethe, Napoleone, Verdi. Ed ecco soggetti classici : Mercurio, Antinoo, Psiche, Venere dei Medici, Venere Capitolina, i Lottatori, il Discobolo, 1’Idolino: opere di Michelangiolo, Donatello, Canova, Bartolini: ritratti francesi del 700. Spediva alla fiera di Lipsia, ai fratelli Carini in Parigi, in America. Teneva oltre centocinquanta modelli in gesso ed altri di marmo e di ala­bastro.
Era un giovane spigliato, agile, pronto all'azione, dì regolare e valida struttura corporea con fronte ampia, capelli biondi, cute rosea. Dalle orbite cave lampeggiavano azzurri gli occhi. Il naso diritto e breve, le guance scarse su forte ossatura. la bocca ferma, il mento e la mandibola rilevati palesavano spirituale vigore. La fisionomia mutava spesso per la facile impressionabilità e i mobili affetti.
Aveva abitudini ordinate. Ai pasti mangiava il giusto e beveva mezzo bicchiere di vino da ultimo. Prendeva caffè. Fumava nella giornata due o tre pacchetti di sigarette. Dormiva tranquillo. Cacciatore fervido, dedito alla pesca, grande camminatore preferiva la campagna dove godeva questi piaceri rinvigorendosi e contemplando ispiratrici bellezze. Desiderava vestir bene ed acquistare maniere signorili.
L'umore variava facilmente, propendeva ai sospetti. Amava molto i parenti. Rendeva felice la moglie colmandola di gentilezze e di sollecitudini ; si svagavano insieme. Apprezzava e cercava le conversazioni, i ritrovi familiari, gli onesti divertimenti, il teatro. Pio e scrupoloso seguace della fede cattolica, caritatevole, incapace di

 

Prima di sposare si era iscritto nella Scuola Pietro Dazzi a Santa Croce, di disegno e di plastica su modelli di gesso, dove insegnava il bravo professore Galducci. Vi  andava tutte le  dome­niche dal 1900 al 1903 e irregolarmente dal 1906 al 1914, ottenendo lodi. Nel 1915 la chiusura dei laboratori causata dalla guerra gli permise di iscriversi nella Accademia di Via Ricasoli diretta dal Trentacoste, e due anni seguì i corsi per disegno plastica nudo libero. Volle apprendere l’anatomia umana ed equina, da lezioni universitarie per studenti di belle arti. Quello studio lo appassionava e lo proseguiva anche nei libri. Indugiava nei pubblici musei, scuola carissima e utilissima al popolo che tanti maestri diede all’ Europa e al mondo; la quale i burocratici  (ibrido vocabolo ma qui ci vuole) tarpano abbreviando accaniti sempre più l’ingresso gratuito della domenica che sparisce non di rado per feste ordinarie e straordinarie, per giornate semibuie ; etiamque mutilano tenendo chiuso un sempre maggior numero di stanze, preso a pre­testo   quell’affollamento   che   cagionano con   le restrizioni.  
Il   Boncinelli   preferiva   i   Quattro­centisti   Toscani il   cui naturalismo   rievoca   la vis  etrusca maschia  e fiera se i moduli   greci non l’aduggiano. 
Idolo suo Donatello: teneva nel salotto la fotografia della Monaca che attri­buiscono ora genericamente a quel secolo, e non cessava di ammirare la fattura scabra del viso e del panno : voleva raggiungere il diletto maestro. Leggeva scrittori che innalzano le anime : Dante, Milton. Per acquistare conoscenze d’arte e validi criteri nel giudicarne ricercava monografie su artisti moderni.
Nel 1913 eseguì la prima opera propria, il busto del Fratello maggiore ; in gesso e poi in bronzo : esposto l’anno successivo nel palazzo Brera di Milano, non lo notarono.
Nel 1914 si ritrasse a Marciola, ameno villaggio in altura tra conifere e cerri nella Val di Pesa, e vi modellò due ritratti. Entro settembre e ottobre, in due settimane, la testa in gesso del Priore che gli piaceva come tipo e poi erano amici. La espose alla Mostra toscana del 1915 in Via Colonna e lo indicarono per una medaglia. Il Garella, autore del Garibaldi di La Spezia, la elogiò chiamandola opera donatelliana e volle conoscere di presenza Evaristo che di quella approvazione fu lieto. I due ultimi mesi diedero in gesso il Giovinetto che ride, preso per modello un barlotto o garzone dello Studio Brunelleschi. Apparve in Via Colonna col precedente. Un professore di scultura avendo detto « la  testa  del Prete ti vale ma questo non ti vale », lo ruppe.
Sono del 1915 la Testa di Vecchio e Il Pastorello. La prima reca il  titolo di  studio a   significare il fine principale di una ricerca sul vero. La plasmò nella scuola Dazzi : per eccezione lasciarono adoperare un vecchio colono che si prestava all’Accademia e si offerse pure in casa sua. Vi attese tre settimane. Presso un amico la tradusse in marmo. Rimase contento ma non troppo perché non si soddisfaceva mai. Venne in pubblico  la  prima  volta  nel  1917,   al  Palazzo   Davanzati dove si teneva una Mostra promotrice di pittura e scultura per conto di istituti artistici cittadini.
Il secondo riproduce un ragazzetto di otto o nove anni di Marciola, figliuolo di un contadino. Dodici giorni del settembre bastarono per la testa in creta. In Firenze ne fece il gesso da sé, come soleva : poi il marmo, scarpellandola dentro un masso che le lasciò in parte unito.
Gli anni 1916 e 1917, essendo nel trentaduesimo e successivo, diedero sei figure.
Prima, La Cieca : una donna che mendi­cava alla Chiesa di Borgognissanti e vi passava la giornata. Abitava in un vicolo lercio non lungi da piazza Pitti. Giovane si vendeva ; ora un bertone la guidava andando e tornando. Aveva persa la vista per sifilide. Evaristo la vide al posteggio. Proposta una mercede, accolse l’invito e andò un paio di mesi a casa sua, due o  tre volte per settimana. Non idiota ; bensì viziosa, depravata, quasi spoglia di requisiti umani.
Con eloquio ciano e becero  esponeva  impavida  il turpe passato, malediva il tòcco o nando che la bastonava. Lo scultore si formò il concetto di una natura quasi ferina. Fece in gesso il busto poco sotto le spalle. Aggiunse lo zoccolo basso, rettangolare, a linee semplici, quattrocentesco ; verso sinistra lo ruppe in modo che si unisse col petto e lo prolungasse ; lo squarcio rispondeva al cuore ed Evaristo volle appunto rappresentare « priva di cuore » quella meschina. Ne desiderava anche una mezza figura ; ma seminava cimici, la licenziarono. Vi mise molta cura. Voleva sempre perfezionarla affermando mancarvi particolari che vedeva : i veri artisti non  si appagano mai.  Respinta nel 1917 dalla Commissione  giudicatrice per la Mostra del  Palazzo Davanzati, disse : « Già ; me l’ hanno rifiutata.  Eppure sbaglierò, ma  quello mi pare il mio miglior lavoro ».

Secondo Il Suocero ; testa e porzione mediana del petto i gesso : una posa la settimana, per circa un anno. Aveva settantacinque anni e non li dimostrava. Riuscì di grande somiglianza, con aria più risoluta e volitiva del vero.
Terzo, La Permalosa, busto in gesso pati­nato : da una bambina di sei o sette anni, casigliana sua; scontrosa, si prestava per pose brevi.
Quarto, La Smorfia ; testa e una piccola parte del petto, in gesso patinato : da un fratello della precedente, maggiore di un anno, tranquillo nella posa. Tolse parte della testa, non si sa il motivo.
Quinto L'Arringatore, in creta ; di grandezza poco  oltre  il   vero ;   corpo   giovanile  dal   collo ai malleoli, le braccia recise al termine del terzo superiore,  i   monconi   uno   alto  e  l'altro basso. Lo plasmò, quasi terminandolo, al proprio do­micilio,  in   circa quindici  sedute, valendosi   di un giovane fiesolano di ventotto o trenta anni ; per dimostrare valentia  in  un  corpo.  
Diceva : « delle   teste   hanno   veduto   come   so   fare,   ora voglio dar prova di come so fare anche il resto ». Sesto, La Preghiera per il ritorno del babbo dalla guerra ;  finita in creta, grande al vero, le mani giunte, lo sguardo ed il viso verso l'alto, semplici le vesti : presa a modello un mese circa una bimba di cinque anni, sua vicina.
Entrambi rimasero di terra per l’arrolamento dell’artista. Mancando l’opportunità di trarne i gessi, andarono perduti : ultime le mani della bambina.
Nel 1915 il Boncinelli offerse le notti per i feriti dì guerra in un Ospedale militare della Riserva in Firenze e dal 13 luglio 1915 al set­tembre inclusivo del 1917 tenne il pietoso ufficio. Egli si segnalava nell'assistere i più gravi, rice­vendo plausi dai medici. In quell'ospedale, innanzi la guerra collegio femminile, conobbe il pio e dotto Padre gesuita Augusto Spinetti, il cui nome riudremo.
Nel 1916 e nel 1917 lo Studio Brunelleschi diede qualche lavoro e in casa si adoperava per il guadagno.
L'Autorità militare prescrisse due visite me­diche che terminarono con la riforma per ernia inguinale doppia.
Sul principio del 1918 lo chiamarono alle armi stanco dalle lunghe nottate trascorse assistendo i feriti e lo arrolarono di prima categoria nel 21° Reggimento fanteria. Massa Pietrasanta Avenza Marina di Carrara Marinella La Spezia furono sue residenze. Sostò brevemente in territorio dichia­rato di guerra. Verso la fine di giugno ottenne un posto dì amanuense ; prima sopportò disagi da soldato, compreso alcune marce, dormire sopra la paglia o in terra, stare di sentinella o dì piantone. La debolezza e le inquietudini cagio­nate dall'aspro servizio ospitaliere peggiorarono subito : divenne un nevrotico depresso ansioso con disturbi dei visceri, della sensibilità, della moti­lità, dell'equilibrio, del sonno. Fanno pena le sue lettere di quei mesi.
Una del gennaio, dove descrive il lungo cam­mino da Massa con zaino affardellato per raggiungere Marinella sul lido di Carrara,  prin­cipia : - Giacché capisco che per me è finita ti voglio far sapere come ho passato questi miei tristi ultimi giorni di vita all’ infuori di un buon viaggio tutto è stato pessimo forse per me che distante da te mi sono sentito la mia vita del tutto paralizzata ma capisco chiaramente che an­che il resto ha influito alla mia catastrofe.
Sono di poco dopo queste notizie : - ....la vita che faccio non è pessima no (poiché non fac­ciamo esercizi o istruzioni che sei ore al giorno) ma piena di disagi per la ragione che senza troppo spiegarmi facilmente comprenderai. Dal giorno che sono partito da voi non mi sono più spo­gliato (ci pensi?)  dormiamo ancora in terra o meglio per la verità su di un po' di paglia che abbiamo finito di asciugare dormendoci sopra.... ancora non è venuto nessun medico.... appena che questo ci sia marcherò visita immediatamente sperando di trovare un uomo ragionevole il quale riconosca la mia infermità per poter uscire da questo ambiente che davvero non riesco a rassegnarmici dovendo vivere in mezzo a troppa gente che mi ripugna al solo pensarci -.
Nel febbraio le mestizie marinelliane peggio­rarono. II tre mandava queste righe : - ....venire subito a Firenze avendo bisogno dì fare una cura ricostituente la quale mi è stata indicata da un medico di Marina al quale ini sono fatto visitare poiché dove io mi trovo non vi è niente da poter far ciò trovandoci come ti ho già detto altra volta in mezzo ad un deserto non ti spaventare di ciò che lì dico poiché spero che non si tratti che di un po' di debolezza. Prega prega prega Gesù che mi faccia la tanto desiderata grazia di rivederci di riabbracciarvi di baciarvi. Sì prega prega prega -. Lo stesso giorno aggiungeva : - ....non mi sento la voglia di far niente specialmente dopo la partenza della compagnia che non essendo rimasto che pochi uomini mi tocca a montare di guardia ci pensi io che mi sento male credi male come già tante altre volte ti ho detto e come me sai credi l'avvilimento mi ha preso e soffro tanto tanto specialmente poi quando son confinato là a quella vita noiosa seccante stupida che quella di fare il palo -. Pensieri di afflitta  reli­giosità e di morte trasmetteva il cinque.  - Nel caso Dio avesse destinato di non rivederti,  mi raccomando  sii sempre obbediente  a tutto ciò che le buone Madri del S. Cuore di Gesù per poter essere degna di far parte di esse o di altra mi raccomando non ti sfugga frasi che possano an­che lontanamente   offendere  la  volontà di Dio ciecamente obbediente intendi -.  Sono di quei giorni queste righe che sanno di delirio :  - Ades­so però non mi  illudo per niente e rassegnato aspetto tutto ciò  che potrà accadermi  tanto ormai  sono fermamente convinto di ciò che ti   ho sempre detto.
E con l'Anima straziata dal dolore sono sicuro di ciò che dico che accadrà, non t'impressionare poiché sento che è Dio che vuoi cosi per opera forse di chi si sperava volesse aiutarci. Non vuoi dire Sia fatta la volontà del Signore -. Altra missiva del 20 febbraio porge notizie non prive di importanza per il destino di Evaristo : - Mi sono fatto visitare al Medico ma sai cosa mi ha risposto ? (e sappi che oltre a 1' Ernia e punta d: Ernia mi ha trovato un prin­cipio di cardiopalma) che dovrò rassegnarmi e che tutto il periodo delle istruzioni dovrò rima­nere qua aspettando cosi la visita superiore ai capito ? e sai che chi insiste prima va in prigione poi li prendono perbenino portandoli in piazza d'armi a fare istruzioni come tutti gli altri che te ne pare ? non ei remissione e proprio così non mandano all'ospedale altro che quegli che proprio non ne possono fare a meno pazienza sarà quel che Dio vorrà prega prega Iddio con tutta l'anima perché proprio capisco che all' infuori di Lui nessuno potrà liberarci da questo stato di
cose -.
Il venti venne a casa in breve licenza ordinaria, Lamentava aritmie e forti pulsazioni del cuore, capogiri, bagliori, senso di ondulazione e di spro­fondamento. Un medico e storico illustre lo ri­tenne sano di costituzione ma nevrastenico ; un clinico e scienziato di grande fama lo giudicò affetto da ipocondria.
Nel Marzo scriveva : = ....spero che Gesù vorrà farci la grazia di farmi presto tornare a casa (intendo dire cioè che alla prossima visita che ci faranno dato che i giramenti di testa conti­nuano F Ernia e la punta d’ Ernia sono visibi­lissimi) vorranno riformarmi o perlomeno farmi inabile permanentemente -.
Di aprile non migliorano le condizioni di sol­dato e di paziente. = Perché mio Signore tutto questo quando per diritto mi spetta la riforma ?... prega le madri prega padre Spinetti anche Lui
sono certo se potrà farci qualche cosa ce Io farà senza dubbio,… =. Si noti l'accenno al Sacerdote gesuita Augusto Spinetti, rettore della Chiesa del Buon Consiglio in Firenze, conosciuto da Evaristo nell'Ospedale : l'artista lo giudicherà nemico malvagio tenace.
Per il maggio una lettera del 29 narra una consegna abrogata  dalla  bontà  del  = Sig. Tenente - e aggiunge : = La mia salute è sempre la stessa speriamo bene-. Gli sarebbero toccati seri guai se i Superiori immediati e il Colonnello non avessero usata indulgenza. Un giorno lanciò una granata, non esplosiva ma di saggina, contro il Tenente che ordinava lasciasse la branda  e spazzasse. Un altro depose il fucile nella garetta di guardia e raggiunse in treno Firenze di dove lo rimandarono subito per evitargli il tribunale militare.
Venne il giugno e il 4 comunica, dopo vana attesa di migliore assestamento se  non proprio della riforma, = la mia fine sarà sicuramente o marcito in una prigione o di stenti ho forse anche di una pallottola in fronte in trincea e questo sarebbe il meno ho forse anche in qualche altro peggior modo per me diritti non ve ne sono si capisce. E sia fatta la volontà del Signore =. Il 28 lo misero sedentario e il giorno dopo scrisse da Massa : = ....ora mi trovo in questo ufficio come scritturale e ti confesso che mi trovo molto bene per tutte le ragioni = . Ma prosegue : =• l'unico mio grande dispiacere è quello di sa­permi lontano da te dato anche le condizioni di tua salute e lontano da tutti i miei cari =. In quel tempo soffriva dolori e peso alla nuca.
Nel luglio, il 17, narra : = Quest'oggi nel leggere le tue ho pianto ed ho pianto lacrime di fuoco i miei colleghi che se ne sono accorti mi hanno pregato al coraggio (sapendo di che si tratta) ed hanno pregato gentilissimi il signore Sergente a volermi fare il nullaosta per l'accom­pagnatura.... •= ; cioè per una accompagnatura che permettesse di rivedere Firenze ed i familiari. Una cartolina del 20 manifesta gratitudine per il Padre Spinetti che desidera aiutarlo. Altra del 25 contiene questa frase : = Alla sera spesso quando entro in camerata mi affaccio alla fine­stra e poiché da questa godono il panorama del verde della campagna e l'immensità del mare piango con il volto tra le mani... =-. Lagrime di un'anima poetica immalinconita da lunghi tra­vagli e prossima allo sfacelo. Successe l'agosto e l'otto di quel mese, tra­scorsa una breve licenza in patria, diceva alla moglie : - Speriamo che Dio voglia aiutarci fino a veder compiuti i nostri desideri non è vero ? Sono appena otto giorni che non ti vedo e mi pare cento anni!**. II quindici aggiungeva: -Ho pregato per te poco si ma con tutto il fervore di un'anima fortemente afflitta dal vuoto che la circonda ed alla quale non le rimane che un solo miraggio e cioè Dio affinchè immensamente buono e misericordioso voglia davvero concedergli la tanto sospirata grazia.... = .
Le lettere di Evaristo ne attestano le deficenze grammaticali. Usa idiotismi, storpia parole, non sempre distingue articoli e particelle dai nomi, fonde vocaboli, trascura l'interpunzione, adopera maiuscole dove non occorrono e vice­ versa.
Tuttavia riesce chiaro; e anche attraente palesandosi intero con la sua schiettezza.   
Nella prima  decade del settembre  1918 ri­torna riformato dall'Ospedale militare principale di La Spezia per nevrastenia e per ernia inguinale bilaterale. Troppo tardi ! I lunghi patemi avevano  prodotte alterazioni  dell'apparato nerveo-vegetativo e dei visceri, ripercosse nel cervello e da questo su lo spirito in maniera che vedremo grave, insanabile.  I  giorni  successivi  lascia  le brigate  e rimane  fermo  interino  fissando  una cosa qualunque.  Se parlano,  sembra  affaticarsi nel comprendere e risponde monosillabi. Si sente diverso e indisposto, prega molto il Signore affinchè lo liberi da una malattia che «nessun medico la sa capire >;.
Nel novembre e decembre dei 1918, sebbene lo turbassero vaneggiamenti, ebbe tanto vigore da eseguire in gesso La mamma sua.
Aveva settant'anni, abitava con una figlia maritata a Soffiano. L'amava sebbene la visi­tasse di rado. II busto in creta progrediva ma ella si stancava di posare ed Evaristo si inquie­tava. Questionavano ; rincasava adirato. Non giunse a termine.
Il 13 gennaio 1919 un Clinico Io esaminò e rinvenne « atonia e fissazioni le quali poteva togliersi da sè quando volesse».
Il 15 gennaio in un ritrovo credette vedere spie.
Divenne inquieto e perdette il sonno. Prin­cipiò ad avere in sospetto la moglie e la rimpro­verava. Voci false e illusorie lo affliggevano. An­dava ogni giorno al laboratorio Zoi di alabastri, avendo ripreso quel mestiere, ma, dice 1' infor­matore, « non ci riusciva, non lavorava più bene ». Lo persuasero, per distrarlo, di trasferirsi a Marciola. Vi rimase dal febbraio all'aprile 1919 : giorno e notte vociava, disturbava ; l'ospite lo pregò di partire.
Si sapeva malato e deplorava i propri trascorsi verso la moglie. Le prediceva diverrebbe « la vedova di un uomo vivo » . Piangendo supplicava un cu­gino : «Te la raccomando, voglile bene, aiutala, non l'abbandonare mai, io sento che dovrò la­sciarla ». Avvisava una zia :
« Anche se io sparirò sono sicuro che non verrà mai abbandonata dai miei fratelli ».
Dopo trasporti d'ira, nella prostrazione suc­cessiva si pentiva, chiedeva perdono attribuendoli a misteriose suggestioni. Desiderava la fine. --.
Ma da voci avendo saputo che sarebbe guarito sul finire di maggio, dopo quel mese si ritenne sano, respinse cure e consigli, non rimasero dubbi di errare.
Il 15 giugno 1919 d'accordo egli e la moglie presero domicilio presso una cognata. Là assil­lato da allucinazioni uditive non aveva requie. Anche i sogni fornivano accuse. Usciva la notte, camminava lungo l'Arno. Narrò di essersi voluto buttare dal Ponte alla Carraia e che sul posto venne meno il coraggio. Al ritorno gridava : <i Come sono vigliacco, non ho la forza di soppri­mermi per liberarmi ria tanto tormento. Soffro tanto ! » Una volta fece l'atto di gettarsi dalla finestra, un'altra dal ponte di ferro alle Cascine.
Il 29 giugno lasciò la dimora comune dichiarando in un discorso bislacco il Padre Spinetti colpevole dei propri disordini e di saperlo da Dio.
Il nome di questo Padre indica mutamenti del delirio, l' iniziarsi di uno stadio peggiore. I sensi, l' immaginazione, l’intelletto traviati resero Evaristo sicuro che per volere di lui la sua donna doveva appartenere a un altro, ed egli ricevere in cambio una creatura eccelsa la quale udiva favellare e presto vedrebbe.
Con la seconda metà del 1919 la gelosia de­cresce ; non più passione e tormento ma punti­glio e picca. Vuole ripudiare la sposa vera che il Codice impone e prendere l'altra fantastica.
Nel luglio e nell'agosto i coniugi stanno di nuovo insieme e le sopercherie provocate da in­terne voci ritornano. Evaristo dissimula : un ca­pace professionista esaminandolo nulla trova di patologico.
Nel settembre alloggia in alberghi o presso parenti, Diffida dei cibi, teme veleni. Nei paros­sismi annunzia incendi, ordigni esplosivi. Accusa il Padre Spinetti, non vedendo giungere la novella Dulcinea. Minaccia uccidersi.
Nonostante gli accresciuti disturbi diede prova di poter plasmare una testa con pregi estetici. Nell'autunno del 1919 vide sul tram del Vintone lo scaccino della Chiesa del Pignone e subito desiderò ritrarlo. Era un idiota non ignaro del manicomio. Venne in casa per lunghe sedute ; vociando lo teneva fermo. Dalla creta ricavò il gesso e ne rimase soddisfatto. Ma parole cerebrali ordinavano lo distruggesse ; un solco dietro l'orec­chio destro indica il principio della obbedienza, non lasciata compiere.
Dopo preparava Il rimorso, figura intera ; rimorso di chi spense l'altrui vita. In una mo­stra pubblica l'osservare non svolto bene, secondo il suo giudizio, questo tema, lo aveva invogliato a trattarlo. Intuiva una figura nuova e drammatica. Diceva: «Perfino dalle mani si deve vedere che ha ucciso ! ». La pazzia rese vano il pensiero.

Qui conviene riassumere l'intera opera arti­stica del Boncinelli.
Il desiderio e il proponimento di rendersi scultore, di esprimere sue forme nella pietra o nel metallo sorse presto e nulla valse a distoglierlo. Mentre eseguiva copie o figure richieste dalla moda adoprava l'ingegno, preparava uno stile, avanzava nella tecnica per tradurre poi quelle nel miglior modo.
Acuto osservatore del corpo umano e dei moti esprimenti l'anima, serbava ricordi per il futuro. Aggiunse lezioni di disegno e di plastica in una pregiata scuola, del nudo nella Accademia fiorentina; un corso di anatomia presso la Fa­coltà medica : inoltre indagini su scultori toscani antichi nei musei di Via della Colonna e di Via del Proconsolo. Dice bene il Petrarca anche per lui : - Non a caso è virtute anzi è bell'arte -.
La destrezza nel disegnare lo sorreggeva e atte­stava le native tendenze. Gli schizzi puerili palesavano attitudini ad esprimere con linee sommarie corpi umani. I disegni posteriori, la maggior parte a matita rossa, ritraggono, tranne talune caricature, volti severi e corpi senza vesti.
Per entrare nella Scuola del nudo dovette in prova copiare l'Apollino della Tribuna ed il Torso del Belvedere : per entrambi conseguì i maggiori punti di merito. Nel primo irrobustisce le membra e vi aggiunge, cubistici accenni mentre rende vi­vaci le linee dei contorni senza disarmonie. Del secondo rimane fedele seguace e porge in modo degno quella mirabile massa unitaria sfaldando i piani a chiaroscuro e finemente articolandoli.
Altri fogli danno teste, singole membra, figure puerili, al pari del ciclo di Lombardia così belli quando sono belli.
Il Vecchio campagnuolo esemplifica ricerche spinte al grado estremo, ripetendo dei viso tutti i solchi che derivano dai tessuti profondi allentati e della pelle vizza le minime rughe. Queste ve­diamo incise come nel Pietro Melimi di Bene­detto da Maiano scultore quattrocentesco e in ri­tratti etruschi. Lo stile è minuzioso, trito; ma si pensi che Evaristo, allievo della Scuola Dazzi, volle esibire diligenza nel riprodurre il vero : ciò significa la parola « studio » posta sotto. Merita lode la salda compagine e l'evidenza del ca­rattere.
Al Pasta elio nuoce il rimanervi unito del marmo greggio, che esclude il collo posseduto dal gesso. Tali incompiutezze e aderenze piaceranno se il tema le richiede o se casualmente significano uno sforzo per uscire dalla materia come i colossi della tomba di Giulio II ; ma è errore il cercarle fuori luogo o per una testa ferma. In questo fanciullo il bel viso immobile, lo sguardo intento, le roride labbra offrono il vero e la vita : la modellazione vediamo semplice e solida. Evaristo giudicava alquanto duri i capelli, cui poteva certo aggiungere mollezza rimettendovi i ferri.
La Cieca era una donna reale ; ma i saldi

 

fonte: http://files.splinder.com/52644ed310c4afad9421112ba0cbe1fa.doc

autore: Carlo Pariani ? http://www.campanadino.it/

 

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