Divina commedia inferno riassunto

 

 

 

Divina commedia inferno riassunto

 

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Divina commedia inferno riassunto

 

LA DIVINA COMMEDIA

 

Inferno

           

 

INFERNO CANTO I

             

 

Nella primavera del 1300, a 35 anni, l’età che egli considera il punto di mezzo della vita umana, Dante inizia il suo viaggio nell’oltretomba. Irretito in una vita peccaminosa (la selva oscura) non riesce a trovare da solo la via del bene. La selva lo riempie di terrore, essendo un chiaro preannuncio della dannazione della sua anima. Egli non saprebbe nemmeno ricostruire le fasi del suo allontanamento dalla vita virtuosa, perché quando cominciò a peccare, signoreggiato ormai dai soli istinti, privo di luce intellettuale (pieno di sonno), non aveva più la possibilità di discernere il bene dal male. Quando Dante, all’uscita dalla selva, vede la sommità del colle (simbolo della faticosa ascesa verso il bene, dell’espiazione, della purificazione) illuminata dai raggi del sole (simbolo della Grazia), comincia a sentirsi rinfrancato, come un naufrago sfuggito ai marosi e approdato, ancora incredulo della propria salvezza, alla riva. Inizia l’ascesa del colle. Ma tre belve: (allegorie di tre peccati specifici - la lussuria, la superbia, l’avarizia - o, secondo altri, delle tre categorie aristoteliche del peccato - la malizia, la sfrenata bestialità e l’incontinenza -) lo ostacolano nel suo procedere, così che egli alla fine dispera di poter raggiungere la vetta ed è sospinto nuovamente verso la valle della perdizione. A questo punto gli appare l’ombra di Virgilio (simbolo della ragione umana, della filosofia) il quale gli annuncia che, se vorrà approdare alla meta agognata dovrà seguire un altro percorso, visitando successivamente, sotto la sua guida, il regno dei dannati e quello delle anime purganti. Perché poi egli possa avere diretta conoscenza del regno degli eletti, Virgilio dovrà affidarlo alla guida di Beatrice (simbolo della fede, della teologia).

 


 

Introduzione critica

 

Per opinione unanime dei critici i canti introduttivi della Divina Commedia, mentre ci darebbero la chiave interpretativa di tutto il poema, non riuscirebbero a raggiungere una persuasiva individuazione di personaggi, caratteri, situazioni. Il giudizio del Croce sul primo canto può rendere ragione di questa valutazione negativa: " Specialmente il primo canto dà qualche impressione di stento: con quel "mezzo del cammino" della vita, in cui ci si ritrova in una selva che non è selva, e si vede un colle che non è un colle, e si mira un sole che non è il sole, e s’incontrano tre fiere, che sono e non sono fiere, e la più minaccevole di esse è magra per le brame che la divorano e, non si sa come, " a vivere grame molte genti". Tanta severità non è certo fatta per invogliare alla lettura chi intenda accostarsi al << poema sacro " per la via additata dal suo autore, affrontando cioè per prima cosa l’intrico di simboli che ne adombrano il mistico significato. Una più cordiale adesione alla parola del Poeta, pur nel suo laborioso maturare, gioverebbe senza altro meglio allo scopo. L’ostacolo maggiore per noi, nel seguire Dante agli esordi del suo capolavoro, è senza dubbio costituito dall’allegoria, questo schema interpretativo che è stato argutamente definito da uno storico la << pianta parassita nella serra della tarda antichità " e che ritroviamo in tutte le manifestazioni dell’arte del medioevo. La nostra mentalità positiva, tutta volta al concreto e all’"effettuale", ben difficilmente trova di che nutrirsi nel miracoloso tessuto di rispondenze che la mente medievale scorgeva dappertutto nell’universo. Perduto il senso del "sacro", stentiamo a scorgere nelle cose la traccia di un Creatore, la misura di un ordine sottratto al fluttuare degli eventi. Ai tempi di Dante non era così. Il linguaggio dei simboli era di dominio comune, l’uomo era avido di "interpretazioni" che colmassero l’infinita distanza che lo separava da Dio. Ma anche a noi l’allegoria non può non apparire legittimata in pieno, là dove crea Un linguaggio autonomo, non vincolato alla lettura " in chiave " che essa propone. Se cioè essa non esaurisce le sue risorse espressive nella delimitazione del proprio ambito di concetti, ma anzi, come quasi sempre in Dante, conferisce alla parola, coll’immetterla in una prospettiva infinita, una dimensione espressiva che altrimenti non avrebbe, allora dobbiamo riconoscerle il diritto a una considerazione non prevenuta sul piano della poesia. Forse la poesia dei canti introduttivi della Commedia va cercata nel tono particolarissimo che l’uso dell’allegoria conferisce alla parola di Dante: tono severo, assorto, meditativo in cui rivive, riportato entro una prospettiva medievale, l’alta ispirazione dell’Antico Testamento." Il verso con cui si apre l’Inferno, e insieme la Divina Commedia, emerge da una memoria tutta percorsa da echi biblici e profetici. Il testo di Isaia " ego dixi in dimidio dierum meorum vadam ad portas inferi " (XXXVIII, 10), direttamente citato dalle parole di Dante, e il testo del Salmo LXXXIX, 10 "dies annorum nostrorum sePtuaginta anni ", da esse indirettamente alluso, evocano un’atmosfera solenne in cui il discorso acquista come una dignità liturgica, il sigillo sacro di un annunzio misterioso." (Getto)Osservazioni analoghe si possono estendere al I canto nel suo complesso. Tra i momenti lirici di più agevole lettura spiccano, in questo canto, il drammatico paragone del naufrago, la paradisiaca apparizione della luce sulla cima del colle, la dolente elegia di Virgilio consapevole di essere per sempre bandito dal premio dei beati (oh felice colui cu’ivi elegge!). Dal canto suo la rappresentazione delle fiere, pur rispondendo a criteri allegorici, è tutt’altro che fredda e classificatoria. Non possiamo vedere in esse soltanto " tre motivi da miniatura medievale e da bestiario". Ancora il Getto, svolgendo alcuni spunti chiarificatori del Momigliano, per il quale nella presentazione delle tre fiere "si rivela la capacità di Dante di cogliere le linee significative di un essere vivente, di darne, per così dire, la definizione pittorica", precisa: "Dante non ci presenta degli animali rigidi, imbalsamati, ma al contrario degli animali in movimento, vivi... La lonza è tutta balzante leggerezza e morbida agilità e sferzante eleganza... Il leone, a sua volta, ha qualcosa di statuario, un’imponenza monumentale dà cui si sprigiona però una forza compressa, una fierezza energica... La lupa, infine, assume un profilo nervoso, sfinito e teso a un tempo... Essa è definita come la bestia sanza pace: un tratto che, di nuovo, coglie l’intimità e insieme il gesto dell’animale, il suo istinto e il suo agire, l’insaziabile cercare". E’ vero che le tre fiere sono nate nella fantasia del Poeta non da una presa diretta di contatto con la natura, ma da una sentita rielaborazione della Sacra Scrittura (Geremia, lamentando la corruzione del regno di Giuda, dice: "Ecco perché il leone della foresta li uccide, il lupo del deserto li sbrana, il leopardo è in agguato davanti alle loro città"; V, 6). Ma - conclude il Getto - "l’operazione poetica svolta da Dante" consiste qui in una "ricerca che è simultaneamente intellettuale ed estetica", così che, "come nel linguaggio biblico, in genere, e soprattutto in quello profetico, si determina una specie di continuo spostamento dal primo piano dell’immagine a quello più lontano e segreto del pensiero". Si trattava "da un lato di umanizzare, di rendere passionali, viziose le tre fiere, e d’altro lato di dare alle sue idee di peccati un carattere bestiale, sottolineandone l’aspetto disumano, ferino". La coordinazione tra figura e figurato non è pertanto riuscita arbitraria sul piano della poesia.

 


           

 

INFERNO CANTO II

             

 

Dante, uscito dalla selva del peccato, aveva iniziato l’ascesa del colle all’alba. Al tramonto dello stesso giorno egli si sente assalito da dubbi: per quale suo merito particolare è stato prescelto a visitare da vivo il regno dei morti? Due soli altri esseri viventi erano scesi nell’oltretomba in carne ed ossa: Enea e San Paolo. Ma essi erano stati destinati da Dio a porre in terra le fondamenta della società umana, rispettivamente nell’ordine temporale e in quello spirituale: il primo in quanto capostipite dei Romani, il secondo in quanto propagatore ed organizzatore del Cristianesimo. Per dissipare queste perplessità Virgilio gli spiega i motivi che lo hanno indotto a venire in suo soccorso. Tre dorme benedette hanno avuto compassione di Dante in cielo: la Vergine Maria ha raccomandato la salvezza del Poeta a Lucia, la quale a sua volta ha esortato Beatrice a sottrarlo al mortale pericolo in cui si trovava. Le accorate parole e la sovrumana bellezza della beata, discesa ad implorarlo, hanno reso il poeta latino impaziente di obbedirle. Al nome della donna amata in gioventù Dante si rianima, non diversamente dai fiori all’alba, e, senza più esitazioni, segue Virgilio nel difficile cammino verso la porta dell’inferno.

 


 

Introduzione critica

 

Dei vari momenti di poesia che in questo canto confluiscono, la critica non ha tardato ad individuare quelli di più immediata resa lirica: dal tragico tramonto dei versi iniziali alla spirituale apparizione di Beatrice - che la umana passione non tange e che pure, umanamente, lascia trapelare, nel fuoco di carità che la muove, l’amore di un tempo per il suo fedele amico - alla fresca similitudine dei fioretti, che avvia il canto alla sua conclusione su una nota di speranza. Più arduo tuttavia e controverso appare il discorso allorché si passi, dallo studio di questi nuclei lirici di incontrastata evidenza, all’analisi dell’ordito in cui si inseriscono. Subito dopo i pensosi versi d’apertura troviamo una sommaria invocazione alle Muse, cui seguono l’esposizione che Dante fa al maestro dei propri dubbi e la risposta di Virgilio. Sono queste le parti da molti giudicate impoetiche (il Croce trova qui "titubanze artificiate per dar luogo a risposte informative... domande non necessarie e risposte che vanno di là dalla domanda"), ma al tempo stesso indispensabili all’architettura generale del poema, per la funzione esplicativa che in esso svolgono. In questo canto, infatti, detto anche "prologo in cielo" per distinguerlo dal primo, detto "prologo in terra ", il Poeta fornisce al lettore le premesse di natura storico-teologica del suo viaggio nell’al di là. Già fin dal primo canto il dramma di Dante era apparso come il dramma dell’umanità allontanatasi dalla via del bene. Singolarmente indicativa, a tal proposito, era stata la figura della lupa, simbolo di un traviamento, almeno in ugual misura, politico ed etico, cui si era contrapposta, nella profetica anticipazione di Virgilio, la figura, messianica e purificatrice, del Veltro. E’ essenziale, per poter penetrare nello spirito della Commedia, capire che per Dante la lotta tra il bene ed il male non si svolge soltanto nell’intimità delle coscienze, ma ha per teatro il mondo e si concreta in eventi storici, il Poeta abbraccia con un solo sguardo il campo delle intenzioni e quello delle azioni che ne risultano, e si erge a giudice delle une non meno che delle altre. Il suo giudizio ci apparirà ora motivato da considerazioni di pura natura etica, ora invece fortemente influenzato da moventi politici, ma questa scissione che noi siamo portati a stabilire oggi fra due sfere dell’agire (la politica e la morale), nella visione rigorosamente unitaria che del mondo aveva il Medioevo, e di cui Dante è il più alto interprete, non esisteva. Comunque, uno dei miracoli della sua poesia, e non dei minori, sta proprio nel riproporci, viva e stimolante, in un secolo di dubbi e di cautele critiche, quell’indissolubile unitarietà di visione. Già dunque nel primo canto Dante ci aveva dato gli antefatti del suo viaggio; ma ce li aveva dati in chiave enigmatica, ricca di suggestioni fantastiche, aperta a una varietà di interpretazioni pressoché illimitata. In questo secondo canto l’ambito delle sue preoccupazioni si precisa: non più animali a significare le passioni dell’animo, non più occulte concordanze col tempo astronomico a suggerire una felice disposizione delle costellazioni all’impresa. Ora Dante fa i nomi di coloro che hanno avuto una funzione provvidenziale sul corso della storia (Enea e San Paolo) e che in virtù di questa loro funzione hanno potuto, da vivi, varcare le soglie dell’oltretomba, e con essi si raffronta. La sua parola è cauta, la struttura sintattica del discorso che rivolge a Virgilio, tormentata e complessa. Ma non dobbiamo vedere in questo procedere per gradi del suo ragionamento un segno di freddezza, una temporanea assenza dell’ispirazione, quanto piuttosto l’espressione di un fuoco represso, di un calore contenuto, di una urgenza controllata. Parlando a Virgilio, Dante fa in realtà un esame di coscienza e non c’è alcun motivo per sostenere che un esame di coscienza sia in se stesso tema meno poetico di un’estasi d’amore. Inoltre dobbiamo tener presente, fin da questi canti iniziali, che la poesia di Dante non nasce su un terreno vergine di cultura, quale quello cui aspirano i poeti nelle epoche di stanchezza, di transizione, quando, sotto il peso di una tradizione ormai esausta, sembra impossibile recuperare la genuinità del sentire, ma si alimenta anzi di continui suggerimenti culturali. E’ raro che questi suggerimenti restino in Dante arida dottrina: quasi sempre egli li investe della sua passione e li plasma poeticamente, mentre essi, a loro volta, conferiscono alla terzina dantesca la sua straordinaria densità e robustezza. Per il fatto che nella Divina Commedia esistono (ma raramente sono isolabili dal contesto in cui sono inserite) zone di più facile lettura, non è detto che la poesia di Dante vada di necessità ricercata in queste, ad esclusione di altre in cui l’espressione lirica si avviva al contatto con la notizia storica, la precisazione geografica, il problema filosofico, l’assioma teologico. In particolare qui, nel secondo canto, le parole che Dante rivolge al maestro per manifestargli le sue esitazioni riescono ad esprimere compiutamente, con i riferimenti alla storia di Roma e a quella del papato, la consapevolezza che Dante ha della sua alta missione. La risposta di Virgilio, anch’essa elaborata, partecipa di tutt’altra atmosfera: è la certezza che risponde al dubbio; la sua complessità è più esteriore che interiore. Soltanto la comparsa di Beatrice scioglie quello che di troppo rigido rimane per noi nel cerimoniale, evocato dal poeta latino, delle tre donne benedette e schiude una pagina di sovrana e luminosa poesia: come sempre, quando Dante ricorda la donna da lui tanto amata in gioventù, la parola gli si fa lieve, incorporea, tanto più casta quanto più appassionata; la politica, la cultura, il pesante fardello delle sue cure, sono per un istante dimenticati; resta solo uno sguardo rivolto al cielo, una sete religiosa di chiarezza, l’umiltà di un "grande" ai piedi di una " santa ".


           

 

INFERNO CANTO III

             

 

Sulla porta dell’interno un’epigrafe promette, a chi varcherà la soglia, disperazione e dolori eterni, ma Virgilio invita Dante a deporre ogni forma di timore e ogni perplessità; poi, presolo per mano, con volto rassicurante, lo fa entrare. Nel buio profondo il Poeta è dapprima colpito da un orribile clamore di voci, poi intravede un numero sterminato di anime che instancabilmente corrono dietro un vessillo: sono le anime degli ignavi. Insieme ad esse si trovano anche quegli angeli che si erano dichiarati neutrali quando Lucifero insorse contro Dio. La pena degli ignavi è avvilente, spregevole: mosconi e vespe li pungono a sangue e il sangue è succhiato ai loro piedi da vermi ripugnanti. Nella turba anonima Dante riconosce colui che, per pusillanimità, rinunciò alla cattedra di Pietro per la quale era stato prescelto (forse Celestino V). Proseguendo nel loro cammino i due poeti giungono sulla riva del fiume Acheronte, dove si raccolgono tutte le anime dei peccatori in attesa di essere traghettate sull’ altra sponda da Caronte. Il nocchiero svolge il suo compito senza parlare: ordina alle anime di salire sulla barca facendo loro dei cenni, e, se qualcuna mostra di voler indugiare, la percuote col remo. Caronte, accortosi che Dante è ancora in vita, lo ammonisce a tornarsene sui suoi passi, ma Virgilio lo costringe al silenzio rivelandogli che il viaggio del suo discepolo si compie per volere del cielo. Improvvisamente la terra trema, e, mentre un lampo di luce rossa squarcia le tenebre, Dante perde i sensi.

 


 

Introduzione critica

 

In una lezione del corso tenuto a Torino nel 1854 Francesco De Sanctis, soffermandosi sull’ispirazione che è all’origine de] terzo canto dell’Inferno, aveva ravvisato in esso il canto del "sublime". Poiché il sublime non può concepirsi disgiunto da un certo grado di indeterminazione (esso, infatti, "consiste meno in quello che è espresso che in quello che è sottinteso"), per il critico la poesia delle prime impressioni, che il Poeta riceve dalle tenebre infernali, nasce dal fatto che il mondo dei dannati, visto più con l’immaginazione che con gli occhi, "è ancora in lontananza ".Non troveremo pertanto, nel vestibolo del regno dei morti, che "lineamenti generali, poche linee solamente...; ma tutto quello che viene appresso altro non è se non queste stesse linee che si vanno a poco a poco determinando e prendendo questa e quella figura". Una bella e vigorosa immagine aiuta il critico ad illustrare la "formidabile unità del canto": "E’ l’albero della vita che il Poeta ti sfronda a foglia a foglia ad ogni passo che muove innanzi; e ne toglie la speranza: lasciate ogni speranza, voi ch’entrate. E ne toglie le stelle: quivi sospiri, pianti e alti guai risonavan per l’aere sanza stelle. E ne toglie il tempo: facciano un tumulto il qual s’aggira sempre in quell’aere senza tempo tinto. E ne toglie il cielo: non isperate mai veder lo cielo. E ne toglie l’intelligenza: ch’anno perduto il Ben dell’intelletto". Un’analoga valutazione positiva ci ha dato nel suo saggio su Dante il Momigliano. Illustrando quello che, nella Commedia, è "il perpetuo commento paesistico del tema psicologico", aveva notato, nel terzo canto dell’lnferno, "il colore della disperazione": "Quella pianura livida è un fosco riverbero delle anime che approdano alla disperazione eterna". Tre sono i motivi conduttori del canto. Abbiamo da un lato il grande tema metafisico dell’eternità delle pene infernali, tema che accompagnerà costantemente il Poeta nella prima parte del suo viaggio e che ora si preannuncia, soprattutto nelle terzine dell’esordio, in una delle sue più allucinanti orchestrazioni. Il secondo tema esprime la simpatia di Dante per la vita attiva, impegnata, responsabile. Questo tema si configura qui nel suo riflesso negativo, come disprezzo per coloro che si sono lasciati vivere, invece di conquistarsi la propria vita. A questi due temi si affianca un terzo, che potremmo definire pittorico, di creazione di atmosfera, intendendo col Momigliano per atmosfera qualcosa che "è più che l’ambiente materiale: ... l’ambiente materiale fuso con i suoi riflessi psicologici ".Esso esprime un vigoroso immaginare " per gruppi d’insieme, per "masse" (Sapegno); il chiaroscuro, i contrasti di luce e ombra, non individuano ancora caratteri, situazioni drammatiche, ma creano come un clima d’incubo, di orrore grandioso e indefinito. Questo addensare "ombre su ombre" sullo sfondo di un "orizzonte aggrondato" (Momigliano) ha una funzione preminente nel determinare le tonalità della seconda parte del canto. Qui sterminate turbe di anime fanno ressa sulla riva di un fiume per andare a espiare le loro colpe, qui l’anima è completamente soggiogata da quel Dio che disperatamente nega, qui Dio è presente in ogni atto, pensiero, desiderio. Alla smania paradossalmente inerte - perché impersonale, perché da tutti sentita allo stesso modo - che i dannati mostrano nel correre incontro alle loro pene, fa riscontro lo sferzante imperio di Caronte, la sua comparsa rapida e rabbiosa. Mentre i primi due temi si inquadrano in una prospettiva ancora per larga parte medievale, nel terzo il Poeta riecheggia forme e motivi della presentazione dell’oltretomba fatta nel sesto libro dell’Eneide. E’ stata rilevata a questo proposito, nella corrispondenza dei richiami dal testo volgare a quello latino, una incertezza di tono, "come se il poeta nuovo, addentrandosi nell’indagine di una materia inconsueta e nell’esercizio di una tecnica ignota, avvertisse il bisogno di puntellare la sua inesperienza su una trama di suggerimenti inventivi e formali, capaci di stimolare la sua fantasia e di fornirgli gli schemi più appropriati del movimento narrativo ..."Questo impaccio sarebbe, tra l’altro, rivelato dalla struttura di tipo prevalentemente paratattico sia del canto sia della singola frase. Così, tanto per fare un esempio, nella "duplice progressione, prima ascendente - sospiri, pianti, alti guai - poi discendente - lingue, favelle, parole, accenti, voci" dei versi 22-27, con la quale Dante riprende una movenza virgiliana, è stato visto un eccesso di artificio che rasenterebbe l’enfasi, mentre la poesia si affermerebbe nel paragone con la rena turbinante della terzina successiva, e, più ancora, nel "senso, tutto intimo, di quelle tenebre - l’aere sanza stelle, l’aura sanza tempo tinta - che avvolgono il tumulto e ne dilatano paurosamente l’orrore". L’autore di queste osservazioni, il Sapegno, ha d’altra parte messo in luce, in questo stesso canto, la diversità di taglio, di impostazione dell’immagine dantesca rispetto a quella virgiliana, animata la prima in ogni sua più riposta piega dalla presenza del trascendente, e quindi mai statica, pur nella fermezza del disegno; levigata e composta la seconda, frutto di una cultura più stanca. Ma altrove, proiettando sul canto nel suo insieme la luce di alcune analisi particolari, vede in esso emergere tutti i dati "con una connotazione, diciamo così, negativa". Qui le sue perplessità ci appaiono eccessive.Il giudizio del De Sanctis e quello del Momigliano che vedeva nel terzo, "fra i canti unitari dell’Inferno, uno dei più belli", proprio perché in esso Dante "sembra lavorare d’istinto, e perciò non calca suoni, linee, tinte, come faranno invece i suoi tardi imitatori della fine del ‘700 e del principio dell’800" - per quanto meno motivati, colgono più da vicino la sostanza del canto.


           

 

INFERNO CANTO IV

             

 

Un tuono fragoroso risveglia Dante dal sonno in cui era caduto sulla riva dell’acheronte. Egli si guarda intorno e si accorge di trovarsi sull’orlo della voragine infernale, buia e profonda. E’ preso da timore nel vedere che Virgilio impallidisce, ma il maestro lo rassicura: il suo pallore non è dovuto a spavento, ma a pietà per la sorte dei dannati. Entrati nel primo cerchio infernale, che è costituito dal limbo, i due poeti odono i sospiri delle anime di coloro che vissero una vita virtuosa senza aver ricevuto il battesimo. Per non essere state cristiane, non possono ascendere al paradiso; d’altra parte, non avendo in sé altra macchia se non il peccato di Adamo, non sono sottoposte a tormenti: la loro pena è tutta spirituale: vivono nel desiderio, mai appagato, di vedere Dio. Quattro spiriti si fanno incontro ai poeti: sono le anime di Omero, Orazio, Ovidio e Lucano, venute a rendere onore a Virgilio. Esse salutano benevolmente Dante e l’accolgono nella loro schiera. I sei camminano insieme, discorrendo, e giungono in un luogo luminoso, ai piedi di un castello difeso da sette cerchi di muta e da un corso d’acqua, che essi attraversano come se fosse terraferma. Dopo aver varcato, passando per sette porte, il settemplice giro di mura, il gruppo dei sei poeti arriva in un prato verdissimo e fresco. Da un’altura Virgilio indica a Dante alcuni tra i più nobili spiriti dell’antichità e del Medioevo non cristiano. I due si separano quindi dai loro accompagnatori e, lasciato il limbo, giungono nuovamente in un luogo privo di luce.

 


 

Introduzione critica

 

Tra la squallida miseria degli ignavi e la bufera, che mai non resta, che travolge nel canto quinto i lussuriosi, il limbo inserisce una pausa di cogitabondo silenzio, di rassegnata mestizia. Il Tommaseo vedeva in esso qualcosa "della serena aura della seconda cantica". E infatti la spiritualità della pena che affligge le anime del limbo, la compostezza dignitosa o solenne dei loro modi, la manifestazione della loro malinconia, così discreta e lontana da ogni forma di drammatico rilievo, concorrono a fare del canto terzo un capitolo a sé nel discorso lirico e narrativo dell’Inferno. Una funzione analoga, di sereno intermezzo, aveva avuto, tra gli incubi dell’incontro con le tre fiere e l’ingresso nel regno dei morti, il "prologo in cielo il del canto secondo. Ma la raffigurazione del limbo è forse più interessante, perché qui Dante, scostandosi dall’opinione dei teologi, attribuisce una condizione di privilegio a coloro che in terra hanno vissuto rettamente al di fuori della fede, e una condizione di privilegio ancora più grande a coloro che hanno nobilitato l’umana natura per altezza d’ingegno e di opere. Il De Sanctis ha visto nel limbo dantesco, paradossalmente, un’espressione di fondamentale laicità: " Qui nel limbo la mancanza di fede è un semplice accessorio, e l’interesse è tutto nel valore intrinseco dell’uomo, come essere vivo, come forza. Dio ha lo stesso criterio poetico, e dà ad alcuni un luogo distinto, non per la loro maggiore bontà, ma per la fama che loro acquistò in terra la grandezza dell’ingegno e delle opere. Concetto poco ascetico e poco ortodosso; ma Dio si fa poeta con Dante, e gli fabbrica un eliso pagano, un Pantheon di uomini illustri". E certo è significativo che Dante, dopo aver collocato gli ignavi all’ingresso dell’inferno, formulando nei loro confronti un giudizio nuovo e personale rispetto alla dottrina teologica del suo tempo, celebri qui con tanto fervore gli "infedeli negativi" e li isoli, in un clima di sereno oltretomba virgiliano (ma, come ha notato un critico, la classicità dell’episodio rivive in forme ancora tipicamente medievali), sotto una cupola di luce, quasi a rendere tangibile, concreta, la luce intellettuale che intorno a sé, in vita, diffusero i grandi spiriti dell’antichità. Ma il pensiero di Dio informa di sé la sostanza del canto, qui non meno che altrove nell’Inferno. Sostenere che nel limbo la mancanza di fede sia un semplice accessorio, vuol dire precludersi la possibilità di cogliere la poesia del canto nei suoi motivi più profondi, nella sua tonalità più genuina. E’ vero che qui Dio non è visto, come in tutto il resto della prima cantica, in una forma di intervento attivo, come giustizia vindice, riparatrice dei torti. Ma, nei sospiri che fanno tremare l’aria, Egli è presente come un Bene irraggiungibile. Non diversamente, nella speculazione del maestro di color che sanno, Aristotile, il Motore Primo, immobile nella sua perfezione, aveva rappresentato, per gli esseri, la direzione costante del loro movimento. Il tono elegiaco di queste pagine ha qui la sua motivazione: in questa lontananza da Dio, non scelta, non voluta, ma subita come un destino, nella imperscrutabilità dei suoi disegni, nella rinuncia ad interrogarli. Le anime del limbo, di fronte al mistero, chinano la fronte, si raccolgono in un sommesso meditare. Sulle terzine iniziali in cui, per bocca del maestro, Dante manifesta la sua angoscia per la sorte dei dannati, grava ancora la cupa atmosfera del canto precedente, ma poi via via la sua parola si rasserena fino ad esaltarsi nella scena dell’incontro con i quattro massimi poeti dell’antichità e nella celebrazione della grandezza umana. Grandezza insufficiente, perché non illuminata dalla Grazia, grandezza nobilmente accorata per questa mancanza non sua, grandezza consapevole di aver operato rettamente nei limiti che le erano stati concessi. Si è parlato per Dante di "umanesimo cristiano", e certo in lui la fede non nega il sapere e l’azione, come nelle forme più radicali del pensiero dei mistici, ma anzi li integra e li consacra, conferendo loro una validità assoluta. Nel limbo, tuttavia, questo momento umanistico, che ricollega il Dante della Commedia al Dante del Convivio, assertore entusiasta della superiorità culturale dei Greci e dei Latini, ha una linea di sviluppo ancora prevalentemente decorativa. Il significato della grandezza degli antichi non è approfondito oltre la presentazione, tutt’altro che fredda, ma sommaria e tradizionalmente atteggiata, del tipo ideale del " saggio". L’angoscia delle genti, che fa impallidire Virgilio all’inizio del canto, rivela una più commossa aderenza della parola al tema trattato che non la filosofica famiglia o il nobile castello.In questa seconda parte del canto, dove una scenografia composita ed illustre rivive in particolari di fanciullesco candore (quasi ad alleviare, portandolo sul piano delle nobili favole, un motivo di perplessità e di smarrimento, un tema destinato ad essere affrontato con più maturo impegno in altri luoghi del poema), "ammirazione, riverenza, malinconia sono sentimenti accennati, ma non rappresentati " (Croce). Eppure, se teniamo conto che, come per la scena del traghetto delle anime nel canto precedente, anche qui il Poeta si è ispirato all’Eneide, l’episodio dell’incontro con i grandi dell’antichità e la descrizione del nobile castello ci consentono di rilevare alcune delle caratteristiche più avvincenti dell’arte di Dante: ad esempio, rispetto alla solennità sorvegliatissima del modello latino, un’adesione più diretta e cordiale ai dati della leggenda, una familiarità più dimessa e fiduciosa nella presentazione dei grandi nomi a lui cari, un entusiasmo per i valori della ragione che nessun dubbio ancora è riuscito ad incrinare.


           

 

INFERNO CANTO V

             

 

A guardia del secondo cerchio della voragine infernale i due pellegrini trovano il ringhioso Minosse. Questi, dopo aver udito la confessione dei peccatori che si affollano al suo cospetto, attorciglia la coda intorno al proprio corpo, per indicare, con il numero dei giri, il cerchio dove ogni dannato dovrà espiare la sua colpa. Nel secondo ripiano scontano il loro peccato le anime dei lussuriosi: nel buio un’incessante bufera le travolge, facendole dolorosamente cozzare le une contro le altre, cosicché l’aria è piena di lamenti. Pregato dal suo discepolo, Virgilio gli addita i personaggi celebri dell’antichità e del Medioevo che non seppero vincere in sé la passione, e che per essa perdettero la vita: Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille... Dante esprime il desiderio di parlare con due di queste ombre: esse, diversamente dalle altre, procedono indissolubilmente unite e sembrano quasi non opporre resistenza al vento. Sono Francesca da Rimini e Paolo Malatesta, colpevoli di adulterio. Chiamati da Dante, i due peccatori si accostano, e Francesca, manifestata al Poeta la sua gratitudine per aver egli avuto pietà della loro pena, narra di sé e dell’amore che con tanta forza la legò a Paolo. Dante, turbato, vuole sapere quali circostanze portarono il loro sentimento reciproco a trasformarsi in amore colpevole, e Francesca si abbandona ai ricordi del tempo felice: erano soli; leggevano un romanzo; fu quella lettura a far incontrare i loro sguardi, a farli trascolorare; fu il primo bacio scambiato fra i protagonisti di quel romanzo a renderli consapevoli della loro passione. Mentre Francesca parla, Paolo piange: a questa vista, per la profonda pietà, Dante perde i sensi.

 


 

Introduzione critica

 

L’Ottocento ci ha dato, in alcune pagine del Discorso sul testo del poema di Dante, di Ugo Foscolo, e in un saggio del De Sanctis, le interpretazioni più umane e avvincenti di quella che è senz’altro la più popolare, la più amata delle creazioni della fantasia di Dante: l’episodio di Paolo e Francesca. Per il Foscolo, in Francesca da Rimini la colpa è "purificata dall’ardore della passione, e la verecondia abbellisce la confessione della libidine; e in tutti que’ versi la compassione pare l’unica musa", poiché non "sì tosto la passione incomincia ad assumere l’onnipotenza del fato, ed opera come fosse la sola divinità della vita, ogni tinta d’impudicizia, d’infamia e di colpa dileguasi".Il De Sanctis vide in Francesca "la prima donna viva e vera apparsa sull’orizzonte poetico de’ tempi moderni" Contrariamente a Beatrice, Francesca è, per il grande storico della letteratura italiana, qualcosa di più di una semplice astrazione (" il puro femminile... il genere o il tipo"): è "vera e propria persona, in tutta la sua libertà". La poesia della donna starebbe proprio nell’essere vinta: perciò Francesca si anima ai nostri occhi di vita poetica purissima proprio nell’atto in cui soggiace a quella ferrea "necessità che Dante ha espressa con rara energia nella frase: amore... a nell’amato amar perdona ". In queste formulazioni non è difficile scorgere un eccesso di coloritura romantica, sia per il rilievo che il De Sanctis ama dare al risultato di una generalizzazione (la debolezza in quanto essenza della femminilità), sia per il parallelo, polemicamente istituito, tra le figure di Francesca e di Beatrice. Ma il De Sanctis rimane un modello insuperato di penetrazione critica, allorché passa, dall’inquadramento dell’episodio in una prospettiva discutibile e comunque troppo perentoriamente affermata, all’esame delle singole situazioni, dei loro riflessi psicologici e morali, della loro inesauribile vitalità espressiva. Troviamo inoltre nel suo saggio una caratterizzazione della figura di Francesca non meno felice di quella dataci dal Foscolo: "contrastando e soggiacendo ella serba immacolata l’anima, quel non so che di molle, puro, verecondo e delicato, che è il femminile, <l’essere gentile e puro>". Collocata dalla critica romantica nel segno disperato e fatale di "amore e morte", la tragedia di Francesca è stata oggetto di innumerevoli studi, interpretazioni, dibattiti. Ma essa occupa soltanto una parte del canto, la seconda. Quale rapporto lega le due parti fra loro ? Si tratta soltanto di due creazioni poetiche giustapposte senza intima necessità, o c’è, nel passaggio dalla parte introduttiva all’episodio principale, uno svolgimento coerente di motivi, di forme, di situazioni? E inoltre, nell’episodio stesso, accanto a Francesca, disperatamente legata ai ricordi del tempo felice, accanto a Paolo, che ne accompagna col pianto le parole, quale funzione ha il personaggio Dante? E’ soltanto uno spettatore, un testimone non meno distaccato che indispensabile? O non piuttosto in lui per primo, essere vivente e umanissimo, si raccolgono e contrastano i punti di vista che la tragedia con tanta violenza propone ? Sono queste alcune delle domande cui la critica più recente ha cercato di rispondere. E’ stato rilevato, per esempio, a proposito della presenza o meno di una reale continuità di sviluppo dalla prima alla seconda parte del canto, che i versi dall’1 al 72 vanno considerati "come una introduzione non semplicemente <<scenografica>> e decorativa del grande episodio", ma come la graduale "messa a fuoco dell’acerbo dibattito (amore e perdizione, fragilità umana e pietà) che costituisce il tema principale di questa pagina di poesia" (Caretti). Il Poeta intona il grande tema della pietà come in un " crescendo", dalle martellate terzine della rappresentazione iniziale di Minosse, via via attraverso la descrizione della bufera (con le musicalissime riprese: e come li stornei.... e come i gru..., che preannunciano l’apparizione delle due anime affannate: quali colombe...) e la rassegna delle ombre dei lussuriosi, fino all’orchestrazione del dialogo con Francesca e alla catastrofe dell’ultimo verso. E, d’altra parte, smorza in eguale misura il tema della inesorabilità delle pene infernali, del loro atroce automatismo, per creare, intorno alle parole della donna, una atmosfera più mite, di raccolto dolore, di quasi fraterna sollecitudine.Per quello che riguarda infine la partecipazione del Poeta, in quanto personaggio, all’episodio, notiamo come l’elemento che, nella tragedia di Paolo e Francesca, ne acuisce la compassione fino a fargli perdere i sensi, non è tanto la cronaca di amore e di morte dei due adulteri, quanto, attraverso e oltre questa cronaca, il destino umano in tutta la vastità dei suoi significati, la nostra imperfezione (non la sola fragilità di Francesca, in quanto donna), l’imperscrutabile mistero del nostro rapporto con Dio, il dramma del bene e del male, della salvezza e della perdizione. La vicenda non è quindi, come appariva nella critica romantica, un fatto in primo luogo ed esclusivamente umano, ma suggerisce, nell’atto in cui rivive nella coscienza di Dante, un continuo, appassionato riferimento della dimensione dell’uomo a quella dell’Essere che lo trascende. " Tra i due infelici amanti e la giustizia divina c’è Dante; c’è l’esperienza di lui uomo preso entro la morsa del divino, macerato dalla stretta di una verità immutabile." (Marcazzan) L’episodio che ha reso immortale il quinto canto deve essere riportato alla sua problematicità originaria, visto nella pluralità di prospettive che gli derivano dal suo riflettersi nell’animo del personaggio-autore. Solo così quella irrisolta drammaticità, quella ricchezza sempre nuova di risonanze, quel contenuto di verità inesauribile, che sono il privilegio della vita non meno che della grande poesia, potranno avere, nella considerazione critica di questo capolavoro, il posto che loro compete.


           

 

INFERNO CANTO VI

             

 

Una pioggia nauseabonda, mista a grandine e neve, tormenta i dannati del terzo cerchio: i golosi. Un cane trifauce, Cerbero, li dilania senza tregua. Alla vista dei due poeti il mostro dà sfogo al suo furore, ma Virgilio non ha esitazioni: getta nelle fameliche gole una manciata di fango e la belva, tutta intenta a divorarlo, si placa. Dante, con il maestro, prosegue il suo cammino calpestando la sozza mistura di fango e ombre di peccatori, quando, all’improvviso, una di esse, levatasi a sedere, si rivolge a lui esclamando: <<Riconoscimi, se ne sei capace >>. Ma tanta è la sofferenza che ne deforma i lineamenti, da non consentire al Poeta di ravvisare in essi una fisionomia a lui nota. Allora il dannato rivela il suo nome, Ciacco, e profetizza, richiesto dal suo interlocutore, il prossimo trionfo in Firenze, covo di‘ ingiustizie e di odio, del partito dei Neri. Ad una precisa domanda del pellegrino Ciacco rivela che i grandi personaggi politici della Firenze del passato scontano i loro peccati nel buio dell’inferno. Terminato il suo dire, con un’espressione che non ha più nulla di umano, cade pesantemente a terra, in mezzo agli altri suoi compagni di pena. Virgilio, a questo punto, ricorda al suo discepolo che Ciacco, al pari degli altri dannati, riavrà il suo corpo nel giorno del Giudizio Universale e che, dopo la risurrezione della carne, le sofferenze dei reprobi aumenteranno d’intensità. Giunti nel punto ove è il passaggio dal terzo al quarto cerchio, i due viandanti s’imbattono nel demonio Pluto.

 


 

Introduzione critica

 

I canti quinto e sesto hanno uno svolgimento narrativo sostanzialmente identico. Esso, per comodità di esposizione, può articolarsi in quattro momenti: incontro col demonio posto a guardia del cerchio, descrizione del supplizio inflitto ai dannati (la bufera... che mai non resta e la piova etterna), drammatico colloquio con uno di essi (Francesca, Ciacco), cui fa seguito la reazione del personaggio Dante (nel quinto canto la perdita dei sensi alla vista del pianto di Paolo; nel sesto la domanda rivolta a Virgilio sull’intensità delle pene infernali dopo la risurrezione dei corpi). Ma le analogie non si fermano qui: almeno per i 24 versi iniziali del canto dei lussuriosi anche l’ordito ritmico appare identico a quello del sesto canto: ogni terzina è un mondo a sé; si sostituisce, più che subordinarsi, alla precedente; ne ripropone, al tempo stesso, forme, idee, inflessioni; ha, nella vis espressiva, la sua prima ragione di essere; rifiuta lo sfumato, non meno di quei nessi sintattici che altrove strutturano la robusta logica della Commedia e sono indici di una concezione che nel reale scorge, al di là del problema, la fermezza di un ordine precostituito ed eterno (con felice intuito è stato visto nel ritmo ternario del poema quasi un equivalente dell’argomentare sillogistico). Nel canto di Paolo e Francesca questo rigore finiva tuttavia con lo stemperarsi nella partecipazione affettiva di Dante, si colorava di pathos, di risonanze umanissime. Troviamo invece, lungo tutto l’arco del sesto canto, una tenace insistenza sul tema dell’inumano, del mostruoso, dell’assurdo. La vita, proiettata nell’al di là, sottratta al tempo che ne costituiva il lievito, ci si mostra dapprima come spaesata, aperta a significati inconsueti; appare, ad una considerazione immediata, irrazionale. Solo in un secondo tempo (nel Purgatorio e nel Paradiso: quest’ultimo è tutta una glorificazione dell’ordine del creato) questa irrazionalità si svelerà come una razionalità più alta, abbacinante nel suo fulgore, insostenibile per l’intelletto non visitato dalla Grazia. Ma nell’lnferno questa razionalità non appare ai nostri occhi ancora completamente dispiegata. Nella prima parte del canto dei golosi l’irrazionale, l’assurdo, si esprimono nella figura di Cerbero. Già in Caronte (colpiva in lui la rabbia immotivata, il suo mutismo nel trattare con le anime: per cenni come augel per suo richiamo), e più ancora in Minosse (nel ringhio bestiale, nell’atto di avvolgere la coda per significare la dannazione, nella sommarietà del giudizio: dicono e odono, e poi son giù volte), c’era stato un allontanamento dall’umano, una progressione nel senso della cecità spirituale. Ma queste figure serbavano, nell’atto di rivolgersi a Dante, una certa solennità di eloquio, si servivano di formule quasi rituali. La loro personalità derivava, proprio dal contrasto fra elementi ferini e umani, una compiuta armonia sul piano dell’arte. Cerbero è invece animalità allo stato puro, tanto più viva quanto più ottusa e demente (non avea membro che tenesse fermo). Lo accomunano ai due guardiani precedenti soltanto i tratti ferini. Notiamo, tra l’altro, la rispondenza e, al tempo stesso, il divario, tra i versi che definiscono Minosse e quelli che ci mostrano Cerbero nell’esercizio delle sue funzioni: per fare un esempio, al verso - dicono e odono, e poi son giù volte - fa riscontro, nella raffigurazione del cane trifauce, l’atto non più dell’inquisitore, ma del carnefice - graffia li spiriti, scuoia e disquatra. Analogamente, se ci volgiamo a considerare la descrizione delle pene inflitte rispettivamente ai lussuriosi ed ai golosi, quella dei lussuriosi ci si presenta come nobilitata dallo scenario fosco e drammatico. ingentilita da similitudini che la riconducono nell’ambito di una natura familiare. Nel sesto canto, invece, anche il paesaggio riflette il venir meno dello spirito, quel torpore dell’intelligenza che rende indimenticabile l’apparizione di Cerbero: sotto la pioggia eterna le anime non si distinguono neppure fisicamente le une dalle altre, rapprese come sono nel putrido fango che le macera. Dal canto suo, la figura del goloso che predice a Dante l’avvenire di Firenze, lungi dal contrastare col quadro in cui è inserita, denuncia, nel modo del suo apparire, nella secchezza del suo discorso, nel suo spaventoso ricadere a par delli altri ciechi, la stessa opprimente tristezza che ha lo spettacolo della pioggia, lo stesso desolato automatismo che presiede al manifestarsi del furore di Cerbero. Il Momigliano ha indicato, nelle parole con cui Ciacco ricorda il mondo dei vivi, accanto alla malinconia, il malumore, una condizione dell’animo che appare dunque al limite fra il riflesso fisiologico e il sentimento cosciente. Ma le riserve da lui avanzate a proposito della "parentesi politica", che inserisce come una nota stridente "in questa personalità patetica sbozzata con una sensibilità viva e sicura", per cui il personaggio di Ciacco non risulterebbe bene scelto in rapporto alla profezia che il Poeta gli fa pronunciare (perché, tra l’altro, "non dimostra nessun interesse personale alla politica e ne parla solo per far piacere a Dante"), gli impediscono di vedere come questo disinteresse sta invece una manifestazione del suo << io >> più profondo, e rifletta l’atmosfera del canto nel suo complesso. Diversamente da quel che accade per le figure di primo piano dell’Inferno, l’espressione che sembra caratterizzare con maggior compiutezza quella di Ciacco si riferisce ad un atto che non ha più nulla di umano: l’atto in cui egli "stravolge gli occhi, rimane un momento immobile, china la testa, poi ricade sul suolo lastricato di ombre: come se morisse un’altra volta" (Momigliano). Ma le parole con cui Virgilio commenta l’uscita di scena del personaggio ne collocano la figura sotto il crisma di una validità eterna, nella luce di una Potenza avvertita come supremamente giusta.


           

Divina commedia inferno riassunto

 

INFERNO CANTO VII

             

 

Con voce stridula e il volto gonfio d’ira, il guardiano del quarto cerchio, dove avari e prodighi scontano la loro pena eterna, grida parole incomprensibili all’indirizzo dei due poeti. Ma non appena Virgilio gli ricorda che il loro viaggio si compie per volontà di Dio, il suo furore svanisce; il mostro, come privato delle sue force, si accascia al suolo. Essi possono così discendere nel quarto ripiano, dove due fitte schiere di dannati spingono, in direzioni contrarie, grandi pesi. Due sono i punti del cerchio, diametralmente opposti, in cui le schiere si scontrano, rinfacciandosi a vicenda i peccati che le accomunano nel tormento disumano. Poi ciascun dannato si volge indietro e riprende a rotolare il proprio macigno fino all’altro punto d’incontro. La giostra beffarda è destinata a ripetersi in eterno. Questi peccatori sono irriconoscibili: la mancanza di discernimento che li spinse ad accumulare o sperperare il denaro, li confonde ora tutti in una massa indifferenziata ed anonima. "Nessuno dei beni che sono affidati al governo della Fortuna ricorda Virgilio - potrebbe dar loro pace nemmeno per un attimo. "Dante coglie, da questa affermazione del maestro, l’occasione per interrogarlo sulla natura della Fortuna. Essa non è - spiega il poeta latino - una potenza capricciosa e cieca che distribuisce i suoi favori a caso, ma una esecutrice dei disegni di Dio, poiché da Dio è voluto che i beni si trasferiscano, con alterna vicenda, da una famiglia all’altra, da un popolo all’altro. Stesso proprio quelli che dovrebbero ringraziarla la coprono di insulti. Ma essa, intelligenza celeste, assolve il suo compito imperturbabile e serena.

 


 

Introduzione critica

 

Il De Sanctis aveva diviso i canti dell’Inferno in due categorie: quella dei canti in cui l’attenzione di chi legge si accentra tutta intorno ad una figura dominante -rispetto alla quale tutte le altre, non meno degli elementi paesistici o morali, appaiono in posizione subordinata e quella dei canti in cui sull’accento drammatico prevale quello descrittivo, e in cui troviamo "gruppi, non individui". "Voi dite prima: il canto di Francesca, di Farinata, di ser Brunetto Latini; qui dite: il canto dei falsari, dei ladri, dei truffatori." Se accettiamo questa partizione, che nel De Sanctis è legittimata dall’impostazione romantica della sua critica, anche il canto settimo dell’Inferno dovrebbe rientrare nella categoria dei canti anonimi e <descrittivi>, canti la cui" funzione sarebbe più << strutturale >> che poetica. In effetti riesce difficile, leggendo Dante, proprio perché Dante ha saputo dar vita a personaggi così complessi e drammatici da trovare pochi riscontri nella letteratura mondiale, liberarsi di quello che potremmo chiamare il << pregiudizio del personaggio li. Eppure la poesia della Commedia è assai più varia e ricca di toni di quanto le formulazioni fin qui avanzate in sede di giudizio estetico, anche se amplissime, consentano di intravedere. Dopo il 1920, anno di pubblicazione del saggio di Benedetto Croce sull’opera di Dante, la critica non ha fatto che recuperare, sotto il segno della poesia, vaste zone del poema considerate fino allora meritevoli di attenzione solo sul piano della cultura, né può dirsi sia giunta ad un punto tale da far considerare ormai di scarso interesse le ricerche in questo senso. La bibliografia critica del settimo canto dell’Inferno è un esempio di quanto certe posizioni desanctisiane siano implicitamente operanti anche in autori altrimenti lontani dal clima in cui l’opera del De Sanctis è maturata. "Canto senza figure, senza vivi elementi di dramma... canto (si noti) intermesso, non solo con buona ragione morale, ma con grande convenienza artistica, per effetto di contrasto, fra i due, che ci ritraggono, meravigliosamente scolpiti, i fiorentini Ciacco e Filippo Argenti. " Così si esprimeva il Bacci, in una sua <lettura> del canto agli inizi del secolo. Né diverso parere manifestava il Torraca: "Al canto... manca la principale attrattiva di tanti altri... un’ombra, un personaggio, che narri la sua storia tragica o predica al Poeta il futuro, o in altro modo attiri la nostra attenzione, c’ispiri compassione o ribrezzo ".Altro motivo su cui la critica ha variamente insistito, è stato, come rileva il Marti, quello della "frattura, che qui per la prima volta si verifica, tra il chiudersi di una parabola narrativa e il concludersi dell’unità ritmico-poetica del canto". In altre parole: mentre fin qui ad ogni canto corrispondeva la descrizione di un cerchio e quindi una sola tonalità predominante, nel settimo questa unità di argomento e di atmosfera sembra venir meno. Di qui la preoccupazione, in alcuni critici, di trovare il legame segreto che unisce l’episodio degli avari e prodighi alla descrizione della pena degli iracondi, attraverso la digressione sulla Fortuna. Così, ad esempio, il (letto ha voluto vedere in tutto il canto un distacco dell’autore dalle scene cui assiste, "un puro guardare oggettivo", "un essenziale ritrarre, senza volontà di commento", un "gusto grafico preciso, puntualmente descrittivo, di linea ben calcolata". Effettivamente mancano, almeno nell’episodio degli avari e prodighi e nel commento di Virgilio ad esso, quei chiaroscuri che, nei primi canti dell’Inferno, denunciano una partecipazione sentimentale dell’autore alle vicende dei dannati. Manca l’angoscia che vibra in tutto il colloquio con Francesca, mancano perfino espressioni di sdegno come quelle, divenute proverbiali, che la vista degli ignavi suggerisce al sentimento morale del Poeta. Insistere però sulla formula del "puro guardare oggettivo" e sui modi in cui questo guardare si viene di volta in volta concretando, può, tuttavia, fuorviare dall’esatto intendimento dei motivi ispiratori del canto. Dante non è mai in primo luogo un << visivo>>. La straordinaria concretezza che acquistano nella Divina Commedia anche gli spettacoli più allucinanti e irreali, non nasce da un contemplare fine a se stesso, ma da un impegno morale che spoglia le cose dei loro attributi esteriori, per penetrarne il significato ultimo, per darne un giudizio definitivo. Equivale a precludersi la comprensione del suo senso più profondo il voler parlare, a proposito della poesia di Dante, di valori quali pittoricità, spazialità, visività, frontalità dell’immagine, come ha fatto, con risultati del resto apprezzabili, un altro attento studioso della Commedia, il Malagoli, senza cogliere il fuoco nascosto che in questa immagine si esprime, la religione dei valori morali che ad essa conferisce una compattezza mai eguagliata nella letteratura mondiale. Per tornare al settimo canto dell’Inferno, anzitutto il "puro guardare oggettivo", che sembra caratterizzarlo, almeno fino al momento in cui i due viandanti scendono nel cerchio degli iracondi (qui, come ha rilevato il Momigliano, l’atmosfera cambia, s’impregna di spleen, di umor nero), nasce da una posizione di condanna senza attenuanti per coloro che hanno fatto del denaro la loro unica ragione di essere. In secondo luogo, tutta la scena iniziale, dall’incontro con Pluto alla digressione sulla Fortuna, è, come ha rilevato il Marti, il risultato di "un’arte ispirata più da sprezzo polemico che da un gusto realistico obiettivamente distaccato" La rima difficile non meno che la metafora esasperata e grottesca deformano violentemente una realtà che, proprio per questo amaro intervento dell’autore, inteso a trasferirla interamente sul terreno dell’exemplum, del significato etico e religioso, non può essere considerata soltanto oggettiva.


           

 

INFERNO CANTO VIII

             

 

Già prima di arrivare ai piedi della torre, i due poeti vedono accendersi sulla sua sommità due segnali luminosi, ai quali, da molto lontano, appena percettibile, risponde un terzo. Ed ecco avvicinarsi sulla sua antica barca, veloce al par di saetta, il custode della palude stigia, l’iroso Flegiàs, il quale, rivolto a Dante, grida: "Ti ho finalmente in mio potere, anima malvagia!" Virgilio delude questa speranza del nocchiero infernale: egli e il suo discepolo non sono venuti per rimanere nel cerchio degli iracondi, ma solo per attraversarlo. Mentre, sulla navicella di Flegiàs, i due solcano le acque melmose, ecco farsi avanti uno dei dannati della palude, il fiorentino Filippo Argenti, che apostrofa sarcasticamente il suo concittadino. Dante replica con espressioni di duro scherno, suscitando l’ammirazione di Virgilio che si compiace della nobile ira del discepolo. Ma questi non è ancora contento: vuole vedere il suo borioso antagonista immerso nel fango. Attraversato lo Stige, i due pellegrini sbarcano ai piedi delle mura di ferro rovente che cingono la città di Dite. Qui, più di mille seguaci di Lucifero si oppongono minacciosi all’ingresso di colui che, ancora in vita, impunemente è entrato nel regno dei morti. Il poeta latino esorta Dante a non perdersi d’animo e si reca a parlamentare con i diavoli. Ma poco dopo ritorna con i segni della sfiducia sul volto: la sua missione non è riuscita. Solo qualcuno più forte di lui potrà aprire la porta che immette nei cerchi formanti il basso inferno.

 


 

Introduzione critica

 

Dante scrittore drammatico: lo scontro frontale, da uomo a uomo, non è mai avvenuto nei primi sette canti. La drammaticità è già apparsa nel linguaggio, nei paesaggi sconvolti e tempestosi, negli atteggiamenti monumentali o in movimento dei grandi mostri, dalle tre fiere a Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, ma era una drammaticità subito bloccata: e nella nostra memoria sono rimasti enormi gesti fissati per l’eternità, gonfi della stessa eternità del male. Gli incontri di Dante con i dannati (Francesca, Ciacco) hanno avuto finora un carattere colloquiale, e il dramma è rimasto all’interno di ciascuno, solo specchiandosi nel pellegrino che - viva presenza dell’umano, del tempo - porta nella cupa immutabilità di un male atemporale l’eccezione di un rinnovellato dolore umano. Ma nel canto ottavo Dante trova per la prima volta nel dannato (Filippo Argenti) un antagonista, e nasce lo scontro violento, un duello di parole che rischierebbe, se non ci fosse l’intervento della ragione (Virgilio), di trascendere a vie di fatto. Qui la drammaticità si dilata, investe tutti gli elementi della composizione, con precisa coerenza: il linguaggio si fa più teso, pronto alle spezzature, vibrante; il paesaggio, la scena sono percorsi da misteriose, appena avvertibili presenze. Sul ribollire iroso e a un tempo pigro (il torpore morale, l’accidiosa tristezza dell’iracondia) della palude dello Stige, sulla distesa buia a perdita d’occhio dove i dannati, per la prima volta in silenzio (l’ira è senza voce al suo parossismo), si sbranano gli uni con gli altri in un’orrida mischia nel fango, ha luogo, da posizioni elevate, da torri isolate di guardia, una segnaletica militare che prelude al combattimento. Fiamme che s’accendono, e da lontano qualcuno risponde. E subito, da grevi sipari di fumo, rapidissimo sbuca lo scafo piccolo e leggiero di Flegiàs, colui che per irosa vendetta contro Apollo ne aveva incendiato il tempio a Delfi, distruggendo in sé il rispetto per la divinità e causando così la propria rovina. Allo scontro fra i simboli, fra Virgilio, ragione testimone della Grazia e portatrice della parola d’ordine di Dio, e i demoni, figurazioni disumane del peccato, si affianca lo scontro fra gli uomini, Dante e i peccatori, da questi simboli guidati o fuorviati. Qui l’apparizione del dannato ha qualcosa di pauroso e di repulsivo (l’Argenti è tutto grondante di fango), ma, pur nella sua pesantezza, presenta una cupa aggressività (dinanzi mi si fece). E il battibecco divampa, concentrato, per la potenza ellittica dell’arte di Dante, in poche battute cariche di tutte le sfumature di una violenta rissa verbale: l’incalzare dei monosillabi, l’ "incipit" arrogante, la risposta che scatta crudele e secca, il dileggio spietato, la maledizione, lo smascheramento cattivo. Risse verbali, battibecchi, contrasti: variati nei toni e nelle situazioni riempiono la Commedia, e sono segno dello spirito violento di Dante e della sua epoca. Rissa verbale di strada o di palazzo, contrasto ad alto livello fra magnanimi rivali politici o smargiassata triviale di béceri portano la vita nell’al di là, o meglio annullano di colpo l’inferno, sostituendo al nero e ai fuochi dell’oltretomba le vie di Firenze. L’ira di Dante per l’Argenti, che è stata ritenuta eccessiva, non sufficientemente motivata, fino a dare l’impressione di una non completa riuscita sul piano estetico, è invece l’ira vendicativa - dove vendetta non è, come nota il Tommaseo, odio, ma rivendicazione secondo giustizia - contro l’insulto che fa, alla ragione e alla misura dell’uomo, la pervicacia nella vuota, stolida, volgare arroganza, nella superbia senza motivo e gonfia di sé, che non ha, né può avere, un solo momento di ripensamento, di meditazione, di umana ragionevolezza. Dante si adira proprio di fronte ai pericoli morali nei quali l’ira può far incorrere; né dobbiamo dimenticare che l’oltretomba dantesco vuol essere anzitutto la traduzione oggettiva, in simboli, personaggi, situazioni, di una problematica morale vissuta, quasi un immenso involucro speculare in cui il poeta, l’uomo, veda ovunque riflesse le immagini ingigantite dei propri difetti e delle proprie virtù. Alla motivazione morale si aggiunge, a rendere più aspro lo scontro, quella personale e storico-politica. Filippo appartiene ad una famiglia a Dante nemica, ed egli la bollerà, dall’alto del paradiso, per bocca del nobile suo avo Cacciaguida, come oltracotata schiatta, feroce coi deboli, vile coi forti e coi ricchi, sorta di ceppo mediocre (picciola gente). Ma nella Commedia il fatto individuale tende sempre a chiarirsi in un giudizio e qui, fra l’altro, si legittima nell’osservazione solo in apparenza pleonastica ed esornativa: quanti si tengon or là su gran regi ... Dante gode dello strazio che i compagni di pena fanno dell’Argenti; in esso egli può vedere un esempio della sorte riservata dalla giustizia divina ai superbi. Dietro l’Argenti si schiera così tutto un gruppo, una categoria umana, e da ciò la figura del dannato acquista una dimensione significante che la riscatta da ogni sospetto di diminuzione individualistica e aneddotica. Nella seconda parte del canto la drammaticità si continua nel paesaggio, con la città di ferro incandescente e le torri diaboliche, somiglianti ai minareti degli infedeli. Davanti alla fortezza del male, agli stormi delle sue fulminee, innumerabili sentinelle precipitate dall’alto, alla malizia che qui, in Dite, rende più complesse, intricate e perverse le passioni che vi sono punite, si ripropongono, come nei primi canti, ma con maggiore maturità artistica, il dubbio, la perplessità del pellegrino. Neppure la ragione (Virgilio) ha potere contro il peccato di malizia: il canto si chiude su una nota di religiosa aspettazione.


INFERNO CANTO IX

             

 

Dopo essere tornato presso Dante, Virgilio riacquista la propria serenità e incoraggia il suo discepolo ricordandogli di essere già disceso una volta fino al fondo dell’inferno. All’improvviso, sull’alto delle mura fortificate di Dite compaiono le tre Furie, mostri con sembianze di donna e chiome formate da un intrico di serpenti. Esse manifestano la loro ira per la presenza dei due poeti, dilaniandosi con le unghie, percuotendosi e gridando in maniera terrificante. Ma da sole sono impotenti a punire il vivo che ha osato violare la dimora della morte; per questo invocano a gran voce Medusa, la Gorgone che ha il potere di trasformare in pietra chiunque la guardi. Virgilio invita il suo discepolo a volgere le spalle, ed egli stesso gli copre gli occhi con le mani. Ma da lontano si preannuncia ormai l’arrivo del messo celeste. Lo precede un fragore d’uragano, mentre davanti a lui, che avanza sereno sulla palude stigia senza nemmeno bagnarsi le piante dei piedi, i dannati, in numero sterminato, si danno alla fuga. Virgilio esorta Dante ad inginocchiarsi, ma l’angelo non degna i due pellegrini di uno sguardo: altre preoccupazioni sembrano dominare il suo animo. Giunto davanti alla porta della città di Dite, la tocca con un piccolo scettro ed essa si apre senza difficoltà. Prima di ripercorrere il cammino per il quale è venuto, il messo rimprovera i diavoli per l’opposizione ai voleri dell’Onnipotente e ricorda la sorte toccata a Cerbero per aver voluto opporsi ad Ercole che era disceso negli Interi. Allontanatosi l’angelo, i due viandanti penetrano nell’interno della città: davanti a loro si apre una grande pianura cosparsa di tombe, che richiama alla memoria di Dante le necropoli romane di Arles e di Pola. Ma qui i sepolcri, tutti aperti, sono arroventati dalle fiamme. In essi si trovano le anime degli eretici. I due poeti si incamminano lungo un sentiero che corre tra le mura e le tombe infuocate.

 

Divina commedia inferno riassunto


 

Introduzione critica

 

I canti ottavo e nono ripropongono le perplessità, i dubbi, i terrori dell’anima di fronte al peccato, una situazione analoga, cioè, a quella in cui Dante si è trovato alla uscita dalla selva. Anche qui tema dominante è quello della umana insufficienza; ma, mentre nei due canti iniziali l’aiuto divino si era concretato in un uomo, Virgilio, poeta e saggio, espressione al tempo stesso di un modello insuperato di civiltà (l’impero romano) e della ragione eterna, pura di specificazioni storiche, qui l’intervento sovrannaturale è assai più diretto e miracoloso: nella persona dell’angelo è infatti sensibilmente prefigurata la Grazia. Ora infatti che l’inferno "alto" , luogo di pena per coloro che peccarono passionalmente, quasi per una sovrabbondanza della forza vitale, ha finito di dare al peregrinante i suoi insegnamenti, ora che alla vista del Poeta appare la fortezza che racchiude il male più grave, l’umanissimo Virgilio, dolce padre, amico e maestro premuroso, guida fin qui sicura, rivela egli stesso la propria imperfezione, i limiti da Dio assegnati all’uomo. Il Vossler ha opportunamente diviso il grande dramma religioso che si svolge dalla metà del canto ottavo fin quasi al termine del nono in quattro atti. Primo atto: l’anima, in quanto non definitivamente acquisita al male, è respinta dai diavoli (Dante è ancora in vita, ha la possibilità di redimersi, non è morto al richiamo della Grazia). Secondo atto: la ragione (Virgilio) tenta di indurre la malizia a riconoscersi sconfitta; ma questa, avvertito il pericolo, fugge. Terzo atto: il male, al fine di prevalere su colui che vuole smascherarlo, evoca le sue forze più pericolose: non le seduzioni esterne alle quali la ragione saprebbe resistere, bensì le angosce interne, i rimorsi (le Furie). L’anima, se assistita dalla ragione, non ha motivo di temerle (Virgilio invita Dante a guardare le Furie e gliele nomina). Essa deve però respingere quella che del male è la tentazione più nefasta, la disperazione (Medusa). Quarto atto: a sconfiggere il male deve intervenire - dopo che l’anima e la ragione si sono impegnate ed hanno compiuto i loro tentativi di resistenza - la grazia divina (il messo celeste). Il nono è fra i canti più ricchi di riferimenti a simboli, leggende e figurazioni della mitologia pagana. Il De Sanctis ha detto che Dante se ne serve come di "materiale di costruzione", nello stesso modo in cui i cristiani del Medioevo si servivano di colonne e ruderi romani per le loro chiese. Ma questa affermazione va in parte corretta: non si tratta di semplice "materiale". Sia pure strappati dal loro contesto storico, gli elementi della cultura pagana conservano nella Commedia qualcosa dei loro antichi significati. In tutto il poema è, infatti, continuamente ribadita la continuità etica e culturale fra mondo precristiano e mondo cristiano, non diversamente da come in San Tommaso e in Sant’Alberto Magno una medesima linea di pensiero congiunge, gerarchicamente graduandole, natura e rivelazione, filosofia greca e Sacra Scrittura, vita morale e santità. Questa fortissima esigenza unitaria, per la quale nessun aspetto del reale viene respinto (la gloria di Dio risplende, per quanto in una parte più e meno altrove, ovunque nell’universo, come è detto nella terzina di apertura del Paradiso), spiega come, per Dante, anche negli dei falsi e bugiardi, assunti in funzione simbolica, brilli qualche idea del divino.La riabilitazione del mondo classico sarà compiuta esplicitamente, senza giustificazioni religiose, dagli umanisti del Quattrocento, ma qualcosa del loro sentire si è voluto scorgere anche in Dante e si è parlato (Sapegno) della "fiducia ingenuamente preumanistica dello scrittore nella validità poetica, e quindi anche simbolica e immediatamente persuasiva, della cultura letteraria consegnata ai grandi poemi classici". Ma il richiamo alle favole mitologiche nella Commedia ha una funzione opposta a quella che svolgerà nella cultura umanistica: la mitologia non viene infatti accolta nell’universo poetico di Dante in quanto elemento evasivo, di fuga dal reale, di nobile distacco dalla condizione del dolore, ma dal Poeta è volta a confermare, oltre ogni differenza di linguaggio e cultura, una verità che non ammette né restrizioni né deroghe né accomodamenti: quella dell’impegno totale e responsabile dell’uomo nel mondo. Tuttavia, se la grande rappresentazione drammatica davanti alla porta di Dite riflette indubbiamente una concezione allegorica, essa la traduce poi in scenografia ed azione. Come le due distese orizzontali, la nera maremma del fango e la fiammeggiante necropoli dell’eresia, ingigantiscono la verticalità delle mura - enormi nel desolato riverbero, quasi di ferro appena uscito dal fuoco - della città del male (un dato reale, un paesaggio medievale urbano, vallo, torri, porte, sentinelle, su cui l’anima fa incombere l’ombra del giudizio di Dio), così due zone di silenzio (i dannati, le loro pene, le loro espressioni di dolore sono passati in secondo piano; l’attenzione del Poeta si volge tutta al "mistero" che ha luogo davanti ai suoi occhi e ha per oggetto il suo stesso destino) isolano nella sua unicità esemplare la scena del decisivo confronto tra le forze del male e il ministro del volere di Dio. L’arrivo del messo si preannuncia sul piano dell’analogia fin dagli inizi del canto ottavo, allorché fuochi nella notte, improvvisi segnali di guerra, introducono una nuova dimensione, allucinata e febbrile, nel poema. Ma, nella sua compostezza plastica e morale, l’angelo mostra di sdegnare le umane trepidazioni. Mentre infatti le forze del bene si misurano con quelle del male in un clima di epopea e intorno all’anima umana si affrontano come eroi dei poemi dell’antichità, Dante nei suoi dialoghi con Virgilio, pieni di reticenze, di curiosità impacciata, dà voce all’umana viltà, nota ai confini del comico, sempre presente, anche nel cuore della tragedia, nella complessità della vita.


INFERNO CANTO X

             

 

Entrati nella città di Dite, i due poeti si avviano per un sentiero che corre fra le mura e quella parte della necropoli degli eretici ove sono puniti gli epicurei, negatori dell’immortalità dell’anima. Improvvisamente, da uno degli avelli infuocati, una voce prega Dante di fermarsi: è quella del capo ghibellino Farinata degli Uberti che, dal suo modo di parlare, ha riconosciuto nel Poeta un compatriota. Dante si avvicina al sepolcro nel quale Farinata sta in piedi, visibile dalla cintola in su. Tutti i pensieri di questo dannato sono rivolti al mondo dei vivi, a Firenze, al suo partito: egli vuole anzitutto sapere se Dante appartiene a una famiglia guelfa o ghibellina. Non appena il Poeta gli rivela il nome dei suoi avi, si vanta di averli per ben due volte debellati. Dante ribatte che essi non furono vinti, ma solo mandati in esilio e che dall’esilio seppero tornare sia la prima sia la seconda volta, laddove gli Uberti furono banditi per sempre dalla città. A questo punto il dialogo è interrotto dall’angosciosa domanda che un altro eretico, egli pure fiorentino, Cavalcante dei Cavalcanti, rivolge a Dante: " Se la tua intelligenza ti ha valso il privilegio di visitare, vivo, il regno dei morti, perché mio figlio Guido non è con te?" Il Poeta indugia nel rispondere e Cavalcante, credendo che il figlio sia morto, ricade, senza una parola, nel suo sepolcro. Riprende a parlare Farinata, che vuole sapere il motivo di tanto accanimento contro la sua famiglia. Dante gli fa il nome di un fiume - l’Arbia - le cui acque furono arrossate dal sangue dei Fiorentini che nel 1260 morirono combattendo contro i fuorusciti ghibellini comandati appunto da lui, Farinata degli Uberti: e questi ricorda allora, a suo merito, come fu lui solo, dopo quella sanguinosa giornata, ad opporsi a viso aperto al progetto, avanzato dagli altri ghibellini, di radere al suolo la vinta Firenze. L’episodio si conclude con la spiegazione che Farinata fornisce a Dante sulla conoscenza che i dannati hanno del corso degli eventi terreni. I due pellegrini riprendono quindi il loro cammino dirigendosi verso la zona centrale del cerchio.

 


 

Introduzione critica

 

Come il quinto, anche il canto decimo dell’Inferno è tra i più celebri della Divina Commedia. Per ricchezza di svolgimenti drammatici, per il rilievo che vi assume il personaggio di Farinata degli Uberti, esso non poteva non imporsi all’attenzione di critici e lettori. Farinata è un personaggio di così viva e appassionata umanità da eludere ogni schema critico. Due righe dell’opera dedicata alla Divina Commedia dal Vossler illuminano con particolare acume la tragedia di questo magnanimo antagonista di Dante: "Come a Francesca il suo amore, a Farinata è dolce tormento e aspra felicità la coscienza di sé". Ma la maggior parte dei critici ha veduto in lui, sotto la suggestione della presentazione statuaria che ne fa Dante sia all’inizio dell’episodio (dalla cintola in su tutto ‘l vedrai.... ed el s’ergea col petto e con la fronte com’avesse l’inferno in gran dispitto), sia dopo il patetico intermezzo di Cavalcante (non mutò aspetto, né mosse collo, né piegò sua costa), nient’altro che`l’espressione di un orgoglio disumano, di una forza d’animo tanto più conseguente quanto meno sensibile ai valori positivi, di purificazione e riscatto, attribuiti dal Cristianesimo alla sofferenza. Il disprezzo, la sublime impassibilità: questi i tratti più salienti che, nella tradizione critica di quasi un secolo, caratterizzano il grande eretico del canto decimo.Egli è, da questo punto di vista, anzitutto il condottiero, il capoparte indomito e fazioso: esula completamente, dal suo modo di concepire le cose, l’idea che possano esistere valori più alti di quelli che nella lotta senza quartiere trovano la loro espressione più coerente e brutale. Non per nulla il De Sanctis nel suo saggio su Farinata inizia con un esplicito riferimento a Napoleone: "... perché Kléber imponeva con la statura, Napoleone comandava con l’occhio, e l’uno parlava a’ sensi, l’altro ammaliava l’immaginazione ".Perfino il Croce, che ha sempre esercitato, nei confronti del più acceso ed eloquente pensiero romantico, una funzione moderatrice e di controllo, imposta in maniera sostanzialmente romantica la sua interpretazione dell’episodio di Farinata. Per lui il vincitore di Montaperti è anzitutto "il magnanimo. che, vero eroe da epopea, è tutto e soltanto il guerriero, il combattente... Ogni altro affetto gli è estraneo: ai mali del presente si fa superiore... degli amori e dolori umani non cura..." In realtà una siffatta definizione appare insufficiente, quando si voglia cogliere, in questo episodio, quella interiore problematicità, presente in tutti i personaggi della Commedia, che costituisce il vitale fermento di ogni concezione tragica. Solo se riusciamo a scorgere, oltre l’apparenza statuaria, il dibattito di Farinata con se stesso, la contraddizione che lo travaglia (fedeltà al partito, amore di patria), possiamo inoltre intendere come - più che altro apparente sia il contrasto fra il Dante pieno di rispetto per questo suo concittadino e il Dante che lo colloca fra i dannati. A questo proposito occorre esaminare un altro giudizio del De Sanctis: "il tipo di Farinata è ancora troppo semplice per l’uomo moderno. C’è lì dentro una stoffa ancora epica dell’uomo, non ancora drammatica. Manca l’eloquenza, manca la vita interna dell’anima". Dove il De Sanctis parla dei personaggi di primo piano della Commedia, il riferimento a Shakespeare o al dramma romantico è sempre implicito. In realtà i personaggi danteschi sono assai più complessi di quanto a volte lasci supporre la rigidità stilizzata di certi loro atteggiamenti. Così, nell’episodio di Farinata, una semplice sospensione dubitativa, nel verso alla qual forse fui troppo molesto, contiene già tutto un giudizio che l’eroe dà di se stesso. Questo giudizio non ha nulla di schematico, proprio perché vissuto e sofferto nell’atto stesso in cui si formula, ma è presente nella coscienza di Farinata come una insopprimibile realtà e vanifica dall’interno tutta la sua monumentale autosufficienza. " Dante sente fortissimo il fascino - come felicemente scrive il Montanari - del combattente impegnato totalmente nella lotta" e celebra in Farinata "l’uomo che si dà completamente a un’idea con totale devozione", ma occorre non dimenticare che, nell’universo morale della Commedia, la disinteressata espressione della propria soggettività non basta a riscattare le azioni di un uomo. La "coerenza con se stessi", inappellabile istanza dello stoicismo disincantato, supremo rifugio di ogni relativismo romantico, non può essere, per un cristiano, un criterio accettabile in sede di valutazione etica. Questo è il motivo per il quale Dante, pur esaltandone la figura, non solo colloca Farinata fra i reprobi, ma induce questo orgoglioso a manifestare il proprio dubbio sulla validità delle scelte da lui operate in terra. Un antico commentatore della Commedia dava di Farinata questo ritratto: "Seguace di Epicuro, non credeva ci fosse altro mondo all’infuori di questo; perciò si sforzava in ogni modo di primeggiare in questa vita breve, non sperando in un’altra migliore". Ebbene, proprio nell’aver egli rifiutato di subordinare le ragioni del contingente a quelle dell’eterno, concependo la lotta politica come fine a sé, senza legarla a quelle norme, che - come Dante stesso ha inteso mostrare nella Monarchia - la redimono in una teleologia religiosa, sta il senso più profondo della sua ribellione a Dio. In lui il Poeta ha veduto, al di là dell’eroe, il colpevole, colui che nella lotta fra il bene e il male ha definitivamente perduto, colui che, dopo essersi appartato in un altero isolamento, sommessamente proclama la propria imperfezione (noi veggiam, come quei c’ha mala luce) e indirettamente afferma, attraverso l’esempio del proprio dolore, la gloria di Chi solo ha in sé le fondamenta del proprio essere e nel quale mondo e umana coscienza del mondo trovano il loro compimento.


           

INFERNO CANTO XI

             

 

Sul margine interno del sesto cerchio, al riparo della tomba infuocata di un seguace dell’eresia monofisita (Anastasio II), i due viandanti sono costretti, a causa dell’orribile odore che si sprigiona dal baratro aperto al loro piedi, ad una sosta forzata. Virgilio ne approfitta per spiegare al suo discepolo l’ordinamento dei tre cerchi infernali che deve ancora visitare.

Nel settimo cerchio sono puniti i peccatori per violenza contro il prossimo, contro se stessi e contro Dio, nell’ottavo e nel nono quelli che si sono serviti della frode propriamente detta (contro chi non si fida) e del tradimento (frode contro chi si fida) per raggiungere i loro fini. Poiché Dante desidera sapere il motivo per cui i dannati dei primi cinque cerchI sono fuori delle mura di Dite, Virgilio gli ricorda la partizione aristotelica del male in tre categorie (incontinenza, malizia e matta bestialità): nell’alto inferno si trovano appunto gli incontinenti, coloro cioè che non seppero serbare la misura in azioni

di per sé non riprovevoli, mentre all’interno della città di Dite si trovano coloro il cui peccato ha avuto per fine la deliberata violazione di una legge.

Dante si dichiara soddisfatto della spiegazione del maestro, ma lo prega di chiarirgli perché il peccato d’usura offende, ancor prima che il prossimo, Dio e l’ordine da Dio Imposto alle cose del mondo. Virgilio gli richiama alla memoria il passo della Fisica di Aristotile, ove il lavoro umano è definito una imitazione della natura e quello della Genesi, in cui Dio impone all’uomo di lavorare. Poi lo esorta a riprendere il cammino verso il dirupo per il quale si scende dal sesto al settimo cerchio.

 


 

Introduzione critica

 

L’interesse di questo canto è prevalentemente dottrinale: infatti, attraverso le parole di Virgilio, Dante ci descrive l’ordinamento dell’inferno e chiarisce alcuni punti ad esso relativi, come quello della differenza fra peccati d’incontinenza e peccati di malizia o quello riguardante l’essenza dell’usura, alla luce del pensiero di Aristotile e della Bibbia. E’ singolare - ma il contrasto insito nella situazione non rivive in una prospettiva fantastica; rimane un contrasto che potremmo definire soltanto strutturale - che la spiegazione dei criteri della giustizia divina abbia luogo, ad opera di un pagano, Virgilio, al riparo dell’avello destinato a punire l’eresia di un pontefice. Questa singolarità ha una sua motivazione profonda, per quanto si tratti, appunto, di una motivazione inerente più al mondo degli interessi filosofici di Dante che a quello dei suoi affetti. Il tema del peccato di papa Anastasio, vigoroso nella sua sommarietà, è appena accennato.

 

Come già nel canto terzo la porta dell’inferno, anche qui un oggetto inanimato parla in prima persona. L’inversione sintattica - Anastasio papa guardo - col verbo spostato, in posizione di energico rilievo, alla fine dell’endecasillabo, colora di grottesco la vicenda di questo pastore della cristianità che - stando alla leggenda accolta dal Poeta - si rifiutò di credere nella natura divina, oltre che umana, del Redentore.

 

Più profondi accenti avrà la polemica contro i vicari corrotti di Cristo in altri canti del poema e ad esempio, nell’ambito della prima cantica, nella bolgia dei simoniaci o in quella dei consiglieri fraudolenti. Ma l’interesse del canto, e del suo esordio in particolare (la contrapposizione della ragione naturale, esclusa dalla Grazia: Virgilio, a chi dalla Grazia si è deliberatamente allontanato: Anastasio), sta nel fatto che la spiegazione, affidata al poeta latino, dell’ordine morale e topografico dell’inferno si fonda quasi esclusivamente su argomenti razionali, accessibili quindi anche a chi sia ignaro della Rivelazione. La divina giustizia - questo è il convincimento del Poeta - punisce servendosi di un metro che è quello della ragione naturale; la sola ragione basta quindi, se non ad indicarci la via della salvezza (il peccato originale è per essa mistero insondabile), a non farci cadere in quelle colpe che hanno la loro origine nell’umano discernimento e che sono punite nei cerchi infernali successivi al limbo. Se è vero che il pensiero più maturo di Dante rappresenta un superamento della posizione enunciata nel Convivio (esaltazione della ragione come suprema facoltà umana; riduzione del sapere al sapere razionale, alla filosofia), per esso la ragione naturale predispone alla Grazia, la parola di Aristotile spiana il cammino al messaggio dei Vangeli. Nulla è infatti più errato che voler introdurre, con mentalità antistorica, una qualsiasi scissione, nell’universo della Commedia, fra l’umano e il divino, poiché per Dante, ove non si allontani volontariamente dal fine per il quale è stato creato, l’uomo non può che confermare il senso dell’operato di Dio, così come Dio è il garante assoluto della validità dei significati che l’uomo ritrova nel mondo.

Dal punto di vista formale, i chiarimenti che in questo canto Virgilio ci impartisce sulla struttura fisica e morale dell’inferno esprimono il fermo possesso che il discente ha della sua materia: la divisione per argomenti si rispecchia perfettamente nella scansione isocrona e riposata delle terzine. La sua esposizione tuttavia, benché didatticamente insuperabíle, ci lascia inappagati. Raggelato in formule e definizioni, il miracolo della razionalità divina che rivive In quella di noi tutti non riesce nemmeno a proporsi. Qui la verità non rampolla dal contrasto di opposte ragioni, come avverrà in alcune delle più ardue, ma anche più accese e vibranti pagine della terza cantica, ma si configura come un bene inerte, oggetto di mnemonico apprendimento, sotto le specie della " nozione " e della "classificazione". Mancano il dramma del pensiero nel suo farsi, l’ansia del sapere che si conosce limitato e si tende nel presagio di un sapere più alto, tipici della didascalica del Paradiso e che questa didascalica traducono in stati d’animo: umana speranza e incertezza, affanno per coloro che si sviano dietro false immagini di bene, contemplante beatitudine interiore. Il Momigliano ha parlato, per questo canto, di "poesia che aleggia nell’aula d’un maestro della Scolastica ", ma, in questa caratterizzazione, peraltro felice, il termine " poesia " è senz’altro di troppo.

Dove invece la poesia si riscatta, è negli ultimi quattro versi del canto. Al termine del discorso di Virgilio c’è come un senso di stanchezza per tanto scolasticismo, di insofferenza (messa in luce, tra l’altro, dall’incalzare delle causali : ché i Pesci... e ‘1 Carro... e ‘1 balzo) per tanto indugio nelle parole: il mistero del creato riaffiora, e con esso la vita, nell’immagine delle silenti geometrie notturne che lassù, nel mondo dei vivi, parlano all’uomo. Ma, per il Poeta, questo mistero è già fede, miracolo, conoscenza. Il linguaggio del firmamento è lo stesso linguaggio degli uomini: il lento ascendere della costellazione si contrae in un significato a tutti accessibile, diventa il " guizzare " dei Pesci, mentre una semplice somiglianza fonica (Carro - Coro) porta sul piano del sacro - dove nessun etimo appare convenzionale e i nessi fra parole sono rivelatori di una parentela fra le cose - il rapporto che si istituisce tra un’altra costellazione e un vento. La creazione è, per il credente, a noi prossima, penetrabile alle nostre domande, rivelatrice della nostra somiglianza con Dio. Un poeta può scoprire allora in essa rispondenze più intime con la nostra soggettività di quelle dedotte da una scienza opaca alle voci del dolore e al proiettarsi dell’uomo, nel tempo, verso il suo termine eterno.


INFERNO CANTO XII

             

I due poeti scendono per un dirupo dal sesto al settimo cerchio. Qui trovano, a sbarrare il cammino, il frutto dell’innaturale connubio di Parsifae con un toro, il Minotauro. Nel vederli, accecato dall’ira, il mostro morde se stesso, poi, quando ode rievocati da Virgilio la propria uccisione ad opera di Teseo e il tradimento della sorella Arianna, saltella qua e là come toro colpito a morte. I due ne approfittano per scendere ai piedi della frana. Virgilio spiega a Dante come essa sia la conseguenza del terremoto che precedette la discesa di Cristo nel limbo, allorché l’intero universo sembrò per un attimo volersi nuovamente convertire nel caos originario. Il settimo cerchio è tutto occupato da un fiume di sangue bollente, in cui sono immersi i violenti contro il prossimo. A guardia dei dannati sono posti i centauri. Armati di arco e di frecce, come quando, in terra, solevano andare a caccia, hanno il compito di impedire alle ombre di emergere dal sangue più di quanto la loro pena comporti. Il centauro Nesso scambia i viandanti per due anime e chiede loro a quale pena siano destinati. Ma Virgilio vuole parlare soltanto con Chirone, il leggendario maestro di Achille; giunto in sua presenza, gli fornisce esaurienti spiegazioni sul loro viaggio nel regno delle ombre: " Sì, Dante è vivo e devo mostrargli l’inferno; l’itinerario che percorre è necessario alla salvezza della sua anima; dall’alto dei cieli un’anima beata scese per affidarmi l’incarico di guidarlo nel cammino; non siamo anime di peccatori ".

 

Poi chiede a Chirone una guida che mostri loro il punto dove si può guadare il fossato, e il saggio centauro designa a questo incarico Nesso. A mano a mano che i tre avanzano lungo la riva, Nesso elenca i dannati che sono immersi nel sangue: dei tiranni sono visibili soltanto i capelli, degli omicidi l’intera testa, dei predoni la testa e il petto. Giunti al guado, i tre passano sulla riva opposta; poi Nesso, adempiuto il suo compito, torna indietro.

 


 

Introduzione critica

 

In questo canto l’attenzione del Poeta non si ferma sullo spettacolo del castigo infernale (l’accenno al fiume di sangue non va oltre la menzione generica - riviera del sangue, bollor vermiglio, bulicame - alla quale fa eco il caricaturale bolliti) o sulla caratterizzazione di un dannato: protagonisti ne sono i centauri, custodi del primo girone del cerchio dei violenti. Ad essi si contrappone, sul piano simbolico, una figura anch’essa per metà umana e per metà ferina la quale, tuttavia, nella rielaborazione in senso etico e religioso dei miti antichi operata dal Poeta, ne rappresenta la più diretta antitesi: il Minotauro.

 

Posto inutilmente (giace inerte, all’improvviso la sua ira lo colpisce - se stesso morse - prima ancora che Virgilio gli parli) a guardia dell’ingresso al cerchio, il Minotauro appare animato da una vitalità innaturale, come in un presagio di morte. Le parole che Virgilio gli rivolge sono di scherno feroce: apparentemente intese a placarlo, mirano in realtà a fargli perdere ogni capacità di discernimento, sono il colpo mortale che la ragione infligge alla bestialità di null’altro armata che del proprio furore. Nell’immagine del toro saltellante il crepuscolo della coscienza è ritratto con attenzione divertita, senza alcun indugio nel descrittivo: come sempre in Dante, attraverso la notazione realistica si fa strada il giudizio morale.

La figura del Minotauro è infatti, non meno di quella degli altri custodi infernali, anche un simbolo: rappresenta la matta bestialità, il progressivo ottenebrarsi della chiarezza razionale nel caos degli istinti. La brutale, scena del macello si inquadra - trovando in essa il suo compimento ideale, la suprema definizione del suo significato - in una cornice mitologica. Fin dal suo primo apparire Dante riconosce, in quella massa pesantemente adagiata, l’infamia di Creti, quasi l’infamia per antonomasia. L’atteggiamento esteriore del mostro, la sua animalità, torpida ma non rassegnata, ne denunciano, senza possibilità di equivoci, l’esatto collocamento nella gerarchia degli esseri e dei valori.

Cosi, anche in questa figura che esprime, come tante altre della Commedia, un’interpretazione cristiana dei miti del paganesimo, passato remotissimo e attualità della cosa vista, tradizione letteraria (Ovidio) ed esperienza diretta si compongono in un rapporto tanto più intimo e persuasivo, quanto più rispondente ad un intento di esemplificazione e di ammaestramento.

Mentre il Minotauro rappresenta il degradarsi dell’umano nell’animalità, i centauri simboleggiano il processo inverso, l’armonico dominio della volontà cosciente sulle passioni, il contemperamento della forza con la saggezza. Chirone è ricordato come il maestro di Achille (e nel verbo nodrì, come ha osservato il Mazzoni, sono affettuosamente riassunte le paterne sollecitudini di quell’insegnamento), Nesso prende il posto di Virgilio nell’illustrare a Dante la topografia fisica e morale dei girone e, se all’inizio il poeta latino gli ricorda, in tono di rimprovero, le funeste conseguenze della sua impazienza, la presentazione che ne fa poi al discepolo appare elogiativa. Un verso come che morì per la bella Deianira potrebbe inserirsi senza stonare nell’enumerazione, fatta da Virgilio (Inferno V, 61-69), dei generosi che perdettero la vita per amore. Come nelle favole, le qualità della donna amata si compendiano in questo endecasillabo nel solo attributo bella. Basta questa sola qualità perché l’uomo, animo nobile, eroe, quasi gioisca di offrire attraverso il proprio sacrificio una prova che si adegui all’infinità del suo amore. Ma il centauro, a differenza dei morti per amore del quinto canto, seppe predisporre, morendo, lo strumento della propria vendetta (il clima dell’evocazione delle donne antiche e dei cavalieri prepara la tragedia; i centauri si inquadrano invece in una prestigiosa aura di leggenda). L’attenzione di Dante è rivolta soprattutto a Chirone, ritratto al centro di un gruppo scultoreo, in cui sembra quasi rivivere il ritmo luminoso e solenne dei rilievi di Olìmpia.

Il grande centauro riflette, il suo sguardo si astrae da ogni oggetto circostante, il suo pensiero si ripiega su se stesso: al petto si mira. Quindi, prima dì parlare, si pettina la grande barba, con la cocca di una freccia. Nei centauri non troviamo traccia di quell’automatismo feroce, di quella spaventosa cecità spirituale che contraddistinguono, gli altri custodi infernali.

Anche Caronte, la più umana di queste figure, appare demoniaco se paragonato ai saettatori del settimo cerchio. Questi, "più solenni che selvaggi, fanno pensare alla primitiva umanità eroica. del Vico" (Momigliano), a quel mitico periodo agli albori della storia in cui l’uomo, emergendo a poco a poco, dalla barbarie, ma di questa conservando inalterata la schiettezza, seppe creare le prime forme del vivere civile. Il Minotauro è invece l’espressione di una fase anteriore, nella cronologia dei miti: quella in cui l’uomo, non ancora soggetto alle leggi, credeva di poter impunemente sfidare la volontà degli dei e l’ordine della natura.

Nell’ultima parte del canto, occupata da un elenco di tiranni e di predoni, la storia, si sostituisce, come fonte d’insegnamento morale, alla leggenda. La figura dei centauro Nesso è qui quella di un pedagogo diligente e impersonale. Ma le sue parole riflettono, in due punti almeno del suo discorso, un’intensa partecipazione. Là dove delineano, fortemente rilevate in campo rosso (il sangue da essi versato), le capigliature di Ezzelino da Romano e di Obizzo d’Este, non un cenno è fatto alle azioni nefande di questi tiranni. Solo un nero e un giallo s’imprimono nella nostra mente, accostati con quel gusto del colore pieno, compatto, prezioso, che si ritrova nella pittura romanica. Poi, dopo alcuni versi, alto sul fluire del Tamigi, isolato nella maestà della morte, il cuore di un innocente assassinato in una chiesa.


INFERNO CANTO XIII

             

 

I due poeti si addentrano nel secondo girone del settimo cerchio, in un bosco di piante secche, contorte e spinose, abitato dalle mostruose Arpie, uccelli dal volto umano. Non si vedono anime di peccatori, ma se ne odono i lamenti. Esortato dal maestro, Dante stacca un ramoscello da un grande pruno e questo, attraverso la ferita, incomincia a sanguinare e a parlare. Virgilio scusa il suo discepolo ed invita l’anima imprigionata nell’albero a rivelare il suo nome. E il tronco parla: fu Pier delle Vigne, ministro dell’imperatore Federico II; si uccise perché, ingiustamente accusato dai cortigiani invidiosi del suo ascendente sul sovrano, era caduto in disgrazia. Davanti a Dante, che in terra potrà riabilitarne la memoria, giura che mai tradì la fiducia in lui riposta dal suo sovrano. Poi narra come le anime dei suicidi, dopo essere cadute nella selva, trasformatesi in piante, vengano crudelmente dilaniate dalle Arpie.

 

Dopo il Giudizio Universale i corpi di questi peccatori saranno appesi ciascuno all’albero nel quale è incarcerata la loro anima.

 

Il discorso di Pier delle Vigne è interrotto dall’apparizione delle ombre di due scialacquatori e, dietro loro, di una muta di nere cagne fameliche. Mentre uno di questi due dannati . riesce a sottrarsi alla caccia, l’altro, esausto, cerca riparo in un cespuglio, ma le cagne, non tardano a scoprirlo e lo sbranano ferocemente. La loro violenza non risparmia neppure il cespuglio, dal quale una voce si leva a protestarle contro tanto scernpio. Quella che adesso parla è l’anima di un suicida fiorentino: prega i due pellegrini di raccogliere ai piedi del suo corpo vegetale le fronde di cui è stato mutilato e lamenta le sventure abbattutesi sulla sua città.

 


 

Introduzione critica

 

La selva deI suicidi è l’espressione tangibile dell’innaturalezza del loro peccato, dell’empietà, radicata nella superbia, che condusse questi infelici a disprezzare il dolore, a disperare della giustizia che ripara ogni torto, al di là dell’ingiustizia degli uomini. Per gli antichi il suicidio non rappresentava un atto moralmente riprovevole; l’uomo era considerato padrone della sua vita fino al punto di potersela togliere, e responsabile di essa soltanto nei confronti di se stesso. Tutta una tradizione letteraria ha esaltato le figure di quegli stoici che, ostacolati dalla tirannide nell’esercizio della libertà, preferirono darsi la morte anziché riconoscersi soggetti ad un’autorità che non fosse quella della loro coscienza. Ma il Cristianesimo ha dato all’idea di libertà una dimensione ignorata dagli antichi, trasferendola, dal piano esclusivamente umano - sul quale essa finiva per identificarsi con la libertà politica - al piano dei rapporti dell’uomo con Dio, fonte e fondamento di tutti i valori.

L’uomo, per il cristiano, deve svolgere nel mondo un compito che non si esaurisce nell’ambito dei doveri verso lo stato. Egli non appartiene solo a se stesso o alla comunità dei suoi simili, né può disporre a suo piacimento di ciò che non è opera sua, ma dono, gratuito ed inestimabile, di Dio, la più alta espressione della sua potenza creatrice e del suo spirito d’amore: la vita.

Nel canto tredicesimo la metamorfosi dell’uomo in pianta, già ampiamente trattata dagli autori latini, diviene, per Dante, cristiano, consapevole all’estremo della dignità umana, quel qualcosa di tragico e di irrimediabile che è la degradazione dell’umano nelle forme di un ordine inferiore.

Scrive lo Spitzer: "là dove Ovidio dispiega al nostro sguardo la ricchezza della natura organica, Dante mostra l’inorganico, l’ibrido... il peccaminoso, il dannato". E, ancora, precisando: "Però una metamorfosi di Ovidio, pur essendo presentata come " naturale ", è forse meno " reale " di quella di Dante. Ovidio tratta una tradizione leggendaria che ripete come se vi credesse; le sue favole si svolgono in un remoto passato ed hanno una patina di leggenda. Invece i due protagonisti della metamorfosi di Dante, Pier delle Vigne ed il suicida anonimo, erano quasi contemporanei del Poeta: figurano nel poema in quanto appartengono all’eterno presente ed illustrano il giudizio di Dio che è universalmente vero: de te fabula narratur".

Per quel che riguarda lo spunto che il Poeta può aver tratto, nell’immaginare il bosco dei suicidi, da Virgilio, già il De Sanctis aveva notato come la figurazione dantesca si origini in una disposizione di spirito che è agli antipodi di quella del suo modello latino. Nessun indugio, in Dante, nell’analisi delle proprie impressioni; nessuna concessione a quella levigatezza di trapassi che, in Virgilio, riesce a rendere "elegante anche l’orrore". Il motivo dell’albero che sanguina - pittoresco prima ancora che tragico nel terzo libro dell’Eneide, subordinato com’è al flusso ampio della narrazione, confinato nella funzione di illustrare il carattere di un paese inospite, dal quale gli dei vogliono che Enea si allontani al più presto - si isola, in Dante, come una delle espressioni più vigorose e coerenti di quella logica del male che è alla base delle figurazioni sia plastiche sia psicologiche dell’Inferno.

Nel bosco lacerato dalle Arpie, percorso dalla caccia furente e disumana in cui la preda è l’uomo (gli scialacquatori) e gli inseguitori sono animali, il discorso di Pier delle Vigne sembra riportare la misura dell’umano, creare come un’isola di tregua, trascendere l’orrore di questa condanna senza appello. Per un attimo dimentichiamo quasi che colui che parla è ridotto a un tronco inerte e trae faticosamente le sue parole da una sanguinante lacerazione. Ci chiediamo: "e dov’è più l’inferno? dov’è il tronco? noi siamo in Napoli, nella corte di re Federico, innanzi ad un cancelliere" (De Sanctis).

 

Ma, a guardar meglio, la rievocazione del sereno mondo dei vivi ad opera del protonotaro imperiale appare forzata e come costretta anch’essa in forme innaturali. La sua parola diventa schietta ed esprime una profonda emozione solo quando proclama la propria innocenza, e giura sulle sue radici. Ma proprio queste, legandolo alla terra - lui così eccitabile nei moti del suo animo (sì col dolce dir m’adeschi ... ), così lontano, nel suo parlare fiorito, da ogni forma di raccordo con il reale -appaiono come il simbolo supremo della sua estraneazione dall’umano. Il linguaggio di Pier delle Vigne riflette compiutamente - nel compiaciuto gioco di antitesi e parallelismi, nel gusto per la circonlocuzione studiata, nel "tragico e grottesco grandinar di metafore" (Apollonio) che lo caratterizza - da un lato quello che doveva essere stato il carattere di questo uomo di corte, tutto inteso, in vita, al suo glorioso offizio, dall’altro, per contrasto, l’innaturale coercizione della sua condizione attuale, il suo peccato irrigidito e reso eterno dalla sentenza di quel giudice che egli non seppe considerare come padre e fratello. Non è esatto scorgere, nel modo di parlare di Pier delle Vigne, soltanto la manifestazione di un carattere debole o vanitoso o insincero, secondo i punti di vista espressi dal De Sanctis e, recentemente, dall’ApolIonio, e neppure soltanto un ritratto "linguistico" dell’elegante stilista capuano, secondo la tesi del Novati.

 

Dante, pur così ricco di determinazioni realistiche, non intende mai darci una copia di ciò che possiamo vedere coi nostri occhi in terra. La sua non è una poetica naturalistica; i suoi " ritratti ", tutti orientati nel senso della caratterizzazione morale, sono in funzione di un significato che li trascende.


INFERNO CANTO XIV

             

Dopo aver radunato le fronde intorno al cespuglio del suo concittadino, Dante giunge insieme a Virgilio, sul limitare del terzo girone. In questa parte del settimo cerchio una lenta, inesorabile pioggia di fiamme si riversa sopra una distesa di sabbia infuocata. Tre gruppi di anime soggiacciono a tre diversi tormenti: i bestemmiatori, violenti contro Dio, supini, espongono tutto il loro corpo al fuoco che cade; gli usurai, violenti contro l’arte, stanno seduti, i sodomiti, violenti contro natura, devono camminare senza tregua. I bestemmiatori sono i meno numerosi, ma i loro lamenti soverchíano quelli degli altri.

 

Fra loro spicca una figura gigantesca, che sembra incurante del castigo divino. E’ Capaneo, uno dei sette re che assediarono Tebe, ucciso per la sua empietà dalla folgore di Giove. Egli non ha perduto la sua arroganza e sfida, deridendolo, il signore dell’Olimpo a colpirlo ancora una volta con le armi forgiate da Vulcano e dal Ciclopi, ma Virgilio lo redarguisce duramente.

 

I due poeti proseguono il loro cammino finché arrivano nel punto in cui dalla selva dei suicidi esce un fiumicello rosso e bollente. I fiumi infernali hanno la loro origine - spiega Virgilio - in terra. In mezzo al Mediterraneo c’è un’isola, un tempo ricca di vegetazione e felice, ora deserta: Creta. Ivi, in una grotta all’interno del monte Ida, c’è l’enorme statua di un vecchio, che volge le spalle all’Egitto e tiene lo sguardo fisso in direzione di Roma. La sua testa è d’oro, il petto d’argento, il ventre di rame, le gambe di ferro, il piede destro, sul quale il simulacro poggia, di terracotta. All’infuori del capo, ogni altra parte della statua presenta fessure dalle quali sgorgano lagrime. Il pianto di questa statua forma i fiumi infernali e lo stagno Cocito.

 

Il canto si conclude con i chiarimenti che Virgilio dà al discepolo sull’ubicazione del Flegetonte, il fiume di sangue che occupa il primo girone e dal quale il fiumicello deriva, prendendone anche il nome, e del Letè, il fiume dell’oblio, le cui acque bagnano il paradiso terrestre, in cima al monte del purgatorio.


Introduzione critica

Tre sono i motivi fondamentali del canto: quello della ribellione del bestemmiatore (Capaneo), quello del pianto dell’umanità colpevole che forma i fiumi infernali (il Veglio di Creta), quello, paesistico, della pioggia di fuoco, che fa da sfondo agli altri due.

Il motivo del paesaggio inumano è incominciato non appena i due poeti hanno varcato la soglia di Dite. Fin lì la natura era stata quella terrestre, ma proiettata nello smisurato.

ra quasi un’immagine visiva del loro peccato quella che, attraverso forme elementari di contrappasso, puniva gli incontinenti: fenomeni atmosferici (lussuriosi e golosi), ineluttabilità insita nel ripetersi di uno stesso movimento (avari e prodighi) e, per contrapposto, la stasi assoluta di una palude (iracondi). Ma già nella città delle arche la presenza del peccato è inscindibile dal paesaggio: la natura vi appare umanizzata, ma in senso negativo; non è più soltanto natura terribile, manifestazione di una potenza superiore all’uomo, ma giusta. Corrotta nel suo intimo dal male, la natura è qui al tempo stesso strumento della giustizia divina, espressione diretta della colpa: la terra è crivellata di sepolcri, impura, contaminata dalla presenza nel suo grembo degli eretici; il fuoco fa la sua prima comparsa, emblema di una catarsi che afferma, al di là della morte, la perenne vita dello spirito. Il dato naturale (la pianura) non è qui determinante; il paesaggio assume un significato soltanto per l’inclusione in esso del dato umano (le tombe). Questo, a sua volta, è come riassorbito nella manifestazione terribile dell’ira divina (il fuoco). Considerazioni analoghe possono farsi per il paesaggio nei tre gironi del cerchio dei violenti. Non l’acqua, come nell’alto inferno, riempie il letto del Flegetonte: è il sangue, principio di vita, che infuria su coloro che lo hanno versato, mentre nella selva dei suicidi le forme della vita appaiono come svuotate di linfa, ripiegate su se stesse, chiuse al futuro. La contraddizione che il male introduce nell’universo non è più qui un rapporto fra due dati in opposizione reciproca (l’umanità peccatrice da un lato, la natura, manifestazione del Dio vindice, dall’altro): le piante aride e contorte sono esse stesse i peccatori. La natura appare stravolta, i principi dell’umana esperienza negati, anche nel terzo girone: il fuoco, che abbiamo sempre veduto dirigersi verso l’alto (la stessa scienza medievale riconosceva in esso il più leggiero e, simbolicamente, per lo stretto legame che univa fisica e metafisica, il più spirituale degli elementi), qui è attratto dalla forza di gravità, calamitato verso il posto occupato da Lucifero. Possiamo misurare tutto il divario che corre tra un peccato di incontinenza e un peccato di violenza, mettendo a confronto la pioggia del cerchio dei golosi con quella che tormenta i violenti contro Dio. Là il fenomeno atmosferico non è essenzialmente diverso da quelli cui siamo avvezzi sulla terra, qui la struttura

stessa del fenomeno smentisce, sia in senso empirico sia in senso simbolico, la sua manifestazione visibile: dall’alto, su una landa deserta, non scende il principio della vita, ma quello della consunzione violenta.

E ancora: non possiamo immaginare il fuoco altrimenti che animato da un movimento rapido, insaziato, impaziente.

Qui, perché i dannati possono soffrire non solo la pena che è in atto, ma anche quella che si prepara a colpirli, la discesa del fuoco è lenta, maestosa, riposata.

Per alcuni critici, la contraddittorietà che caratterizza il paesaggio del canto quattordicesimo è presente, ma con una sottolineatura comica, anche nel personaggio di Capaneo. Nella figura di questo ribelle, sotto la suggestione di un’analisi del De Sanctis, è stata riscontrata una divergenza tra forza apparente e fiacchezza interiore, per cui Capaneo sarebbe soltanto un vanaglorioso. In realtà, alla esatta interpretazione di questa figura nuoce il parallelo che viene di solito istituito fra essa e Farinata. Indubbiamente nel magnanimo eretico c’è una complessità di motivi che qui manca: i suoi sentimenti si manifestano a poco a poco, dolorosamente emergendo dalla compattezza del suo atteggiamento iniziale; c’è in essi un pudore e un senso delle sfumature che sono del tutto ignoti al bestemmiatore del settimo cerchio. Questo non autorizza tuttavia una caratterizzazione negativa di Capaneo. Dante lo ammira, pur condannandolo, come si può ammirare lo spettacolo di una indomita forza della natura. In Capaneo l’affermazione esclusiva e prepotente di sé non è né grottesca né comica; riflette piuttosto quell’eroismo esuberante e ingenuo che spinge i guerrieri omerici, o quelli che in una tragedia di Eschilo muovono all’assalto di Tebe (e qualcosa dello spirito di Eschilo è indubbiamente giunto sino a Dante attraverso Stazio), a vantare le proprie forze prima di iniziare il duello con l’avversario.

Il terzo motivo del canto, è quello dell’inesorabile decadimento dell’umanità attraverso le successive fasi della sua storia.

Nella landa arroventata, ecco d’improvviso un ruscello. Ma questo ruscello non è innocente, non ha nulla della freschezza dei ruscelletti del Casentino, così amorevolmente carezzati dalla parola di maestro Adamo nella decima bolgia (Inferno XXX, 64-69), né è destinato a portare la vita: due argini di pietra provvedono ad impedire che le sue acque fecondino la sabbia.

 

E’ anch’esso un’immagine di desolazione: convoglia nell’abisso del dolore il pianto dell’umanità colpevole e infelice. L’acqua, nel deserto, non è stata un miraggio; ma si è trattato di acqua inquinata, espressione di un morbo irriducibile, non dell’acqua che lava i peccati e restituisce la vita. Nel precipitare di roccia in roccia dei fiumi infernali il significato del pianto non può essere che quello di un progressivo convertirsi del dolore nella disperazione: il ghiaccio di Cocito è l’espressione ultima di questo irrigidimento dello spirito.

 

Divina commedia inferno riassunto


INFERNO CANTO XV

             

 

Per evitare la pioggia di fiamme i due pellegrini avanzano su uno degli argini del fiumicello che attraversa il terzo girone e s’imbattono in una schiera di anime di dannati, uno dei quali afferra Dante per il lembo della veste e manifesta la propria meraviglia nel vederlo in quel luogo.

 

Il Poeta lo riconosce, nonostante abbia il volto devastato dal fuoco: Brunetto Latini, il suo maestro, che esprime il desiderio di affiancarsi a lui nel cammino.

 

Nessuno, infatti, dei violenti contro natura può interrompere il proprio andare: chi infrange questa legge è poi condannato a giacere cento anni sotto la pioggia di fuoco senza poter scuotere da sé le fiamme che lo colpiscono. Dante continua pertanto a camminare sull’argine e riceve da Brunetto la predizione della sorte che il futuro gli riserva: "Se rimani fedele ai principi che hanno fin qui ispirato le tue azioni, la tua opera ti darà la gloria ". Poi il discorso cade su Firenze e la faziosità dei Fiorentini, in massima parte discendenti dai rozzi abitanti di Fiesole, avari, invidiosi, superbi.

 

Sia l’uno sia l’altro Partito in cui la città è divisa - aggiunge Brunetto - cercherà di avere Dante in suo potere, ma non riuscirà in questo intento. Il Poeta a sua volta tesse l’elogio del suo maestro, dal quale ha appreso come l’uomo ottiene gloria fra i posteri, e dichiara che questa profezia, come quella di un altro spirito, Farinata, verrà sottoposta all’interpretazione di Beatrice. Per il resto si dice pronto a far fronte ai colpi del destino. Pregato dal Poeta, Brunetto nomina alcuni fra gli spiriti condannati alla sua stessa pena, quindi si accommiata, raccomandandogli la sua opera maggiore, il Tesoro, attraverso la quale sopravviverà nel ricordo degli uomini.


 

Introduzione critica

 

Nel colloquio di Dante con Ciacco il tema di Firenze si affaccia per la prima volta nella Commedia accentrato intorno a quelli che ne saranno poi i motivi fondamentali: la discordia fra i cittadini, il prevalere della faziosità sulla giustizia, dell’affarismo sull’onestà sobria delle antiche generazioni. Ivi è proposto anche il tema, ad esso complementare, del contrasto fra valutazione " laica " della figura dell’uomo politico e valutazione del credente. Da Ciacco Dante apprende che Farinata, il Tegghiaio, Jacopo Rusticucci e gli altri Fiorentini che operarono per il bene della patria si trovano tra l’anime più nere. Agli occhi di Dio l’uomo non si identifica quindi con il cittadino: le sole virtù civiche sono insufficienti a redimerlo. I

l tema politico si ripropone nell’episodio di Farinata e in quello di Pier delle Vigne: uomini politici entrambi, entrambi ghibellini, essi riscuotono l’ammirata approvazione del Poeta per il disinteresse con cui hanno servito i loro ideali in terra, ma lo lasciano dolorosamente perplesso a causa della loro insensibilità ai valori proposti all’uomo da Dio.

Il tema politico e quello del dissidio fra agire umano e sua insufficiente legittimazione etico-religiosa culminano nei canti quindicesimo e sedicesimo dell’Inferno. Qui la parola del Poeta investe in pieno gli eventi della storia di Firenze che lo hanno veduto testimone e protagonista, trasfigurandoli in una sorta di appassionata e simbolica autobiografia, mentre propone, al tempo stesso, alla nostra meditazione il dolore dei dannati, l’esempio di uomini illustri resi irriconoscibili dai segni della collera divina.

Se infatti lo sfondo ideale, nostalgico, lancinante nel ricordo, degli incontri di Dante con Brunetto Latini e con alcuni dei più cospicui esponenti del partito guelfo in Firenze è Firenze stessa - la terra prava che induce il Poeta ad esprimersi nei modi immaginosi e solenni dei profeti d’Israele - lo sfondo reale, testimonianza incontrovertibile della miseria di queste grandi anime, è il sabbione infuocato, la pioggia sterile che le percuote. Al motivo profetico e a quello della gloria terrena dell’uomo che s’etterna attraverso il ben far e sopravvive oltre la morte, nella propria opera - sieti raccomandato il mio Tesoro - si accompagna come costante sottinteso quello della colpa umana, che solo la fede e il rispetto, ad essa conseguente, dell’ordine naturale, possono riscattare.

I critici hanno variamente cercato di interpretare la contraddizione, così stridente per noi nel canto quindicesimo dell’Inferno, fra la condanna che Dante, in veste di teologo e di moralista, infligge al suo vecchio maestro Brunetto Latini e l’aureola di dignitosa fermezza di cui la sua poesia circonda questa figura. Il Pézard, ad esempio, ha creduto di eliminare le ragioni del nostro disagio avanzando addirittura l’ipotesi, sostenuta da una ricca documentazione, che nel terzo girone le anime condannate a camminare eternamente sotto la pioggia di fuoco non siano quelle dei sodomiti, ma quelle dei "violenti contro le arti liberali". Altri, come il Pasquazi, hanno cercato di cogliere il rapporto che legherebbe, nell’episodio di Brunetto e in quello dei tre Fiorentini del canto successivo, lo splendore delle virtù civili di queste anime al vizio che alimentarono in segreto. I termini di questa contrapposizione sembrano inconciliabili, ma il Pasquazi ritiene che, nella visione rigorosamente orientata verso la trascendenza che fu quella del Poeta dopo il momento "laico" rappresentato dal Convivio e dalla sua partecipazione alla vita politica di Firenze, "autosufficienza civile e sodomia dovettero apparire a Dante come aspetti... di una medesima realtà", in quanto espressioni, sia l’una che l’altra, del peccato di superbia. "Proprio perché il suo viaggio doveva servire a collocare lui nella verità, e ogni uomo con lui, era necessario che quel fallace modo di virtù civile, di autosufficienza morale e di perfezione culturale fosse condotto alle... forme del suo più profondo squallore, della sua più significativa deformità. La superbia poteva piacergli; ma la constatata riduzione della superbia alla sodomia lo doveva guarire." In altre parole: al fondo del peccato dei grandi guelfi fiorentini che incontra in questo girone, Dante intravede, portata all’assurdo e rovesciata nel grottesco, la stessa sprezzante affermazione di autosufficienza che aveva indotto Farinata nel peccato di eresia.

Nella misura in cui oltrepassano l’ambito delle interpretazioni tradizionali e ci suggeriscono un modo più approfondito di interrogare il testo del poema, le tesi del Pézard e del Pasquazi sono ricche d’interesse, ma non appaiono senz’altro determinanti ai fini di un giudizio sulla poesia dei canti quindicesimo e sedicesimo nel loro complesso, e dell’episodio di Brunetto Latini in particolare. Essa, come ha rilevato il Bosco, consiste proprio "nel contrasto tra l’austerità morale di Brunetto e la miseria del suo peccato, tra la debolezza di cui questo è testimonianza, e la fortezza d’animo che il suo discorso e quello tonalmente concorde del suo discepolo rivelano" Brunetto Latini non è un personaggio complesso come Francesca o Farinata; in lui questo contrasto si manifesta nei modi di un delicato riserbo, senza mai prorompere in una formulazione esplicita. Dante ce lo presenta come un maestro e con l’altro maestro, Virgilio, Brunetto ha in comune la fondamentale mestízia, il tono elegiaco di chi, avendo sempre perseguito la verità e il bene, sa di esserne rimasto lontano, non meno che la nobile fermezza nell’additare al discepolo il doloroso cammino della rettitudine. Ma, mentre nel personaggio di Virgilio questi sentimenti si caricano sempre delle allusioni simboliche richieste dalla sua funzione di guida razionale, in Brunetto essi sono rappresentati nella loro più viva immediatezza. Lo splendore della profezia basata qui, più che negli episodi di Ciacco e di Farinata, su un fitto intrecciarsi di metafore, non riesce ad offuscare la cordiale familiarità, la nostalgia semplice delle sue parole.


           

INFERNO CANTO XVI

             

 

Mentre i due pellegrini continuano a camminare sull’argine del fiumicello, da una schiera di sodomiti si staccano tre ombre e corrono verso di loro. Poiché aI violenti contro natura non è concesso neppure un attimo di sosta, questi dannati si dispongono in cerchio, in modo da continuare a camminare senza allontanarsi da Dante e Virgilio.

 

Uno di loro, Jacopo Rusticucci, si rivolge al Poeta, parlando di sé e dei suoi compagni, Guido Guerra e Tegghiaio Aldobrandi. Furono cittadini illustri di Firenze e contribuirono, in pace e in guerra alla prosperità della loro patria.

 

Dante esprime il proprio dolore per averli incontrati fra i reprobi del settimo cerchio e il profondo rispetto che nutre per la loro memoria; poi dichiara che in Firenze non albergano più le virtù di un tempo: orgoglio e intemperanza hanno sostituito, nel cuore dei suoi abitanti, cortesia e valore.

 

Dileguatisi i tre, Dante prosegue con il maestro verso l’orlo del ripiano, dove le acque del Flegetonte precipitano nel cerchio ottavo. Il Poeta consegna una corda che gli cinge i fianchi a Virgilio, il quale la getta nel profondo abisso che si apre ai loro piedi. Poco dopo ecco salire dalla buia voragine una figura simile, nel suoi movimenti a quella del marinaio che torna a galla dopo aver disincagliato l’ancora della nave.


 

Introduzione critica

 

Il canto non ha unità d’argomento. La prima parte di esso versi (1-90) si presenta come una continuazione dell’episodio di Brunetto Latini: tema dominante è qui la decadenza civile e morale di Firenze a seguito dei rivolgimenti politici e dell’avvento al potere di una classe sociale avida e rapace, non legata al rispetto della tradizione, ma intenta solamente ad arricchirsi. Accanto a questo tema si colloca, come nel canto precedente, quello della colpa privata, che nessuna carità di patria, per quanto fervida e pura, può riscattare. Ma nell’epìsodio dei tre magnanimi guelfi il motivo della condanna divina è messo in maggior risalto, con un’attenzione impietosa che impedisce quella fusione di toni, quel gioco di ombre e luci delicatissime che rendono così patetica la figura di Brunetto. Dante non ha conosciuto di persona Guido Guerra, Jacopo Rusticucci, Tegghiaio Aldobrandi. Egli ha davanti a sé dei personaggi già idealizzati, già collocati dalla voce pubblica in un limbo di spiriti eccelsi. L’affetto che prova per loro non può quindi essere quello semplice e spontaneo che lo lega all’autore del Tesoro e che nasce da una considerazione umana, prima che teologica, della figura di questo peccatore. I tre Fiorentini del canto sedicesimo, nella presentazione che ne fa uno di loro, appaiono già isolati su un piedistallo di gloria indiscutibile, remoti da ogni affetto che non sia quello, esemplare e nobilitato da una tradizione illustre, che definisce il buon cittadino: l’amore di patria. E’ questo il sentimento che li rende poeticamente vivi, ma anche, rispetto a figure più complesse come Farinata o Brunetto, monocordi. La carità del natìo loco non ha in essi nulla di paludato, di austero. Se la presentazione delle loro figure è epigrafica ed obbedisce ad un canone quello che, fin dall’antichità classica, ha stabilito, attraverso Plutarco, le qualità dell’uomo politico buono in opposizione schematica alla figura del tiranno, le manifestazioni del loro attaccamento a Firenze sono di una immediatezza non riscontrabile altrove se non nella Commedia. La patria non è per essi un concetto, un ideale fermo e solenne, ma un essere concreto e vivo, soggetto all’errore e bisognoso di aiuto. C’è, nelle loro parole, una sollecitudine quasi materna per le sorti di Firenze, la quale smentisce in pieno la sobria rigidità delle loro biografie. Soltanto Dante è riuscito ad esprimere con tanta semplicità di mezzi e al di fuori di ogni considerazione astratta o moraleggiante la pietas che ci lega al luogo dove siamo nati e che, lungi dal richiedere una spiegazione razionale, appare come il fondamento di tutto il nostro modo di vedere, interpretare e razionalizzare le cose.

 

Il processo di idealizzazione dei protagonisti della storia più recente di Firenze, iniziato con Farinata, culmina nei tre personaggi di questo canto. Il principio della carità, che in Farinata emergeva faticosamente dal buio della superbia e dei risentimenti, è in essi, fin dal loro primo apparire, luminoso, operante, purissimo. Ma la santità del loro sentire e operare è stata - nella misura in cui si è circoscritta ad una realtà umana non integrata nel divino - parziale, imperfetta ed incapace di salvarli. Ecco quindi che la loro collocazione fra i numi tutelari della patria ha la sua controparte nel grottesco del castigo infernale: ai sentimenti da loro espressi, manifestazioni di un volere apparentemente ancora libero, si contrappongono in modo stridente i movimenti che sono costretti a compiere, le parole che impiegano per designare la loro condizione attuale. La similitudine della rota sintetizza la medesima degradazione dell’umano accennata, alla fine del canto precedente, nell’evocazione della gara del drappo verde, di quest’ultima riproponendo il senso complessivo e alcune forme: possiamo notare, ad esempio, come una residua affermazione dell’umano, pur nell’ambito di una valutazione tendente a destituire di ogni umanità colui che ha peccato, sia contenuta tanto nell’immagine dei campion, quanto in quella del vincitore del drappo (quelli che vince, non colui che perde). Anche il rilievo dato al particolare fisico, veduto non in quanto espressione di un atteggiamento morale o di uno stato d’animo, ma in sé, nella sua compatta, inspiegabile gratuità, mira a mettere in luce, al di là dei loro meriti, lo stato di perdizione in cui queste anime si trovano. Per il Malagoli in tutto l’episodio "una crosta di sovrumano avvolge costantemente le note umane; e queste servono solo di contrappunto alla pittura dello spettacolo sovrannaturale". Questo giudizio è formulato in modo forse troppo perentorio, ma coglie sostanzialmente quello che è il senso profondo di questa prima parte del canto. Qui infatti l’accento è posto, assai più che in altre pagine di argomento affine (Farinata, Brunetto), sul tema della condanna, tanto che un altro critico, il Pasquazi, non ha esitato a sostenere (ma anche questa opinione chiede di essere, almeno in parte, rettificata) che nella scena dell’incontro di Dante con i tre Fiorentini non "c’è vera pietà per queste tre ombre, né per Firenze".

 

Se nella prima parte del canto il sovrannaturale si contrappone in modo così esplicito e violento all’umano, da poter dare l’impressione di soverchiarlo, nella seconda esso domina incontrastato. L’ascesa di Gerione è preparata da un gesto rituale (il lancio della corda) che Dante commenta con espressioni analoghe a quelle usate davanti alla porta di Dite, mentre i due poeti sono in attesa dell’arrivo del messo celeste. La figura che sale dall’abisso, docilmente obbedendo al richiamo, s’impone alla nostra fantasia senza determinarsi. Una circonlocuzione (colui che va gíuso) sembra volerla definire, ma essa è riferita interamente al mondo degli uomini e della non meglio precisata figura individua soltanto l’elemento miracoloso, accentuando in tal modo, anziché disperderlo, il senso di mistero che la circonda.


INFERNO CANTO XVII

             

 

Virgilio indica a Dante il mostro che è salito dall’abisso e che, ad un suo cenno, si pone con la testa e il tronco sull’orlo interno del settimo cerchio. L’aspetto di questa belva, che simboleggia la frode e che ha il nome di un re crudelissimo ucciso da Ercole, Gerione, è di uomo nel volto, di serpente nel corpo e di scorpione nella coda. Mentre Virgilio si dirige verso Gerione per chiedergli di trasportare lui e il suo discepolo sul fondo del baratro, Dante si avvicina ad un gruppo di peccatori che, seduti sulla sabbia rovente e colpiti dalla pioggia di fuoco, cercano inutilmente di alleviare il loro tormento agitando le mani. Sono gli usurai.

 

Il Poeta non ne riconosce alcuno, ma nota che tutti portano appesa al collo una borsa sulla quale è dipinto uno stemma gentilizio: questi dannati non hanno dunque soltanto offeso Dio, ma anche avvilito la dignità del loro nome. Uno di essi rivolge a Dante la parola: si proclama padovano, dice che tutti i suoi compagni di pena sono fiorentini e annuncia la prossima venuta di un altro usuraio, nobile anch’egli e famosissimo.

 

Tornato sui suoi passi, Dante trova Virgilio già salito in groppa a Gerione. Esortato dal maestro, vince la sua paura e si pone anch’egli a cavalcioni del mostro, che, ad un comando del poeta latino, inizia a scendere lentamente, a larghe spirali, mentre appare, sempre più vicino, lo spettacolo dei tormenti del ripiano infernale che si apre sotto i loro occhi. Gerione, dopo aver deposto i due pellegrini sul fondo del precipizio che separa il settimo cerchio dall’ottavo, si dilegua con la rapidità di una freccia.


Introduzione critica

 

Posto a metà della prima cantica, il canto diciassettesimo segna una svolta importante nell’esperienza del male che è quella di Dante nell’inferno. Col girone dei violenti contro Dio termina la parte del poema dedicata all’esplorazione del peccato di violenza ed inizia quella, ben più ampia, dedicata alle molteplici forme della frode. Il canto ha quindi una funzione analoga a quella dei canti ottavo e nono, che precedono l’ingresso dei due poeti in Dite; anche qui Dante ribadisce esplicitamente il carattere allegorico e morale della sua narrazione. Tuttavia la figura del protagonista di questo canto, il muto, enigmatico Gerione, pur risultando composita in rapporto alle fonti culturali che la alimentano e alle premesse ideologiche da cui scaturisce, è a tal punto concreta, da aver persuaso più di un critico a tralasciare completamente l’insieme dei significati che il Poeta ha voluto adombrare in essa, per metterne in rilievo soltanto la perfetta riuscita sul piano dell’arte.

Per il Croce Gerione "è la maggiore incarnazione di quello che in Dante abbiamo chiamato senso possente della vitalità, della immediata e sensibile vitalità, della vitalità organica, configurata in esseri enormi e mostruosi". Questo giudizio che, sotto la categoria della "vitalità", avvicina Gerione ai custodi infernali dei cerchi superiori, non rende tuttavia conto di ciò che distingue profondamente la figura di Gerione da tutte le apparizioni demoniache fin qui incontrate.

Il canto è tutto dominato dalla presenza del sovrannaturale, ma, come avviene sempre in Dante, anche le situazioni più inverosimili e fantastiche, sono ricondotte nell’ambito della nostra esperienza più comune. La stranezza di Gerione - quello che di inquietante si sprigiona dalla sua figura e ne fa la manifestazione di una sapienza che trascende il nostro intendere e intorno alla quale non possiamo se non argomentare per indizi - non è data tanto dal fatto che in questa figura coesistono, inspiegabilmente accostate, forme organiche tra le quali nessuna comunicazione appare possibile, quanto, al di là di questa statica giustapposizione di forme, da una contraddizione insita nel suo stesso modo di manifestarsi, di muoversi. Mentre infatti la coda del mostro denuncia quella "vitalità" che nel giudizio del Croce appare indebitamente estesa all’intera figura di Gerione, tutto l’atteggiamento di quest’ultimo è altrimenti quello di un essere inanimato, di una macchina prodigiosa ed enorme.

A suggerire questa duplicità di atteggiamenti nella quale si concreta poeticamente l’intento di rendere attraverso le immagini la doppiezza dell’azione fraudolenta, sono soprattutto le similitudini, alcune delle quali riconducono la figura del mostro al trionfo degli esseri viventi (il bivero, il falcon), mentre altre la avvicinano al cosmo degli oggetti inanimati e precisamente di quegli oggetti che sono il frutto del lavoro dell’uomo e all’uomo devono servire (i drappi, i burchi, la navicella). Gerione non oppone ai decreti del cielo la propria vitalità immediata ed arrogante, ma si presta invece docile, come uno strumento meraviglioso, alla loro attuazione. Soltanto la coda, infida e minacciosa in uno sfondo di tenebre, indica, in questa macchina possente e precisa, un residuo di vita e un’apparenza di libertà.

I critici che, come il Croce, si sono fermati soprattutto sull’immediatezza derivante alla figura di Gerione dalla capacità di sintesi e dal realismo propri della poesia di Dante e che, in conseguenza, cedendo al desiderio di semplificare anche là dove il Poeta aveva indicato una ricchezza di determinazioni contrastanti, hanno preteso di vedere in Gerione null’altro che una figura animale, non hanno saputo cogliere, nel canto diciassettesimo, altra tonalità se non quella descrittiva, propria di un poeta tutto preso dalla gioia di rappresentare. Essi hanno in tal modo trascurato la nota che meglio definisce questa manifestazione del mistero - e cioè il suo carattere ibrido, innaturale, disarmonico - nonché l’accento che alla poesia di Dante deriva dal proporsi anzitutto come una tesa meditazione sul destino degli uomini e una severa esplorazione del male. Da questo punto di vista anche una ricerca volta a proporre una concordanza tra forme e atteggiamenti di Gerione e sua significazione allegorica non può non risultare stimolante e utile, per via indiretta, alla comprensione della stessa poesia di questa pagina dantesca. Interessante, fra le altre, appare l’interpretazione politico-religiosa che della figura di Gerione dà il Pasquazi, dopo averla ricollegata alle sue fonti scritturali (Abaddon, Satana e l’Anticristo dell’Apocalisse).

Gerione corrisponderebbe, secondo questa tesi, alla "bestia di color rosso scarlatto" coperta di nomi di bestemmie (e i nodi e le rotelle che screziano la pelle del mostro sarebbero l’equivalente figurativo di questa determinazione concettuale della profezia di San Giovanni), di cui nell’Apocalisse (XVII, 3 sgg.) e’ detto che "era, ma già non è più; essa sta per risalire dall’abisso e andare alla sua perdízione". Sulla base di un raffronto tra simbolo mitologico e simbolo scritturale, l’interpretazione del Pasquazi risulta assai suggestiva e meritevole comunque di tradursi in un approfondimento di prospettive nella considerazione critica del canto: "nel passato la bestia comparve una volta sulla terra (come il Gerione mitico, e come il mondo greco e orientale superbo dei suoi sofismi); più tardi, fu ricacciata nell’abisso (come il Gerione mitico, ucciso da Ercole, e come il mondo greco e orientale, domato dall’aquila di Roma); tuttavia, in un prossimo futuro salirà dall’abisso dove attualmente è confinata (e l’ascesa del Gerione dantesco, come si è visto, dimostra esservi in lui [Dante] siffatta aspettazione: così come nel " secolo senza Roma " è riaffiorata, sotto forme bizantine e averroiste, l’antica superbia discettatrice dei greci e degli orientali); infine, la bestia va in rovina, così come, a più riprese, è vaticinato nella Commedia".


INFERNO CANTO XVIII

             

Scesi dalla groppa di Gerione, i due pellegrini si trovano sull’argine più esterno dell’ottavo cerchio, detto Malebolge e diviso in dieci avvallamenti concentrici. Nel primo di questi avvallamenti o bolge sono puniti i seduttori per conto altrui e quelli per conto proprio. Divisi in due gruppi avanzano in direzioni opposte, implacabilmente frustati dal diavoli. Nella schiera dei ruffiani Dante riconosce il bolognese, Venedico Caccianemico, che indusse con discorsi fraudolenti la propria sorella ad una condotta disonesta, e lo costringe a confessare la sua colpa. Tra i seduttori per conto proprio Virgilio gli addita Giasone; il leggendario eroe, colpevole nel confronti dell’inesperta Isifile e di Medea, entrambe da lui tratte in inganno, incede incurante delle sferzate dei diavoli, con atteggiamento regale, senza manifestare il suo dolore.

 

Passati sul secondo argine attraverso un ponte naturale che scavalca il primo avvallamento, i due poeti vedono aprirsi davanti al loro occhi la bolgia degli adulatori. Tra questi Dante riconosce, immerso nello sterco come i suoi compagni di pena, il lucchese Alessio Interminelli e violentemente lo apostrofa. Poco oltre Virgilio gli mostra una donna che con le proprie unghie si dilania e non trova pace né in piedi né seduta: è la meretrice Taide, che in vita fu maestra nell’arte di ingannare con l’adulazione.


 

Introduzione critica

 

Con l’ottavo cerchio ci troviamo di fronte non solo ad una categoria del male difforme in tutto da quelle che Dante è venuto sin qui illustrandoci nelle loro manifestazioni più tipiche e salienti, ma ci accorgiamo che gli stessi parametri della sua poesia appaiono profondamente modificati. La definizione del tema critico di Malebolge in termini che ancor oggi si rivelano ricchi di suggestioni feconde ad ogni nuova lettura, risale alle lezioni tenute dal De Sanctis a Torino nel 1855 e alle pagine della sua Storia dedicate alla Divina Commedia. L’insigne critico contrappone le regioni dell’alto e del medio inferno, corrispondenti ai peccati di incontinenza e di violenza e nelle quali grandeggiano isolate possenti individualità, a quelle del basso inferno (frode), in cui le stature eroiche e tragiche di chi peccò per passione risultano quasi del tutto assenti e sulla pittura morale e psicologica prende decisamente il sopravvento quella del dato esteriore.

 

"L’inferno degl’incontinenti e dei violenti è un mondo poetico, in cui tutto avviene per impeto di passione o per violenza di carattere e noi ammiriamo e ci commoviamo. L’inferno dei fraudolenti è il mondo scaduto all’ultima prosa; è la passione che si muta in vizio; è il carattere che declina a bassezza; è la forza che scende a malizia... La passione ha virtù di muovere, concitare tutte le potenze dell’anima, sì ch’elle prorompono al di fuori irresistibilmente; il vizio è la passione risolta in una abitudine prosaica, una ripetizione uniforme degli stessi atti, un fare perché si è fatto; è l’artista meccanizzato che si chiama artefice; è l’arte profanata che sì chiama mestiere... La forma estetica di questo mondo è la commedia. " Ma Dante non avrebbe il necessario distacco dalla materia trattata per poter riuscire come autore comico, talché in lui "di sotto la facezia spunta il disdegno, la sferza gli si muta in pugnale". Ne deriverebbe che in Malebolge Ie situazioni sono comiche, ma il comico è rozzamente formato, e non è artistico; non ha la sua immagine che è la caricatura, né la sua espressione che è il riso". La distinzione che il De Sanctis istituisce fra comico in sé (le situazioni che "sono comiche") e comico risolto nel linguaggio (il comico che è "rozzamente formato") porta nelle sue formulazioni su Malebolge un germe di astrazione e di antinomia. Esso è all’origine di tutta la sua valutazione dei due ultimi cerchi dell’inferno, costantemente combattuta fra l’ammirazione per il modo in cui Dante ha saputo risolvere in concezioni fantastiche la "prosa" di una estrema degradazione morale ed il fastidio per un cosmo dal quale la grande musa romantica, la passione, è stata estromessa.

 

La critica più recente, pur mantenendo quanto è di valido nelle affermazioni del De Sanctis, ha messo ampiamente in luce, nel canti di Malebolge, oltre la straordinaria ricchezza inventiva già dal De Sanctis sottolineata, una maturità artistica di cui non si ha l’esempio nei canti dal I al XVII e che si traduce in un discorso narrativo e lirico assai più variamente articolato e vivace. Per quel che riguarda il canto XVIII, è stato notato (Caretti) come gli "strumenti interpretativi dedotti dalla psicologia sentimentale d’ascendenza romantica" si dimostrino insufficienti ai fini di una definizione della sua unità narrativa e poetica. Questa poggia su di una rigorosa bipartizione, la quale, lungi dal restare esteriore rispetto agli esiti espressivi in cui la narrazione viene di volta in volta sfociando, li determina; non diversamente, in un polittico, la disposizione di masse e colori, pieni e vuoti risulta direttamente influenzata dal rapporti spaziali che legano tra loro le singole parti di esso. Dopo il prologo (versi 1-18) il canto risulta infatti nettamente diviso in due parti, corrispondenti ciascuna alla descrizione di una bolgia e delle quali la seconda (versi 100-136) riflette fin nel particolari più minuti le articolazioni della prima, non senza tuttavia deformarle nel senso di una più accesa espressività caricaturale e farsesca. Ai due esempi di vizio punito nella prima parte del canto, di cui uno tratto dalla cronaca dei tempi del Poeta (Venedico Caccianemico) ed uno dalla tradizione letteraria classica (Giasone), fanno riscontro, nella seconda, l’esempio medievale di Alessio Interminelli e quello antico di Taide. Gli esempi medievali si risolvono ciascuno in un dialogo, nel quale, impietoso, si afferma il tema della denuncia e del ravvisamento (nel primo: Venedico se’ tu Caccianemico; nel secondo: e se’ Alessio Interminelli da Lucca), mentre quelli antichi emergono già moralizzati attraverso la parola di Virgilio. Ma parallelismi e rispondenze sono assai più intimi e puntuali di quanto questi cenni non lascino supporre e si ripercuotono fin dentro la struttura delle singole terzine e nel lessico. Quest’ultimo, caratterizzato nel prologo - esso pure diviso in due parti: la geometrica descrizione iniziale dell’ordigno di Malebolge ed il successivo raffronto di questa astratta struttura con un manufatto umano, I castelli - da un massimo di esattezza e di impersonalità, degrada poi, attraverso il patetico e l’aulico (pièta, repleta), nel comico e nel plebeo (le berze), per sollevarsi nuovamente a dignità epica nella presentazione della figura e della colpa di Giasone, prima di precipitare decisamente nello sconcio e nel farsesco (l’esempio di Taide riproduce, rovesciato nel laido, lo schema di quello di Giasone). Tanto rigoroso geometrismo non costituisce struttura inerte, poiché in esso si esprime il distacco del Poeta dall’abietto argomento trattato, la perfetta adesione del suo sentimento ai criteri della giustizia divina. Non c’è più infatti, in questo canto, come rileva il Caretti, "conflitto tra il Dante "personaggio" e il Dante "poeta" e lo stile, lucidamente ironico e sferzante, fa tutt’uno con il giudizio morale. L’estremo del " comico " s’identifica perciò compiutamente con l’estremo del disprezzo e del distacco sentimentale...".


           

 

INFERNO CANTO XIX

             

 

La terza bolgia, dall’alto del ponte che la sovrasta, appare. interamente disseminata di buche circolari. Da ciascuna di queste spuntano le gambe di un dannato confitto in essa a testa in giù e con le piante dei piedi lambite dalle fiamme. I peccatori che la giustizia divina cosi punisce sono i simoniaci, coloro cioè che hanno fatto commercio delle cose sacre.

 

Dante ferma la sua attenzione su di uno che agita le gambe con impeto più disperato degli altri e che è tormentato da un fuoco più doloroso. Perché il suo discepolo possa apprendere da questo dannato i motivi che lo indussero ad infrangere la legge di Dio, Virgilio lo porta sul fondo della bolgia. Invitato a parlare, il peccatore apostrofa Dante chiedendogli il motivo del suo arrivo nel regno dell’eterno dolore prima del termine a lui prescritto lo ha infatti scambiato per Bonifacio VIII, destinato a prendere il suo posto all’apertura della buca dei papi simoniaci. Dopo aver compreso il suo errore, rivela la propria identità: fu Niccolò III, della stirpe rapace degli Orsini; E’ dannato per aver favorito in modo fraudolento i propri familiari.

 

Il posto di Bonifacio VIII sarà poi occupato da un altro pontefice, ancora più scellerato, Clemente V. Travolto dall’indignazione, Dante prorompe i n una violenta invettiva contro la sete di beni materiali che ha allontanato i vicari di Cristo dai compiti che loro assegnò il divino Maestro e ravvisa nella Chiesa avida di potere e di ricchezze il mostro dalle sette teste e dalle dieci corna di cui parla l’Apocalisse. Ricorda quindi con dolore la donazione di alcuni territori che l’imperatore Costantino fece a papa Silvestro, origine prima del potere temporale dei pontefici e delle discordie che travagliano l’umanità. Poi Virgilio lo riporta sull’argine che separa la terza bolgia dalla quarta e di lì sul ponte che scavalca quest’ultima.


 

Introduzione critica

 

Nella prima parte dell’Inferno la polemica politica di Dante ha per oggetto la storia di Firenze a partire dal 1215, l’anno fatale in cui l’offesa arrecata da Buondelmonte dei Buondelmonti alla famiglia degli Amidei portò alla divisione degli abitanti della città in Guelfi e Ghibellini. E’ storia recente, rispetto ai tempi del Poeta, sono episodi di sangue, odi covati e trasmessi di generazione in generazione nell’isolamento delle mura cittadine. E’ stato osservato che Dante ha spesso delle vicende della sua città una visione angusta e municipalistica e che, ad esempio, nel canto quindicesimo, "le puntate cittadinesche contro Fiesole, il frizzo sulla cecità dei Fiorentini, i proverbi" delineano una Firenze minore, stretta nelle sue mura, rievocata anche nel linguaggio casalingo" (Bosco). Ma Dante non si limita - e in ciò è la grandezza dei suo messaggio, anche quando le soluzioni da lui additate appaiono, sul terreno dei fatti, utopistiche o semplicemente irrealizzabili perché tendenti a ripristinare il passato - a dar sfogo ai suoi risentimenti di uomo di parte e di esule, né, d’altra parte, intende fare opera di cronista. L’indagine cui egli sottopone gli eventi politici mira a ricondurli, non diversamente da ogni altra forma di agire umano, in uno spazio etico, in una regione di norme inaccessibili all’errore.

La politica in quanto sfera autosufficiente e chiusa in se stessa è una creazione del Rinascimento. Per il pensiero medievale essa non può essere scissa dalla totalità dell’agire umano: nell’operare politico, come in qualsiasi accadimento che ha la sua radice nella libertà del nostro volere, si svela un’intenzione volta ad affermare o a negare Dio e il mondo che in Dio, trascendendosi, si afferma e si ordina. Per questo. Dante può trascurare l’analisi dei moventi esclusivamente pratici, circoscritti nel tempo al conseguimento di fini particolari, che determinano l’azione politica per questo, nella sua visione degli eventi, sorretta da una fede sempre più salda a mano a mano che l’avverarsi del suo ideale di giustizia sembra farsi più improbabile e remoto, egli non riesce a definire altrimenti che come decadimento e corruzione radicati nell’avarizia il faticoso emergere, tra la fine del secolo XIII e il principio del XIV, di nuove strutture economiche e sociali e di nuovi istituti politici.

 

Nel canto diciannovesimo per la prima volta la visione di Dante abbraccia il destino dell’umanità intera, preda dell’anarchia in seguito all’abuso che la Chiesa ha fatto della dote di Costantino. La donazione di Costantino, sulla quale appariva nel Medioevo legittimamente fondato il potere temporale dei papi, era, ai tempi del Poeta, al centro delle discussioni che vedevano schierati in campi opposti giuristi guelfi e ghibellini. Nella Monarchia Dante interpreta questa donazione, del cui testo pare non abbia avuto conoscenza diretta, nel senso che Costantino si limitò a "costituire un patrimonio ecclesiastico per sovvenire ai bisogni dei clero e dei poveri, fermo restando il superiore dominio dell’impero sui beni assegnati alla Chiesa" (Nardi). Ma, secondo Dante, il bene operar dell’imperatore romano fe’ mal frutto, poiché "nonostante l’intenzione sacra e benigna del donatore, la donazione costantiniana, così come venne interpretata da chi l’accettò, fu cagione di grave danno alla Chiesa e all’umanità" (Nardi). Il peccato di simonia colpito nella terza bolgia ha quindi un’origine storica: l’umanità redenta dal sacrificio del Cristo si è nuovamente allontanata dal suo Fattore e ha cominciato, dietro l’esempio di coloro che avrebbero dovuto guidarla a Lui, a fare oggetto della propria adorazione non il principio della vita, il Verbo, ma pezzi di materia lucente: fatto v’avete Dio d’oro e d’argento. Non diversamente, nel racconto biblico, gli Ebrei, perduta la fede nel ritorno di Mosè dal monte Sinai, si erano lasciati persuadere a fare oggetto delle loro preghiere e dei loro sacrifici un vitello d’oro. Le affinità fra lo stile dell’episodio dei simoniaci, basato sull’invettiva e sulla visione profetica, e quello biblico, sono molteplici ed evidenti, ma occorre anzitutto cogliere la disposizione d’animo rigorosa ed intransigente, comune sia a Dante che agli agiografi, nei confronti di chi subordina le ragioni dell’eterno a quelle del contingente. L’Indignazione di Dante prorompe in questo canto in accenti di inusitata asprezza proprio perché a promuovere in terra la religione dei beni materiali e la corruzione che ne è derivata sono stati coloro ai quali Cristo ha affidato il compito di custodire la sua Parola. La simbologia complessa che percorre il canto è di derivazione biblica, ma non resta lettera morta, semplice imitazione o parodia, secondo quanto ritiene il D’Ovidio, del modo di parlare degli ecclesiastici che hanno agito in modo contrario ai dettami della fede. Essa commuove il Poeta fin nel profondo, carica com’è di allusioni ad una vicenda sovrannaturale, per cui le singole immagini (spose... avolterate... matre... patre ... ), nel tradurre in termini di consanguineità i rapporti stabilitisi fra una realtà umana e Dio, riflettono la stessa immediatezza aspra e solenne che caratterizza le immagini bibliche. Ma in Dante rivive non soltanto l’accesa religiosità dei profeti d’Israele, ma anche il severo metodo della Scolastica, poco propizio all’amplificazione dei sentimenti quanto portato ad estendere a tutti gli aspetti del reale il rigore del procedimento deduttivo. La su poesia nasce proprio dal contrapporsi dialettico di un fortissima istanza passionale e di una non meno forte esigenza di ordine e di logicità. Di qui deriva, nel canto diciannovesimo, che le singole immagini appaiono legate fra loro da i lessi di pensiero oltre che di sentimento. Il Sanguineti ha parlato in proposito di "un puntualissimo immaginare deduttivo", di un "sillogizzare... che non viene già traducendosi, di momento in momento, in immagine, ma in immagine appunto, in figura originariamente germina, in figurati emblemi viene immediatamente disviluppando la propria trama".


           

 

INFERNO CANTO XX

             

 

Dall’alto del ponte Dante dirige il suo sguardo verso il fondo della quarta bolgia, dove una moltitudine di anime - quelle degli indovini - avanza in silenzio piangendo. Ciascuna di esse ha il viso completamente rivolto all’indietro, in modo che le lagrime bagnano la parte posteriore del corpo. Nel vedere la figura umana così stravolta Dante non riesce a trattenere un moto di commozione, ma Virgilio lo rimprovera aspramente, facendogli notare che essere pietosi verso siffatti peccatori significa ignorare la vera pietà. Poi gli rivela il nome di alcuni di loro: Anfiarao, che la terra inghiotti sotto le mura di Tebe assediata, Tiresia, che un arcano prodigio trasformò in donna e che poi riprese le sembianze maschili, Arunte, che contemplava il cielo e il mare da una spelonca nel monti dell’Etruria, Manto, la figlia di Tiresia, la quale, dopo aver errato a lungo per il mondo, si stabilì in una regione deserta dell’Italia, nel punto in cui il Mincio, alimentato dalle acque del Garda, formava una palude.

 

Qui l’indovina morì e qui gli abitanti sparsi nei luoghi vicini fondarono, dopo la sua morte, una città che chiamarono Mantova. Tra gli indovini dell’antichità Virgilio addita ancora al suo discepolo Euripilo, che insieme a Calcante dette alla flotta greca ancorata in Aulíde il segnale della partenza per Troia, poi menziona alcuni tra i dannati che si resero celebri nel Medioevo per aver esercitato l’arte della magia.


Introduzione critica

 

E’ sul personaggio di Virgilio che la critica di indirizzo positivistico (D’Ovidio, Porena), analizzando il canto XX dell’Inferno, si è soffermata con particolare attenzione. Essa ha rilevato, nella durezza del tutto insolita con la quale il poeta latino contrappone il proprio scherno alla pietà manifestata da Dante alla vista della pena degli indovini, e nella lunga digressione che egli fa sulle origini di Mantova, i motivi di maggior interesse del canto. Per il Porena nell’episodio degli indovini Dante "fa indirettamente l’apologia di Virgilio, mostrandolo tanto alieno dalle arti magiche da essere fin troppo severo con quella specie di peccatori, e spaventato all’idea che si potessero credere i mantovani discendenti da un’indovina famosa". Nel saggio del Croce sulla poesia di Dante i motivi addotti a sostegno di questa interpretazione vengono dichiarati del tutto insussistenti, e la difesa che in esso Dante farebbe della fama di Virgilio considerata una mera invenzione dei critici : "di questa presunta difesa, di questo calcolo, e dell’orrore per la magia e stregoneria, non è nulla nel canto degli indovini e maliardi, che è per eccellenza il canto delle leggende e dei personaggi strani e misteriosi". Analogo è il punto di vista del Momigliano: Dante, nell’esprimere la propria condanna per l’arte degli indovini, non sarebbe riuscito a sottrarsi al fascino che da quest’arte emana, per cui "le figure di Anfiarao, di Arunte, di Manto, e un po’ anche di Tiresia, sono avvolte da un’aura d’incantesimo, che non allontana il lettore ma lo attrae". Se il canto non raggiunge una sua persuasiva unità, ciò sarebbe dovuto al sovrapporsi, sul momento contemplativo ("il fascino di quelle figure"), di un momento pratico, consistente nel "proposito di ripudiare la credenza che esse rappresentano". Questa interpretazione del canto, tendente, sulle orme del Croce, a scindere in Dante il momento poetico da quello dell’impegno morale ed intellettuale fino a considerarli interamente estranei l’uno all’altro ed a bloccare in una astratta incomunicabilità reciproca le zone dichiarate poetiche da quelle della non-poesia, viene decisamente respinta dal Sanguineti, il quale insiste sul fatto che, nella Commedia, il momento contemplativo è sempre riassorbito nel momento etico, per cui, nel XX canto, "né la caduta infernale di Anfiarao, né il cangiamento di membra di Tiresia, né le successive evocazioni virgiliane... si dispongono quali liberi recuperi di una affascinante aura di mito, ma come saggi esemplari... di uno Stazio e di un Ovidio (e di un Lucano e di un Virgilio) moralizzati". Ciascuna di queste posizioni critiche ha approfondito la lettura di questa pagina del poema.

Se ora ci volgiamo a considerare nella loro concretezza le soluzioni dal Poeta adottate nel canto degli indovini, vediamo come in esso l’intrecciarsi del motivo dichiarato poetico dal Croce e dal Momigliano con quello della "moralizzazione" prospettato dal Sanguineti, anziché irrigidire la pagina in un inerte giustapporsi di frammenti, la arricchisca di nuove suggestioni e ponga le basi per un discorso critico più complesso. Così, per quel che riguarda lo stile, alla precisione tecnica, amaramente definitoria, che caratterizza il motivo del contrappasso, si oppone l’indefinita ampiezza di orizzonti che circonda le figure degli antichi indovini. Ciò che Dante vede, ha i confini netti di un incubo della ragione, ci colpisce per la paradossalità con la quale il male si propone in figure visibili: la processione dei dannati ricorda un corteo religioso, la falsa fede che li impegnò a scrutare nei disegni della Provvidenza si converte, nell’immagine della parlasia, in ammonimento e dolore.

Il tema dello stravolgimento si riflette nei versi 23-24 - ove la specificazione degli occhi si contrappone con brutale evidenza a le natiche - fin nella struttura più minuta dell’immagine, per emergere poi nuovamente in definizioni taglienti nei versi 37 (mira c’ha fatto petto delle spalle) e 46 (Aronta è quei ch’al ventre li s’atterga).

Quanto invece Dante intorno alle figure degli antichi indovini immagina o rievoca, sfugge a quel senso di costrizione che caratterizza l’apparizione dei dannati nella bolgia. Un’affermazione di libertà e solitudine intatte, di raccoglimento nella natura selvaggia, si trova alla base delle loro leggendarie biografie, rapidamente colte, in uno o più tratti significativi, attraverso la parola di Virgilio. Arunte ebbe la sua spelonca là dove il Carrarese non si attenta di salire; l’oasi della meditazione è alta, tra rupi durissime e vergini, dove il tempo propone immobile, nelle forme del cielo e del mare, nel ritmo dei giorni e delle notti, la suggestione dell’eterno; l’operare dell’uomo, la fatica di chi umanamente nobilita, in un umile impegno quotidiano, la condizione del dolore, sono superbamente ignorati. Manto si apparta con la sua vocazione in una terra abbandonata dal vivi, dove le acque del Mincio ristagnano in una quiete assorta, sognante.

La morte di Anfiarao riveste dimensioni sovrumane di cataclisma geologico (s’aperse... la terra), è un precipitare nelle tenebre (rui, ruinare a valle) fino al momento del dichiararsi univoco, senza appello, della giustizia di Dio (Minòs).

Tiresia sconta una maledizione misteriosa e da essa misteriosamente si riscatta.

La figura di Euripilo spicca sullo sfondo di una Grecia desolata, resa più vasta dalla partenza di tanti eserciti e dal prospettarsi di un avvenire ignoto.

Il tema degli spazi illimitati e del mistero culmina nella determinazione astronomica con la quale il canto si conclude: si inquadra grandiosamente nell’atmosfera tragica e rarefatta della quarta bolgia la figura di Caino, che, oppresso dal suo fascio di spine - nelle quali è difficile non scorgere un’allusione alla sterilità del peccato - tocca, quasi sfiorandola appena, l’onda del Mediterraneo, contrapposta al suo carico dì spine come principio di vita, dì mobilità perenne.

           

 

Divina commedia inferno riassunto

INFERNO CANTO XXI

             

 

I due pellegrini giungono sul ponte che scavalca la quinta bolgia, straordinariamente buia a causa della pece bollente che ne occupa il fondo e nella quale sono immersi i barattieri, coloro cioè che fecero commercio dei pubblici uffici. Mentre Dante è intento a guardare in basso, sopraggiunge veloce un diavolo e, dall’alto del ponte, getta nella pece uno degli «anziani» di Lucca, città nella quale, a suo dire, tutti sono barattieri. Il dannato, dopo il tuffo violento, viene a galla, ma i custodi della bolgia, i Malebranche, lo costringono ad immergersi nuovamente. A questo punto Virgilio, dopo aver fatto nascondere Dante dietro uno spuntone roccioso, si dirige verso i diavoli e fa presente al loro capo, Malacoda, che il viaggio intrapreso da lui e dal suo discepolo è voluto dal cielo; poi invita Dante ad uscire dal suo nascondiglio. Alla sua vista i Malebranche tentano di uncinarlo; occorre che Malacoda faccia ricorso a tutta la sua autorità perché desistano dal loro proposito. Malacoda fornisce quindi a Virgilio indicazioni riguardo allo scoglio che porta alla sesta bolgia, essendo crollato, su quest’ultima, il ponte posto in continuazione di quelli che i due poeti hanno fino a questo punto percorso. Dà poi loro come scorta un gruppo di dieci suoi sottoposti, comandati da Barbariccia. I dieci diavoli si mettono in fila e Barbariccia, attraverso uno sconcio segnale, impartisce loro l’ordine della partenza.

 

Introduzione critica

 

Il problema del comico in Dante, impostato dal De Sanctis nei suoi termini essenziali, è stato variamente studiato dai critici. Alcuni hanno preteso - riallacciandolo al modo in cui il Poeta raffigura se stesso in balìa, in un mondo di mostri e di orrori, della propria paura - di individuare nel comico una tonalità di non trascurabile rilievo nell’ordito complessivo del poema. Dante ritrae se stesso in quanto protagonista della Commedia e personaggio tipico (non dunque nei momenti di maggiore accensione, allorché la passione lo porta ad identificare la propria proiezione nel narrato con la propria realtà di autore) come "un uomo di media umanità, rifuggente da ogni atteggiamento eroico, con l’animo aperto ai sentimenti che normalmente commuoverebbero il petto dell’uomo, in quelle circostanze; fra i quali sentimenti deve trovar posto... anche la paura" (Frascino). Nelle forme in cui questa paura si viene atteggiando è stata riscontrata una comicità affine, per alcuni versi, a quella che il Manzoni fa scaturire dal personaggio di Don Abbondio. In questo senso si esprime ad esempio il Torraca nel commentare un passo del canto ventunesimo dell’Inferno. Altri critici, più aderenti alla tesi del De Sanctis, hanno fortemente limitato la presenza del comico nel poema. Per il Parodi Dante è troppo seriamente impegnato in quello che dice per potersi concedere una pausa di disinteressata, serena contemplazione delle umane debolezze; carattere fondamentale del poema è la tensione; più che di tonalità comica occorre parlare di realismo, satira, sarcasmo. Il Pirandello, in un’analisi del primo canto dei barattieri, attira l’attenzione sul fatto che "Dante non può far che Dio scherzi punendo", ed aggiunge: "Non bisogna confondere il sarcasmo, l’ironia, lo scherno, col comico. Che se talvolta comica appare esteriormente la frase, non ne è mai comico il sapore, perché non è mai comica l’intenzione del poeta; e perciò non fa ridere. La frase comica sarà messa lì per ottenere un effetto di più cruda ripugnanza". Il Vossler infine ritiene che, ove Dante avesse, nel regno della malizia, fatto luogo "ad una comicità bonaria e spensierata", sarebbe andato contro quella che è "l’intonazione fondamentale della Commedia, che per tutti i cento canti rimane sempre saldamente etica".

 

Ora appare evidente - per poco che si abbia dimestichezza con il poema - che le formulazioni del De Sanctis sono in linea di massima esatte, che il riso di Dante è quasi ovunque amaro, si apparenta al ghigno, alla smorfia di dolore, al disgusto, trova la sua espressione nell’ironia crudele, sfocia, in modo ora più ora meno esplicito, nell’invettiva. Ma, per alcuni dei luoghi del poema dove Dante mostra se stesso alle prese con la paura e in particolare per i canti dei barattieri, è altrettanto evidente che la tonalità che prevale è il comico, mentre le forme appassionate e moralmente definite dell’ironia, del sarcasmo, dello scherno sono come messe in ombra. Naturalmente, nel fare menzione del comico a proposito di Dante, non dobbiamo intendere questa categoria nei significati che è venuta assumendo in tempi diversi da quelli del Poeta. Il comico in Dante ha una carica di immediatezza ed una violenza di contorni quali non è dato riscontrare in secoli che hanno sostituito all’interrogazione diretta del reale un gioco di schermi e finzioni, alla ferma constatazione del negativo la fuga in un eliso di armoniche parvenze.

 

Il Sapegno colloca la comicità dell’episodio dei barattieri nella cornice di un "gusto schiettamente romanico", il Sozzi scorge in essa "un’attenzione piena di curiosità di fronte a quello che sotto l’aspetto filosofico è il mondo della naturalità e della vitalità pura e fine a se stessa, il mondo « politico » nel senso crociano del termine", nel quale i valori non riducibili all’utile individuale sono del tutto ignorati e spietata si afferma la lotta per la sopravvivenza e il successo. Il Del Beccaro, a sua volta, vede nella quinta bolgia, come del resto nel cerchio ottavo preso nel suo complesso, l’antitesi di quel "passato sereno, di patriarcali virtù", verso il quale Dante nostalgicamente si protende e che aspira a veder ripristinato: "La fisionomia del mondo, dei viventi, il mondo del « negozio », è qui più corrente che altrove, quasi che Dante abbia voluto sottintendere una condanna di principio alla preponderante attività degli uomini del suo tempo, al sempre più libero e disinvolto commercio d’una società in fase di espansione". La città della frode, agli antipodi della Gerusalemme celeste, è quindi anche la città dei traffici, dell’attivismo senza scrupoli che ha per fine il guadagno, di quella borghesia razionalisticamente orientata che sarà, alcuni decenni dopo la morte dell’Alighieri, la protagonista del Decamerone. Il quadro dell’arzanà de’ Viniziani (versi 7-15) non è soltanto una miniatura esuberante o meno - a seconda dello schema critico cui viene commisurata - rispetto all’insieme del canto, del quale costituisce il prologo. Esso ha un valore emblematico, rappresentativo dell’intero clima di Malebolge, e dell’episodio dei barattieri in particolare: un operare fervido, disgiunto dalla considerazione di finalità fondate in un ambito morale, ha condotto questi peccatori non a costruire, restaurando il distrutto, ma a distruggere, a perdersi.

 

Quello che per il De Sanctis è lo stile di Malebolge, la sua «prosa», la sua comicità densa e plebea, scaturisce dalla natura stessa del peccato di frode, radicato, assai più di quelli di incontinenza o di violenza, nell’intersoggettività del vivere sociale: di qui il prevalere dei gruppi sulle grandi individualità isolate e quello della rappresentazione dinamica sulla presentazione statuaria dei personaggi. Tra le specificazioni della frode la baratteria rappresenta, in modo più esplicito delle altre, il principio eversore di ogni ordinamento civile, un germe di anarchia che trova, nell’individualismo indocile dei dieci demoni, la propria persuasiva e sicura misura poetica.


           

 

INFERNO CANTO XXII

             

 

A mano a mano che il drappello guidato da Barbariccia si avvicina, i barattieri che affiorano con l’arco della schiena alla superficie della palude bollente e quelli che, disseminati lungo le sue rive, stanno come rane sull’orlo di un fossato, si tuffano in essa con rapidità fulminea. Uno di loro tuttavia non fa in tempo a nascondersi. E’ Ciampolo di Navarra, che Graffiacane è riuscito a prendere con il suo uncino. Il barattiere, dopo avere narrato di sé e dei suoi compagni di pena, promette di farne venire molti nel punto in cui si trova, purché i Malebranche si tengano un po’ in disparte. Su consiglio di Alichino la sua proposta viene accettata, ma non appena i diavoli si volgono verso uno degli argini della bolgia, Ciampolo spicca un salto e scompare sotto la pece. Alichino, dopo aver tentato vanamente di raggiungerlo volando, è afferrato da un altro dei Malebranche, Calcabrina, il quale, adirato per lo smacco subìto, si azzuffa con lui. I due diavoli finiscono per cadere nella pece bollente.

 

Mentre Barbariccia, addolorato, dà disposizioni al suoi sottoposti perché si adoperino a salvare i loro compagni, Dante e Virgilio si avviano per lasciare la quinta bolgia.

 

Introduzione critica

 

La guardia ai cerchi dell’alto e medio inferno è affidata a demoni, le cui figure sono state ispirate a Dante dalla letteratura antica. Questi sono "personaggi infernali dell’Eneide, quali Caronte e Minosse, o mostri come Cerbero, sia pure adattati a un gusto figurativo romanico che ha in Gerione il suo esempio più caratteristico, o dei pagani trasformati appunto in demoni secondo la tradizione cristiana medioevale" (Cattaneo).

 

Il loro aspetto non è mai privo di una certa maestà; essi appaiono in una luce di prestigio anche nel momento in cui la loro sconfitta di fronte alla ragione (Virgilio) palesa la sostanziale debolezza che si cela dietro le loro apparenze crudeli. Dante ha veduto in essi, protagonisti in terra di leggende cantate dai poeti, i cittadini di un universo di cultura oltre che le incarnazioni del male. Tutt’altra natura hanno i custodi della quinta bolgia, di ispirazione schiettamente medievale. I loro antecedenti sono nella tradizione iconografica della scultura, pittura e miniatura dei Duecento, nelle sacre rappresentazioni, in rozze leggende come quelle che hanno fornito lo spunto ai tentativi letterari di Giacomino da Verona, Uguccione da Lodi, Bonvesin della Riva.

 

In essi la natura umana non appare degradata, come nei guardiani dei cerchi superiori in qualcosa di ibrido e deforme, quanto piuttosto colta in uno stadio di primitività - anteriore al momento della riflessione - anarchica e spensierata.

 

I custodi dell’alto e medio inferno sono tragici: tutto parla in essi di decadimento, dello smarrirsi di un’originaria perfezione. Sotto questo punto di vista le loro figure, benché proposte a Dante da poeti pagani, rispecchiano assai più da vicino una prospettiva teologica, una meditazione cristiana sul problema del male. I diavoli della quinta bolgia sono invece comici, comico essendo il contrasto fra la loro intelligenza, superficiale, istintiva, mobilissima, e la parte, superiore alle loro forze, che pretendono di recitare di fronte ai due stranieri capitati nel loro dominio.

 

Le parole con le quali Virgilio manifesta la volontà divina non li paralizzano nel dolore, non ríbadiscono in loro, nel ricordo di una condanna senza appello, la coscienza della loro degradazione. Significativo, a questo riguardo, è un raffronto tra il modo di reagire, alle intimazioni del poeta latino, di Pluto e quello di Malacoda; di quest’ultimo Dante ci dice che solo l’orgoglio gli "cade" mentre - e il parallelismo ha un indubbio sapore comico - l’uncino gli "casca" ai piedi. La caduta di Pluto non è invece una caduta soltanto metaforica; essa somiglia ad un annientamento totale, non consente alcuna distinzione tra realtà interiore e realtà esteriore (espresse rispettivamente, nell’episodio di Malacoda, da orgoglio e da uncino); vano si è rivelato il suo ricorso a Satana, un accenno indiretto (vuolsi nell’alto ... ), la luce di quella parola che in lui ha smarrito la capacità di significare, ne fanno un vinto, un inerme.

 

Malacoda si adatta invece benissimo alla situazione davvero inconsueta che gli viene prospettata (XXI, versi 83-84); per lui la volontà divina è un semplice dato di fatto; di esso bisogna tenere conto né più né meno che di altre realtà che affiorano nel vivere quotidiano; ma sul suo significato non ha senso soffermarsi. Non potendo impedire l’attuazione dei decreti dei cielo, egli pensa di trarre profitto dalla presenza dei due pellegrini nel suo territorio ed inventa la menzogna del ponte sulla sesta bolgia. Virgilio, la ragione, ingenuamente persuasa di poter risolvere nel proprio ambito tutto il reale, ignora la dimensione della malizia gratuita e paga di sé, il male non riducibile, secondo l’insegnamento degli antichi, ad una semplice distorsione dell’intelletto.

 

Eccolo dunque accettare la compagnia dei diavoli. Un’intelligenza rozza, incapace di soste meditative, ha trionfato della sua incommensurabile saggezza. Il segnale di Barbariccia suggella umoristicamente la momentanea vittoria del primitivo sulla complessità di forme razionali e tradizioni di alta civiltà che nella figura dell’autore dell’Eneide trovano la loro trasfigurazione poetica.

 

Se il canto XXI si conclude con il trionfo dei diavoli, questi, nel canto XXII, sono a loro volta vittime di una beffa escogitata ai loro danni da un peccatore.

 

Una singolare forma di contrappasso, scanzonato e ridanciano (ma nella chiesa coi santi, ed in taverna co’ ghiottoni), appare alla base dell’intermezzo comico della quinta bolgia. Se infatti l’intuito dei diavoli ha ragione, forse perché non la tiene in nessun conto, dell’autorevolezza di una logica scissa dalla realtà degli istinti, esso deve a sua volta dichiararsi sconfitto di fronte alla logica, tutta travasata nel concreto, di chi, come Ciampolo, cerca di salvare la propria incolumità.

 

La presentazione che questo dannato fa di sé, più che cinica, come è parso a taluni, è "semplicemente incosciente e primordiale. Sembra che egli non abbia coscienza che della sua immediata, esistenza, dell’essere in quanto essere puramente fisiologico e animale. Dante segue con sguardo tra stupito ed ammirato il manifestarsi dell’intelligenza in un carattere così diverso dal suo.

 

L’episodio di Ciampolo è la rappresentazione di tale intelligenza, che si afferma e dà i suoi frutti nelle condizioni più svantaggiose" (Salinari).

 

Da un punto di vista lessicale il canto è, come il precedente, ricco di idiotismi e forme proverbiali. Queste particolarità di stile non hanno soltanto la funzione di caratterizzare più da vicino i personaggi (come donno e di piano, per mezzo dei quali ci è restituito nelle sue sfumature cariche di malizia l’ambito delle preoccupazioni che tengono ancora desta e attiva la coscienza dei barattieri sardi), ma si estendono anche a quei punti nei quali Dante parla in prima persona. Il linguaggio contribuisce in tal modo alla creazione di un’atmosfera nella quale dannati e diavoli, e Dante con loro, appaiono accomunati in un sentire che riscatta - sul piano dell’arte - la propria elementarità plebea nella genuinità delle proprie manifestazioni.


INFERNO CANTO XXIII

             

 

Inferociti per lo smacco subito, i Malebranche inseguono i due pellegrini, ma questi riescono a porsi in salvo calandosi per il dirupo che porta nella sesta bolgia. Qui una folla di anime, quelle degli ipocriti, avanza a passi lentissimi, oppressa da pesanti cappe di piombo, tutte dorate esteriormente. Due dei dannati pregano Dante e Virgilio di sostare ed uno, invitato dal Poeta, parla di sé e del compagno e accenna alla loro colpa: bolognesi e frati Gaudenti entrambi, ricoprirono insieme a Firenze la carica di podestà, con il compito di riportare la pace fra i partiti. I risultati della loro doppiezza sono ancora visibili nei pressi del Gardingo, dove un tempo sorgevano le dimore degli Uberti, poi rase al suolo. Dante di nuovo rivolge loro la parola, ma all'improvviso tace, poiché il suo sguardo si ferma su un peccatore crocifisso a terra per mezzo di tre pali. Uno dei due frati Gaudenti gli spiega che si tratta del gran sacerdote Caifas, il quale suggerì al Farisei di suppliziare e uccidere Cristo; poi rivela che nessun ponte scavalca la sesta bolgia. Malacoda ha dunque mentito. Virgilio, crucciato, si allontana a gran passi, seguito dal discepolo.


 

                                  Introduzione critica

 

Anche nell'episodio degli ipocriti sarebbe presente, secondo alcuni studiosi (Sannia, V. Rossi), quell'elemento comico che costituisce la tonalità principale dell'intermezzo - fondamentalmente spensierato e alieno dal definirsi nei termini consueti dell'ethos e della religiosità danteschi, pur senza contrastare con questi ultimi - dei canti XXI e XXII. Secondo questo punto di vista la commedia degli ipocriti non ha, né del resto potrebbe avere, dato il carattere dei suoi protagonisti, l'evidenza rude e immediata che caratterizza quella dei barattieri. La comicità di questo episodio richiederebbe, per essere assaporata in tutte le sue sfumature, una lettura volta a cogliere, oltre l'evidenza delle immagini, il sottile gioco di sottintesi che Dante sarebbe riuscito a celare in questa sua pagina e risulterebbe, più che dall'insieme dell'episodio, da una somma di particolari. Questi, illuminandosi a vìcenda, sarebbero in grado di svelarci lo stato d'animo con il quale il Poeta avrebbe immaginato lo spettacolo della sesta bolgia e il suo incontro con i due frati Gaudenti. E' pertanto sui particolari che questi critici hanno fermato la loro attenzione, isolandoli, al fine di legittimare la loro tesi, dal contesto in cui sono inseriti.

Per il Sannia, ad esempio, l'invocazione con cui uno dei due podestà bolognesi si rivolge a Dante e Virgilio (tenete i piedi ... ) avrebbe un sapore comico, comico essendo il contrasto fra la sua "smania del pervenire e la tardità forzata" laddove V. Rossi scrive, sempre a proposito di questa invocazione, che "Catalano fa, senza volerlo, la caricatura del suo tartarughesco andare".

E' invece evidente, a chiunque legga questo canto senza preconcetti, che in esso riaffiora solenne, maestoso, reso più grave dal ritmo lento delle terzine - in cui pare riflettersi qualcosa del penoso incedere degli ipocriti - il motivo del sovrannaturale rìmasto in ombra nei due canti precedenti e che, tra l'altro, l'invocazione dei versi 77-78, lungi dall'essere caricaturale, è tragica, sconsolata.

Come è assurdo il voler riscontrare spunti comici - a meno di definire comica la paradossalità, nella quale si esprime tragicamente una giustizia superiore a quella umana, della condizione dei dannati - nella pena avvilente dei sodomiti del canto XVI, e nel modo in cui alcuni di essi, gli artefici della grandezza di Firenze, parlano del loro stato, altrettanto assurdo è il voler trovare, nell'episodio della sesta bolgia, un'intenzione beffarda o caricaturale non riconducibile a quelle che sono le costanti morali e religiose del pensiero del Poeta.

Il motivo del sovrannaturale si manifesta anzitutto nella forma del contrappasso, nella quale appare eccessiva sottigliezza scorgere anzitutto un'espressione di ipocrita ironia verso coloro che in vita fecero dell'ípocrisia la loro arma, la loro abitudine. Considerazioni del genere si saranno forse imposte al Poeta, ma come motivo marginale, come tema astratto: il ritmo e le immagini delle sue terzine le hanno relegate in secondo piano. Nella pena degli ipocriti non sfavilla infatti un atteggiamento ironico - e quindi necessariamente scettico e indulgente - nei confronti delle umane debolezze, ma si afferma, dolorosa, intransigente, una certezza che non conosce remissioni. La grandezza di Dante, qui come altrove, sta nel condividere, da uomo, il dolore dei dannati, senza che per questo la sua fede nella giustizia divina risulti incrinata o scossa. Come nel canto XVI, anche nel XXIII la degradazione dei dannati è suggerita attraverso una metafora che li riduce a strumenti (le bilance) e attraverso la sottolineatura dei particolare fisico considerato a sé (ad ogni mover d'anca... tenete i piedi... all'atto della gola), né diversamente che in quello il sentimento di Dante è di pena per lo spettacolo che si dispiega sotto i suoi occhi e di reverenza per Colui che ne è l'autore.

Un acuto lettore di questo canto, il Bertoni, lo ha definito "il canto della stanchezza e della malinconia", rilevando che nell'episodio degli ipocriti "il terrore cede il posto a un senso di scoramento e di pena e al movimento è sostituita una gravosa lentezza" e caratterizzando questi dannati, dopo aver messo in luce la somiglianza del loro castigo con quello dei superbi e degli invidiosi della seconda cantica, come degli "umiliati e vinti, incapaci di pronunziare una parola che provochi ira o disgusto". Sempre per il Bertoni "nel contrasto fra l'impaccío dei dannati e la sollecitudine e la fretta di raggiungere presto i due poeti e nel loro sguardo bieco" non c'è nessun tratto umoristico, "ma piuttosto il segno di un desiderio vano di sollievo e di liberazione in tanta e così penosa costrizione". In termini analoghi si esprime un altro critico, il Bonora, per il quale, tra l'altro, la preghiera rivolta da uno dei due frati Gaudenti a Dante e Virgilio ha "solo il valore di quei suoni che rendono più assorta un'atmosfera di silenzio", per cui nelle loro parole si avvertirebbe "solo la vibrazione della fatica disumana cui sottostanno questi incappucciati". Anche nelle parole che Dante rivolge loro - o frati, i vostri mali... - il Bonora scorge "il medesimo senso di soffocazione" che è caratteristico di tutta la seconda parte del canto: in questa infatti si riflette "quel sentimento dì dolore che non ha voce per esprimersi, quella fatica immensa" che "trovano la loro compiuta figurazìone nel versi rallentati, scanditi dalla successione faticosa dei gruppi consonantici", con cui l'episodio degli ipocriti si apre.

Il canto XXIII è una pagina caratterizzata da una fortissima unità tonale, nella quale la definizione di una diffusa atmosfera di tristezza, di silenzio, di angosciata rassegnazione prevale sulla caratterizzazione drammatica e psicologica di personaggi e situazioni. Per questo soltanto la critica più recente, non più condizionata dalle premesse che furono proprie degli orientamenti romantici e positivisti, è riuscita ad intenderlo nella concretezza dei suoi esiti espressivi.


           

 

INFERNO CANTO XXIV

             

 

Il turbamento di Virgilio per la menzogna di Malacoda ha fatto sbigottire Dante, ma egli riprende coraggio non appena il poeta latino, prima di iniziare la salita lungo la frana che porta sulla sommità del settimo argine, si volge a lui con volto benigno. L’ascesa è ardua: nonostante i consigli e l’aiuto del maestro, Dante giunge stremato sul ponte della settima bolgia e occorre che Virgilio gli ricordi che la fama si conquista soltanto vincendo gli ostacoli e trionfando delle difficoltà, perché riprenda il cammino. Dall’alto del ponte di roccia lo spettacolo che si mostra alla vista dei due pellegrini è strano e orrido: il fondo della bolgia pullula di serpenti e di anime spaventate che fuggono senza speranza. All’improvviso un dannato, trafitto al collo da un serpente, brucia, si trasforma in cenere e dalla cenere risorge con le fattezze di prima. Interrogato da Virgilio, dice di essere il pistoiese Vanni Fucci, di aver condotto una vita più consona ad una bestia che ad un uomo, di trovarsi nella settima bolgia, fra i ladri, per un furto sacrilego compiuto nella sua città. Poi profetizza, perché Dante ne soffra, una sanguinosa vittoria dell’esercito dei Neri, guidato dal marchese Moroello Malaspina, su quello dei Bianchi di Pistoia e di altre città.

 

 

Introduzione critica

 

Il canto XXIV è un chiaro esempio della varietà tonale e di moduli compositivi che caratterizza la poesia di Dante, varietà che esprime la ricchezza di interessi del Poeta, la sua capacità di animare di vita fantastica anche zone aride ed apparentemente insignificanti del reale. Esso inoltre, legandosi strettamente al canto precedente - il quadro del villanello risponde al proposito di illustrare, attraverso un esempio tutto calato in raffigurazione concreta, lo stato d’animo che si era determinato in Dante alla fine dell’episodio degli ipocriti - e a quello successivo - la blasfema autopresentazione di Vanni Fucci culmina nella prima terzina del canto XXV - testimonia dell’impegno posto dal Poeta nel trattare la propria materia anzitutto come « racconto ». E’ noto che il Croce giudicava irrilevante, ai fini dell’accertamento in sede critica della poesia di Dante, l’aspetto propriamente narrativo della Commedia, considerando quest’ultima come una raccolta di liriche a sé stanti, inserite in una struttura di comodo (il cosiddetto « romanzo teologico »). Per illustrare questa distinzione tra parti poetiche e parti meramente strutturali nell’organismo del poema, il Croce aveva fatto ricorso all’immagine della "fabbrica robusta e massiccia [le patti meramente strutturali, il romanzo teologico], sulla quale una rigogliosa vegetazione [le singole liriche, relativamente autonome le une rispetto alle altre, e del tutto indipendenti dalla struttura] si arrampichi e stenda e s’orni di penduli rami e di festoni e di fiori ".

Per anni la critica ha cercato di eludere o attenuare il rigore di questa tesi, la quale tra l’altro, mentre invita ad una lettura dispersiva, ingenuamente compiaciuta della propria infallibilità, aliena dal porre problemi, non consente di determinare quello che è il punto di convergenza degli interessi morali e religiosi di Dante, la genesi della Commedia in un mondo di simboli e idee, la straordinaria concretezza della sua parola conseguita attraverso la più dura astrazione. Recentemente il punto di vista crociano è stato non più soltanto dichiarato insufficiente, ma da alcuni addirittura rifiutato nel suo insieme.


Nel suo commento il Sapegno mette continuamente in luce i rapporti che legano l’espressione poetica alle sue premesse culturali, mentre il Sanguineti, in uno studio su Malebolge, rovescia l’impostazione crociana, sostituendo ad una "lettura lirica" del testo di Dante una sua interpretazione in chiave narrativa.

Il canto XXIV può essere diviso, ai fini di una maggiore chiarezza espositiva, in quattro parti. L’esordio (versi 1-21), incentrato sulla disperazione del villanello, appare elaborato ma vivo, prezioso e agile ad un tempo. Nel diminutivo con cui viene indicato, senza altre specificazioni - il suo stato d’animo è risolto in gesto: si batte l’anca - il protagonista umano dell’ampia vicenda iniziale (versi 1- 15), si ripercuote intatta la freschezza degli altri termini del quadro: l’anno giovanetto, il sole chiomato che acquista forza nella costellazione dell’Acquario, la sorella bianca della quale la brina imita, come per un atto dì civetteria, le fattezze, la terra candida a perdita d’occhio, che, con spontaneità felice, muta aspetto. A questa evocazione orientata in senso decorativo e nella quale tuttavia, secondo quanto rileva l’Apollonio, la seduzione di un’arte che percorre tutti i temi del gotico fiammeggiante e del barocco" sì mostra già "vinta nell’atto che [Dante] le predispone l’incantesimo di una purificazione idillica", segue - disadorna nel rilievo assunto dalle determinazioni spaziali - la descrizione dei movimenti compiuti dai due poeti per passare dalla sesta alla settima bolgia. Questa descrizione culmina in uno dei momenti più dichiaratamente pedagogici del poema: l’esortazione di Virgilio, che acquista serietà e vigore di risonanze dal proiettarsi in uno sfondo di implicazioni simboliche, di raccoglimento Meditativo.

Il grande tema delle metamorfosi dei ladri, del quale in questo canto è svolto uno dei motivi fondamentali - il motivo elegantemente commentato dalla similitudine della fenice: trasformazione della figura umana in cenere e riconversione subitanea della cenere in figura umana (versi 82-120) - e che sarà ampiamente ripreso nel canto successivo, è stato interpretato dalla critica romantica come un pezzo di eccezionale bravura, al quale tuttavia lo svolgimento analitico impedirebbe di tradursi in poesia. Per il De Sanctis ad esempio esso rappresenta "il più grande sforzo dell’immaginazione umana, quantunque la soverchia minutezza generi sazietà". Questo giudizio è fatto proprio da un altro storico della letteratura italiana, il Gaspary, il quale ritiene che nella descrizione dello spettacolo della settima bolgia l’effetto non corrisponde pienamente ai mezzi adoperati.

Il Croce attenua la severità di queste formulazioni; pur mantenendo la lettura del brano nei termini indicati dalla critica ottocentesca («Non regna qui il senso del misterioso e prodigioso, né c’è vero sbigottimento per la terribilità di quei castighi divini. L’interesse è trasportato dalla cosa, che per sé commuove poco l’anima del Poeta, al modo di dirla»), egli addita nella "gioia della potenza artistica" il sentimento che in questa pagina troverebbe la propria compiuta espressione.

In tempi più recenti è stato veduto, nel rigore analitico che caratterizza le metamorfosi dei ladri, proprio ciò che la critica aveva da esse in precedenza escluso: la poesia dell’orrore tragico e religioso (Momigliano e Maier), un orrore che scaturisce non dal semplice dato intuitivo, ma dalla riflessione sulla sua contraddittorietà, una tragedia che incombe sul sentimento dei Poeta dopo essersi lucidamente definita nel suo intelletto (Mattalia).

Il canto termina con l’episodio di Vanni Fucci (versi 121-151), nel quale l’odio di parte si sublima in una visione metafisica del male.


INFERNO CANTO XXV

             

Dopo aver predetto a Dante la sconfitta dei Bianchi ad opera di Moroello Malaspina, Vanni Fucci alza le mani in un gesto osceno contro Dio, ma due serpenti si avventano immediatamente contro di lui, ponendo termine all’ostentazione di tanta superbia. Il ladro pistoiese, con le braccia e il collo chiusi, nelle loro spire, fugge inseguito dal centauro Caco, colpevole anche quest’ultimo di furto eseguito con frode. Tre dannati vengono nel frattempo a fermarsi sotto l’argine roccioso dal quale i due pellegrini hanno assistito alla trasformazione di Vanni Fucci in cenere, alla sua riconversione in figura di uomo, alla sua punizione ad opera dei serpenti. Nuove, più allucinanti metamorfosi si svolgono sotto i loro occhi. Un serpente munito di sei piedi si lancia contro uno di questi ladri e si abbarbica al suo corpo come l’edera ad un albero. Come se fosse di cera la forma umana si trasferisce in quella del serpente, mentre questa, a sua volta, si perde in quella dell’uomo. Il risultato di questa innaturale fusione è un mostro dall’aspetto indefinibile, che incomincia a percorrere in silenzio, con lento passo, il fondo della bolgia. Non appena questa metamorfosi si è compiuta, un serpentello - che è uno dei peccatori già trasformati - con la velocità di un fulmine trafigge l’ombelico ad un altro dei tre ladri, ricadendo poi a terra davanti a lui come privo di forze, stregato. Mentre il serpente e l’uomo si guardano negli occhi attraverso il fumo che, uscendo dalla bocca del rettile si scontra con quello che si sprigiona dalla ferita dell’uomo, avviene la terza delle trasformazioni della settima bolgia, quella che nessuno dei poeti antichi è riuscito ad immaginare: l’uomo assume a poco a poco le fattezze del serpente che gli sta davanti, questo si . trasforma nel dannato che ha ferito. La pena di coloro che in vita privarono il prossimo di beni materiali sui quali non potevano accampare alcun diritto, è di essere privati del solo bene inalienabile di cui, per legge di natura, un uomo può disporre: la propria figura umana.

 


 

Introduzione critica

 

Il tratto più saliente della figura di Vanni Fucci non è, come vorrebbero alcuni studiosi, la bestialità allo stato puro (in altre parole: l’assenza in lui di qualsiasi sensibilità morale) quanto piuttosto la consapevolezza esasperata di questa bestialità, un dolore che non trova misure umane cui adeguarsi, una disperazione che arriva a prescindere dal mondo, dagli esseri, dai valori, per negare direttamente, in Dio, il loro principio. Poiché la superbia del ladro pistoiese ricorda al Poeta quella di Capaneo, il parallelo tra il personaggio di Vanni Fucci e quello del grande che cadde a Tebe giù da’ muri è divenuto un luogo comune della critica dantesca. Ciò che occorre tuttavia rilevare non sono tanto gli aspetti che accomunano queste due figure di dannati, quanto i tratti che li distinguono. Capaneo esprime una concezione ancora fondamentalmente precristiana del senso della nostra presenza nel mondo. Sulla base delle suggestioni classiche (Stazio), Dante propone nell’episodio del canto XIV, la contrapposizione, tipica della tragedia antica, dell’eroe al fato, della volontà cosciente (qual io fui vivo, tal son morto) - che in sé sola trova il proprio sostegno, la propria legittimazione ultima - all’arbitrio del mondo, e degli eventi. Questa contrapposizione, mentre esalta al massimo la grandezza dell’uomo, finisce col separarlo dal senso dell’essere in generale, ne rende incomprensibíli, assurde, l’origine e la destinazione: tra uomo e mondo, nella concezione tragica del paganesimo, esiste un divario incolmabile. Capaneo dipinge Giove, Vulcano, i Ciclopi, in chiave ironica: l’universo intero, campo nel quale agiscono forze smisurate ma cieche, volte alla sopraffazione reciproca più che ad un armonico coesistere (l’Olimpo, come lo vede il grande vinto, somiglia più ad un caos che ad un cosmo), è colto dal panico, esita, rivela la propria insufficienza (non ne potrebbe aver vendetta allegra) di fronte alla razionalità che nell’eroe si manifesta e lo sottopone a giudizio. In Capaneo non c’è scissione interiore, ma limpida coerenza. La sua colpevolezza è tale soltanto agli occhi di Dante, il quale, dopo essere stato colpito dalla sua statura morale (l’essere indomabile, il grande, colui che non si piega), la nega violentemente, attraverso le parole di Virgilio, in nome di una concezione superiore. Un cristiano non può vedere infatti nel mondo solo il dispiegarsi dell’irrazionale e nell’uomo la negazione, intransigente ed astratta, di questo irrazionale, ma considera mondo e uomo radicati in una stessa sapienza che li trascende e volti a recuperare, attraverso l’errore e il dolore, il senso della loro perfezione originaria.

 

Ciò che distingue in primo luogo Vanni Fucci da Capaneo è la piena consapevolezza che il primo ha della propria miseria morale: in lui la giustizia divina opera anzitutto dall’interno, come incancellabile rimprovero della coscienza. La sua sfrontata autoglorificazione iniziale (son Vanni Fucci bestia..) non è in alcun modo contraddetta dalla vergogna (e di trista vergogna si dipinse) che lo coglie in un secondo tempo, originandosi entrambe entro uno stesso abisso di disperazione, nel consenso, che il dannato non può rifiutare (se non, per un attimo - sfuggendo a se stesso - attraverso l’irrazionalità della bestemmia), alla giustizia della condanna infertagli da Dio. Vanni Fucci cerca di evadere dalla prigione della propria coscienza prima attraverso il male che la sua profezia è destinata ad arrecare a Dante (e detto l’ho perché doler ti debbia!), poi, con scatto imprevedibile e assurdo, attraverso il gesto sacrilego delle fiche, accompagnato dalla sua apostrofe a Dio.

 

Se proprio nell’affermazione che, con parole e con atti, Vanni Fucci fa della propria natura inumana, lo spirito è continuamente presente a se stesso e i valori etici dolorosamente illuminano la coscienza di questo peccatore, ai ladri fiorentini, protagonisti del canto XXV, «l’arte del poeta ha negato qualsiasi tratto di individuazione umana». Nel ladro pistoiese "lo spirito muore nell’abbrutimento dopo essersi esaltato; qui lo spirito è morto non rimane se non la materia eternamente affaticata da una necessità che pare meccanica" (Rossì-Frascino).

La tonalità del canto XXV è stata magistralmente additata dal Momigliano - in un suo saggio del 1916 nello smarrimento del Poeta di fronte al perdersi di ciò che è peculiarmente umano (forma del corpo, capacità di esprimersi, coscienza) nella materia.

"Sotto la fredda malia della nitida metamorfosi palpita, muto, tremendo, religioso, il dramma dell’anima che si smarrisce nel corpo bruto. La precisa materialità di quelle descrizioni, la mancanza di ogni suggestione sentimentale, non sono che il mezzo onde si rileva la silenziosa morte dello spirito."

Ma la religiosità dantesca non è mai disgiunta dalla fermezza di un lucido possesso intellettuale. Il tema delle metamorfosi cantate da Ovidio e Lucano acquista, nel canto dei ladri, una dimensione ignorata dagli antichi, non solo per la presenza in esso degli elementi religioso e morale, ma anche per il fatto di essere ripensato in chiave scientifico-dottrinale. La favola antica perde ogni vaghezza di contorni, per essere sottoposta al vaglio di una mentalità logica, incurante dello scintillio delle apparenze. Tradotto nei termini della filosofia aristotelica, il mito si rivela incredibile, fallace (cfr. in particolare i versi 100-102), ma il Poeta - secondo quanto ha chiaramente mostrato il Mattalia - lo correda "di un nuovo attributo di credibilità o verosimiglianza dedotto dal postulato teologico che Dio, quei che puote, può realmente, con la sua divina arte, operare infrangendo le barriere delle leggi naturali. Restando cosi salvo... il valore divinatorio che la cultura medievale... riconosceva alle favole dei grandi poeti pagani".


           

 

INFERNO CANTO XXVI

             

 

I due pellegrini lasciano la bolgia dei ladri e riprendono il faticoso cammino. Dall’alto del ponte che sovrasta l’ottava bolgia questa appare loro percorsa da fiamme simili alle lucciole che il contadino vede nella valle quando si riposa, alla sera, sulla sommità della collina. Ogni fiamma nasconde un peccatore. In una di esse, che si distingue dalle altre per il fatto di terminare con due punte, scontano le loro colpe - l’inganno che costrinse Achille a partecipare alla guerra di Troia, il ratto fraudolento del Palladio, lo stratagemma che causò la rovina del regno di Priamo - due Greci: Ulisse e Diomede. Poiché Dante ha manifestato il desiderio di udirli parlare, Virgilio si rivolge alla fiamma biforcuta pregando affinché uno dei due eroi riveli il luogo della sua morte. Dalla punta più alta esce allora la voce di Ulisse. Egli racconta che, dopo la sosta presso la maga Circe, nulla poté trattenerlo dall’esplorare il Mediterraneo occidentale fino alle colonne d’Ercole, limite del mondo conoscibile. Qui giunto, si rivolse ai fedeli compagni, come lui invecchiati nelle fatiche e nei rischi: "Fratelli, nel poco tempo che ci rimane da vivere, non vogliate che ci resti preclusa la possibilità di conoscere il mondo disabitato. Seguiamo il sole nel suo cammino. La vita non ci fu data perché fosse da noi consumata nell’inerzia, ma perché l’arricchissimo attraverso la validità delle nostre azioni e delle conoscenze da noi raggiunte". Questo breve discorso infiammò a tal punto i membri dell’equipaggio, che i remi parvero trasformarsi in ali e la nave volare sulla superficie dell’oceano inesplorato. Cinque mesi dopo il passaggio attraverso lo stretto di Gibilterra una montagna altissima si mostrò all’orizzonte. Da questa ebbe origine un turbine; la nave girò tre volte nel vortice delle onde, poi si inabissò; il mare si chiuse sopra di essa.


 

Introduzione critica

 

Quasi tutti i personaggi della prima cantica appaiono consapevoli, in forme più o meno esplicite, del male compiuto: il rimorso è alla radice del loro modo di manifestarsi anche là dove, disperatamente, cercano di soffocarne la voce. Nell’episodio di Ulisse tuttavia l’elemento tragico non è rappresentato dal peccato. Per quanto gravi siano infatti le colpe che condannano, nella bolgia dei consiglieri fraudolenti, l’ideatore dell’agguato che pose termine all’orgoglioso dominio dei Troiani, ad esse il Poeta dedica appena un cenno di carattere informativo (versi 58-63), destinato a non riproporsi, nemmeno come motivo marginale, nel racconto della corsa disperata di questo peccatore di retro al sol. Vigorosamente emblematica, questa espressione riassume il senso dell’intero episodio. Essa non si limita ad indicare una direzione nell’universo fisico (uno dei quattro punti cardinali); proclama, oltre il suo orizzonte più immediato, l’ineluttabilità dell’imperativo morale, additando «una via tracciata nel cielo, che invita l’uomo a percorrerne una parallela sulla terra» (Fattori). I peccati che Ulisse sconta - immune, nel suo involucro di fuoco, da ogni contatto con la cronaca dei tempi non eroici (in più di un luogo del suo poema Dante contrappone il Medioevo all’antichità classica, oggettivandolo in aspra «commedia» ) e da tale cronaca appartato anche per il fatto che ignora il « volgare » in cui essa si esprime - sono presentati in modo generico, inquadrati in uno schema astratto e come distaccati dalla volontà viva e personale dell’eroe. "E se il Poeta non può non far menzione della pena di questo suo personaggio e sembra anzi insistere su di essa, quell’insistenza non è se non una retorica variatio... che non importa una maggiore intensità di sentimento, poiché il si martire, il si geme, il piangevisi, il pena vi si porta sono dei semplici sinonimi di un « è punito », e sarà anche da osservare la forma passiva, per cui non l’eroe sofferente è presentato nel discorso come soggetto, bensì il peccato di cui il discorso deve dar notizia. L’eroe, questo importa, pur dannato, rimane non tocco nel suo intimo dalla dannazione." (Fubini) La tragedia di Ulisse è nel suo naufragio, incidente ai suoi occhi fortuito, dato di fatto nel quale sembra, inspiegabilmente, incarnarsi una volontà tesa a negare l’ideale da lui perseguito oltre i limiti per tradizione assegnati alle capacità umane. "Nell’istante medesimo in cui la incoercibile potenza dell’umana attività, vicina ormai e quasi già tocca la meta, risplende con tutta la sua luce, Iddio respinge duramente da sé la grandezza e la passione dell’uomo, per travolgerle con impeto d’uragano nell’abisso del nulla." (M. Rossi)Per un cristiano non c’è evento, per quanto doloroso o ingiusto appaia, in cui non rifulga la razionalità del divino: razionalità che guida e giudica quella degli uomini e nella quale occorre credere, prima di poterla interrogare. Ulisse non ha questa fede. Crudelmente enigmatico, nodo che la ragione non sa sciogliere, «bruno» come il purgatorio intravisto sulle soglie della morte, Dio appare ad Ulisse una forza destituita di qualsiasi significato, oceano inconsapevole che turbina e semina morte per poi placarsi in una inerzia remota da ogni dolore (infin che ‘I mar fu sopra noi richiuso), arbitrio che opprime, attraverso la distruzione della vita, l’insorgere nella coscienza del richiamo del dovere (seguir virtute e canoscenza). Nella dedizione a questo dovere ogni barriera che opponga l’uomo all’uomo, chiudendolo nei termini aridi del suo sopravvivere animale (il prosperare dei bruti), si rivela fallace, indegna di esistere: la cortesia e il rispetto (o frati... non vogliate...) contraddistinguono l’orazion picciola che l’eroe rivolge ai vecchi marinai nel momento in cui sta per decidersi il loro destino. Ulisse costata il reciso, brutale divieto opposto da « qualcuno » - essere senza nome né volto né anima - all’ardore di conoscenza che lo ha portato lontano da Circe, dal riposo negli itinerari noti, dal consenso di affetti che rende sopportabile il tempo che conduce alla morte, senza mai scorgere in questo « qualcuno » Dio, in questo essere la fonte di ogni essere, in quella che può apparire crudeltà una sapienza e una carità insondabili. Proprio perché Dio è, nelle parole di Ulisse, ignorato in quanto tale, nessun accento di sfida intorbida la semplicità del suo dire (quale contrasto fra il pudore del suo resoconto e il turgido proporsi della superbia in Capaneo, adulatrice di se stessa, interpretante se stessa s’il piano compiacente delle ipotesi!), impaziente, fin dal le prime parole, di consumarsi in epilogo implacabile, sdegnoso dell’indugio nell’inessenziale (tappe di un itinerario etico, i luoghi visitati dalla compagna picciola non propongono al navigatore il tema delle lusinghe e della curiosità vagabonda) In una penetrante analisi di quest’episodio M. Rossi scrive che nella Commedia "dove l’offesa a Dio è anche sentita, insieme, come offesa alla propria umana dignità... la voce della coscienza e la voce di Dio paiono levarsi insieme concordi, come un’unica voce, alla condanna dal cuore del colpevole... Ma qui Dio è nella coscienza solo come imperscrutabile ed inattingibile da essa, ed è sentito dallo spirito non... nella infinita ricchezza spirituale del concetto di assoluto, nel quale lo spirito finito conquista la sua verità e la sua pace... Qui il Dio della speculazione cristiana sembra assumere per un istante innanzi allo spirito del Poeta la cupa e chiusa terribilità del Fato». Queste osservazioni appaiono giustissime, ove si prescinda dal fatto che ogni episodio della Commedia tende a risolversi entro una prospettiva simbolica o più precisamente, secondo la definizione proposta dall’Auerbach, «figurale», nel cui ambito ogni dubbio o inquietudine in materia di fede si definisce e si placa.


           

 

INFERNO CANTO XXVII

             

 

Appena l’Ulisse ha finito di parlare, un’altra fiamma attira l’attenzione dei due poeti, agitandosi e rumoreggiando. Quando infine il sibilo riesce a trasformarsi in parole, la fiamma chiede a Virgilio, che ha riconosciuto per italiano dal modo di parlare, notizie sulla Romagna. Su invito del maestro, Dante delinea un quadro delle condizioni politiche di quella regione, dominata da tiranni sempre pronti alla guerra; poi chiede al peccatore chi egli sia. E quello si fa conoscere, certo di parlare a chi mai potrà tornare fra i vivi, per riferire intorno alla sua pena eterna. "Fui guerriero - dice - e poi frate francescano, credendo in tal modo di riparare al male da me fatto. E non sarei qui fra i dannati, se non fosse stato il pontefice stesso a farmi ricadere nella vita malvagia alla quale avevo voltato le spalle. Nel periodo in cui, con somma ipocrisia, aveva bandito una crociata contro gli stessi cristiani (la famiglia romana dei Colonna), senza alcun ritegno, fattomi chiamare, Bonifacio VIII mi chiese che gli suggerissi il modo migliore per impadronirsi della roccaforte di Palestrina. Le sue parole mi parvero quelle di un uomo fuori di senno. Tacqui. Allora, dopo avermi ricordato che era in suo potere aprire e chiudere le porte del cielo, mi assolse dal peccato che avrei commesso dandogli il consiglio richiesto. Fu così che gli suggerii di promettere molto ai suoi nemici per poi non tenere fede alle promesse. Quando morii, San Francesco venne per portare la mia anima in cielo, ma il diavolo lo fermò con queste parole: "Quest’anima deve seguirmi nel regno dell’eterna dannazione, poiché è contraddittorio che ci si possa pentire di una colpa che si ha l’intenzione di compiere. Io sono uno spirito logico". Quando fui davanti a Minosse questi avvolse otto volte la coda intorno al suo corpo, destinandomi in tal modo nel cerchio ottavo." Ciò detto, la fiamma si allontana. I due pellegrini procedono oltre e giungono sul ponte che sovrasta la bolgia dei seminatori di discordia.

 


 

Introduzione critica

 

L’episodio di Ulisse e quello di Guido da Montefeltro, i due grandi fraudolenti dell’ottava bolgia, si contrappongono l’uno all’altro come le due parti di un dittico. Da un lato il Poeta ci presenta l’antichità pagana in una delle sue più alte manifestazioni, dall’altro la cronaca dei suoi tempi, imbevuti di spirito cristiano e consapevoli, a differenza dell’umanità incarnata da Ulisse, della ineliminabile imperfezione della natura umana. L’episodio di Ulisse è svolto nello stile dell’alta tragedia, di Guido avanza esplicitamente, fin dall’inizio, la soluzione del plurilinguismo (e che parlavi mo lombardo, dicendo "Istra ten va; più non t’adizzo"): mescolanza di stili che appare originarsi in una concezione del sublime opposta a quella degli antichi ed ha, come ha mostrato l’Auerbach, il suo modello nella Sacra Scrittura: è a questa mescolanza di stili che compete, secondo quanto Dante stesso ha dichiarato nell’Epistola a Cangrande della Scala, l’appellativo di "commedia". La tragedia di Ulisse rimane estranea al peccato che ha condannato l’eroe nella bolgia dei consiglieri fraudolenti; quella di Guido al contrario si identifica interamente con questo peccato (perché diede il consiglio frodolente). La figura di Ulisse, perché possa inquadrarsi nella cornice teologica che regge l’intero poema, deve essere fatta oggetto di una interpretazione moralizzata in senso "simbolico-figurale" (cfr. in proposito le osservazioni del Mattalia: canto XXVI, versi 109-111); quella di Guido non ha bisogno di una siffatta moralizzazione: Guido infatti analizza con una lucidità ed un rigore concettuale inconcepibili anteriormente all’affermarsi della Scolastica (e come e quare) le fasi ed il senso della propria perdizione. Il linguaggio di Ulisse, proprio perché l’eroe greco ignora Dio e il rimorso, è di una semplicità estrema, volto a rendere conto unicamente dei fatti; quello di Guido è contraddittorio e complesso, fin dalle sue prime parole: pesa sul montefeltrano il carico delle proprie colpe, egli è consapevole di aver trasgredito una legge superiore a quella degli uomini, superiore agli stessi suggerimenti del vicario di Dio in terra. La sua è una consapevolezza tanto più dolorosa, quanto più cauto è stato il coordinarsi delle sue azioni in vista del fine che si è proposto di raggiungere, quanto più prudente il significato da lui attribuito ad esse. Questo guerriero non ha smentito, nemmeno negli ultimi anni di vita, la sua fama di uomo astuto: ha saputo spogliarsi dell’armatura e cingersi di un umile cordiglio nel momento ritenuto più opportuno (ove ciascun dovrebbe...) per una tale conversione. Mai la sua volontà di dominio ha conosciuto un cedimento, una caduta nella spontaneità, nella fede genuina, mai ha saputo fare sacrificio di sé a Dio, mai Guido ha chiesto al Redentore di redimerlo dalla cupidigia di affermarsi al disopra e a danno degli altri, di riscattarlo dal desiderio di una gloria effimera. Quando comprese di dover fare i conti, oltre che con gli uomini, con Dio, da buon calcolatore, da esperta volpe, si illuse di poter usare anche con Dio quell’astuzia che lo aveva reso potente ed invidiato fra gli uomini (e sì menai lor arte, ch’al fine della terra il suono uscìe). È questa l’origine del suo peccato, la ragione profonda per la quale si indusse ad aderire alla richiesta formulata con ebbre parole da Bonifacio VIII. La sua conversione era stata soltanto formale, dettata dall’opportunità, dalla convenienza, il cordiglio francescano non aveva cinto un uomo nuovo. Perciò, di fronte alla proposta di Bonifacio, egli è colto sì da un senso di smarrimento e di orrore, ma questo smarrimento e questo orrore palesano unicamente la sua paura di mettere a repentaglio la salvezza della propria anima, per la quale ha tanto penato, non considerano l’empietà di questa proposta in sé, per quanto essa contiene di antitetico al messaggio cristiano. Guido da Montefeltro trova in Bonifacio VIII un essere più di lui assetato di potere, più di lui smaliziato nel gioco dei compromessi con le coscienze. Dall’alto del suo seggio il principe de’ novi Farisei sembra aver perduto la nozione che un Dio esiste indipendentemente dalle affermazioni e dai capricci umani (lo ciel poss’io serrare e diserrare), che esiste un ordine giusto che non può essere costretto nei cavilli e nelle scappatoie di una formula di assoluzione dettata dall’odio e dalla sete di vendetta. Guido è tratto in inganno da Bonifacio VIII perché costui rappresenta, nel male, un termine di perfezione irraggiungibile. Gli scrupoli che ostacolano lo emergere nella coscienza di Guido del suo essere di sempre - spregiudicato circa i mezzi da usare per vincere ogni volta che non abbia a soffrirne la propria persona o la proiezione di esse nel mondo (il potere, la fama) - sembrano non aver mai sfiorato l’animo del suo beffardo antagonista e signore. Di fronte a questa fermezza inumana e grandiosa - che nessuna esitazione morale, nessun sospetto metafisico riescono a scalfire - Guido, il razionalizzatore, capitola, come preso nelle spire di un fascino che lo restituisce interamente alla sua natura peccaminosa. Secondo una suggestiva osservazione del Mattalia, nel drammatico colloquio che lo oppone al pontefice, Guido, proprio perché è rimasto l’uomo di sempre, irretito negli appetiti del mondo anche quando ha calcolato di liberarsene - anzi, maggiormente irretito in essi proprio nell’atto in cui ha voluto dare ad intendere, alla sua coscienza e a Dio, di essersene liberato - appare "incapace di realizzare in sé l’unione del candore della colomba e della prudenza del serpente consigliata dal noto precetto evangelico"; la sua anima non è infatti "né sufficientemente candida né, per neutralizzante effetto del candore, sufficientemente astuta quando pur le avrebbe giovato esser tale per conservare il tesoro del suo stesso candore".


           

 

INFERNO CANTO XXVIII

             

 

La nona bolgia appare ai due pellegrini come un immenso carnaio: nessun discorso umano potrebbe suggerire un’idea della sterminata moltitudine di feriti e mutilati che si affollano in essa. I dannati fanno il giro della bolgia, in eterno; le loro piaghe, che via via si rimarginano, vengono nuovamente aperte, ad ogni nuovo giro, da un diavolo armato di spada. Davanti agli occhi dei due poeti passano dapprima Maometto, il fondatore della religione islamica, ed Alì, uno dei suoi primi seguaci. Il primo ha il corpo squarciato, il secondo la testa spaccata in due. In tal modo essi scontano, insieme agli altri peccatori della bolgia, la loro colpa: quella di aver introdotto la discordia nel mondo. Quindi un altro dannato si fa avanti: è Pier da Medicina, un contemporaneo di Dante, il quale predice la sanguinosa fine, ad opera di Malatestino da Verrucchio, signore di Rimini, di due cittadini di Fano. Poi, su richiesta del Poeta, fa il nome di un suo compagno di sventura, che, avendo la lingua recisa, non può parlare. E’ il tribuno della plebe Curione, colui che vinse le ultime esitazioni di Cesare e lo indusse ad attraversare il Rubicone, dando così inizio alla guerra civile contro Pompeo. Sopraggiunge un dannato con le mani tagliate e i moncherini grondanti sangue: è Mosca dei Lamberti, il responsabile della divisione dei Fiorentini in Guelfi e Ghibellini e della distruzione della propria famiglia. Dante vede infine avanzare l’ombra di un decapitato. Costui porta la sua testa in mano, reggendola per i capelli, come se fosse una lanterna. Giunto sotto il ponte sul quale si trovano Dante e Virgilio, leva il braccio, in modo che i due poeti possano ascoltare le sue parole, e dice: "lo sono Bertran de Born, colui che indusse Enrico III d’lnghilterra a ribellarsi al padre Enrico II; poiché ho reso nemiche due persone che un vincolo così stretto legava, porto la mia testa separata dal corpo. In tal modo è applicata, in me, la legge del contrappasso".

 


 

Introduzione critica

 

L’episodio di Ulisse e quello di Guido da Montefeltro, i due grandi fraudolenti dell’ottava bolgia, si contrappongono l’uno all’altro come le due parti di un dittico. Da un lato il Poeta ci presenta l’antichità pagana in una delle sue più alte manifestazioni, dall’altro la cronaca dei suoi tempi, imbevuti di spirito cristiano e consapevoli, a differenza dell’umanità incarnata da Ulisse, della ineliminabile imperfezione della natura umana. L’episodio di Ulisse è svolto nello stile dell’alta tragedia, quello di Guido avanza esplicitamente, fin dall’inizio, la soluzione del plurilinguismo (e che parlavi mo lombardo, dicendo "Istra ten va; più non t’adizzo"): mescolanza di stili che appare originarsi in una concezione del sublime opposta a quella degli antichi ed ha, come ha mostrato l’Auerbach, il suo modello nella Sacra Scrittura: è a questa mescolanza di stili che compete, secondo quanto Dante stesso ha dichiarato nell’Epistola a Cangrande della Scala, l’appellativo di "commedia". La tragedia di Ulisse rimane estranea al peccato che ha condannato l’eroe nella bolgia dei consiglieri fraudolenti; quella di Guido al contrario si identifica interamente con questo peccato (perché diede il consiglio frodolento). La figura di Ulisse, perché possa inquadrarsi nella cornice teologica che regge l’intero poema, deve essere fatta oggetto di una interpretazione moralizzata in senso "simbolico-figurale" (cfr. in proposito le osservazioni del Mattalia: canto XXVI, versi 109-1 1 1); quella di Guido non ha bisogno di una siffatta moralizzazione: Guido infatti analizza con una lucidità ed un rigore concettuale inconcepibili anteriormente all’affermarsi della Scolastica (e come e quare) le fasi ed il senso della propria perdizione. Il linguaggio di Ulisse, proprio perché l’eroe greco ignora Dio e il rimorso, è di una semplicità estrema, volto a rendere conto unicamente dei fatti; quello di Guido è contraddittorio e complesso, fin dalle sue prime parole: pesa sul montefeltrano il carico delle proprie colpe, egli è consapevole di aver trasgredito una legge superiore a quella degli uomini, superiore agli stessi suggerimenti del vicario di Dio in terra. La sua è una consapevolezza tanto più dolorosa, quanto più cauto è stato il coordinarsi delle sue azioni in vista del fine che si è proposto di raggiungere, quanto più prudente il significato da lui attribuito ad esse. Questo guerriero non ha smentito, nemmeno negli ultimi anni di vita, la sua fama di uomo astuto: ha saputo spogliarsi dell’armatura e cingersi di un umile cordiglio nel momento ritenuto più opportuno (ove ciascun dovrebbe...) per una tale conversione. Mai la sua volontà di dominio ha conosciuto un cedimento, una caduta nella spontaneità, nella fede genuina, mai ha saputo fare sacrificio di sé a Dio, mai Guido ha chiesto al Redentore di redimerlo dalla cupidigia di affermarsi al disopra e a danno degli altri, di riscattarlo dal desiderio di una gloria effimera. Quando comprese di dover fare i conti, oltre che con gli uomini, con Dio, da buon calcolatore, da esperta volpe, si illuse di poter usare anche con Dio quell’astuzia che lo aveva reso potente ed invidiato fra gli uomini (e sì menai lor arte, ch’al fine della terra il suono uscìe). È questa l’origine del suo peccato, la ragione profonda per la quale si indusse ad aderire alla richiesta formulata con ebbre parole da Bonifacio VIII. La sua conversione era stata soltanto formale, dettata dall’opportunità, dalla convenienza, il cordiglio francescano non aveva cinto un uomo nuovo. Perciò, di fronte alla proposta di Bonifacio, egli è colto si da un senso di smarrimento e di orrore, ma questo smarrimento e questo orrore palesano unicamente la sua paura di mettere a repentaglio la salvezza della propria anima, per la quale ha tanto penato, non considerano l’empietà di questa proposta in sé, per quanto essa contiene di antitetico al messaggio cristiano. Guido da Montefeltro trova in Bonifacio VIII un essere più di lui assetato di potere, più di lui smaliziato nel gioco dei compromessi con le coscienze. Dall’alto del suo seggio il principe de’ novi Farisei sembra aver perduto la nozione che un Dio esiste indipendentemente dalle affermazioni e dai capricci umani (lo ciel poss’io serrare e diserrare), che esiste un ordine giusto che non può essere costretto nei cavilli e nelle scappatoie di una formula di assoluzione dettata dall’odio e dalla sete di vendetta. Guido è tratto in inganno da Bonifacio VIII perché costui rappresenta, nel male, un termine di perfezione irraggiungibile. Gli scrupoli che ostacolano lo emergere nella coscienza di Guido del suo essere di sempre - spregiudicato circa i mezzi da usare per vincere ogni volta che non abbia a soffrirne la propria persona o la proiezione di esse nel mondo (il potere, la fama) - sembrano non aver mai sfiorato l’animo del suo beffardo antagonista e signore. Di fronte a questa fermezza inumana e grandiosa - che nessuna esitazione morale, nessun sospetto metafisico riescono a scalfire - Guido, il razionalizzatore, capitola, come preso nelle spire di un fascino che lo restituisce interamente alla sua natura peccaminosa. Secondo una suggestiva osservazione del Mattalia, nel drammatico colloquio che lo oppone al pontefice, Guido, proprio perché è rimasto l’uomo di sempre, irretito negli appetiti del mondo anche quando ha calcolato di liberarsene - anzi, maggiormente irretito in essi proprio nell’atto in cui ha voluto dare ad intendere, alla sua coscienza e a Dio, di essersene liberato - appare "incapace di realizzare in sé l’unione del candore della colomba e della prudenza del serpente consigliata dal noto precetto evangelico"; la sua anima non è infatti "né sufficientemente candida né, per neutralizzante effetto del candore, sufficientemente astuta quando pur le avrebbe giovato esser tale per conservare il tesoro del suo stesso candore".


           

 

INFERNO CANTO XXIX

             

 

Prima di lasciare la nona bolgia Dante cerca con gli occhi in essa un suo congiunto, Geri del Bello, seminatore di discordia, la cui morte violenta è rimasta invendicata, ma Virgilio gli ricorda che l’ombra di questo suo parente è passata sotto il ponte, mostrando sdegno e minacciandolo col dito, quando egli era tutto intento ad osservare Bertran de Born. Ripreso il cammino, i due pellegrini giungono sopra l’ultima bolgia dell’ottavo cerchio, nella quale si trovano i falsatori, divisi in quattro categorie: falsatori di metalli con alchimia, falsatori di persone, falsatori di monete, falsatori di parole. Con il corpo deformato da orribili morbi giacciono a mucchi o si trascinano carponi gli alchimisti. Due di questi dannati attirano l’attenzione di Dante: stanno seduti, appoggiandosi l’uno alla schiena dell’altro, e cercano, con furiosa impazienza, di liberarsi delle croste che li ricoprono interamente. Furono arsi sul rogo dai Senesi, il primo, Griffolino d’Arezzo, per non avere mantenuto fede alla promessa di far alzare in volo, novello Dedalo, uno sciocco; il secondo, Capocchio, per aver falsificato i metalli, da quell’eccellente imitatore della natura che fu in vita.

 


 

Introduzione critica

 

Dispersivo e discontinuo, il primo canto dei falsari segna un attenuarsi della tesa indagine morale del Poeta, una pausa nel suo vigoroso impegno stilistico. Se per i romantici la poesia di Dante spiccava con più risoluta nettezza di contorni nel suo concretarsi in un contrasto di passioni e di caratteri - quasi anticipando, entro la ferma cornice medievale, il libero dispiegarsi del "tragico" rinascimentale (Shakespeare) - oggi dobbiamo riconoscere che essa si identifica, nella Commedia, innanzi tutto con il dramma del pellegrino posto di fronte alla realtà del peccato, dell’espiazione, della beatitudine raggiunta, per cui molte pagine sulle quali i romantici sorvolavano assumono, ai nostri occhi, una funzione di primo piano, anche e soprattutto ai fini di una considerazione dei valori espressivi. La cornice medievale - il dramma dell’anima che rende a se stessa presenti le fasi della propria esperienza morale - non può più essere ritenuta qualcosa di estrinseco rispetto ai drammi dei singoli personaggi, poiché ciascuno di questi singoli drammi acquista le sue reali proporzioni soltanto se collocato entro questa cornice. Le tragedie di Francesca, di Farinata o di Ulisse non esistono in sé - sul palcoscenico di un mondo che da queste figure attende la definizione del proprio significato - ma hanno un senso, al contrario, soltanto nella misura in cui si presentano già oggettivate, davanti al Poeta, nelle forme del giudizio divino (il posto dell’inferno in cui questi personaggi si trovano, la loro pena). Esse diventano soggettive nell’animo del pellegrino senza nulla perdere della loro oggettività: in questo loro essere dolorosamente rivissute dal Poeta, in questo interiorizzarsi del giudizio divino è la fonte della loro problematicità inesauribile. Oggi non possiamo più assumere pertanto come criterio di valutazione della poesia di Dante la presenza o meno del grande personaggio, della individualità preminente che in certo modo sfida il giudizio divino, proprio perché non possiamo trascurare la continua e attiva presenza, nel poema, dell’autore, l’angoscioso cammino da lui percorso per sollevarsi, dall’opacità del suo sentire iniziale, alla trasparenza di una oggettività eterna. Un criterio per distinguere, nella Commedia, le pagine più riuscite da quelle che lo sono meno può invece essere rappresentato da un’interrogazione del dato stilistico, interrogazione che, in Dante, ci conduce direttamente sul piano del suo impegno etico. Mentre infatti, nelle poetiche umanistiche e rinascimentali il fattore  <stile> ha sempre rappresentato un elemento di evasione dalla insufficienza del reale, di fuga dall’impegno etico, in Dante al contrario esso costituisce il punto di convergenza delle sue convinzioni e reazioni morali, il momento in cui queste trovano la loro espressione definitiva e, sul piano dell’arte, incontrovertibile. Su questo accordarsi del momento etico e di quello stilistico sono unanimi i critici più recenti. Per il Fubini nella Commedia può esservi a volte retorica, ma "retorica che si fa strumento di un fine etico, che giova a dar risalto coi suoi modi a un giudizio morale ". Il Terracini dal canto suo rileva che "quando Dante è eloquente... si può essere sicuri che la sua visione poetica si ammanta di un motivo di carattere, comunque, etico; è come un pedale che Dante mette ai suoi versi". Il Bigi infine - e questa considerazione ci riconduce sul terreno del canto XXIX - osserva che «dove effettivamente si allenta la tensione morale del giudice, si attenua l’impegno erudito e retorico dell’artista come... nel colloquio con Grifiolino e Capocchio (XXIX, versi 109-139), in cui, non che similitudini elaborate ed erudite, sono pressoché assenti i caratteristici procedimenti della retorica dantesca".Mancano, al canto XXIX, quella compattezza di visione, quello svolgimento coerente di motivi, che caratterizzano i canti fra i quali si trova inserito. Pur offrendo alla nostra attenzione temi in comune con il canto precedente (ad esempio la presentazione dello spettacolo della bolgia attraverso similitudini ipotetiche: s’el s’aunasse nel canto XXVIII, verso 7; qual dolor fora nel XXIX, verso 46; o il motivo della meraviglia dei dannati nell’apprendere che Dante è vivo, motivo che proprio nel canto XXIX trova un’espressione, di inusitato vigore, tutta calata in raffigurazione concreta: allor si ruppe lo comun rincalzo) e con il successivo (i colloqui con Griffolino e Capocchio anticipano in certo modo l’atmosfera pettegola dell’alterco fra Sinone e maestro Adamo senza per altro rasentare la violenza, la degradazione che in quello si esprimono), esso non li approfondisce in modo unitario. Questa pagina del poema, che inizia su un tono di accorata elegia per concludersi in una serie di disegni schizzati "in punta di penna", con un gusto del particolare incisivo ma fine a se stesso - che li accomuna a certi ritratti della novellistica medievale (tra il Novellino e il Decamerone) - risulta incerta, scarsamente determinata tanto sotto il profilo etico che sotto quello stilistico. Osserva il Sapegno che nella seconda parte del canto Dante "non insiste tanto sull’oggetto dell’ironia e dello scherno, quanto piuttosto sembra compiacersi di ritrarre in atto l’arte appunto dell’ironizzare e dello schernire, vista come un bel gioco che aguzza l’ingegno e gli offre campo di dispiegarsi e di accendersi in un divertente, se pur futile, scoppiettio di frasi maliziose" e conclude che le figure di Griffolino e Capocchio "non sono più che macchiette garbate di secondo piano; e, anziché raccogliere e concentrare in sé una diffusa atmosfera di tragedia, giovano se mai a distrarre per un istante lo spirito da quel mondo e a trasportarlo in un’aria più leggiera".


           

 

INFERNO CANTO XXX

             

Appena Capocchio ha finito di parlare, Gianni Schicchi, un peccatore che si trova nella decima bolgia per essersi sostituito, fingendosi infermo e moribondo, a Buoso Donati già morto ed aver dettato il testamento di quest’ultimo in proprio favore, lo addenta furiosamente. Insieme a Gianni Schicchi percorre la bolgia correndo, Mirra, colpevole di aver alterato le proprie sembianze per soddisfare una insana passione.Dopo che le due ombre rabbiose si sono dileguate, Dante scorge un dannato il cui corpo, deformato dall’idropisia, ha la forma di un liuto. E’ maestro Adamo, che coniò, per incarico dei conti Guidi di Romena, forini di Firenze aventi tre carati di metallo vile. Questo suo reato gli valse la condanna al rogo e la dannazione eterna. Pregato da Dante, fa il nome di due suoi compagni di pena che una febbre altissima tormenta. Sono la moglie dell’egiziano Putifar, che accusò ingiustamente Giuseppe di averla insidiata, e il greco Sinone, reo di aver persuaso Priamo a fare entrare in Troia il cavallo di legno escogitato da Ulisse. Sinone, forse indispettito per la menzione poco onorevole che di lui ha fatto maestro Adamo, sferra sul ventre dell’idropico un pugno vigoroso, ma il coniatore di falsi fiorini non tarda a rispondergli colpendolo violentemente sul volto. I due cominciano allora a rinfacciarsi a vicenda sia le colpe passate, sia i morbi che attualmente deformano le loro fattezze. Virgilio interviene infine a distogliere il discepolo dall’assistere a un così plebeo spettacolo.


 

Introduzione critica

 

Il canto XXX può considerarsi paradigmatico in rapporto all’intera descrizione di Malebolge, che in esso si conclude. L’alterco fra maestro Adamo e Sinone, in particolare, esemplifica, in chiave di commedia plebea, il degradarsi dell’intelligenza in coloro che l’hanno usata a fin di male, il suo esteriorizzarsi, perduto ogni contatto con le vive sorgenti della moralità, in argomentazioni non meno scintillanti che incapaci di articolarsi in discorso. Di assai maggiore efficacia da questo punto di vista, in quanto direttamente espressivi dell’odio che li anima, i colpi che i due dannati si scambiano; né maestro Adamo né Sinone tuttavia resistono alla tentazione di commentare, in tono di autoglorificazione, e di denigrazione dell’antagonista, il proprio odio, di definirlo: il risultato è ameno e tragico ad un tempo. L’artificio retorico sottolinea brutalmente la squallida sostanza delle loro denunce; basti pensare alla collocazione - al termine di una serie di insulti aventi per oggetto il deforme, sia fisico che morale (l’uno valendo, nell’al di là, come la trasposizione simbolica dell’altro) - di una perifrasi come lo specchio di Narciso, accennante ad una perfezione remota, salda, inattingibile. Sfugge ai due falsari che, di fronte all’eternità della loro pena, ogni recriminazione è inutile e che la loro cecità spirituale risalta in pieno proprio attraverso l’interessata presentazione che entrambi fanno dei demeriti dell’avversario, ma sfugge loro soprattutto che nessuno ha il diritto di giudicare prima di essersi a sua volta giudicato. Il riscatto della loro intelligenza in un orizzonte razionale e morale resta in tal modo precluso: nessun dubbio li sfiora, nessun rimorso incrina la loro monocorde presunzione. Ciascuno di questi due eroi da opera buffa si avventa sicuro ad accusare l’antagonista, il comprimario della cui colpa si compiace, onde meglio risplendere, l’ostentata sufficienza di ognuno. La vita morale, non meno dell’intelligenza autentica, non ha spazio ove manifestarsi, ciascuno credendo nel proprio intimo di essere immune da pecche. Allorché a Sinone o a maestro Adamo viene inconfutabilmente esibita la prova della loro imperfezione, se ne scusano come della cosa più ovvia - e della quale non mette nemmeno conto parlare - col puntare il dito sull’imperfezione del denunciatore; il dolore e la contrizione sono ignorati, tripudia nei loro scherni l’amaro furore di umiliare. L’intelligenza della quale i due falsari fanno così immoderato sfoggio è tutta volta ai particolari, e, in quanto tale, si mostra penetrante e sicura; essa appare tuttavia inetta a cogliere la verità da cui questi particolari traggono risalto, non integrandosi in una considerazione del loro significato complessivo: né Sinone né maestro Adamo si interrogano infatti sulla realtà che immediatamente dovrebbe imporsi alla loro riflessione: la propria condizione di dannati. La coscienza, presente in personaggi tragici come Vanni Fucci o Guido da Montefeltro, è in loro del tutto soffocata. Non diversamente da come si era obliato nella contemplazione del gioco dei Malebranche con Ciampolo, Dante dimentica se stesso - il suo compito - di fronte al dispiegarsi di questa vitalità tenace. In essa un barlume di positività sembra sussistere: la robusta energia con la quale ciascuno dei due falsari accampa le pretese della propria soggettività, il proprio diritto di essere, di giudicare; ma è una positività la quale, non convergendo in una visione che contempli, almeno allo stesso titolo, anche la validità del diritto altrui, decade in una brutale caricatura di se stessa. Il canto XXX non è soltanto esemplare per l’esplicita formulazione, nella farsa dei due falsari, della degradazione di Malebolge, bensì anche per la ininterrotta densità del suo ordito stilistico - il quale, dagli autorevoli exempla dell’esordio alla sentenza che conclude il perorare di Virgilio, solleva costantemente il particolare ignobile, per nulla attenuato da un aggiustamento idealizzante, nella "dignità del giudizio divino" (Auerbach) - nonché per la presenza, nella parte centrale di esso, del personaggio di primo piano, la cui umanità non è cioè concepita unicamente in funzione del peccato e della pena, ma fruisce anche, seppure incidentalmente e pro tempore, di una propria espressione autonoma. Maestro Adamo, prima di ridursi, nel contrasto col disprezzato greco da Troia (Sinone appare, nella definizione del falsario medievale, sinonimo di frode: è sufficiente, per designarlo - sembra sottintendere maestro Adamo - il nome del luogo in cui consumò il suo fatale inganno), a semplice manifestazione di un modo d’essere generico (la malizia del fraudolento), rivela una personalità ricca e sfumata. In lui tuttavia non affiora mai la consapevolezza del male compiuto, ma soltanto - unitamente alla sete adorante che risolve l’intero creato nel miraggio di un solo gocciol d’acqua - il vivo sentimento di un’ingiustizia subita; questo si concreta in una iperbole non meno allucinante di quella del gocciol d’acqua, alla quale simmetricamente, nell’espressione dell’odio, risponde: ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia. Nella misura in cui si chiude alla gravità delle proprie colpe, maestro Adamo tende a mettere continuamente in luce la propria eccellenza, a distinguersi dai compagni di pena, contrapponendo un io superbo alla loro famiglia senza volto, che uno spregiativo sì fatta qualifica (verso 88), a presentare se stesso «come una nobile vittima di una "rigida", troppo rigida, giustizia divina » (Bigi). Ma proprio questo rifiuto della comune miseria, e il non volersi considerare alla stregua degli altri falsari, faranno precipitare l’appassionato calore di maestro Adamo nella sua grottesca contraffazione finale (che rappresenta poi la sua autentica natura di dannato, la sua umanità irrigidita ed incapace di redenzione).


           

 

INFERNO CANTO XXXI

             

 

Mentre i due pellegrini, voltate le spalle all’ultima bolgia dell’ottavo cerchio, si avviano in silenzio verso l’orlo del pozzo in cui sono puniti i fraudolenti contro chi si fida, alto, terribile, lacera l’aria il suono di un corno. Dante volge lo sguardo nella direzione dalla quale il suono è provenuto; crede di vedere molte torri, per cui domanda al maestro verso quale città si stiano dirigendo. Virgilio risponde che quelle che a Dante sembrano, da lontano, le torri di una cerchia di mura sono in realtà le forme immani dei corpi dei giganti; questi sovrastano con la parte superiore del corpo l’orlo del pozzo dei traditori. I due poeti s’imbattono dapprima in Nembrot, l’ideatore della torre di Babele, per la cui colpa gli uomini non parlano più la medesima lingua. Poiché le parole da lui pronunciate sono incomprensibili, Virgilio lo schernisce, esortandolo a sfogare la sua ira con il corno che porta appeso al collo. Alla distanza di un tiro di balestra da Nembrot si trova, saldamente avvinto da una catena, un altro gigante: è Fialte, distintosi nella lotta dei titani contro gli dei; ora non può più muovere le braccia che si avventarono contro i signori dell’Olimpo. Allorché i due giungono presso Anteo, Virgilio si rivolge cortesemente a questo gigante, adulandolo: gli ricorda i leoni innumerevoli catturati nella valle poi divenuta insigne per la vittoria di Scipione su Annibale e ne elogia la forza. Il poeta latino prega quindi Anteo di deporre lui e il suo discepolo sulla superficie ghiacciata di Cocito, promettendogli in cambio fama nel mondo dei vivi. Senza pronunciare parola il gigante acconsente alla richiesta di Virgilio. Nell’attimo in cui si china per afferrare i due pellegrini, la sua figura richiama alla mente di Dante l’immagine della torre della Garisenda, minacciosamente incombente su chi la contempla dal basso; ma delicato è il movimento eseguito dalla sua mano per posarli sul fondo della voragine infernale.


 

Introduzione critica

 

I titani simboleggiavano, nella concezione greca del sorgere e definirsi del cosmo, lo smisurato, il difforme, ciò che non può inquadrarsi in uno schema concettuale o visivo: errore logico e metafisico, ripugnante tanto ai dettami dell’evidenza - la quale prescrive a cose o idee un contorno tale da racchiuderle nella loro identità - quanto alla necessità che spinge l’uomo a trasferire in miti, metafore, simboli il contenuto dei propri concetti, onde trovare un accordo tra l’unitario dispiegarsi del pensiero e la multiforme accidentalità del percepire. Insieme ai titani, derivati dalla tradizione classica torreggia nell’Inferno, a custodia del pozzo dei traditori, Nembrot, la cui colpa, per la pretesa di raggiungere la volta celeste, sede del Dio degli Ebrei, corrispose - nei moventi e nei mezzi posti in opera per attuarla - al tentativo di dare l’assalto all’Olimpo degli smisurati figli della terra. Nel canto XXXI pertanto i giganti esprimono la medesima idea balenante nei miti greci e nel racconto biblico della costruzione della torre di Babele: idea morale, fondata su un religioso consenso dall’uomo accordato all’ordine dell’universo, e quindi assai lontana da quelle che sono alla base delle creazioni di un Cervantes, di un Rabelais, di uno Swift, volte a satireggiare amabilmente gli errori in cui può indurci una fede acritica nella nostra soggettività, senza peraltro destituire quest’ultima dei suoi diritti di legislatrice assoluta del reale. Collocati fuori del tempo, i giganti danteschi non propongono alla nostra attenzione l’attimo del loro libero, fremente insorgere; immobili, convertiti in oggetti, simboleggiano la punizione che li ha annientati, la divina onnipotenza assai più che un loro personale modo di essere. Mentre in Malebolge ciascun peccatore appariva così pervicacemente legato alla propria individualità, da riuscire a dimenticare persino la propria condizione di dannato, concedendosi alla battuta scherzosa per il puro gusto di scherzare (gli alchimisti del canto XXIX) o, sul piano di una più drammatica e ferma caratterizzazione, all’insulto Fine a se stesso (Sinone e maestro Adamo nel canto XXX), i giganti esprimono uno stato di totale sottomissione alla sentenza che li ha colpiti, in ciò attuandosi una forma evidente di contrappasso, per cui, quanto più alta si tese la loro presunzione, tanto più prostrata appare, nell’al di là, l’energia che li travolse a peccare. Nulla hanno di smisurato le loro moli, pur travalicando i confini della nostra quotidiana percezione. Il Poeta infatti ne determina le dimensioni, riducendole, attraverso un processo di scomposizione, ad una somma di elementi eterogenei (i tre Frison, la pina di San Pietro). Conferisce un sapore di distaccata ironia all’insieme della rappresentazione l’accostamento livellatore dell’essere vivente (determinato peraltro attraverso una connotazione - Prison - che lo inquadra in un genere, anziché farne risaltare l’individualità) al manufatto (I’architettura fornisce in questo canto i termini più appropriati di confronto, imponendo alla nostra immaginazione la staticità pesante e maestosa di forme che il principio vitale sembra aver interamente disertato). Nessuna tensione tragica turba l’impassibile solennità di queste torri, nulla essendovi in esse di michelangiolesco, contrariamente a quanto sostenuto, più per enfasi che attraverso un controllo diretto del testo, dal Ghignoni. Alle affermazioni del Ghignoni opportunamente si contrappongono i seguenti rilievi del Frascino: "Nelle creazioni di Michelangelo è la vita che domina la massa, qui è la massa che opprime e quasi annulla la vita. I colossi michelangioleschi tendono spasmodicamente le loro membra, indomiti, nello sforzo di spezzare, quasi, delle invisibili catene avvincenti il loro corpo. I giganti di Dante sono, invece, i vinti che soggiacciono, domati, al peso delle loro catene; non li scuote lo spirito della epica lotta di Flegra, bensì qualche accesso di fraterna gelosia! Essi adempiono, nell’inferno dantesco, ad una funzione più che altro decorativa, adornando tutt’intorno, nella loro statuaria monumentalità, la reggia ghiacciata di Lucifero. La stessa immobilità forzata, cui sono costretti, è una necessità della decorazione, non meno che della pena". La verticalità di queste masse abitate da intelligenze infantili (le convulsioni di Fialte, la docilità di Anteo esprimono una medesima aderenza agli aspetti più esteriori del reale, una medesima acribia, una vanità scoperta e candida) se, nell’ambito di uno sguardo d’assieme, suggerisce l’idea di una forza compatta ed elegante (la corona di torri sugli spalti di Montereggioni, l’incombere vertiginoso della Garisenda sullo sfondo di un cielo percorso da nuvole in fuga propongono questa soluzione), risulta, ad un’analisi più attenta, materialità inerte, che il Poeta considera "sempre secondo la forza di gravità, dall’alto in basso: dall’umbilico in giuso tutti quanti - e per le coste giù ambo le braccia - dal luogo in giù dov’uomo affibbia il manto" (Frascino).Lo stato d’animo di Dante di fronte a queste creazioni della sua fantasia non è di dura polemica, come quella che lo ha opposto ai maliziosi del cerchio ottavo, né di odio esplicito, come quello che proromperà nei suoi incontri con i traditori, ma di riposata tensione, di quasi serena (nella misura in cui tali attributi possono applicarsi all’arte della Commedia) contemplazione. Pur ricordandone il misfatto, egli considera i giganti come forze della natura prima che come esseri responsabili e li contempla quindi con curiosità e stupore, né l’ironico distacco che isola queste figure nella loro estrema impotenza appare esente da una sfumatura di cordialità indulgente e bonaria: la lode rivolta alla natura "per aver smesso tal sorta di generazione non significa affatto rimprovero per aver voluto dare, una volta tanto, tale saggio della sua potenza" (Frascino).


           

 

INFERNO CANTO XXXII

             

 

Nella prima zona del nono cerchio (la Caina), confitti nel ghiaccio fino al collo si trovano i traditori dei congiunti. Due di essi appaiono a tal punto vicini che i loro capelli si confondono: sono i fratelli Napoleone ed Alessandro degli Alberti che l’odio di parte e motivi d’interesse inimicarono a tal punto da portarli ad uccidersi l’un l’altro.

 

Nella seconda zona, detta Antenora, nella quale sono puniti i traditori della patria, Dante colpisce col piede una delle teste che emergono dalla superficie ghiacciata. Il dannato chiede con asprezza il motivo di tanta crudeltà: « Se non lo fai a ragion veduta, al fine di accrescere la punizione inflittami a causa di Montaperti, perché infierisci contro di me? » A tali parole Dante domanda al peccatore di rivelargli il suo nome e gli promette, in cambio, fama tra i vivi. Ma è desiderio del traditore proprio quello di non essere ricordato, per cui intima duramente al Poeta di non importunarlo. Dante allora, afferratolo per i capelli, gliene strappa diverse ciocche, senza che per questo il dannato acconsenta a dichiarare il proprio nome. E’ un suo compagno di pena che appaga il desiderio del pellegrino: il traditore è Bocca degli Abati, colui che a Montaperti recise con un colpo di spada la mano del portainsegna della cavalleria fiorentina.

 

Allontanatisi da Bocca, i poeti scorgono due dannati confitti in una medesima buca, in modo che la testa di uno sovrasta, come cappello, quella dell’altro. A colui che rode, come per fame, il cranio del suo compagno di pena, Dante rivolge la preghiera di manifestare la causa di un accanimento così disumano, promettendo che, tornato nel mondo dei vivi, rivelerà il misfatto resosi a tal punto meritevole di odio.


 

Introduzione critica

Oltre che nell’alto e nel medio inferno, neppure in Malebolge la ferma adesione dell’animo di Dante alla misura della giustizia divina era mai andata disgiunta da una sorta di dolente, ammirato stupore per i traguardi che la natura umana aveva saputo talvolta raggiungere in sfere in cui si era, peccaminosamente, proposta come autonoma ed autosufficiente. Anche le più abiette fra le anime del cerchio ottavo risultano poeticamente vive proprio in virtù del fatto che la condanna non le livella in una indifferenziata negatività, ma fa brillare in ciascuna di esse, diversamente riflesso, il rimpianto per una gerarchia di valori alla quale non è loro più consentito tendere. Tale rimpianto - tanto più acuto, quanto più viva è nel peccatore la coscienza della propria colpa - rende dolorosamente problematiche, pur nella fermezza dell’insegnamento che da esse ci viene, le apparizioni di questi esseri sottratti, nell’immutabilità di un presente infinito, alla possibilità di riscattare i loro errori. Come ha ben veduto il Montanari, essendo vive le figure dell’inferno "in forza della tensione spirituale che sorge dalla intuizione teologica del contrasto tra la magnificenza naturale e la sua insufficienza alla salvezza eterna", la poesia della prima cantica «nasce non da una tranquilla esposizione catechetica, ma... dall’accettazione di un dramma che resta teoreticamente irrisolto quando sia accettato non dal punto di vista universale, ma dal punto di vista della concreta individua persona umana».

In presenza dei traditori la disponibilità dell’animo di Dante ad accogliere nella loro complessità angosciosa le voci dell’umano errore - riconoscendo in ciascuna di esse se non altro un tremito di inespressa verità, un accento di sincero dolore per il male compiuto, un fugace ridestarsi della coscienza immersa nelle tenebre - appare notevolmente e, fin dai primi versi del canto XXXII, programmaticamente, limitata. L’attenzione volta al dato espressivo in quanto tale - considerato nella sua astratta tecnicità (s’io avessi le rime aspre e chiocce) - preannuncia infatti il totale, freddo distacco del Poeta di fronte alla sofferenza di queste anime. Tale attenzione viene esplicitamente manifestata nel proposito di trovare termini che si addicano al tristo buco, sul quale - assunto a simbolo di insensibilità ai valori morali - grava il peso di tutta la materia del mondo. Le rocce che su di esso puntan prefigurano la durezza del vincolo che lega le anime dei traditori al loro peccato, la loro irriducibilità al rimorso, alla dialettica che definisce lo spirito in quanto superamento del già compiuto - perché necessariamente imperfetto - in quanto insaziato protendersi verso una perfezione che non è attuale (proiettata nel futuro dai vivi, in un passato che avrebbe potuto essere diverso dai dannati).

Fino all’ultima bolgia dell’ottavo cerchio la condanna espressa dal Poeta nei confronti dei peccatori - ove non si ampliava in una dolorosa considerazione dei motivi che conducono l’uomo a peccare - si era manifestata in motti recisi dai quali emergeva una presa di posizione morale, una prontezza di reagire dell’intelletto volto al bene contro le insidie dell’intelletto sviato. Basti pensare alla conclusione che Dante sa trarre, con il rigore di una deduzione sillogistica, dalla dolorosa presentazione che di sé fa Mosca dei Lamberti; e morte di tua schiatta rappresenta il colpo di grazia che degrada - senza peraltro privarla di una sua tragica statura - questo personaggio da essere capace di esprimersi ad essere chiuso alla parola e alla ragione, a persona trista e matta. Ma i traditori per Dante rappresentano - a differenza dei dannati dei cerchi superiori - l’assoluta identificazione della persona viva con la categoria del peccato, la chiusura completa dell’ « io » nell’isolamento dai suoi simili, nel ripudio delle leggi che emanano da Dio. Con essi nessun dialogo - nemmeno se condotto sul tono di un’aspra requisitoria, di un’impietosa polemica - risulta plausibile: dove ogni residuo di coscienza appare sommerso in una inoperante negazione, in una fedeltà al male compiuto che non ha più nulla di umano, ogni forma di intelligente proposizione di valori, ogni senso delle sfumature vengono da parte del Poeta deliberatamente abbandonati. Alla battuta recisa che nettamente definiva, in termini di opposizione etica ed intellettuale, gli scontri verbali del Poeta con le anime use a malizia di Malebolge, subentra nel nono cerchio, sia da parte di Dante che dei suoi antagonisti, il gesto impulsivo, la carica d’odio incurante di legittimarsi esplicitamente sul piano della ragione. Dante dà per scontato che i traditori meritano solo quest’odio, non l’analisi dei motivi che li indussero a tradire, non il risveglio - doloroso ma nobilitante - in essi, della coscienza. Tale è il significato dell’episodio che con maggior forza s’impone alla nostra attenzione nel canto XXXII (quello di Bocca degli Abati), tale è anche il significato della scelta lessicale e stilistica dal Poeta operata in questo canto. Alla pittura di anime che il rimorso implacabilmente devasta, alla presentazione di situazioni incentrate su una problematica etica fortemente individualizzata, si sostituisce qui un atto d’accusa che coinvolge i traditori considerati, nel loro insieme, assai più come classe degradata (plebe) che come individui in grado di giustificare - sia pure con argomenti fallaci o capziosi - le loro azioni, un’ironia spessa ed opaca (passeggiando tra le teste), una crudeltà allucinante e fredda (il "cozzo" di Napoleone ed Alessandro degli Alberti, paragonati nella loro immobilità a "spranghe", nel loro destarsi al movimento a becchi), in cui l’animus comico e realistico di Dante trova le sue espressioni più impenetrabili e dure.


           

 

INFERNO CANTO XXXIII

             

 

Confitti nel ghiaccio dell’Antenora Dante incontra due dannati e interpella colui che rode rabbiosamente la nuca del suo compagno di pena (fine del canto XXXII). E’ Ugolino della Gherardesca che, già potentissimo a Pisa, fu fatto prigioniero dal Ghibellini e fu lasciato morire di fame insieme a due figli e a due nipoti. L’altro è l’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, alla cui frode e alla cui crudeltà egli dovette la cattura e la fine orribile. Traditori ambedue (il conte Ugolino era accusato di avere consegnato a Lucca ed a Firenze alcuni castelli pisani), scontano la colpa nello stesso luogo, ma le loro pene non sono certo pari: Ruggieri oltre al tormento del gelo eterno ha quello che gli infligge la rabbia del suo nemico; per Ugolino al dramma della dannazione si aggiunge l’ira e la sete inesausta di vendetta contro il suo nemico.

 

Solo la cattura, la prigionia, la morte inflitta in forma orrenda a lui e ai quattro giovani innocenti occupano l’animo di Ugolino; le vicende culminate in quella tragedia sono troppo note perché sia necessario ricordarle. Lo sdegno che la narrazione di Ugolino accende nel Poeta lo fa prorompere in una fiera invettiva contro Pisa. Nella terza zona di Cocito, la Tolomea, dove sono puniti i traditori degli ospiti, Dante e Virgilio trovano il faentino Alberigo dei Manfredi, che invitò a banchetto alcuni consanguinei per ucciderli.

 

Il dannato spiega a Dante, meravigliato perché sapeva Alberigo ancora nel mondo dei vivi, che per una legge propria della Tolomea egli è all’inferno solo con l’anima, mentre il suo corpo sulla terra è governato da un demonio. Nella medesima condizione è anche il genovese Branca d’Oria, reo di avere ucciso il suocero Michele Zanche mediante una frode dello stesso genere. Il canto si conclude con una dura invettiva di Dante contro i Genovesi.


Introduzione critica

 

Questo canto si apre in modo inusitato. Se ritorniamo a quelli che lo precedono dal II al XXXII noteremo che l’inizio di ciascuno è l’inizio di un nuovo episodio. (Può appena essere considerato una deroga l’incontro con Vanni Fucci, che dal canto XXIV sconfina nei primi versi del successivo). A volte l’apertura è preceduta da una digressione di carattere meditativo (nel XIX: O Simon mago, o miserI seguaci . ...; nel XXIV: In quella parte del giovanetto anno ... ): digressione che segna ancora meglio il distacco tra episodio ed episodio. L’effetto sul lettore è ben preciso, e fu certamente voluto dal Poeta, perché in tal modo l’attenzione di chi legge è messa a fuoco sui due visitatori dell’inferno; nel canto XXXIII, invece, essa rimane incentrata sulla vicenda e sull’eroe della vicenda introdotta drammaticamente nelle ultime terzine del canto che precede. La figura posta così in primo piano è grandiosa, forse la più imponente che sia mai nata in un testo poetico. Nel costruirla Dante mette una passione che soverchia in ogni senso quella che anima ogni altra parte dell’Inferno; vi spende tutte le sue risorse interiori, tutti i suoi accorgimenti stilistici.

E’ una passione diversa da quella che il Poeta intese tradurre, e tradusse, nel testo intero del suo poema. Si è tentati a credere anzi che sia diversa da quella che lo ispirò primitivamente a portare in scena Ugolino e la sua vicenda. Nell’economia visibile del poema il personaggio ed il suo caso tragico sono entrati come documento del male che Dante imputa alla società del suo tempo e del suo paese: il disordine politico, causa ed effetto dell’intemperanza dei singoli; l’Italia smembrata, non solo, ma la disunione che sgretola ciascuno dei suoi frammenti. Non è casuale che quando Ugolino ha parlato ed è la volta del Poeta, Dante sfoghi lo sdegno e la pietà di cui lo hanno colmato le parole di Ugolino in un’invettiva rivolta a tutt’altro bersaglio da quello (l’arcivescovo Ruggieri) a cui il personaggio mirava: cioè a Pisa, all’esempio infame di discordia dato dai cittadini di Pisa.

L’Ugolino storico fu un uomo in una società; è certo che provò passioni di parte e ambizioni, ed è probabile che avesse idee e dubbi. Fu un attore sulla scena della storia pisana, ed è come tale che Dante lo porta sulla scena dei suo poema, sicché la sua evocazione si chiude in un’invettiva a Pisa. Ma di ciò, che fu certo molta parte di lui vivo, il dannato non ritiene più nulla. E’ solo un padre. Anche la sua paternità è scarna e come pietrosa: nella torre dove lui e i figli attendono di morire quasi non corre parola, e non ne esce una dalla bocca di Ugolino; lo sentiremo ululare solo sui loro corpi inerti. Nemmeno nel rievocare la sventura immeritata di quei giovani egli avrà una parola intenerita: il suo lutto è diventato subito rancore implacabile per chi lo causò. Si direbbe che Dante lo vuole inumano, ma egli lo vuole solo essenziale. La sua figura è costruita con tratti violenti, ma soprattutto a farcela sentire violentemente è la sua fissità rocciosa. Il Poeta vi ha speso, nel calcolo delle sfumature verbali e nell’uso delle metafore, una estrema scienza che possiamo chiamare retorica senza timore di venire fraintesi. Ad esempio, un esame attento è sufficiente a rilevare con quale cura il Poeta ha sfruttato il potere suggestivo delle vocali. Le u di certi versi come breve pertugio dentro dalla muda... cacciando il lupo e’ lupicini al monte, non sono casuali; né i suoni stretti della i e della e in versi dove è espresso un dolore acuto e non cupo, né le a e le o quando è evocata l’innocenza dei figli condannati ad una fine orribile...

L’interpretazione di questi versi offerta dal De Sanctis, ricca di notazioni molto penetranti sui singoli momenti, ha abituato a sottolineare l’ampiezza del dramma e la profondità dei patetico, ma non ha tenuto conto - secondo l’esatta critica del Mattalia - che «lo strumento con cui il Poeta consegue i suoi effetti è il distacco, l’impassibilità, il superiore dominio formale». Liberandoci dell’affermazione romantica secondo la quale l’episodio scaturisce di getto dall’animo di Dante, riesce più facile comprendere che quando Dante fa parlare Ugolino, cerca "sì di delinearne la figura, ma interpretandolo nel proprio stile; poiché,(e qui la fonte di molti equivoci) l’idea di uno stile immediatamente connaturato al personaggio è fuori della sua poetica. Lo stile del narrare ugoliniano è soprattutto lo stile di Dante, ed è poi la fantasia del Poeta che con lucido dominio costruisce l’episodio".

La parte rimanente del canto, assai meno della metà, è sembrata ad alcuni critici, tra cui il Chiari, che patisse nel trovarsi accostata al tremendo episodio di Ugolino, che la diversità di tensione tra le due parti provocasse squilibrio. Ma Dante non poteva sentire così, perché lo schema preordinato al suo poema era l’anima stessa della Commedia.

Certo la schematizzazione, frutto della persuasione scolastica che un sistema per provarsi valido doveva essere costruito con perfetta armonicità geometrica e perfetta simmetria, è il fondamento caratteristico del pensiero medievale. Dante aveva di continuo presente quello che a noi la drammaticità grandiosa dell’episodio di Ugolino fa scordare: che Cocito aveva quattro zone, ciascuna per una categoria di traditori di coloro che si fidano, e che, attraversata la regione dell’Antenora, egli entrava in quella dei traditori degli ospiti. E se molti commentatori hanno tentato di spiegare variamente l’eccezione di Alberigo dei Manfredi e di Branca d’Oria, il corpo dei quali vive ancora nel mondo, a noi basta osservare con il Getto che «un canto della Commedia, se anche non determina sempre una unità lirica, sta sempre a rappresentare una unità strutturale o un dato per lo meno del proposito costruttivo e dell’intenzione d’arte del Poeta, il cui peso non può essere con troppa disinvoltura ignorato nel definitivo calcolo di un’integrale esegesi".


           

 

INFERNO CANTO XXXIV

             

 

Dante e Virgilio entrano nella quarta zona di Cocito, chiamata Giudecca, dove soffrono coloro che tradirono i loro benefattori.

 

Qui nessuna delle anime dannate parla, nessuna e’ identificata: imprigionate totalmente nel ghiaccio, si possono appena intravedere, immobili nelle più diverse posizioni: supine, ritte in piedi, capovolte, piegate ad arco. Nell’aria opaca che grava sulla palude gelata comincia a delinearsi un’enorme sagoma, come un mulino le cui pale girino nel vento: è la mole gigantesca di Lucifero piantato fino a mezzo il petto nella palude.

 

Il re dell’inferno ha tre facce, quella anteriore è rossa, quella sinistra è nera e quella destra è gialla; le tre bocche maciullano senza posa tre peccatori, che tradirono le due supreme autorità, la spirituale e la temporale: Giuda, Bruto e Cassio; Giuda, per maggiore tormento, è straziato di continuo dagli artigli del mostro. Agitando le sue tre paia d’ali di pipistrello Lucifero genera il vento che fa ghiacciare Cocito.

 

Ormai i due poeti hanno visto tutto l’inferno ed è tempo di uscire; Dante si avvinghia al collo di Virgilio che scende aggrappandosi ai peli di Lucifero nello spazio tra il corpo villoso di Satana e il ghiaccio che lo imprigiona. Giunto al centro del corpo del mostro (corrispondente al centro della terra) Virgilio si capovolge e prosegue con il suo discepolo attraverso una stretta galleria, mentre Dante gli chiede alcune spiegazioni, finché giungono alla superficie della terra.


Introduzione critica

 

Dopo la tensione altissima del dramma del conte Ugolino e il "furore biblico" dell’invettiva contro Pisa, il canto precedente si chiudeva in tono minore, calando gradualmente dallo sdegno violento al disprezzo beffardo dell’invettiva contro i Genovesi. Di questo tono minore partecipa anche l’ultimo canto dell’Inferno, con il quale Dante sigilla il primo tempo della "meditazione trinitaria" intorno alla realtà spirituale dell’uomo (non essendo i tre regni altro che fasi di un solo processo di caduta e di redenzione) e, nel finale, prepara il lettore alla dolce visione della marina del purgatorio. Il canto trova la sua unità attorno alla figura mostruosa di Lucifero, che domina e soverchia ogni altra immagine e la sua comparsa, già misteriosamente preannunciata nel canto XXXIII (versi 100-105), è preparata con sapienza. La solennità del verso latino iniziale - vexilla regis prodeunt inferni - infonde quasi un senso di religioso orrore, mentre la massa bruta del mostro "viene innanzi lentamente attraverso l’atmosfera scura e lontana, con lineamenti prima indefiniti, e domina paurosamente sulla squallida distesa..." (Momigliano).

Il pellegrino, che di cerchio in cerchio aveva sperimentato, giudicato, combattuto il mondo del peccato, accosta faticosamente il simbolo del male in un orizzonte cupo e grigio, dove si dissolvono tutti i più violenti colori del mondo infernale (che erano pur sempre emblemi di vita, anche se di una vita dannata), in un silenzio dove tutte le grida di dolore o di maledizione che lo hanno accompagnato, restano imprigionate nel ghiaccio.

Lo sfondo non potrebbe essere architettato con maggiore efficacia, ma quando la figura di Lucifero si avvicina e si precisa, Dante, dopo averlo sbozzato con un tratto potente (lo ‘mperador del doloroso regno da mezzo il petto uscìa fuor della ghiaccia), si affanna impacciato, cerca approssimative precisazioni, usa iperboli ed esclamazioni. Proprio per questo numerosi commentatori negano la poeticità del più gigantesco personaggio dell’Inferno. Secondo il Grabber "il colossale in Lucifero non raggiunge un vigore poetico adeguato" perché la sua figura "è costruita con un ritmo piuttosto faticoso e frammentario". Il Romani ritiene che "questo mostro immane, con l’inutile corpaccio morto, non vale neppur uno di quei suoi ministri, pieni di maliziosa gaiezza i quali portano la viva luce del comico sulla sudicia bolgia dei barattieri ".

Tuttavia l’apparizione di Lucifero è sconcertante e grandiosa e ci riporta all’íconografia di tanti affreschi e mosaici medievali, in cui lo sforzo di rappresentare il simbolo vivente del male libera la fantasia dell’artista da ogni freno immergendola nel mondo dell’orrido. Anche se non si può negare che Dante abbia conosciuto molte tradizioni iconografiche letterarie e figurative, nella costruzione di Lucifero, nella sua struttura che poggia su salde basi dottrinali è evidente un senso di equilibrio e di misura, il quale ha impedito ogni esasperazione grottesca che poteva sconfinare nell’ingenuità o tradursi nel virtuosismo. E’ quindi giusto riconoscere la prodigiosa originalità di questa creazione che nella fantasia del Poeta vuole essere "il bestiale contrapposto della Trinità... la sintesi morale e pittorica della perversione morale e fisica del regno del male" (Momigliano). Preparato già nel primo canto, dove le tre belve sono "una demoniaca processione di una Trinità inferna, una sostanza in tre persone, l’una dall’altra procedendo, dalla Cupidigia la Violenza, e dalla Cupidigia e dalla Violenza insieme l’invidiosa Frode, l’amor del Male" (Apollonio), l’emblema della trinità demoniaca "che capovolge nel Male le aspirazioni del Bene, e irrigidisce nell’amor di sé il richiamo dell’amor divino... opera nella prima cantica, giù giù traboccando dal triforme Cerbero al triforme Gerione al triforme Lucifero", finché quelle "aspirazioni" attraverso il centro della terra saliranno verso la Trinità divina ("s’intende molto facilmente che le tre facce di Lucifero sono in antitesi con i tre cerchi di tre colori che il Poeta poi ci dirà ‘ di aver veduti in Dio" secondo l’affermazione del Pietrobono che si riporta ai versi 115120 del canto XXXIII del Paradiso).

Dante rappresenta Satana quale un immenso ammasso di materia quasi inerte, perché questa, secondo la filosofia scolastica, essendo pura potenza, passività quasi assoluta, si avvicina di più al non essere, al nulla. "Il riassunto di tutti i mali d’inferno è là, in quella montagna di materia torpida, la fonte di tutto il pianto del mondo è là, in quel gigante che piange con sei occhi, grottescamente, la suggestione precipite delle tre Bestie si spenge in quelle tre Facce, la superbia negatrice di Farinata si addormenta gelida e tetra in quel mostro che da mezzo il petto uscia fuor della ghiaccia, la monotonia dei tormenti infernali, eterni, si ripete nel gesto monotono con cui dirompe coi denti, a guisa di maciulla, un peccatore..." (Apollonio)

Poiché Lucifero è la «Trinità inferna", di fronte a questo abisso del male la parola non riesce più ad esprimere: l’impotenza a dire del Poeta ha anche questo significato. E il silenzio di Lucifero e dei dannati della Giudecca (anche Bruto si storce e non fa motto), la mancanza di ogni dialogo, l’assoluta indifferenza segnano il distacco definitivo di Dante dal male dopo la lunga meditazione sul peccato: ... oramai è da partir che tutto avem veduto (versi 68-69).

Nel finale (versi 127-139) l’atmosfera infernale ormai si sta dissolvendo, la terra partecipa più animatamente alle vicende spirituali. Il viaggio viene consumato in silenzio, ma coll’accompagnamento discreto di quel ruscelletto che discende in basso. Anche il linguaggio del Poeta muta stile e accento, preludio alla dolcezza dell’alba sulla spiaggia dell’antipurgatorio.

 

Fonte:

http://utenti.multimania.it/assodeli/divina_commedia.doc

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