Divina commedia paradiso riassunto

 

 

 

Divina commedia paradiso riassunto

 

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Divina commedia paradiso riassunto

 

PARADISO

PARADISO CANTO I

             

 

Dante afferma che materia del suo canto sarà la visione del paradiso, o almeno ciò che la memoria può ricordare di quella realtà ineffabile. Perciò è necessario invocare l'intervento di Apollo, affinché, di fronte alla difficoltà dell'argomento della terza cantica, aggiunga il suo aiuto a quello delle Muse, che già hanno soccorso il Poeta nella composizione dell'Inferno e del Purgatorio. Solo così Dante sarà sicuro di poter cingere un giorno la corona di poeta, consapevole di aprire, con il suo esempio, una strada sulla quale lo potranno seguire anche miglior voci. E' l'alba quando Dante, imitando Beatrice che teneva gli occhi fissi sul sole, volge il suo sguardo verso la lucerna del mondo, che gli appare di uno splendore luminosissimo. Poi gli occhi del Poeta tornano a guardare la donna amata e in questo momento si opera il suo trasumanar, cioè il suo innalzarsi oltre ogni limite umano, poiché inizia ora per lui l'ascesa verso i cieli attraverso la sfera dell'aria e quella del fuoco. Il ruotare delle sfere celesti provoca un suono armonioso, che riempie di stupore il Poeta, per il quale costituivano già motivo di profonda meraviglia i bagliori, più luminosi del solito, del sole. Beatrice gli rivela allora che egli non si trova più sulla terra, ma che sta salendo verso i cieli. Tuttavia un altro dubbio tormenta Dante: come è possibile che il suo corpo possa passare attraverso le regioni dell'aria e del fuoco? La spiegazione di Beatrice esamina la presenza, in ogni essere creato, di una inclinazione naturale che lo porta a tendere ad una meta specifica: ora il fine ultimo dell'uomo è quello di raggiungere l'Empireo, il cielo creato per essere la sua sede, e verso di esso ogni creatura umana sale dopo che è stato rimosso in lei l'ostacolo del peccato.

 

 

Introduzione critica

 

Una vecchia distinzione della Una vecchia distinzione della critica, sostenuta in modo particolare da V. Rossi, poneva a fondamento della diversa ispirazione delle tre cantiche una diversità di momenti psicologici, originati dalle molteplici vicende della vita di Dante. L’Inferno sarebbe nato nel periodo immediatamente seguente all’esilio, pieno di rancori e di lotte, il Purgatorio nel momento della discesa in Italia di Arrigo VII, allorché l’animo si apriva alla speranza, il Paradiso negli ultimi anni, quando il Poeta, ormai stanco e rassegnato al crollo delle sue aspirazioni terrene, si era chiuso in se stesso, riponendo in Dio ogni speranza. Questa suddivisione della Commedia in termini biografici distrugge il senso più profondo della visione di Dante, la quale si è proposta come oggetto della sua meditazione e della sua rappresentazione l’itinerarium mentis in Deum, per usare l’espressione cara alla letteratura filosofica e religiosa del Medioevo.L’impulso dell’umano verso il divino c-, come afferma il Parodi, "l’intima essenza dello spirito di Dante" e, quindi, "l’essenza dell’intero poema": la lotta con il peccato, poi l’aprirsi dell’anima al divino, infine il divino che trionfa e attira a sé definitivamente l’umano. In questa Prospettiva deve essere collocata la lettura del Paradiso: compito del Poeta è quello di ritrarre il passaggio della propria anima attraverso i successivi gradi di cui si compone l’accostamento alla verità e al bene supremi. E’ evidente perciò l’estrema importanza che rivestono i versi di apertura del primo canto, i quali, con una commozione che sottolinea la solennità di questo momento, dichiarano la trascendenza dell’ispirazione, l’orgoglio di chi è consapevole di trasfondere nella propria opera tutta la sua dottrina e la sua sensibilità, e insieme l’umiltà di chi avverte la propria limitatezza di fronte alla rappresentazione del beato regno. Esatto appare quindi il giudizio di chi vede nella "proposizione " e nell’ "invocazione", della terza cantica la più grande esaltazione della poesia che Dante abbia fatto.La terza cantica, infatti, deve essere letta come " la storia oggettiva di una vita che si eleva attraverso progressi e esperienze al supremo grado della luce", per cui " il Poeta ritrae le scene nella loro obiettiva realtà, descrive il crescere di un’anima col massimo possibile di coerenza narrativa. Il poema rimane l’epica di uno spirito cristiano che va ora percorrendo le vie della Gerusalemme celeste; l’attenzione di chi scrive è interamente concentrata nella considerazione e nella resa di qualcosa di obiettivo, reale..." (Montano). Il primo canto, inoltre, ci prepara a vedere il Paradiso come il mondo della verità, nel quale appressando sé al Suo disire, nostro intelletto si profonda tanto..., perché il Poeta, come gran parte della Scolastica, è sorretto dal convincimento che "la forma del vivere umano più alta e più vicina a Dio è quella legata all’attività dell’intelligenza" (Montano), solo che il vero si identifica ora con l’amore, i due aspetti del divino che Dante chiuderà nella sintesi di un verso: Il viaggio dunque si presenta come l’esperienza del vero e dell’amore: infatti ai versi 7-9, che possono far pensare ancora alle rarefatte speculazioni del Convivio il Poeta contrappone l’ultima parte del canto, dove da Beatrice, cioè dalla verità stessa, ha la rivelazione del l’armonia universale del creato, dell’amore divino che riempie tutte le cose, unendole fra loro e subordinan dole a sé. E’ un gioioso approdo, una esaltante visioni dell’unità del reale, che ben può introdurre il tema del l’amore ricorrente in ogni passo della cantica, un amore privo di qualsiasi calcolo, diventato luce e grazia. Il Poeta deve chiedere alla sua arte di diventare ancora più profonda e delicata di quella che aveva creato il dolce color d’oriental zaffiro dell’atmosfera purgatoriale. perché sia possibile seguire le rapide conquiste e le improvvise accensioni dell’animo nella sua ascesa verso Dio. A chi si aspetta nel Paradiso soltanto il tono descrittivo e disteso, pacato e solenne, proprio di chi vede le cose dall’alto, dalla serenità di una meta ormai raggiunta, si può rispondere che tale tono è sì presente, ma non dovunque, perché il Poeta, che ha ormai attinto la visione suprema e si propone dì ripercorrerne le tappe, rivive ogni singola fase lasciando intatto il sapore della scoperta, dello sforzo, della conquista. Basti pensare, come esempio, al rapido e illuminante succedersi nel primo canto, di momenti diversi dai versi 46-48 ai versi 85-87: qui la tecnica espressiva (verbi e sostantivi in posizione dominante, assenza quasi assoluta dell’aggettivazione, costruzione per coordinate) contrappone al tono elaborato e solenne dell’invocazione iniziale o della spiegazione finale di Beatrice, un procedere sbalzato a grandi linee, una variazione continua di stati di anima e d’azioni, quasi il Poeta fosse sospinto da una ansia interiore e si scoprisse incapace di arginarla, finche il suo animo trova momentaneo riposo nella rivelazione della legge divina che regola e sostiene il creato. L’attenzione a questi mutamenti, interessanti dal punto di vista stilistico, perché concorrono a creare efficaci e suggestivi chiaroscuri, diventa indispensabile allorché si passi a considerare l’unità logica del canto troppo spesso accusato di mancare di continuità: l’esordio, con la celebrazione dell’argomento scelto a materia del canto, e la maestosa rappresentazione del cielo e della terra (versi 37-45) immettono subito il lettore nel mondo del sovrannaturale, lo abituano agli eventi miracolosi di cui il pellegrino sarà testimone, o addirittura oggetto. Ha inizio la prima fase del processo dello spirito nella beatitudine: Beatrice tutta nell’alterne rote fissa con li occhi stava; ed io in lei le luci fissi... Ma perché la creatura sta perfettamente consapevole che il suo ritorno al cielo è un fatto "naturale", che anzi il cielo è il sito decreto dall’eternità come sua sede, ecco la dimostrazione di Beatrice: il gran mar dell’essere si muove tutto secondo la divina volontà e il divino amore: l’uomo non è che una parte di questo gran mar, ma solo a lui è destinato il ciel reso quieto dalla luce di Dio.


PARADISO CANTO II

             

 

Il canto si apre con un ammonimento del Poeta ai suoi lettori: solo coloro che sono dotati di intelligenza e di cultura adeguate lo potranno seguire nell'arduo cammino che sta iniziando. Infatti, con la guida di Beatrice, egli sale dal paradiso terrestre, posto sulla vetta del monte del purgatorio, al cielo della Luna, il primo dei nove cieli fisici che dovrà attraversare prìma di giungere all'Empireo, dove ha la sua sede Dio.

La superficie lunare appare luminosa come un diamante, ma Dante sa che essa è COsparsa di macchie scure, intorno alle quali chiede spiegazioni . a Beatrice. Questa dapprima nega ogni valore alla credenza popolare che vedeva, in quelle macchie, la figura di Caìno gravato da un fascio di spine. In seguito dimostra la non validità della teoria scientificache trovava la causa, di quelle zone oscure nella maggiore o minore densità della materiacostituente la luna.

Dopo aver convinto Dante:che la ragione umana, qualora non sia sorretta dalla fede. e dall'insegnamento teologico, mostra tutti i suoi limiti, Beatrice espone la dottrina esatta, estendendo la sua spiegazione dalla luna. a tutti gli altri corpi celesti. Le zone più o meno scure che sì notano sulla loro superficie dipendono da/l'influenza dei cori angelici, le intelligenze motrici dei singoli cieli. Infatti ad una maggiore o minore letizia della intelligenza angelica corrisponde, nel cielo che da essa riceve le sue qualità specifiche, una maggiore o minore luminosità.

 

 

Introduzione critica

 

Una vecchia distinzione della Anche per il secondo canto, come per il primo, si pone il del rapporto fra dottrinalismo e trasposizione fantastica, problema, del resto, che è alla base di tutto il Paradiso. Per risolverlo la critica romantica ha abolito il primo dei due termini, negando al sapere filosofico teologico ogni interesse in campo poetico. Tale posizione dimentica di prendere in considerazione alcune Importanti realtà:

 

1) nel Medioevo la distinzione fra poesia e scienza non era posta in termini netti e precisi come per noi oggi;

 

2) certe questioni scientifiche (il termine "scientifico" è usato nella sua accezione più vasta e comprensiva), che sono ora lontane dalla nostra mentalità o almeno di scarso interesse, rivestivano, per Dante e il suo tempo, un valore essenziale;

 

3) il Paradiso è la conclusione di tutto un processo interiore, per cui ogni problema, trattato un tempo alla luce della sola ragione e del solo sapere filosofico (è il momento del Convivio), viene riesaminato, corretto e completato alla luce della fede, la quale proprio nella terza cantica si esplicherà in tutta la sua forza e la sua profondità. Questa ripresa di motivi e di problemi passati testimonia che la visione del Paradiso è intimamente legata all’esperienza di vita del Poeta, è frutto, come l’Inferno e il Purgatorio, dI questa esperienza. Non è perciò, né potrebbe esserlo, un’astratta esposizione in versi della Scolastica, bensì la descrizione dell’ascesi intellettuale e spirituale di Dante, fatta non come una confessione o un diario di tipo romantico e neppure nel genere di un dialogo ridotto ai due personaggi principali come il Secretum del Petrarca, ma nei modi di una ricostruzione rigorosa e obiettiva, perché solo questa rigorosità e obiettività le avrebbero permesso di proporsi come insegnamento agii uomini;

 

4) la visione di Dio, quale appare nel Paradiso, non può non proiettare in una dimensione religiosa tutto il creato. Come si possono, dunque, respingere, con l’accusa che sono di troppo, quelle pagine nelle quali il Poeta prende coscienza, e invita il lettore a fare altrettanto, che tutto l’universo si appoggia su basi metafisiche, che una sola legge, quella di Dio, governa le cose e che esiste nella molteplicità degli esseri un’unica fonte di attività?

 

L’invito di Dante, proprio all’inizio di questo canto (e non senza ragione) è estremamente esplicito: mi seguano solo coloro che sono stati nutriti con il Pan delli angeli. Una volta dimostrata la necessità del dottrinalismo nella poesia del Paradiso, resta da considerare quando e con quali mezzi esso diventa vera poesia. Alcuni l’hanno trovata nel linguaggio metaforico, prodotto da una fantasia sempre viva e fervida, altri nella solennità del Busnelli) volle vedere, nella dottrina delle macchie lunari e del movimento dei cieli regolato dalle intelligenze angeliche, una ennesima affermazione di ortodossia tomista da parte di Dante, mentre, secondo il Nardi, il Poeta, pur senza opporsi decisamente al pensiero di San Tommaso, propende per la dottrina di Avicenna, che pose nel cielo una gerarchia di sfere, animate da un principio vitale e mosse da altrettante intelligenze separate. Tuttavia il secondo canto non è un’accademica discussione sulle macchie lunari, ma un momento, fra i più poetici, della crescita spirituale di Dante, simile a quello del canto primo: il momento in cui il pellegrino scopre che l’universo e un immenso, armonico organismo. Il Parodi ha, a questo proposito, un’osservazione molto penetrante: Dante "volle subito esporre il grande e, si voglia o no, grandioso e mirabile sistema cosmologico delle influenze e, come nel primo canto aveva cantato l’ordine reciproco di tutte le cose e l’ascensione dell’essere verso l’alto, in questo descriveva la perpetua irradiazione luminosa delle idee divine dall’alto verso il basso, compiendo con questi due momenti, che ne formano uno solo la prima e più generale sintesi dell’universo ". Il secondo non è dunque il "canto delle macchie lunari", come viene genericamente definito, ma è il canto nel quale Dante, prendendo a pretesto il limitato problema delle zone più o meno scure della luna, è impegnato a dimostrare come il molteplice derivi dall’uno e come, attraverso l’influsso dei cieli, animati dalle intelligenze angeliche, il mondo sia sempre guidato dalla superiore giustizia e dall’infinito amore di Dio. L’interesse e la passione con cui il poeta impegna il suo intelletto in questa sintesi suprema dell’universo impediscono alla poesia di trasformarsi in un’arida confutazione delle opinioni errate e in una semplice rivelazione delle verità trovate. Così nella prima parte del discorso di Beatrice "si sente il piacere intimo che nasce dalla confutazione dell’errore", mentre nella seconda si ha "un tono diverso, più alto e solenne, di una solennità quasi religiosa", che cerca "immensità luminose e una figurazione angelica e ridente dell’universo". (Fallani).


PARADISO CANTO III

             

 

Nel cielo della Luna appaiono i primi beati: i lineamenti dei loro volti sono così tenui e indistinti che Dante ritiene di trovarsi di fronte a immagini ridesse. Queste anime godono del grado di beatitudine più Lasso e occupano l’ultimo cielo, quello più vicino alla terra, perché non hanno adempiuto completamente i voti offerti a Dio. Il Poeta si rivolge a uno spirito beato che sembra particolarmente desideroso di parlare con lui e chiede di conoscere il suo nome e la condizione in cui si trovano le anime del cielo della Luna. Risponde l’ombra di Piccarda, sorella di Corso e di Forese Donati, appartenente ad una delle famiglie pii) note di Firenze. Attraverso le sue parole Dante spiega che nel paradiso, per essendoci diversi gradi di beatitudine, ogni spirito beato è perfettamente felice, poiché la letizia che Dio infonde è proporzionata alla capacità di godere di ciascuna anima. Infatti se i beati del cielo della Luna desiderassero trovarsi in una sfera superiore, questo loro desiderio contrasterebbe con la volontà di Dio, che, a seconda dei meriti di ciascuno, ha assegnato un posto particolare nel regno dei cieli. Viene così rivelato il principio fondamentale del paradiso: la beatitudine non è altro che volere ciò che Dio stesso vuole, perché ‘n la sua volontade è nostra pace. Poi Piccarda accenna brevemente alla propria vita e indica un’altra anima locata, anche ella costretta, come lei, ad abbandonare il chiostro: è Costanza d’Altavilla, moglie di Enrico VI e madre di Federico II. Dopo che Piccarda, cantando "Ave, Maria" scompare alla sua vista, Dante si volge verso la luce folgorante di Beatrice.

 

 

Introduzione critica

 

Non sublime intermezzo di poesia lirica fra rigorose argomentazioni teologiche, ma ordinato svolgimento di quegli stessi temi (l’aspirazione a Dio e la sete di conoscenza) che ispirano e sorreggono i canti primo, secondo e quarto del Paradiso: ecco la caratteristica del cosiddetto canto di Piccarda. A proposito delle formule abituali per indicare un canto attraverso il nome del personaggio che ne è protagonista, occorre subito una precisazione: se era possibile parlare per l’Inferno di canto di Francesca o di Ugolino, e per il Purgatorio di canto di Casella o di Manfredi, perché essi sembravano godere di una loro vita autonoma ed episodica nella trama della cantica, per il Paradiso si mantiene questo uso solo per comodità di studio e di riferimento. Infatti i canti che hanno per protagonisti Piccarda, Giustiniano, Carlo Martello, San Francesco, San Domenico, Cacciaguida, San Pietro, pur possedendo un loro particolare aspetto poetico, una loro specifica tonalità, esigono un costante riferimento alla problematica teologica dalla quale viene germogliando la poesia del Paradiso. In altre parole: Piccarda, nonostante richiami alla memoria di Dante ricordi e affetti terreni, nonostante parli di sé (ma, si noti bene, dedica al racconto della propria vita solo tre delle diciannove terzine di cui si compongono i suoi due successivi interventi di fronte a Dante), rappresenta la condizione delle anime beate meglio di quanto, chiusi nelle loro vicende terrene, Francesca e Ugolino interpretino il mondo infernale o, ancora volti al loro passato, Casella e Manfredi quello purgatoriale. In Piccarda, infatti, trovano voce il sentimento dell’anima che inizia la sua vita di partecipazione al divino, l’interiore trasalire dello spirito davanti all’infinito, la sua ansia e il suo smarrimento di fronte ai divini misteri: proprio questa esperienza spirituale Dante ha affrontato nei primi due canti e ad essa si ispirerà anche nel quarto. Cercare la poesia del Paradiso non significa cercare quanto rimane della vita passata nelle anime che Dante incontra, come vogliono il De Sanctis e il Croce, bensì seguire il progressivo staccarsi di queste anime dalla loro realtà di un tempo per immergersi in Dio, il passaggio dalle esperienze della vita passata alla vita con Dio. La poesia del terzo canto ha il suo nucleo centrale proprio in questo complesso rapporto terra-cielo, umano-divino: da una parte l’elegia, il ricordo velato della terra, dall’altro il moto di ascesa verso Dio, il mistico abbandono nella sua volontà. Così al ricordo di una Beatrice terrena (verso I ) si sovrappone subito la presenza di una Beatrice diversa, che provando e riprovando scopre al suo discepolo il dolce aspetto della bella verità. Nel momento in cui il Poeta sta per dichiarare un suo ulteriore passo nella conquista della verità (versi 4-6), una visione che, pur trascolorata, mantiene sempre contorni umani, lo attrae a sé. Dopo che gli occhi santi di Beatrice lo hanno riscosso dallo smarrimento che lo aveva colto di fronte alle prime anime beate, Dante si accorge che una delle ombre è vaga di ragionar, ma, allorché essa comincia a parlare, le sue parole sono un inno di esaltazione della volontà divina, mentre la sua vicenda terrena è adombrata in un solo verso (i’ fui nei mondo vergine sorella); poi, quasi pentendosi di aver pronunciato il proprio nome, Piccarda torna a celarsi fra gli altri beati (verso 50), ad immergersi nel piacer dello Spirito Santo. Il nome di Piccarda può risvegliare nel Poetò la tanti ricordi, ma basta un fugace accenno (versi 62-63), perché l’ansia di conoscere il regno celeste lo spinge a nuove domande. Solo dopo che Piccarda ha cantato il godimento infinito degli esseri nel mare al qual tutto si more, ritorna in lui il desiderio di sapere qualcosa della vicenda terrena di quest’anima. Ma Piccarda non risponde subito: prima presenta colei che perfetta vita e alto m erto in cielo... più su; poi, in sei versi, rivela la propria vita, ma è la visione di Dio che chiude il suo racconto (verso 108) ed è il canto dell’"Ave, Maria" che conclude la presentazione, ricca di elementi terreni, della figura di Costanza. La figura di Piccarda illumina dunque un grande tema teologico (quello dell’anima che incomincia a vivere per l’eternità la vita della Grazia), ma è ben lungi dall’irrigidirsi in un simbolo: le risorse di fantasia e di sentimento di Dante sono tali che gli permettono quasi sempre di conferire una salda é precisa fisionomia ai personaggi del Paradiso pur chiamandoli a compiti così impegnativi, quali quelli di tradurre in parole e immagini le sue idealità religiose, morali e intellettive. Diventata più bella, Piccarda resta la dolce figura di donna che Dante ha conosciuto e di cui tanto ha sentito parlare nella sua giovinezza. Senza essere richiesta, si offre per prima (versi 34-35); nella sua umiltà francescana si gloria di una cosa sola, di essere stata una vergine sorella; ricorda al Poeta la conoscenza di un tempo (verso 49), ma senza precisare: quella Firenze è ormai lontana per entrambi; attraverso la figura di Santa Chiara indugia con commossa delicatezza sulle sue mistiche nozze con Cristo (versi 100-102); fuggita dal mondo non per disprezzo verso gli uomini, ma per vivere più intensamente il suo amore con Dio, la violenza subita non la inasprisce, ma le permette di meglio capire e perdonare gli uomini, soprattutto quando sono a mal più ch’è bene usi. Nel silenzio di Dio (verso 108) il suo amore diventa più profondo, più sofferto, più inebriante: la giovane clarissa che, suo malgrado, ha ceduto alla violenza altrui, diventa così degna di esaltare, prima fra tutte le anime del Paradiso, l’accordo dei beati con la volontà divina, il precipitare dell’anima in grazia nel mare dell’infinito amore.


PARADISO CANTO IV

             

 

Nel canto quarto Beatrice chiarisce due dubbi di Dante, che ella ha intuito senza che il suo discepolo glieli rivelasse. Il primo dubbio riguarda le anime che non hanno adempiuto completamente i voti: se esse hanno dovuto cedere alla violenza altrui, come possono essere considerate responsabili? Il secondo dubbio nasce dalla presenza dei beati nei singoli cieli: allora - si chiede Dante - le anime ritornano nel cielo da cui sono venute, così come afferma Platone? Beatrice affronta per primo questo dubbio, perché lo ritiene più dannoso per la fede. La vera sede dei beati è l’Empireo: essi appaiono nei diversi cieli affinché Dante possa avere una prova sensibile dei loro digerenti gradi di beatitudine, perché l’intelletto umano può apprendere solo ciò che proviene dal dato sensibile. Perciò si deve respingere la dottrina platonica del ritorno di ogni anima nel cielo dal quale si era staccata per entrare nel corpo. Per spiegare la responsabilità delle anime della prima sfera che hanno mancato ai loro voti, Beatrice distingue una volontà assoluta e una volontà relativa. La prima non vuole in alcun modo il male, la seconda si piega ad un male per evitarne uno peggiore: così fecero appunto gli spiriti del primo cielo, laddove invece avrebbero dovuto opporsi con tutte le loro forze alla violenza (ritornando, per esempio nel caso di Piccarda e di Costanza, al convento dal quale erano state fatte uscire). Dopo aver innalzato un inno di lode e di ringraziamento a Beatrice, Dante rivolge alla donna amata una nuova domanda, alla quale ella risponderà nei canto seguente.

 

 

Introduzione critica

 

Il quarto è certamente uno dei canti più dottrinali de] Paradiso, una di quelle pagine ragionative che più resistono alla forza trasfigurante della fantasia per la natura stessa dell’argomento. Per questo motivo l’attenzione dei critici si è rivolta soprattutto all’ultima parte del canto, nella quale si propone un tema decisamente lirico, tanto più suggestivo quanto più esso appare sorretto da immagini ampie e ricche di movimento dopo le serrate e rigorose articolazioni dialettiche del discorso di Beatrice. Tuttavia nella prima parte del canto il lettore non può non avvertire, come nota il Di Pino, la tensione sempre fervida e incalzante dell’intelletto: "E’ questa una energia di fondo di tutta la Commedia e specialmente del Paradiso. Il suo costante spirare deriva, ovviamente, dalla personalità morale e dottrinale di Dante. Ed è proprio questa energia mentale che... coordina senza rottura le regioni poetiche e quelle impoetiche del poema. E pur di tanto in tanto, dalle giunture più affaticate, emana quel calore implicito della mente, il caldo amore per la verità posseduta". Messo in rilievo questo elemento indispensabile a una giusta valutazione del canto quarto, appare interessante soffermarsi su due argomenti che esso propone alla nostra attenzione: i riferimenti al mondo poetico e filosofico classico e la esaltazione della volontà eroica nell’uomo. L’esordio, nel quale le tre similitudini richiamano un analogo passo di Ovidio (Metamorfosi V, 164-167), conferma, secondo una giusta osservazione del Di Pino, la persistenza delle fonti ovidiane che, a partire dai canti del paradiso terrestre, sostituiscono quasi completamente quelle virgiliane. Questo fatto ha una sua spiegazione: sollecitato dalla evidente analogia tra l’Eden cristiano e l’età dell’oro vagheggiata dai pagani, Dante richiama spesso passi delle Metamorfosi (che avevano cantato l’incanto di quel tempo felice) nella parte finale del Purgatorio e continua a chiedere ispirazione alla poesia ovidiana anche nei primi canti del Paradiso (si veda, ad esempio, la protasi della cantica). Non è un richiamo di valore secondario e di carattere erudito, ma rivela in Dante la volontà di conservare quanto è accettabile del patrimonio classico anche all’inizio del Paradiso, all’inizio, cioè, di quella parte del suo poema che è esaltazione pura del verbo cristiano. Il fatto, anzi, di entrare nel tessuto vivo della terza cantica, conferisce quasi un crisma di santità a quanto il Poeta ha salvato del mondo degli dei falsi e bugiardi. Tuttavia questo fervido classicismo di Dante è più chiaramente affermato a partire dal verso 24, dove il nome di Platone è ricordato proprio nel momento in cui il Poeta imposta l’ordinamento morale del suo paradiso. Dante non poteva ignorare che la teoria platonica riguardante i cieli e le anime che ad essi ritornano era stata condannata nel Concilio di Costantinopoli nel 540; egli stesso, del resto, la definisce piena di felle. Tuttavia non interrompe il suo ragionamento su questa decisa affermazione, perché più oltre dichiara: forse sua sentenza è d’altra guisa... forse in alcun vero suo arco percuote.E’ certo che Dante in questo momento si sente vicino Platone; ma ciò avviene non perché il poeta cristiano non accetti le teorie, ma perché si sente accomunato al grande filosofo greco da un’intuizione, da un repentino colpo d’ala della mente, la quale, nel suo moto ascensionali verso l’alto, avverte nei cieli un’anima, un fremito spirituale che attraversa con forza inarrestabile un universo geometricamente conchiuso. Ancora una volta Dante è attratto da un pensiero che è al di fuori di quello cristiano. Anche se egli condanna la teoria di Platone come piena di felle, alle stesso modo in cui ha già condannato il folle volo di Ulisse, sembra di leggere in questi suoi versi "la sostanza intrepida di un ardimento intellettuale che cerca altre frontiere" (Di Pino). Ad un certo momento in Dante, che aveva già conosciuto le dottrine di Platone attraverso Avicenna, Averroè, Alberto Magno, Sant’Agostino (se non addirittura nella traduzione che Calcidio fece del Timeo), si nota una più larga ammissione del pensiero platonico, e, in particolare, di quello relativo alle intelligenze celesti. "Verosimilmente, questo momento coincide con quello della maggiore maturità del Poeta; il momento, cioè in cui egli, collocando la materia del Paradiso entro la intelaiatura aristotelica, intravede nei cieli una carica di pensosità umana che non solo Aristotile ma neppure San Tommaso poteva suggerirgli. Forse, a questo punto, egli scopre - come dirà nell’ultima epistola (XIII, 84) - che Platone si esprime per metafore e che per "luce intellettuale" vede ciò che non può rendere col senso letterale." (Di Pino)Non è tanto il pensiero di Dante che riceve alimento da Platone, quanto la sua poesia, le sue intuizioni spirituali e psicologiche, grazie alle quali il terzo regno non è più un organismo rigidamente mosso dal Primo Motore, ma è vivificato dal palpito delle intelligenze angeliche, dai sorrisi, dalle danze, dai canti, dalla presenza, in una parola, delle anime beate (anche se, a proposito di quest’ultimo fatto, Dante si preoccupa di sottolineare che è solo una finzione poetica). Il secondo elemento peculiare del canto quarto è l’esaltazione delle virtù eroiche dell’uomo, la quale testimonia che la scoperta dei valori umani non è stata propria soltanto della cultura del ‘400 e del ‘500. I versi 73-132, dominati dal motivo della volontà che mai s’amorza e del desiderio di conoscenza che mai s’appaga, volontà e desiderio che hanno come loro ultimo termine la visione di Dio, accertano la validità di questa affermazione: la caratteristica del grande umanesimo dantesco è la scoperta dell’accordo profondo dei valori umani (quali la fortezza, l’amore, la gloria, la sapienza, la giustizia) con le esigenze della religione e della fede. Questo è il presupposto di tutta la poesia del Paradiso.


           

 

PARADISO CANTO V

             

 

La prima parte del canto quinto è occupata dalla spiegazione con la quale Beatrice risponde alla domanda di Dante riguardante la possibilità di compensare i voti non adempiuti con altre opere buone. Ella dapprima dimostra la santità del voto: con esso, infatti, l’uomo fa sacrificio a Dio del dono più grande ricevuto dal suo Creatore, quello del libero arbitrio. Non può, dunque, usare nuovamente della libertà che egli ha offerto a Dio con un atto della propria volontà. Per prevenire una nuova domanda di Dante (perché, allora, la Chiesa può dispensare dal voto?), Beatrice distingue nel voto i due elementi essenziali: la materia e il patto. La prima può essere mutata, ma solo con il permesso della Chiesa e solo se la nuova offerta è superiore, in valore, alla prima. Il secondo non può essere cancellato se non quando il voto è stato adempiuto completamente. Da qui deriva la necessità, per i cristiania di riflettere attentamente prima di offrire voti che non possono mantenere. Beatrice e Dante ascendono poi al secondo cielo, quello di Mercurio, nel quale si trovano le anime di coloro che in vita operarono il bene per conseguire onore e gloria. Uno spirito si rivolge al Poeta dichiarandosi pronto a soddisfare, in nome della carità, ogni sua domanda. Dante chiede di poter conoscere il nome di quest’anima e il motivo per cui essa gode del grado di beatitudine proprio del cielo di Mercurio.

 

 

Introduzione critica

 

Abbiamo parlato, a proposito del canto quarto, dell’esaltazione dei valori umani che caratterizza la poesia della terza cantica e del mirabile congiungersi di questi valori al mondo della fede. Tale motivo riceve nel canto quinto una trattazione particolare, configurandosi come celebrazione della volontà e della libertà individuali. Il Paradiso non è solo mistica contemplazione di immagini di luce e di realtà sovrannaturali, in contrapposizione all’Inferno - dove il Poeta avrebbe cantato, nelle figure di Francesca, Farinata, Brunetto Latini, Ulisse, i valori più degni di ammirazione, anche se realizzati fuori della Grazia - bensì appare animato, soprattutto nella prima parte, dalla consapevolezza della nobiltà e dell’altezza delle doti umane, morali e intellettuali. Queste virtù non hanno più il proprio fine e il proprio compenso in se stesse, come aveva sostenuto lo stesso Dante nel Convivio, seguendo le orme di Aristotile, ma avvertono l’esigenza di una direzione extranaturale che conferisca loro un significato perennemente valido. Per questo motivo il Poeta esamina e risolve il problema del voto alla luce dell’autorità della Chiesa, rappresentante del Dio in terra. Viene Cosi rilevata un’altra caratteristica del canto: l’interesse pratico che rivestono i temi trattati, i quali, lungi dall’essere di natura filosofica, riguardano la condotta dei fedeli, la vita della Chiesa. In questa visione prende il necessario rilievo la apostrofe di Beatrice, accorata protesta contro coloro che non accettano i doveri che il cammino nell’ambito della Chiesa impone. Nella disquisizione del canto quarto riguardante l’ordinamento morale del paradiso e la distinzione della volontà in relativa ed assoluta la fantasia appariva subordinata al procedimento didascalico-teologico; il Poeta usava modi precisi, chiari, sforzandosi di riprodurre esattamente la cosa contemplata o sentita, senza divagare nel lirico o abusare di mezzi espressivi retorici. Nel quinto, invece, il discorso, anche se appare tutto teso a rendere manifesta la forza della verità che fuga ogni ombra e disperde ogni incertezza, non diventa un’arida trasposizione in versi di una pagina di teologia, come vorrebbe il Vossler, bensì assume uno svolgimento animato, ricco di richiami alla realtà di tutti i giorni e di immagini concrete (versi 29-30; 32-33; 37-39; 55-57; 5960; 61-63;74-75; 82-84), di acute sentenze (versi 40-42) e di momenti venati di commozione (versi 70-72), di solenni avvertimenti (versi 64-65; 73-80) e di punte polemiche (versi 66-69; 81).Il Chiari divide questo canto in cinque momenti, chiamando il primo (versi 1-12) "stupefatto silenzio", il secondo (versi 13-85) "dottrinale", il terzo (versi 86-99) "incantante letizia ", il quarto (versi i 00- 114) "celebrazione della carità", il quinto (versi 115-139) "celebrazione esaltante della grandezza ". Questa divisione, che ha valore puramente esterno, è utile come elemento riassuntivo dei motivi del canto, la cui trama, dunque, si presenta ricca e complessa. Tuttavia il Chiari non ha rilevato che un motivo prevale su tutti gli altri: quello del rapimento della mente umana nella graduale contemplazione delle verità sovrannaturali. Il Montanari osserva a questo proposito: "tale rapimento, appunto perché rapimento, non è di pura conoscenza teoretica, bensì di contemplazione amorosa: la teologia nulla toglie all’amore, ma anzi lo perfeziona elevandolo a reale amore soprannaturale, a carità gratuita ed incondizionata che si identifica con la vita stessa divina operante nell’uomo, sì da condurlo a vedere tutta la realtà, di grado in grado, nella superiore luce divina". Questo significa che lo svolgimento del canto procede non su due vie destinate a non incontrarsi, ma su un piano di carattere dottrinale che si trasforma man mano in affettivo: così la perfetta visione di Beatrice, che ormai contempla il beatifico volto di Dio, genera perfetto amore, il quale spinge Dante ad ascendere di cielo in cielo, di verità in verità, generando sempre nuovo splendore: intelligenza-amore-luce, benché possa essere considerata la triade su cui si regge tutta la poesia del Paradiso, trova una suggestiva manifestazione proprio in questo canto. Alla fine del canto quinto viene presentato il secondo gruppo di anime beate, dopo quelle del cielo della Luna. Anche qui una similitudine (come ‘n peschiera...), fra le più limpide e immediate, traduce in immagine una condizione di beatitudine incantata e appagata. Tuttavia mentre nelle anime del primo cielo è "un apparire senza parere, un illuminare senza abbagliare, un sorridere senza confondere" (Chiari), ora gli spiriti appaiono come splendori distinguibili, pur nella luce che li avvolge quasi fosse il loro elemento, come l’acqua per i pesci della peschiera... tranquilla e pura. Non sono più immobili come perla in bianca fronte, ma avanzano trascinati da un ardente moto di desiderio verso Dante, e non sono più solo "pronti" a parlare, ma incominciano per primi, con parole esultanti: ecco chi crescerà li nostri amori. Ond’ella, pronta e con occhi ridenti... con quelle altr’ombre pria sorrise un poco: così Dante ha visto sorridere Piccarda e le altre anime del primo cielo, mentre ora il sorriso diventa un motivo poetico altamente suggestivo che caratterizza gli ultimi versi del canto quinto. L’anima beata emerge da questo sorriso come da un’indistinta lontananza, prima accennata col paragone del pesce che si avvicina attraverso la trasparenza crescente dell’acqua, ed ora culminante in questa immagine sfolgorante (versi 124-126). Più l’anima arde di carità e più sorride attraverso gli occhi; più gli occhi sorridono, più splendore diffondono all’intorno, fasciando di luce quell’anima: "Anche questa volta il Poeta, a significare questa inesprimibile effusione celeste, coglie dalla nostra vita quotidiana l’espressione massima della gioia, ma della gioia piena che si tramuta nel brillio del riso; e la sublima, e la fa tutta celeste, inondandola appunto di paradisiaca luce" (Chiari).


           

 

PARADISO CANTO VI

             

 

Nel cielo di Mercurio l’imperatore Giustiniano, dopo aver narrato a Dante la storia della sua vita, dalla conversione alla grandiosa opera legislativa con la quale riordinò tutto il diritto romano, rievoca, celebrandone le lodi, l’epopea di Roma e del suo impero, simboleggiato nel sacrosanto segno dell’aquila. La narrazione ha inizio dal momento in cui Pallante, figlio di Evandro re del Lazio, morì combattendo in aiuto di Enea, che aveva portato dall’Oriente, da Troia, la gloriosa insegna. Prosegue con le vicende del periodo dei sette re e dell’età repubblicana, allorché Roma estese sempre di più le sue conquiste. Dopo aver accennato alle guerre civili, Giustiniano presenta la gloriosa figura di Cesare, che diede a Roma il dominio del mondo. La terra, unita e pacificata, fu pronta a ricevere, sotto il suo successore, Augusto, la venuta del Messia, che riscattò l’umanità dal peccato con il sacrificio della croce. Fu Roma poi che vendicò la morte dell’Uomo-Dio, distruggendo Gerusalemme ad opera dell’imperatore Tito e punendo, in tal modo, il popolo ebraico. Infine il segno dell’aquila in mano a Carlo Magno, difese la Chiesa di fronte ai Longobardi. Giustiniano terminò la sua rievocazione ammonendo i Guelfi e i Ghibellini a non asservire ai propri interessi faziosi il simbolo dell’aquila, sacro e universale. Dopo aver spiegato che nel cielo di Mercurio si trovano coloro che desiderarono conseguire la fama nel mondo, Giustiniano indica la nobile figura di Romeo di Villanova, ministro di Berengario IV conte di Provenza, costretto ingiustamente all’esilio dalle accuse di cortigiani insidiosi del suo potere.

 

 

Introduzione critica

 

Il canto sesto del Paradiso è la rivendicazione della provvidenzialità, legittimità e insostituibilità dell’Impero, con la rievocazione della sua genesi, della sua funzione e della sua storia di fronte a un mondo che lo misconosce o, addirittura, lo nega. Esso è il canto che interpreta il cammino della storia dell’umanità, perché questa storia ha avuto inizio nel momento in cui all’orizzonte del mondo, nello stremo d’Europa, è apparso il volo possente dell’aquila dell’Impero; del resto la certezza che da Troia fosse cominciata una nuova età per gli uomini era già radicata in Nevio e in Ennio, prima ancora che Virgilio consacrasse tutto il suo poema a questa presa di coscienza, nell’uomo antico, del cammino provvidenziale della storia con il riconoscimento della missione di quella che sarà poi Roma. In altre parole: Dante affronta l’arduo compito del rifacimento di questa antica epopea, "continuando nel suo poema cristiano l’epica della missione provvidenziale di Roma, che già Virgilio aveva cantato in forme pagane ma con un intimo valore religioso" (Brezzi). Un’epopea immensa è presentata in 96 versi, nei quali non dobbiamo cercare un sommario storico, un’esatta ricostruzione di fatti, un’assoluta obiettività di giudizio, ma una serie di legami ideali, per capire i quali occorrerebbe "contemplare" più che leggere: "Dato il tema e il motivo ispiratore di questo canto, troviamo necessariamente un’arte che non si sofferma, con opera di cesello, su tenui vibrazioni dell’animo, e non ricerca motivi interiori dove tempo e spazio si restringono e scompaiono. Ma anzi abbiamo qui un momento opposto, e parimenti legittimo, dell’arte, in cui la contemplazione e l’emozione estetica nascono da contrapposizione di tempi eterni e di spazi senza fine" (Conte).Da un’altezza sovrana, dové le lotte e le passioni contingenti appaiono nella loro realtà di vani tentativi operati da piccoli uomini per mutare secondo i loro interessi il corso storico prefissato da Dio, il Poeta scolpisce figure e fatti grandiosi con una potenza che sembra richiamare quella della pittura o della scultura di Michelangelo. Da una solitudine sempre più grande e sempre più dolorosa, nella quale lo hanno posto le vicende della sua vita d’esilio, il crollo, dopo la morte di Arrigo VII, delle sue speranze politiche e la decisione di "far parte per se stesso", sgorga la solennità epica dell’enumerazione ne di quelle figure, di quei fatti, di quegli squarci di storia che, proprio perché contemplati come motivi ideali e trascesi in una visione superiore degli eventi, perdono ogni valore di cronaca per assumere quello di tappe fondamentali nella creazione di un nuovo ordine morale. Questo può essere così riassunto: alla base di ogni creatura umana è un’esigenza trascendente, una ricerca di valori assoluti ed eterni (il bene, il vero, il bello); lo Stato è l’ordinamento civile-politico che consente all’uomo il raggiungimento di questo fine assoluto, anzi è una proiezione di questa esigenza, la quale può essere soddisfatta solo perseguendo la verità e la giustizia. Queste ultime, però, si conseguono solo su un piano universale, perché ogni uomo non può prescindere dai bisogni degli altri uomini, ogni popolo non può dimenticare i diritti degli altri popoli. Questo Stato, in Dante, prende il nome di Impero, il quale non ha solo un’origine ideale, ma anche una straordinaria origine storica, come risultato di una concatenazione di avvenimenti e di un concorso di uomini che, anche contro la loro volontà, hanno collaborato alla sua fondazione o al suo svolgimento. Il canto sesto è l’apoteosi di questa duplice origine dell’Impero, la quale, a sua volta, spiega la venerazione e la commozione che afferrano in questo momento l’animo del Poeta, come ogni volta che egli scopre, nel mondo e nell’universo, una razionalità autentica, l’armonia e l’unità di immanenza e trascendenza. Per questo nella storia dell’Impero - quale è da Dante ricreata nel sesto canto attraverso il lento battito delle ali possenti dell’aquila, che non fendono l’aria ma segnano tempi e vicende millenarie - palpita quei sentimento del divino che è alla base della poesia del Paradiso e che ispira i canti dottrinali e teologici come le più liriche similitudini. La solennità dell’atmosfera paradisiaca, secondo un’acuta osservazione del Malagoli, fa tutt’uno, in questo momento, con la solennità dell’evocazione dell’Impero, per cui ogni momento della storia è attratto in questa atmosfera divina, perdendo la sua limitatezza di tempo e di spazio, purificandosi del sangue, delle lotte, delle meschinità terrene di cui poteva essere costituito. iL quasi una serie di miracoli quella che Dante ci presenta in queste rapide e incalzanti terzine, costruite in uno stile asciutto e scabro: non c’è, infatti bisogno di amplificare, di usare aggettivi, di arricchire con parole fatti e uomini che sono già di per sé straordinari. I nomi dei popoli, dei personaggi, dei luoghi vibrano della commozione e della coscienza del divino, restituendo l’eco di un mondo sacro e meraviglioso, nel quale il Poeta si muove sicuro, perché consapevole di essere investito di una missione profetica e di dover presentare la celebrazione dell’Impero ad un mondo che all’impero dell’aquila ha opposto l’impero della lupa. Occorre, infatti, tenere sempre presente che Dante non è mai mosso da problemi o interessi particolari, bensì dal desiderio di prospettare la corruzione morale del mondo e la possibilità di una totale rigenerazione. L’ardua sintesi di tutta la storia romano gli è servita per dimostrare la sacralità del segno dell’aquila, che ha preparato la terra intera alla venuta di Cristo, e quindi la funzione che esso deve rivestire al suo tempo: emerge così il fine politico di tutto il discorso di Giustiniano, che si traduce nella vibrata e drammatica protesta e condanna di ogni settarismo (faccian li Ghibellin... e non l’abbatta...).


           

 

PARADISO CANTO VII

             

 

L'anima di Giustiniano si allontana cantando, seguita dagli altri beati del cielo di Mercurio, mentre Dante appare tormentato da un dubbio che non osa rivelare a Beatrice. Perché, si chiede il Poeta, Dio ha scelto la morte del Figlio per riscattare l'umanità dal peccato? e perché questa morte, se era necessaria per cancellare la colpa dell'uomo, fu vendicata con la distruzione di Gerusalemme, dove l'Uomo-Dio era stato crocifisso? Tuttavia Beatrice ha compreso le incertezze del suo discepolo e inizia una spiegazione che si protrae per il resto del canto.

 

In due modi la creatura poteva ottenere il perdono dopo il peccato originale dei progenitori:o per azione di Dio o per azione propria. Tuttavia, poiché l'offesa fatta a Dio era infinita, l'uomo, da solo, non avrebbe mai potuto offrire un'adeguata riparazione. D'altra parte Dio avrebbe potuto perdonarlo solo per un atto di misericordia: invece, nel suo infinito amore, volle offrire in sacrificio il suo stesso Figlio. Dunque - conclude Beatrice - nella natura umana di Cristo fu punita, con la morte tutta l'umanità peccatrice, ma gli uomini che osarono alzare la mano contro la natura divina commisero un atto di folle empietà: per questo la distruzione di Gerusalemme, dove avvenne quell'atto, fu giusta vendetta.

 

Il canto si chiude con una spiegazione di Beatrice sulla corruttibilità degli elementi generati da cause seconde e l'incorruttibilità di ciò che è creato direttamente da Dio.

 

Introduzione critica

 

Nel canto settimo il Poeta dissolve le forti immagini della visione storica del canto sesto con una ripresa di motivi schiettamente paradisiaci (l'inno di Giustiniano, la luce scintillante e la danza degli altri beati, I'intervento sorridente di Beatrice): un esordio indispensabile all'argomento che verrà trattato: il mistero dell'amore divino per l'uomo. Tuttavia il raccordo tra questi due canti esiste, profondo, perché uno conclude, spiegandola concettualmente, la visione storica che l'altro aveva aperto sotto il volo dell'aquila imperiale.

 

Non è questa la sede adatta per affrontare delicato problema delle relazioni fra Stato e Chiesa nel pensiero di Dante; tuttavia è possibile un'osservazione, la quale permetterà di rilevare come il canto di Giustiniano non sia stato un rapido excursus storico-politico, ma un canto che si inserisce armonicamente nella trama del Paradiso, perché il motivo ispiratore è, in ultima analisi, quello religioso. Nella Monarchia Dante esaminava l'Impero soprattutto come organismo politico, affermandone l'autonomia di fronte alla Chiesa e distinguendo le sue attribuzioni in rapporto al fine ultimo dell'uomo; auspicava la coordinazione del potere imperiale con quello pontificio e il rispetto, da parte di ciascuna autorità, della libertà dell'altra. Nel Paradiso, invece, il problema è impostato in maniera differente, se non addirittura antitetica. Infatti il Poeta, oltre a dare un posto molto più rilevante ai problemi della Chiesa, che prima aveva quasi ignorati o visti in relazione a quelli dell'Impero, sottolinea fortemente il valore religioso dell'Impero, che ha preparato l'incarnazione, e la missione divina di Roma, accentuando, cioè, il primato della religione e considerando tutta la realtà e tutta la storia soltanto nella luce della fede cristiana: egli Cosi, conclude il Brezzi, trapassa dall'aquila alla croce e si immerge nel misticismo, unendo la sua anima a Dio in un supremo atto d'amore.

 

Per questo, Dante, dopo aver presentato nel canto sesto la morte di Cristo come un atto legittimo della giurisdizione di Roma, morte che fu poi vendicata da un altro intervento del potere imperiale romano (distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito), ne offre, nel canto settimo, la giustificazione teologica, rilevando continuamente, con un'insistenza che non può essere casuale, il grande amore di Dio verso gli uomini. Roma ha preparato il mondo a questa suprema manifestazione d'amore: Roma dunque, insieme con Cristo, ha salvato l'umanità.

 

Si conclude così la teologia storica - nella quale Dante ha trasfigurato i valori politici in ideali spirituali - impostata nel canto di Giustiniano.

 

Non occorre far parte del gruppo di coloro che il Flora definisce i "mistici" dell'esegesi dantesca, "i quali dove non sentono poesia esaltano l'altezza del concetto teologico", per riconoscere la validità poetica del canto settimo: è solo necessario abbandonare la ricerca, alla quale ci ha abituati l'esperienza romantica, della poesia pura, della lirica come vertice supremo dell'arte. Tale ricerca non è che un mito dell'estetismo moderno, laddove la vita organica della Commedia non può che essere pensata nei termini di equilibrio in cui fu pensata da Dante e dai suoi contemporanei, che accettavano la gerarchia poetica - consacrata dalla lunga tradizione classica nella quale i seggi più alti appartenevano alla poesia epica e a quella didascalica. Non è possibile dunque separare la componente poetica da quella dottrinaria, mettendo in rilievo la prima come una gemma di rara bellezza per confinare al bando la seconda quasi fosse un peso morto, perché essa, nella Commedia, e più particolarmente nel Paradiso, offre i motivi e l'atmosfera psicologica all'ispirazione poetica. Quest'ultima, nel canto settimo, si risolve in una lezione teologica animata da un amore appassionato per la verità, dalla commozione di esprimere l'inesprimibile (di gran sentenza ti faran presente), che diventa gioia dell'anima, ebbrezza del possesso della verità. Il canto appare epicamente avvivato dall'impeto teologico, che si distende fin dall'inizio in immagini grandiose, misurate da altezze e precipizi: l'umana specie inferma giacque... questo decreto, frate, sta sepolto alli occhi di ciascuno... la divina bontà... sfavilla sì che dispiega le bellezze esterne... da lei sanza mezzo distilla... da essa sanza mezzo pione... per entro l'abisso dell'esterno consiglio... ir giuso con umiliate... intese ir suso... la divina bontà... a rilevarvi suso fu contenta. Nella meditazione di Beatrice la tragica contrapposizione dell'albero e della croce, della superbia di Adamo e dell'umiltà di Cristo appare investita e trasfigurata dalla forza dell'amore divino, che scioglie il dramma del peccato, assolve la creatura che per secoli molti era stata immersa in grande errore, la unisce a sé con un magnifico processo d'amore, che resterà il più grande, il più esaltante dal primo giorno della creazione fino all'ultimo momento di vita del mondo. L'esilio della creatura si conclude nella gloria paradisiaca, sulle tenebre terrene si distende la luce trionfale del cielo, l'eternità avvolge l'uomo diventato Dio per partecipazione. Un ritmo vitale si sprigiona da questi versi, un respiro vasto e potente ne accompagna lo svolgersi, anche se qua e là riaffiora, inevitabilmente, la durezza di certi nessi scolastici tra un passaggio e l'altro (dunque... ma... o che... o che...; tu dici... tu dici) o l'aridità di certe formule filosofiche (cfr. ad esempio i versi 88-93 e 121-123). Il discorso di Beatrice, iniziato con la visione disperante del peccato (versi 25-29), acquista nell'ultima parte tutto un senso verticale che lo proietta nella contemplazione di Dio che dall'alto irraggia un mondo creato per ritornare, in ogni sua parte, a Lui, fino al trionfo finale della risurrezione della carne. lI canto settimo si svolge, dunque, nella figura geometrica di un cerchio: esso si chiude con un'immagine di luce e di gioia che si riallaccia, con un'armoniosa corrispondenza lirica, all'inno di esultanza e di amore con il quale si era aperto.


           

 

PARADISO CANTO VIII

             

 

Dante e Beatrice ascendono al terzo cielo, quello di Venere, dove appaiono le anime di coloro che in vita sentirono con particolare intensità l’impulso amoroso, dal quale si lasciarono trascinare al male, finché seppero volgere questa loro inclinazione naturale a nobili azioni. La prima anima che si fa avanti è quella del figlio di Carlo II d’Angiò, Carlo Martello, il quale in vita fu legato a Dante da affettuosa amicizia. Il giovane principe parla delle terre di cui sarebbe diventato sovrano se la morte non lo avesse rapito anzitempo, la Provenza e la regione napoletana. Ricorda che anche la bella Sicilia avrebbe potuto essere uno dei suoi dominii se la casata angioina avesse saputo ben governarla e non avesse provocato con la sua mala segnoria la rivolta dei Vespri Siciliani. Accenna infine al rapace governo esercitato nel regno di Napoli dal fratello Roberto. A questo punto Dante chiede all’amico di sciogliere un suo dubbio: come è possibile che i figli siano di indole diversa da quella dei padri? I cicli - spiega Carlo Martello - agiscono sulla terra con i loro influssi secondo fini preordinati da Dio, tuttavia diffondono la loro virtù, la loro forza plasmatrice, a caso, senza distinguere l’un dall’altro ostello. Se così non fosse, non esisterebbe tra gli uomini una differenziazione nelle attitudini naturali, nelle indoli di ciascuno. Tale differenziazione è indispensabile perché, essendo l’uomo creato per vivere in un organismo sociale, dove le attività e i compiti da svolgere sono molteplici, occorre che ciascuno sia in grado di ricoprire il suo ufficio. Il discorso di Carlo Martello termina con un amaro rimprovero al mondo, che non rispetta le attitudini naturali dei singoli uomini.

 

 

Introduzione critica

 

A partire dal Tommaseo un largo filone critico ha voluto vedere nell’incontro di Dante con Carlo Martello una esaltazione dei valori dell’amicizia, sottolineando la ispirazione lirica dell’episodio. Mentre a questa posizione critica si contrappone il severo giudizio del Momigliano (Carlo Martello è una figura "sbiadita"), molti interpreti recenti tendono a leggere il canto ottavo solo in chiave politica, come ideale continuazione del discorso di Giustiniano: in uno Dante ha affrontato il problema dell’Impero e della sua missione, nell’altro tratteggia la figura del sovrano ideale. È sufficiente una breve analisi di queste conclusioni esegetiche per dimostrare che, al solito, la poesia dei canti della Commedia, e soprattutto di quelli del Paradiso, non può essere irrigidita in una formula parziale, che rischia frequentemente di distruggerne la sostanziale ricchezza poetica. Nel Paradiso tutti i valori umani e tutte le care memorie terrene sono trascesi in una visione superiore, per cui essi appaiono non come elementi a sé stanti, ma come momenti che hanno aiutato e aiutano l’ascesa verso Dio. Per questo l’amicizia tra Carlo Martello e Dante si arricchisce del fervore di carità proprio delle anime beate (tutti sempresti al tuo piacer... per piacerti, non fa men dolce...) e, con uno di quei rapidi passaggi ai quali il poeta della Commedia ci ha abituati, si trasforma in severo magistero filosofico-politico, lasciando al breve e dolce episodio di Casella o di Ugolino Visconti tutta la tenerezza e la familiarità dell’incontro fra due amici. Tuttavia, almeno nella prima parte, l’episodio non rinuncia ad una coloritura lirica, perché il personaggio di Carlo Martello appare ben individuato nella sua specifica interiorità, la quale rivela "una malinconia grave e virile, che scaturisce tutta da cose concrete, vive e palpitanti " (Pézard), perché dietro la figura del giovane principe c’è la personalità " potente e appassionata, di una vittima dello stato di cose deplorato da Carlo, delI’exul immeritus Dante Alighieri". Su questa storia personale si può allora innestare la ispirazione politica del canto ottavo e concordare con quanto afferma il Vallone: "Carlo Martello diviene un ideale momento della vita cortese quale Dante intensamente voleva che fosse, l’unico modo sognato ma irrealizzabile con cui l’umanità, per vivere in pace, meta degli imperatori, doveva comportarsi e reggersi..." Il Poeta ha, cioè, modellato sulla figura dell’amico di un tempo un’ideale figura di sovrano, amorosamente sollecito della felicità di tutti (la preoccupazione del bene altrui, anzi, è il motivo costante del colloquio): la metafisica disquisizione intorno all’organico ordine dell’universo sostenuto dall’amore creatore di Dio non intende essere un inno all’armonia del cosmo, ma ha uno scopo pratico: quello di alleviare i molti mali che affliggono il mondo incapace di comprendere le leggi della natura. La capacità di amare che ha bruciato un tempo l’anima di Carlo Martello dietro il folle amore della bella Ciprigna, si è trasformata nell’amore del sovrano verso i suoi sudditi: "di tutti i rapporti umani che l’amore non folle illumina e riscalda, il più alto è quello tra principe e sudditi che forma la sicura base del consorzio civile; fondato sull’amore, cementato dall’amore, perseguente, nell’amore, il fine della felicità terrena di tutti i consociati" (Vaturi). La figura di Carlo Martello è, dunque, pervasa di motivi inerenti alla natura del cielo di Venere, il quale appare perfettamente individuato attraverso un capovolgimento di posizioni terrene: l’amore sensuale di un tempo è diventato ora fulgore di carità, ardente legame delle anime tra di loro e con Dio; privato delle perversioni della ragione e dell’appetito di concupiscenza esso è diventato una delle vie della santificazione. Dante pare insistere, attraverso i discorsi (si vedano anche quelli di Cunizza e di Folco da Marsiglia nel canto seguente) e la rappresentazione di questi beati, sul paradosso dell’amore cristiano, che ha portato alla beatitudine queste anime proprio in virtù di una loro inespressa o invincibile capacità di amare, rilevando il misterioso legame esistente fra l’amore terreno e la beatitudine. Per questo le anime del terzo cielo non sono più ombre evanescenti o umane figure luminose, ma spiriti fasciati dalla loro stessa luce, essi che sulla terra arsero del fuoco d’amore; sono splendori ardenti che nel corpo fiammeggiante del pianeta si distinguono per la maggiore intensità e mobilità della luce come le faville spiccano per il loro scintillio nel fuoco vivo. Esse interrompono il loro celeste tripudio allorché si accorgono del pellegrino che sale attraverso i cieli e desiderose, nel loro ardente affetto, di compiacere Dante, si affrettano verso di lui più veloci di lampi (ritorna l’immagine del fuoco) o di venti. Giova osservare che anche nel terzo cielo, come nel secondo cerchio dell’inferno, il tema amoroso è ambientato nel mondo cortese e cavalleresco (Carlo Martello, Cunizza, Folco da Marsiglia: un dotto principe, una nobildonna, un trovatore). Il Montanari sintetizza chiaramente il significato di questo canto: "Nel cielo di Venere sono le anime che molto sono state soggette agli influssi d’amore: e che dopo aver seguiti questi influssi nel campo degli amori terreni in una sfera di più o meno idealità cavalleresche giunsero al più profondo e completo amore, quello di Dio: è, in qualche modo, anche l’itinerario di Dante; dall’amore cortese della Vita Nova alla Donna Gentile Filosofia, alla nuova Beatrice teologica della Commedia. Ed è il riscontro al canto quinto dell’Inferno: là dall’amore cortese e cavalleresco alla tragedia del peccato per il prevalere della passione sulla ragione; qua dall’amore cortese alla scoperta del superiore amore di carità, amore di Dio ".


           

 

PARADISO CANTO IX

             

 

All’inizio del canto si conclude l’incontro di Dante con Carlo Martello, dopo che questo ha preannunciato le sciagure che entro breve volgere di anni colpiranno la casa angioina. Subito dopo un altro spirito del cielo di Venere si avanza verso il Poeta: è Cunizza da Romano, sorella di Ezzelino III, il famoso tiranno della Marca Trivigiana. Dopo aver presentato la propria terra Cunizza accenna alla corruzione dilagata nella regione trevigiana e profetizza per essa un doloroso futuro: Padova, Treviso, Feltre, dove il male è ormai diventato costume di vita, pagheranno ben presto il fio delle loro colpe.Allorché Cunizza riprende con gli altri beati la danza che aveva interrotta per parlare con lui, Dante si rivolge all’anima che gli era già stata presentata dalla nobildonna trevigiana, invitandola a rivelare il proprio nome. Si tratta di un trovatore, Folco da Marsiglia, che divenne vescovo di Tolosa e partecipò alla crociata contro gli Albigesi. Presentata la sua città con una lunga descrizione, egli rivela a Dante che gode la beatitudine del terzo cielo anche Raab, la meretrice di Gerico che aiutò il condottiero ebraico Giosuè nella conquista della città, meritandosi così la salvezza eterna. Folco chiude il suo discorso con un’aspra invettiva contro Firenze, colpevole di aver coniato la moneta d’oro, causa prima del diffondersi dell’avidità nel mondo, e contro la Chiesa, che si lascia traviare dal miraggio dei beni terreni.

 

 

Introduzione critica

 

Il canto nono conclude con la speranza di una rigenerazione morale del mondo (espressa nella profezia di Folco da Marsiglia) il tema politico che era rimasto diffuso nell’aria dopo il discorso di Giustiniano, risolvendo in fiduciosa attesa i dubbi morali e i giudizi politici dei canti precedenti: ma Vaticano e l’altre parti elette di Roma... tosto libere fien dell’adultero. Da Roma ancora una volta verrà al mondo la salvezza: e il miracolo è ormai vicino (tosto liniere fien), nonostante i tentativi della casa angioina o delle città venete e nonostante che il papa e’ cardinali continuino a restare legati ai beni terreni. La certezza messianica del Poeta nasce proprio dal fatto che non dagli uomini egli aspetta questa salvezza, ma da Dio stesso e in Dio si abbandona. Ecco la spiegazione del mistico esordio del canto decimo e del commosso invito al lettore (leva... all’alte ruote meco la vista). Il nono non conclude solo l’argomento del cielo di Venere, ma tutto il primo tempo del Paradiso, o, meglio, conclude una specie di ante-paradiso, dove le sfere e le anime sono ancora segnate dall’ombra della terra prima che l’estatica ascesa dello spirito proietti verticalmente la materia verso i cieli di pura luce. Ritorneranno in alcuni passi dei canti seguenti la durezza e il fiero realismo dei discorsi di Cunizza e di Folco, ma non la sua selvaggia coloritura, la loro fosca rievocazione di medievali eccessi, il loro tempestoso e macabro compiacimento del sangue e della vendetta, che hanno richiamato alla memoria del Momigliano il canto di Guido del Duca e quello dei seminatori di discordia. La violenza della terra prorompe nel canto nono con tale assolutezza di immagini e di termini da far pensare che il Poeta, presentandocela per l’ultima volta, voglia costringere il lettore a ricordarla, a ricordarla sempre, anche nei cieli di pura luce, perché è da quel mondo di malvagità e di violenza che l’uomo è partito per giungere a Dio. I toni cupi di questo canto non devono, dunque, stupire, o spingere a giudicarli fuori di luogo nella rarefatta atmosfera paradisiaca (così come non saranno certo fuori di luogo l’apostrofe all’aiuola che ci fa tanto feroci o l’invettiva di Beatrice contro la corruzione umana nel canto XXVII), perché è nella vittoria contro i mali qui descritti, è nella risoluzione dei problemi qui prospettati che la creatura giungerà alla salvezza eterna. Eliminare questi argomenti dal Paradiso significherebbe non tenere conto che esso per il Poeta è soprattutto un itinerarium mentis in Deum. E' però evidente nel canto una specie di sfasatura nella creazione dei personaggi, i quali trovano la loro giustificazione e la loro consistenza in motivi etico-politici, prestando voce occasionalmente a una commozione etico-politica che perdurava dal canto di Giustiniano e si era già affermata in quello di Carlo Martello, ma non hanno vita per se stessi, privi come sono di caratteristiche individuali spiccate, privi, cioè, di una personalità che li faccia diventare creature r"vere" (alla maniera delle grandi figure dantesche, da Farinata a Piccarda) e non semplici portavoci del pensiero e degli sdegni di Dante. L’animo del Poeta si è sovrapposto ai toni che ci saremmo aspettati da una donna che fu certo lontana da ogni preoccupazione politica o da un poeta provenzale, sia pure diventato poi vescovo. "L’unità, se una unità cerchiamo, come si conviene - va, ancora una volta, ravvisata nel fervore della coscienza di Dante" (Di Pino), perché si avverte chiaramente l’esistenza di "una forza reale e tenacemente tesa, i sintomi, cioè, dell’imminente irrompere della terribile ira personale di Dante". C’è, infatti, una profonda consequenzialità fra il discorso di Cunizza e quello di Folco, perché il primo presenta la terra prava italica e il secondo la città di Firenze, causa del traviamento del mondo con il maladetto fore, così come nel canto di Sordello la visione della corruzione politica dell’Italia sfociava nell’invettiva contro Firenze (Purgatorio VI, 127-151) e nel canto di Guido del Duca il disordine della Romagna e della valle dell’Arno si concludeva nel ricordo delle stragi fiorentine. L’osservazione del Di Pino a questo proposito è estremamente interessante: " Ancora una volta Firenze è il termine antitetico ad ogni concetto di virtù universale. Da un lato Firenze, dall’altro il cielo; perché da un lato c’è Dante fiorentino, dall’altro Dante uomo universale. E nella ricorrente antitesi di termini così profondamente contrapposti, è il nodo dell’insoluto dramma dell’esule e, infine, il dramma strutturale del poema. Nella pienezza dell’Empireo, tra lo spiegarsi della milizia santa e il trasvolare ardente degli angeli di fiamma viva Dante confronta - e sarà per l’ultima volta - le due grandi componenti del libro: io, che al divino da l’umano a l’eterno dal tempo era venuto, e di Fiorenza in popol giusto e sano, di che stupor dovea esser compiuto! (Paradiso XXXI, 37-40). A tanta altezza di paradiso, la crudezza dei contrasti pare attenuata: l’ira ha ceduto allo stupore. Al di qua di quell’orizzonte i toni restano rudi e violenti, perché sempre la corruzione del mondo sembra congiunta e motivata dalla corruzione stessa di Firenze. Ciò che, infatti, fa sembrare possibile il confronto fra termini di così diversa portata (Firenze-paradiso) è il fatto che Dante ha dato a Firenze la universalità dell’errore". Per il Poeta esule la sua città resta pur sempre il centro dal quale ha preso inizio la sua visione del mondo e, così come il raggio in un cerchio geometrico, ad esso continuamente ritorna e da esso continuamente si allontana: nel canto nono il movimento è, infatti, duplice - dall’Italia a Firenze e da Firenze al mondo - ma sempre condotto con lo stesso metro stilistico, con le stesse trascinanti minacce, con la stessa fede nella provvidenza liberatrice.


           

 

PARADISO CANTO X

             

 

Dante e Beatrice ascendono al quarto cielo, quello del Sole, dove godono l’eterna beatitudine gli spiriti sapienti. Dodici di essi, danzando, si dispongono a corona intorno al Poeta e alla sua guida, mentre il loro gaudio è espresso non solo dalla luce intensissima che irradiano, ma anche dal canto che accompagna ogni loro movimento. E’ un trionfo di splendore e di amore che colma di estatico rapimento l’anima di Dante, il quale si immerge nella contemplazione di Dio. Da una di quelle luci si alza una voce che si dichiara pronta a soddisfare ogni desiderio del Poeta. ~ il domenicano San Tommaso d’Aquino, il quale condanna l’attuale corruzione morale dell’ordine di San Domenico. Egli rivela poi i nomi dei suoi dodici compagni, mettendo brevemente in rilievo le caratteristiche dell’opera di ciascuno. La rassegna, incominciata con la figura del grande teologo tedesco ,Alberto Magno, si chiude con il nome di Sigieri di Brabante, un pensatore di indirizzo averroistico, il quale in vita fu accusato di eresia. Ma Dante vuole esaltare, in questo canto, tutti coloro che amarono la sapienza e dedicarono ad essa la loro esistenza, anche se talvolta si lasciarono trascinare fuori del terreno dell’ortodossia.

 

 

Introduzione critica

 

L’esordio del canto decimo che fino al verso 33 celebra l’ordine dell’universo sotto l’amorosa guida di Dio, ripete il carattere di sacralità e di meditazione solenne, oltre che la complessità del giro sintattico, di tutto il canto primo. Uno è l’inno proemiale della terza cantica, l’altro è non solo introduttivo dei cinque canti dedicati al cielo del Sole ma anche di tutto il secondo tempo del Paradiso, dove, a differenza delle prime tre sfere, appariranno le anime specificate da qualità totalmente positive. Il Poeta entra in un mondo dove la carità, l’unione e la perfezione dei beati sono ancora più intense (determinandosi esteriormente nella perfezione di un segno: il cerchio, la croce, l’aquila, la scala) ed egli avverte questa nuova ricchezza di spiritualità con intimo godimento di uomo e di poeta, perché, nonostante le negative posizioni della critica romantica a questo proposito, al progressivo arricchimento del suo spirito corrisponde sempre, in Dante, un nuovo arricchimento della sua poesia. Bruciata tutta la materia terrena dei primi tre cieli nel grido profetico di Folco da Marsiglia, il Poeta esperimenta la nuova dimensione paradisiaca e, contemporaneamente, la sua nuova disposizione interiore: "dall’alto ormai, sogguarda; e come la distanza della terra è più grande, non avverte lo sforzo drammatico del distacco. Non che l’astrazione prevalga sulla concretezza: tutt’altro: la realtà, nell’intelligenza dantesca, si domina tanto più fermamente quanto più dall’alto; ma il giudizio, che è d’amorosa sapienza, discende più severo e sereno, con una sovranità pacifica di gesto regale che impartì" (Apollonio). La resa poetica di questa nuova atmosfera avviene, nel canto decimo, attraverso un fiorire continuo, incalzante, di metafore nelle quali è evidenziata al massimo la poesia delle immagini del Paradiso. La distesa rappresentazione ad apertura di canto del mistero della Trinità che crea e regge tutto l’universo è riecheggiata nell’immagine delle onde concentriche dei cieli, le alte ruote, che si distendono allo sguardo rapito della piccola creatura, finché esso viene a posarsi in un punto, là dove convergono tutti i moti degli astri. L’oblico cerchio che i pianeti porta amplia i confini del cielo misterioso al di sopra di un mondo che per vivere ha bisogno di "chiamare" in suo aiuto tutti gli astri. Poi l’inquieta fantasia che ha sollevato il lettore alle alte ruote lo riporta, perché si renda consapevole della sua limitatezza, al suo banco di discepolo. Ma è un riposo momentaneo, prima di intraprendere una ricerca più approfondita (omai per te ti ciba): il Poeta invita ad un banchetto di sapienza, diverso però da quello che aveva preparato, con le sue canzoni e i suoi commenti nel Convivio. Nel trattato era un’indagine intellettuale superbamente sicura di sé, tanto da non ritenere necessaria la dipendenza dalla verità rivelata. Qui " la sapienza è rivelazione che irraggia dall’alto" (Apollonio), è "coscienza di una elezione della Grazia, di un amor divino che... innalza la dignità della creatura", non è più orgoglio intellettuale e scolastico: "al convito della Sapienza... il cibo, anziché sillogistico, è eucaristico". Questo spiega, secondo l’illustre critico, anche la centralità del tema dei canti del Sole, quello della meditazione della vita trinitaria (dal proemio - guardando nel suo Figlio con l’Amore - alla rappresentazione degli spiriti sapienti appagati dalla contemplazione del Padre che mostra loro come spira e come figlia, all’inno del canto XIII - lì si cantò non Bacco, non Peana, ma tre persone in divina natura, ed in una persona essa e l’umana -). E l’immagine della Trinità spiega il prorompere, a partire dal verso 28, di quelle della luce (con uno scoperto simbolismo: la sapienza è luce che illumina la mente umana e questa luce è irraggiata dalla mente divina e questa sapienza diventa luce d’amore). E’ un luminismo diffuso che si affida allo splendore solare (versi 28-33), allo scintillio, che supera quello dell’astro che le contiene, delle anime beate, alla metafora del Sole-Dio (verso 53), allo splendor delli occhi... ridenti di Beatrice, che prepara Dante ai fulgor vivi che formano la prima corona, all’abile contrappunto di luce e di ombra nella scena notturna dell’alone lunare, finché le anime beate diventano esse stesse ardenti soli. Poiché l’immagine iperbolica costituisce un limite al di là del quale il Poeta non può procedere, l’intuizione della luce trapassa in un’intuizione di suono e di moto e infine in una pausa di immobilità e di silenzio (versi 79-81), finché la poesia riprende, inesausta, il filo del suo immaginare: la scala, il fin della fiala, l’acqua ch’al mar non si cala, le piante, la ghirlanda, gli anni della santa greggia, il serto, il cero, l’orologio che chiama al mattutino, la rota. La fantasia si rifrange su mille oggetti, la vita spirituale si moltiplica in mille direzioni, perché l’animazione etica del Poeta di fronte al tema della sapienza che è conoscenza di Dio, la quale, una volta conseguita, ci lega per sempre a Lui, ha qualcosa di trascinante, qualcosa di inebriante. La dottrina è diventata fede, e la fede si è tradotta in poesia. Proprio questo suo fervore fa si che egli, nel canto dei teologi e degli studiosi, rifugga da ogni didascalismo, da ogni disquisizione scientifica, da ogni punta polemica. Gli piace andar col riso girando su per lo beato serto di quell’ "Atene celestiale" che aveva vagheggiato per i filosofi pagani nel suo Convivio, di quell’aristocrazia della mente che, a differenza di quella degli spiriti magni del limbo, ha trovato in Dio la sua giustificazione e il suo fine. Non ingombrante rassegna, dunque, quella che chiude il canto, bensì epica rievocazione di chi, nella fatica, nelle veglie, nel martirio, ha testimoniato a quali altezze possa pervenire l’umana sapienza quando essa è saldamente avvinta alla Rivelazione e all’amore divino.


           

 

PARADISO CANTO XI

             

 

Nel canto XI continua a parlare lo spirito di San Tommaso d’Aquino, che si accinge a chiarire un dubbio sorto in Dante in seguito ad una sua affermazione: u’ ben s’impingua se non si vaneggia (canto X, verso 96). Egli spiega che Dio, per il bene della Chiesa, dispose due guide che la conducessero verso il bene, San Francesco e San Domenico, fondatori dei due grandi ordini monastici del secolo XII, i quali avevano come loro scopo fondamentale la riforma morale del mondo cristiano. San Tommaso inizia a questo punto la celebrazione della figura e dell’opera di Francesco d’Assisi, mettendo in rilievo le caratteristiche della sua personalità e i momenti più importanti della sua azione. Ricorda dapprima la rinuncia di Francesco ai beni terreni per abbracciare l’assoluta povertà e i suoi primi seguaci. A Roma il poverello d’Assisi ottiene l’approvazione del proprio ordine prima da Innocenzo III e poi da Onorio III. Recatosi in Oriente, cerca di diffondere in quelle terre la parola di Cristo, ma, fallito questo tentativo, deve ritornare in Italia. Qui, sul monte della Verna, riceve, due anni prima di morire, le sacre stimmate. San Tommaso termina il suo discorso con una dura rampogna rivolta all’ordine domenicano, che ha dimenticato il suo voto di povertà per dedicarsi solo alla ricerca dei beni mondani.

 

 

 

Introduzione critica

 

Anche l’inizio di questo canto va riferito, ma per contrasto fra vita attiva e contemplativa, all’epilogo del canto precedente, perché nel vario contrappunto dei canti del cielo del Sole, come anche in quelli del cielo di Marte e di Giove, una mobilità di attenzione esultante avvolge tutte le cadenze del discorso, e più spesso per contrapposizione che per analogia. Se il canto decimo s’era concluso con il carillon che chiama i frati a mattutino, questo incomincia con lo spettacolo delle faccende mondane che trascinano ed affaticano i mortali giuristi, medici, ecclesiastici, politici che dominano per frode o per forza, e ladri, e mercanti; faticosi appaiono anche i diletti della carne, faticoso anche l’ozio. Alla conclusione liturgica si contrappone dunque questa colorita e grottesca commedia corale, anzi corteo carnevalesco delle maschere delle varie professioni: segno inoltre, di un dilatarsi dello sguardo sul mondo terreno, osservato e integrato in modi sempre nuovi, e qui disteso come sfondo al dittico dei due patriarchi dei nuovi ordini mendicanti. Fa da intermezzo fra l’una e l’altra panoramica, fra il corteo grottesco e l’alta, assorta visione di paese che prelude all’apparizione di Francesco d’Assisi, una luminosa immagine e un mite raggio di parole e di luce: gli spiriti sapienti della prima corona, tornando al punto de] cerchio donde si erano mossi, s’affiggono come la candela al candeliere. E nel vivido lume quieto torna a parlare Tommaso d’Aquino, per chiarire due dubbi di Dante, sorti dalle sue parole: u’ ben s’impingua se non si vaneggia e a veder tanto non sorse il secondo. Né si ferma ad una puntuale esegesi dei termini adoperati: ogni dubbio, nel paradiso, è sciolto da una maggior copia di luce e d’amore. Così alla meditazione liturgica riassunta nella luce del cero segue l’intermezzo storico sulla fondazione degli ordini mendicanti: storia come investigazione meditativa e riverente dell’azione della Provvidenza nel mondo, ovviamente, storia che promana dalle mistiche nozze di Cristo morente sulla croce e della Chiesa (disposò lei col sangue benedetto) e che viene subito riassunta nelle virtù di amore e di sapienza che contrassegnano i due campioni: l’uno tutto serafico in ardore, Francesco, l’altro di cherubica luce uno splendore, Domenico. E’ quasi un preludio e una sinfonia del paesaggio umbro "nel mite solitario alto splendore", secondo l’espressione con la quale il Carducci, in un ritratto di Francesco, ha riassunto la tematica dantesca.Dopo una rapida variazione sul tema del freddo e del caldo, Dante inizia a tracciare la sacra immagine del poverello d’Assisi. Sulla costa del monte Subasio nasce il nuovo sole del mondo e il Poeta ne riassume il transito terrestre in quadri, quasi scomparti d’affresco, a cominciare dall’amore per madonna Povertà, cui si congiunge in mistiche nozze davanti al padre, al vescovo, al popolo d’Assisi. Una variazione per esempi dalla storia e dalla vita di Cristo illustra e quasi accompagna, celebrandole, queste nozze: al grande verso d’amore, poscia di dì in dì l’amò più forte segue il paradosso sulla Povertà che salì con Cristo sulla croce, dove Maria rimase giuso. All’aspetto raggiante e rapito dei due amanti tutto intorno a loro si trasfigura. Si scalzano e accorrono i primi seguaci, seguono Francesco come padre e maestro, cingono la corda dell’umiltà. Papa Innocenzo approva l’ordine della gente poverella. Di altra corona lo fregia papa Onorio. E Francesco, predicata invano in Oriente la fede di Cristo e degli apostoli e dei martiri, si riduce nelle solitudini rupestri della Verna, dove riceve le stimmate. Muore poi sulla nuda terra, raccomandando madonna Povertà ai seguaci ed eredi. Il quadro della morte si accende della coralità tradizionale della legenda letteraria e pittorica: un ultimo squillo, intorno al tema della fedeltà amorosa (e comandò che l’amassero a fede), e il transito dal grembo della Povertà, nudo sulla nuda terra, alla Porziuncola. Nella quiete della contemplazione della morte, ma rotta dal transito al cielo, tornando al suo regno, lo squarcio agiografico, forse il più bello delle letterature volgari, si chiude. L’epopea della vita e morte di Francesco è finita, e il tono del discorso muta: colloquiale e disteso, ormai, mentre ripropone il raffronto con Domenico, e costata come il suo gregge si disperda. La spiegazione del se non si vaneggia è questa: constatazione di una decadenza e di una dissipazione fatta per riproporre l’esempio della virtù primiera. Si tratta, infatti, di dedurre delle conclusioni e riportarle al tema iniziale della discussione, perché Dante, anche negli squarci dottrinali, obbedisce sempre alla concretezza: concretezza drammatica, altrove, concretezza didattica in questo e in tanti altri punti. La lezione che il Poeta qui svolge ha una sua strutturazione drammaturgica, che egli ha sottratto allo schema puramente tecnico della scuola, perché ben conosce i tre momenti della dottrina: la parola del maestro, l’attenzione e la meditazione assidua del discepolo. E termina il canto modulato e ricco come pochi, che è esempio di una nuova drammaturgia e di una nuova agiografia, cui si ricollegano innumerevoli modi dell’arte figurativa e di quella letteraria nelle quali si ricerca una più intensa corrispondenza fra la meditazione sapienziale e il modo del racconto disteso e denso.


PARADISO CANTO XII

             

 

Dopo che San Tommaso ha terminato parlare, la corona di spiriti sapienti, della quale fa parte, riprende a ruotare intorno a Dante e a Beatrice. Prima che essa abbia completato il suo giro, sopraggiunge una seconda corona, che si dispone intorno alla prima, accordandosi ad essa nel canto e nel movimento. Da questa nuova ghirlanda, dopo che il canto e la danza sono cessati, si alza la voce del francescano San Bonaventura, il quale inizia l’apoteosi di San Domenico, l’altro grande riformatore della vita religiosa del secolo XII accanto a San Francesco. San Bonaventura ricorda la nascita e i primi prodigi che accompagnarono la vita di Domenico, il quale mostrò ben presto un ardente amore verso Dio, amore che lo spinse ad approfondire sempre di più gli studi filosofici e teologici per combattere le eresie che minacciavano l’unità della Chiesa. Mentre San Tommaso, nel canto precedente, ha messo in rilievo la corruzione diffusasi fra i seguaci di San Domenico, ora San Bonaventura costata amaramente che l’ordine dei frati minori appare tormentato da discordie e da lotte che gli fanno dimenticare lo scopo primo per cui esso era stato fondato. San Bonaventura termina il suo discorso ricordando i nomi dei dodici spiriti sapienti che si trovano con lui nella seconda corona.

 

 

 

Introduzione critica

 

Il canto dodicesimo sembra disposto, a prima vista, con un parallelismo rigido accanto all’undicesimo: il panegirico del fondatore dei francescani è pronunciato, con un tratto di debita riverenza, da un domenicano, ed il panegirico del fondatore dei domenicani è pronunciato da un francescano, quasi per eliminare anche il sospetto di un eccesso di lode; e come la reprimenda dei domenicani corrotti è fatta da uno di loro, così la denuncia delle discordie francescane, specie quella che accende le polemiche fra spirituali e conventuali, è proposta da un francescano. Ma dall’osservazione generale e dal riscontro di un parallelismo reperibile anche in altri punti non si deve scendere a concludere che in questi canti la dottrina è volutamente predisposta alla poesia, né fare del poeta del Paradiso un elaboratore accorto di schemi didattici e di cortesie prammatiche. Fin dal primo entrare nel nuovo canto la poesia schiude immagini di spazi sereni, di musica, di luce: l’epilogo del canto precedente è stato posto come una lezione fra maestro e discepolo, a tu per tu, con la raccomandazione di rimeditare, ma qui la corona degli spiriti sapienti ha una fretta gioiosa di ricominciare la danza ed il canto, con una compattezza di materia e di moto che lascia appena spegnersi la parola sulla lingua di fiamma (gli spiriti attendono non che taccia ma che prenda a dire l’ultima parola, tanto è il desiderio della danza). La diversità del lessico e dei modi stilistici si può verificare attraverso una lettura analitica comparativa: se il canto di Francesco risulta estatico, pur nella robusta plastica di alcuni episodi, se si deve pensarlo, come suggeriva il Pistelli, pronunciato a volto levato in una zona paradisiaca invasa dalla luce, il canto di Domenico è dinamico, anzi violento, come se in esso si riverberassero la durezza e l’implacabilità delle lotte antieretiche del Santo e dei suoi seguaci, anche se non accorriamo certo a condividere, antistoricamente, lo sdegno di taluni moderni contro il fiero persecutore degli eretici: Dante, anche se raccapriccia di umani corti già veduti accesi (Purgatorio XXVII, 18), è troppo politicizzante e fiorentino per nutrire spiriti pacifici. E il ritratto del santo atleta, militarmente amico degli amici e crudele con gli avversari, fra la quiete luminosa della preghiera notturna che lo inizia e l’immagine dell’orto irrigato che lo conclude, è tratteggiato in forme che potremmo definire taglienti, con uno stile che richiama modi della poesia e della pittura e della scultura iberiche. Tale ricchezza di presentazione contraddice ancora una volta la tesi della strutturazione dottrinale ed esortativa imposta ai due canti del dittico, e ci spiega anche il lieto e ardito accendersi delle immagini (il mito di Iride, quello della ninfa Eco, la stessa variante del patto che Dio con Noè pose, e via trascorrendo per tante altre) e il ritmo del ritratto introdotto dal soffio del vento d’Occidente, contrapposto sì alla luce d’Oriente del canto di Francesco, ma per integrazione dialettica, non per inerte contrasto di termini. Anche l’emblema gentilizio di Castiglia, inquartato di leoni e di torri, si distende a coprire un gran tratto di territorio, con un’immagine robusta che si ricollega alle altre del canto, dalle quali, all’inizio, la menzione di Zefiro dolce e delle novelle fronde ci aveva sviato. E’ significativo che il ritratto si componga, con qualche incertezza, intorno alla deprecazione di chi strumentalizza gli studi, tanto quelli di diritto canonico come quelli di medicina, allusi qui con una indicazione generica (versi 82-83). Tuttavia la poesia drammatica dantesca tocca i suoi vertici nel tema sinfoniale della primavera e della forza torrentizia della predicazione. Meno, forse, nei temi evidentemente attratti dal ritratto di Francesco, come le nozze di Domenico con la Fede, al fonte del battesimo. Altri parallelismi, ora più ora meno fortunati, sono la divina visione che irraggia sulla madrina di Domenico, da porre a paragone con la luce di carità che irraggia dagli amanti francescani, e la preghiera di Domenico fanciullo (versi 76-78) che tiene il posto che nel canto di Francesco occupa il tema della Verna. Vuoi dire che, esaurita la virtù suggestiva delle rispondenze, la composizione non riesce più a fare coincidere sapienza strutturale e ispirazione poetica, almeno finché, superato ancora una volta il tema moralistico, quando Domenico si rivolge alla Chiesa e non chiede quello che chiedono tutti gli altri (dispensare o due o tre per sei... la fortuna di prima vacante... decimas, quae sunt pauperum Dei) si torna al tema della lotta (versi 95 sgg.), che è la scoperta animatrice del ritratto. L’ultima parte del canto, debitamente dedicata al rimprovero di cui si sono resi degni i francescani, insiste sulla polemica fra le due fazioni ecclesiastiche dei seguaci di Ubertino da Casale e dei seguaci di Matteo d’Acquasparta. Ma ad un’attenta analisi critica non risulta quello che sostenne con tanto appassionato fervore un grande dantista, Umberto Cosmo, che giustificava la poesia come puntualizzazione di una situazione storica e schierava Dante fra gli estremisti francescani. Invece il Poeta presenta una proposta conciliativa, che non può stupire in chi "ha fatta parte per se stesso": hanno torto gli uni e gli altri, afferma Dante. E su questa decisa presa di posizione si chiude la parte principale del canto, il quale alla fine presenta solo una frettolosa rassegna degli spiriti sapienti che compongono la seconda ghirlanda.


           

 

PARADISO CANTO XIII

             

 

Le due corone di spiriti sapienti che sono apparse a Dante nel cielo del Sole compiono un giro di danza intorno a lui e a Beatrice, elevando un inno di lode alla Trinità. Dopo che esse hanno cessato il loro movimento e il loro canto, riprende a parlare San Tommaso d’Aquino, il quale risolve il secondo dubbio di Dante, relativo alle parole da lui pronunciate per presentare lo spirito beato di Salomone: a veder tanto non surse il secondo (canto X, verso 114). Allorché ha affermato che nessun altro uomo ha mai potuto uguagliare la sapienza di Salomone, San Tommaso intendeva riferirsi alla saggezza di Salomone nel guidare e governare secondo giustizia il suo popolo: egli, cioè, lo ha considerato come re, non come uomo. Infatti solo in Adamo e in Cristo fu infusa tutta la sapienza che la natura umana poteva possedere. Per meglio chiarire la sua affermazione San Tommaso spiega che sono perfette solo le creature generate da Dio direttamente (come appunto Adamo e Cristo), non quelle che Dio produce attraverso le cause seconde, i cieli. Ancora un’osservazione, prima di porre termine al suo discorso: coloro che si stupiscono di veder salvo Salomone, dopo che nella Bibbia fu aspramente rimproverato per i suoi peccati, commettono un grave errore, perché pretendono di sostituirsi al giudizio di Dio. Gli uomini - conclude San Tommaso - dovrebbero essere più cauti nel formulare giudizi sul loro prossimo, perché essi vedono solo le azioni esteriori, mentre Dio conosce ciò che è nascosto nel cuore di ognuno. Solo Lui, dunque, può decidere della salvezza o della dannazione eterna delle sue creature.

 

 

Introduzione critica

 

Il prologo del canto tredicesimo aduna un vertiginoso spazio celeste intorno al punto dov’io era: figure di sovrana altezza - Cristo, Adamo, Salomone - vengono accostate, discusse, spiegate nell’ambito di una commossa celebrazione della sapienza umana: non quella volta a risolvere oziosi quesiti, ma quella intesa a governare secondo giustizia i popoli. Anche l’indugio che Tommaso d’Aquino ha posto nel rispondere al secondo dubbio di Dante (a veder tanto non sorse il secondo) e il dittico dei due santi campioni della cristianità rinnovata hanno ingrandito l’attesa e rendono più solenne la discussione. Questa, nella sua conclusione, pur restringendo l’affermazione primitiva e riconoscendo il primato di Salomone solo nell’ambito della saggezza regale, giunge però ad una chiarificazione definitiva in un campo al quale Dante annette un’importanza fondamentale. Infatti qui, nel fervore della ricerca filosofica affidata alla grande autorità di San Tommaso, si rivela l’urgenza e la costanza del pensiero politico di Dante: un pensiero che egli svolge parallelamente alla sua azione politica, prima nella vita cittadina di Firenze, poi, esule, alle mense ed alle corti dei principi, poi negli anni della discesa di Arrigo VII, messo di Dio, e infine, contemporaneamente alla composizione del poema, in vista della finale concordia proposta nel trattato della Monarchia. E’ chiaro, dunque, che questa è una tappa importante di quella meditazione intorno alla poesia della "rettitudine" in cui Dante non ha mai cessato di impegnarsi dopo le rime morali che l’iniziano e dopo i trattati conviviali, sino alla Monarchia, il trattato politico che la chiude: ancora una volta, cioè, Dante si propone come vate politico e per questa sua investitura egli ha adunato le figure di Cristo, Adamo, Salomone e, sotto lo spazio infinito dove le costellazioni disegnano i loro misteriosi emblemi, la triplice corona degli spiriti sapienti. Lo spazio astrale delle stelle di prima grandezza, dell’Orsa Maggiore, dell’Orsa Minore, della Corona d’Arianna è insufficiente immagine della grandezza di questi beati che innalzano il loro inno alla Trinità: mai la sapienza umana ha avuto così alta e commossa celebrazione, e mai poeta ha osato chiamare i sapienti della terra a testimonianza e garanzia delle sue affermazioni. La conclusione cristiana del discorso dell’umana sapienza è confermata dal rifiuto della liturgia delle divinità pagane: in cielo non si cantano né gli inni dionisiaci né gli inni apollinei, ma la lode della Trinità. La lezione che tratta il quesito della grandezza di Salomone è certo una delle meglio compaginate e armonizzate del Paradiso: la tecnica dell’esposizione didattica ha veramente, nella cultura mediolatina e, in particolare, in Dante, più di un punto di somiglianza con la tecnica compositiva e musicale della "canzone" (così il filosofo delle Summae è anche poeta liturgico di rara potenza e suggestione, quando si voglia leggerlo nell’ambito del suo tempo). La intersecano e la infiorano immagini fra le più vive del Paradiso, culminanti nella splendida rappresentazione del fiorire della rosa, quasi l’accendersi di una stella, sullo spinoso rigore del pruno dopo la stagione d’inverno. Ed è una lezione di mirabile chiarezza espositiva, continuamente sospinta e illuminata da un colmo, fervido immaginare. San Tommaso avvia il discorso riallacciandosi alla metafora dell’agricoltore, usata da San Bonaventura nel canto di Domenico, e quasi dispone su uno stesso piano opere agricole e meditazione sapiente. E quando accenna ad Adamo ed a Cristo, l’uso della perifrasi per evitare, in segno d’onore, di nominarli apertamente, si colma di accorte rispondenze. Anche la pace trionfale della dimostrazione raggiunta e della conciliazione profferta dove prima era il divario, è accompagnata da un ricco fervore di commozione. Da un punto di vista strettamente estetico, dunque, si può accertare mediante una rigorosa analisi dei valori verbali e delle rispondenze limpide o arcane fra le idee e le immagini, che il canto è uno dei più ricchi fra quelli che affrontano l’itinerario della sapienza verso il possesso di Dio. A questo punto è necessaria un’altra osservazione: nel cielo del Sole, dopo le figure di Francesco e di Domenico, anche il ritratto di Tommaso, tracciato quasi nelle zone luminose del discorso umbratile della ricerca filosofica, ha un suo posto, dietro il quale, ovviamente, è da cogliere qualche prezioso suggerimento autobiografico. La figura dell’Aquinate non è che l’autoritratto del poeta e del filosofo Dante, nel quale il rigore del rapporto concettuale non si lascia già vincere e sviare dall’accendersi della poesia, ma procura un più dilatato ed armonioso processo dell’essere. Si capisce come, nel canto seguente, tanta sapienza ed eloquente dottrina sia suggellata dall’intervento di Beatrice - simbolo della teologia a cui sì cominciar, dopo lui, piacque. Ancora un dato storico offre il discorso dottrinale del canto tredicesimo esso, infatti, procede attraverso una serie continua di distinzioni e di chiarificazioni progressive, secondo il costume mentale della Scolastica che contraddistingue la cultura di Dante e del suo tempo e la sintesi poetica che l’umanesimo cristiano trova nella Commedia. Che il canto termini coi nomi proverbiali di monna Berta e di ser Martino, sprovveduti teologizzanti, ognuno, come donna Prassede ne I Promessi Sposi, disposto a "prender per cielo il suo cervello", poco importa: il libero esame del protestantesimo è bilanciato dal pensiero sistematico della Scolastica, come la bonaria conclusione popolaresca del proemio astrale.


PARADISO CANTO XIV

             

 

Nel cielo del Sole Beatrice chiede agli spiriti sapienti di risolvere un dubbio che si sta spacciando alla mente di Dante riguardo alla luminosità dei beati dopo la risurrezione della carne. Risponde l’anima di Salomone, la quale afferma che non solo essi conserveranno la luce che li fascia ora, ma che i loro occhi corporei saranno resi capaci di sopportare simile splendore. Intorno alle due corone che si erano formate precedentemente appare una terza ghirlanda, così luminosa da abbagliare la vista di Dante. Allorché egli risolleverà gli occhi che aveva dovuto abbassare di fronte a quel fulgore eccessivo, si accorgerà di essere giunto con Beatrice nel quinto cielo, quello di Marte, illuminato da una luce rosseggiante. In questa sfera gli spiriti di coloro che hanno combattuto per la fede sono disposti su due liste luminose, le quali si intersecano formando una croce greca. Le anime si muovono lungo i bracci della croce, scintillando con maggiore o minore intensità a seconda del loro grado di beatitudine. Dalla croce esce un canto armonioso, ma Dante è in grado di percepire la dolcezza della melodia, non il significato completo dell’inno. Tuttavia le uniche parole che giungono al suo orecchio, "Resurgi" e "Vinci", indicano il valore liturgico del canto innalzato dagli spiriti combattenti, che esaltano Cristo come trionfatore della morte e del peccato.

 

 

Introduzione critica

 

È chiaro che Dante nel Paradiso ha voluto costruire un quadro completo dell’ordine fisico, metafisico e morale dell’universo, ma è altrettanto chiaro che egli si è proposto di innestare il discorso teologico nell’azione drammatica, in modo che questa offrisse l’occasione a quello. Così la salita al primo cielo permette di affrontare il problema dell’ordine fisico dell’universo, l’incontro con Piccarda quello della volontà dei beati, la figura di Giustiniano quello dell’Impero universale, tema che a sua volta prepara quello della redenzione e così via. Occorreva tuttavia stabilire un rapporto vitale fra il discorso teologico e l’azione drammatica, affinché l’occasione non si trasformasse in pretesto, magari faticosamente cercato, ma apparisse come la generatrice naturale di una visione che, di canto in canto, scopriva il mondo della beatitudine e l’armonia del cosmo, fino a raccogliere l’uno e l’altra nella visione di Dio nell’Empireo. La pagina dottrinale doveva diventare, cioè, momento vivo ed essenziale dell’azione stessa, per non restare una pagina di trattato sapienziale. Nella prima parte del Paradiso questo rapporto teologia-azione resta, in buona parte, irrealizzato, perché la teologia appare estranea al tessuto narrativo, occupando un posto preponderante nei singoli canti senza fondersi con esso. Nei canti teologici che precedono il XIV il Poeta solo nel canto primo e nel terzo è riuscito a stabilire veramente un’occasione poetica, un’adesione logica e fantastica del discorso all’azione: così nel canto primo la domanda di Dante nasceva spontanea e naturale (ma ora ammiro com’io trascenda questi corpi levi) e la risposta, che presentava l’armonico ritorno di tutte le cose verso Dio, accompagnava mirabilmente l’ascesa del Poeta e di Beatrice attraverso i cieli. Il tema della risurrezione dei corpi nel canto XIV non ha neppure bisogno di una occasione che lo presenti, perché esso fa parte della vita stessa dei beati; la domanda di Dante rientra tra quelle, numerose durante il corso del suo viaggio nel terzo regno, in cui chiede alle anime beate notizie sul loro stato: diteli se la luce onde s’indora nostra sostanza, rimarrà con voi etternalmente sì com’ell’è ora. Così alla gioia di cui si illuminano gli spiriti sapienti, perché, rispondendo a questa richiesta, soddisfano un desiderio del Poeta, si unisce la gioia per la propria risurrezione, in modo che la spiegazione teologica si trasferisce subito sul piano affettivo: i beati non solo fanno dono a Dante di una verità logicamente dedotta da principii universali, ma rivelano la loro esultante attesa del momento in cui, rivestita la carne gloriosa e santa, crescerà la visione di Dio, il loro ardor, il loro raggio. Nei versi 37-60 la teologia appare proprio come Dante la intende, sorretta da una forte carica affettiva che è l’ebbrezza dello spirito anelante ad un’unione sempre più profonda con Dio. Il ragionamento, dunque, non resta astratto e chiuso davanti alla visione paradisiaca, ma diventa esso stesso un mezzo per rivelarla, per esaltare la felicità degli eletti, la luce e l’immensità dei cieli. La struttura sillogistica che sostiene queste terzine si trasfigura in movimento poetico, in fervido circolo ritmico, splendente di immagini. Nel canto XIV, infatti, il ritmo circolare - ripetizione di parole, ritorno di concetti uguali, riecheggiamento di note identiche - è la caratteristica dominante, impostata fin dal primo verso (dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro). Subito dopo con questo ritmo il Poeta affronta il tema della Trinità (quell’uno e due e tre... in tre e ‘n due e ‘n uno), fondendo alla definizione dogmatica una ineffabile emozione poetica, con un "vertiginoso ritorno di note sopra se stesse" (Momigliano). Tuttavia tale mezzo raggiunge la sua massima potenza espressiva nel breve discorso di Salomone, dove il ragionamento si trasfigura liricamente grazie alla vibrante accensione di ardore e di immagini generata dal ritorno incessante delle stesse note. Questo ritmo circolare, infatti, è ben lungi dall’essere uno statico avvolgimento di termini o concetti uguali, perché ad esso s’accompagna un intensificarsi particolare delle immagini e dell’emozione lirica: dapprima un moto ascendente di luce e di amore che si placa nella visione di Dio (versi 40-42), poi un moto discendente (che il Poeta ha già definito rifrigerio dell’etterna ploia) che riporta quella luce e quell’amore da Dio alle anime, cosicché si ha "l’impressione d’un mistico e lucido delirio " che "rende evidente il rapimento nel quale fu concepito questo canto " (Momigliano). Questo, inoltre, era l’unico ritmo con il quale il Poeta poteva significare il misterioso processo di merito e di Grazia che lega l’uomo al suo Creatore, per cui la vita divina rifluisce in lui perennemente: l’uomo e Dio chiusi in un cerchio di amore che richiama quello della vita trinitaria (e non a caso Salomone inizia il suo discorso dopo che per tre volte si era alzato dai beati l’inno alla Trinità). La critica riconosce nel canto XIV uno dei più alti e dei più ispirati del Paradiso. Certamente uno dei più unitari. Esso appare dominato nella prima parte da un nucleo di intensa poesia, il tema della gloria del corpo risorto, che sembra esaurirsi dopo l’umanissimo accenno al legame che anche nel mondo beato stringerà ognuno ai suoi cari. In realtà anche la seconda parte del canto riecheggia, sia pure su un piano diverso, la prima, perché anch’essa è alimentata dal tema della risurrezione e dallo stesso tono spirituale (la gioia della liberazione della carne e la gloria della beatitudine eterna): la croce non è più il legno insanguinato sul quale il Figlio di Dio ha patito l’offesa suprema, ma è un vessillo luminoso che si stende per tutto il cielo a testimonianza della vittoria sulle tenebre e sulla materia; la figura di Cristo che vi "balena" non è quella sofferente dell’Uomo-Dio crocifisso, ma quella trionfante del Risorto, e le anime dei martiri della fede percorrono quella croce con un moto di letizia incessante cantando un inno di risurrezione.


PARADISO CANTO XV

             

 

I beati del cielo di Marte interrompono il canto perché Dante possa indirizzare loro le sue domande. Intanto una delle luci che costellano la croce scende lungo il braccio destro e la parte mediana fino ai piedi di essa e si rivolge al Poeta con tono particolarmente affettuoso: è l’anima di Cacciaguida, trisavolo di Dante, il quale, tuttavia, non riesce ad afferrare il senso delle sue parole, essendo queste troppo al di sopra delle umane possibilità di comprensione. Solo in un secondo tempo il discorso di Cacciaguida si chiarisce alla mente del Poeta, il quale viene invitato ad esprimere i propri desideri. Poiché Dante gli ha chiesto di poter conoscere il suo nome, l’anima beata glielo rivela. Subito dopo Cacciaguida delinea l’aspetto dell’antica Firenze, allorché la città viveva in pace e nell’osservanza di tutte le leggi morali, contrapponendo a questa serena visione quella della Firenze attuale, dilaniata dalle lotte e corrosa dall’immoralità. Cacciaguida ricorda i retti costumi dei Fiorentini antichi, la loro serena vita familiare, il culto delle memorie del passato.Nella parte finale del canto Cacciaguida, dopo aver ricordato il nome dei suoi due fratelli, Moronto ed Eliseo, e quello della moglie, parla della propria vita. Entrò al servizio dell’imperatore Corrado III, dal quale fu fatto cavaliere. Lo seguì nella seconda crociata per la riconquista della Terrasanta e morì combattendo contro i Saraceni.

 

 

Introduzione critica

 

Nell’interpretazione del canto XV, come di tutta la trilogia di Cacciaguida, si ripropone con un’evidenza particolarissima la rottura fra la fase romantica della critica dantesca e l’interpretazione moderna. La prima, nonostante le qualità di gusto e di penetrazione psicologica (basti pensare alle pagine che il Donadoni dedica al canto XV e allo studio del Momigliano, "La personalità di Dante e i canti di Cacciaguida", pubblicato nel 1927), non riesce a rendersi conto che anche la descrizione di Firenze chiusa nella cerchia antica non è uno sfogo autobiografico, ma una rappresentazione "figurale" (Auerbach) nella quale prende vita l’utopia politica di Dante. E’ su questa posizione, lumeggiata anche dal Montano, che si muovono le analisi di critici sicuri e attenti come il Binni e il Vallone. Dante respinge la rivoluzione economica e sociale maturata nel corso del secolo XIII, il crollo o la limitazione del feudalismo, il nuovo spirito mercantile, l’urbanesimo, i costumi di vita raffinati e spregiudicati che il Boccaccio alcuni anni dopo descriverà nel suo Decamerone. "Per la prima volta i grandi fattori metafisici del mondo politico erano sottoposti a una valutazione e a uno sfruttamento ormai soltanto politici... per la prima volta prevalse, in modo cosciente e coerente, fino nei più bassi strati del popolo, lo spirito che con freddo calcolo inserisce nel gioco delle forze ogni istituzione terrena, senza riguardo alla sua provenienza ultraterrena e all’autorità." (Auerbach) Nasceva una generazione di uomini freddi, preoccupati del successo e del proprio vantaggio, decisi a liberarsi di ogni legame con l’ordine tradizionale del mondo e a vedere nella cultura non una saggezza saldamente ancorata alla parola di Dio e capace di penetrare e nutrire ogni aspetto della vita terrena, ma un godimento dei sensi oltre che della mente, un ornamento della vita, senza alcuna forza praticamente impegnativa. Dante rifiuta tutto questo e con esso rifiuta anche ciò che di positivo presentava il nuovo spirito borghese. "Ma se si pensa - conclude l’Auerbach - con quali sacrifici fu pagato quel futuro, la civiltà moderna, come la scissione tra vita interiore e esteriore sia diventata sempre più opprimente, come l’unità di vita umana e europea andasse. perduta, come il frantumarsi e l’inefficacia di ogni ideologia sia diventata sensibile a ognuno... ci si guarderà dal disprezzare e condannare lo spirito sapientemente ordinatore di Dante." Il Poeta, profilando con accenti di desiderio e di sogno i costumi sobri, la semplicità, la lealtà, la pace del tempo passato, attribuisce al passato i caratteri morali e religiosi che egli sogna per l’avvenire: una società civile non corrotta dal denaro, non sopraffatta da meri interessi politici, ancorata ai valori eterni dell’uomo. Ma la poesia di Dante ha bisogno di conferire alle astrazioni del pensiero e alle idealità del sogno il vigore della concretezza, il nerbo delle azioni, la realtà delle vicende storiche. Come la Firenze dei tempi del Poeta era stata nell’lnferno il modello esemplare del male, il parallelo di Dite nel mondo dei vivi, così nel Paradiso egli alla mitica Firenze del passato - in pace, sobria e pudica - chiede ispirazione per tracciare le linee della società nuova e rigenerata che egli intende prospettare: perché la Commedia, nella sua sostanza profonda, è "espressione di una grande attesa e speranza di bene" (Vallone) e "il reale serve proprio, com’è nell’arte del Medioevo e nello stile di Dante, a dare sostanza e concretezza a questa attesa, tanto più vasta e incommensurabile quanto proprio quel reale è minuto, particolare e personale". Ancora una volta, dunque, il tono della poesia dantesca nasce dalla fusione di un concetto universale e di una esperienza individuale: in Firenze egli non solo sperimenta il suo amore di figlio e la sua dolorosa nostalgia di esule, ma i valori eterni dello spirito e della società umana. La poesia del canto XV è da cogliere nello straordinario equilibrio e nel sapiente comporsi e fondersi di questi due termini. Secondo il De Sanctis dopo i versi 97-99 "la rappresentazione da Firenze si va a restringere nelle famiglie fiorentine e nella persona di Dante". Invece subito dopo l’immagine di Firenze dentro dalla cerchia antica, chiusa nella sua staticità maestosa ma inarticolata, si inseriscono, attraverso la rappresentazione delle consuetudini interne e dei rapporti familiari, i grandi temi e i grandi problemi politico-morali.Il quadro si anima, si carica di motivi polemici e sentimentali, Si popola di personaggi, si arricchisce degli sfondi architettonici di case e di strade. Il pericolo di trasformare la ricostruzione dell’antica Firenze in un elogio astratto o in un simbolo corposo e statuario (l’osservazione è del Vallone) si dissolve subito in virtù del procedimento adottato, quello della comparatio per contrarium: i due volti di Firenze, quello passato e quello attuale, accostati, confrontati, allontanati in un gioco mobilissimo di figure e di prospettive. Una soluzione retorica che è adeguata rappresentazione dell’intimo di Dante, dove quei due volti coesistono, fonte di tenerezza e di speranza l’uno, causa di struggimento l’altro, ma l’uno e l’altro calati nella realtà e rappresentati nel concreto degli abitanti e degli usi civili. Scarna semplicità dello stile, andamento paratattico del fraseggiare, essenzialità della descrizione dominano questa parte del canto, nella quale la polemica non sfocia nella invettiva, il sarcasmo viene smussato in mestizia, la poesia non si carica di toni cupi e di tormento di passioni: il Poeta sembra ormai certo che il presente falso e corrotto sia destinato a scomparire.


           

 

PARADISO CANTO XVI

             

 

Continua il dialogo fra Dante e Cacciaguida, che nel canto precedente ha tratteggiato l’immagine della Firenze del passato. Ora il Poeta gli rivolge una serie di domande precise: chi furono i comuni antenati, in quale periodo il trisavolo visse, quali furono le caratteristiche dell’ovil di San Giovanni nei tempi passsati e quali le famiglie più ragguardevoli. Illuminandosi di gioia nel rispondergli, Cacciaguida rivela di essere nato alla fine del secolo XI, aggiungendo che le case della sua famiglia si trovavano dentro la prima cerchia di mura: garanzia, questa, di antica nobiltà. La popolazione fiorentina era assai meno numerosa di quella dei tempi del Poeta, ma di sangue più puro. Ora, invece, essa è contaminata dalla presenza di famiglie venute dal contado, che la città, nella sua progressiva espansione, è giunta ad assorbire. Anche il numero dei nobili è aumentato, poiché molti feudatari, vinti dal comune fiorentino, sono stati costretti ad abbandonare il contado e a trasferirsi in città. Origine di questi sconvolgimenti sociali e politici è l’intervento della Chiesa in campo temporale a danno degli interessi dell’lmpero, che non può più opporsi all’espansione dei centri cittadini. Tuttavia questa mescolanza di stirpi e di famiglie porterà ad un aumento delle discordie e delle lotte civili e, quindi, ad una rapida decadenza delle città. Nella seconda parte del canto Cacciaguida enumera moltissime famiglie nobili della Firenze antica, ormai scomparse o in via di decadimento e conclude il suo discorso ricordando le famiglie degli Adimari e dei Buondelmonti, il cui dissidio causò le prime divisioni della città.

 

 

 

Introduzione critica

 

Canto dei fiorentini antichi: così viene definito il XVI, in contrapposto a quello di Firenze antica, il XV, e a quello dell’esilio, il XVII. Chiuso fra due momenti centrali della Commedia - il ritorno al passato per presentare quello che dovrebbe essere il volto nuovo e rigenerato della società futura e la consacrazione ultima e definitiva della missione di Dante - esso è apparso al Momigliano "troppo irto di nomi", quasi una nuda cronaca, per cui farebbe l’effetto di "una delle pagine un po’ secche e aride di Dino Compagni, dove non mancano profili taglienti di personaggi e di fatti, ma questi sono non di rado dispersi in un complesso poco animato, e non sono frequenti i quadri dal taglio sicuro". Il Poeta è troppo "municipale" in questo canto, che "è l’unico... della Divina Commedia in cui la fiorentinità di Dante confini con l’angustia spirituale e poetica ". Tuttavia il giudizio dell’illustre critico è troppo parziale, limitato a quelle terzine che presentano una rassegna di nomi nella quale la vena poetica scade. Più esatta appare la seguente puntualizzazione del Parodi: " L’enumerazione, che fa Cacciaguida, delle più antiche e illustri famiglie fiorentine è uno stupendo pezzo di poesia; solo qualche verso, composto di puri nomi, che non dicono più nulla alla fantasia del lettore moderno, pare una foglia morta in mezzo al fresco e fitto fogliame d’un albero rigoglioso ". Così anche il Maier, che sottolinea la presenza, nel canto, di un forte motivo lirico, quello della "rimembranza": Dante "ci dà qui, in nuce una storia araldica a volo d’aquila, della sua città; e si sofferma con commozione su ognuna delle stirpi gloriose, ne scandisce compiaciuto i bei nomi italici trascolorati dalla guerra del tempo, s’indugia sui particolari che più possono interessare e si prestino ad eloquenti e, direi, scultorie caratterizzazioni". Nel suo atteggiamento di rievocatore dei fasti fiorentini Dante, ancora una volta, fonda il mito e l’ideale su un dato obiettivo, un cenno biografico, un segno concreto, come, in questo canto, la domanda rivolta a Cacciaguida: ditemi... quai fuor li vostri antichi, e quai fuor li anni che si segnare in nostra puerizia. Dalla nobiltà della propria stirpe e dalla storia della propria famiglia il Poeta trapassa poi alla visione della nobiltà e della storia di Firenze, finché la prospettiva poetica si allarga ancora. Le notizie d’interesse puramente locale sono viste dentro un più alto ordine di cose e i versi acquistano, come ben nota il Maier, "un senso di fatalità storica ed un tono solenne, come di profezia (sarìesi Montemurlo... sarìeno i Cerchi...)" che si conclude in una grave sentenza (sempre la confusion delle persone principio fu del mal della cittade...), quasi una sintetica proposizione di filosofia della storia. Anche i versi seguenti mantengono questo tono austero e sentenzioso, nel quale esemplificazioni circostanziate (la sorte di Luni, Urbisaglia, Chiusi, Sinigaglia) si concludono in riflessioni profonde e universali, dove torna il senso, tanto vivo in Dante, dell’effimero e fugace trascorrere dei beni mondani affidati al misterioso giudizio e alle incessanti permutazioni della Fortuna: le cose umane passano e muoiono, le schiatte scompaiono, le città hanno termine. Dopo queste cosmiche considerazioni il discorso di Cacciaguida si volge nuovamente a Firenze e alla fatalità della sua sorte, cosicché la città, nella sua vicenda di splendore e di decadenza, diventa la concreta incarnazione delle oscure leggi del destino, della capricciosa azione della Fortuna. Da una questione di genealogia (ditemi... qual fuor li vostri antichi) Dante è dunque assurto alla lirica e all’epopea, perché, dopo essere stato "il cantore dell’epopea propria, dalle glorie vetuste de’ suoi avi alla gloria del proprio incontaminato esilio", fonde nel suo "poema personale... in una stupenda e indivisibile unità il poema di Firenze, e il fato di Firenze si lega col fato degli Alighieri e la tragedia della sventura di Dante è la tragedia dell’intera città" (Parodi) e del mondo intero, dove tutto si corrompe e tramonta sotto la silenziosa e impenetrabile figura della Fortuna. L’intonazione fondamentale del canto, infatti, è drammatica, nonostante l’immagine iniziale della sorridente e divertita Beatrice (versi 13-15). Dante, sulla base della rassegna che Anchise fa ad Enea dei suoi grandi pronipoti nel sesto libro dell’Eneide, imposta il sirventese degli alti Fiorentini, unendo, con improvvise mosse satiriche, la commozione suscitata dai grandi nomi del passato all’invettiva e al sarcasmo più violento, che non disdegna di scendere al pettegolezzo di famiglia e di vicinato (versi 112-120) e Cacciaguida, il crociato martire della fede, diventa veramente l’eco, nel realismo di questi ricordi, dello sdegno e della collera di Dante.Il canto si affretta alla conclusione con un crescendo di cupe visioni, in un pianto senza lagrime sull’inevitabile rovina di Firenze, voluta dalla sorte, che non soffocò, nei gorghi di un fiume impetuoso chi sarebbe stato causa di quella rovina (versi 142-144), e che fece piovere sulla sventurata città i malefici influssi delle stelle e di una sinistra statua pagana, alla quale fu offerto un sacrilego sacrificio (versi 145-147). Il canto di gloria degli alti Fiorentini si chiude, "in una potente e originale fusione di leggende popolari e di alti pensieri civili" (Parodi), con un tragico rosseggiare di sangue (il cadavere di Buondelmonte ai piedi del rozzo e monco idolo e il rosso giglio levato alto sulla nuova Firenze): una plastica contrapposizione alla mitica immagine della Firenze di Cacciaguida, I’ovil di San Giovanni.


           

 

PARADISO CANTO XVII

             

 

Dante rivolge al suo trisavolo una domanda piena di trepidazione e di ansietà: quale sorte gli riserva il futuro? Già molte volte, scendendo lungo i cerchi dell’inferno o salendo- per i gironi del purgatorio, ha udito oscure profezie che gli annunciavano anni di dolore e di esilio. Ora il Poeta chiede che la verità sulla sua vita futura gli sia rivelata con tutta la chiarezza permessa a un beato che contempla in Dio, prima che essi si avverino, gli eventi. Così risponde Cacciaguida: Dante dovrà abbandonare la città di Firenze, che si comporterà nei suoi riguardi come una crudele matrigna. Il suo esilio sarà opera soprattutto delle macchinazioni politiche di Bonifacio VIII. La colpa delle discordie che dilaniano Firenze sarà attribuita al partito vinto, ma presto il castigo divino si adatterà sui Neri e sul pontefice. Dante proverà tutte le sofferenze, le difficoltà, le umiliazioni della povertà e di una vita randagia. Presto sperimenterà anche la solitudine più completa, perché abbandonerà i suoi compagni d’esilio, incapaci e infidi. Troverà il suo primo rifugio a Verona; Bartolomeo e Cangrande della Scala diventeranno i suoi munifici protettori. Allorché Cacciaguida ha terminato di parlare, Dante confessa una sua dolorosa incertezza: se egli racconterà tutto ciò che ha visto nell’inferno e nel purgatorio molti gli diventeranno nemici e gli negheranno aiuto e ospitalità. Ma - risponde Cacciaguida - egli non dovrà avere alcun timore e dovrà "far manifesta" tutta la sua visione, perché i suoi versi costituiranno per tutti un vital nutrimento. Proprio perché gli uomini credono più facilmente agli esempi e alle argomentazioni evidenti, sono state mostrate al Poeta, nell’oltretomba, le anime di personaggi famosi.

 

 

Introduzione critica

 

Il canto XVII sembrerebbe rifiutare il metro interpretativo con il quale ci siamo accostati alla lettura della Commedia: la convergenza nell’io di Dante dell’individuo storico - con una sua esperienza di vita ben determinata, in un ambito di spazio e di tempo ben definito e dell’individuo universale, quello che il Singleton definisce "chiunque", " chiunque, cioè, per grazia divina scelga di compiere, o sia scelto a compiere, quel viaggio della mente che conduce a Lui in questa vita", l’homo viator che si dirige verso Dio mentre continua a dimorare tra i viventi.Nel canto si profilerebbe una frattura fra la componente etico-religiosa e la componente lirico-storica e quest’ultima sarebbe l’unica musa ispiratrice. Cacciaguida non sarebbe altro che uno sdoppiamento di Dante e il loro lungo colloquio la drammatizzazione di un soliloquio, poiché Dante nella Commedia evita "la rappresentazione riflessiva della sua crisi e delle sue convinzioni fondamentali" (Momigliano), conferendo ad esse i contorni rilevati e drammatici dei dialoghi, delle azioni, dei contrasti. Non più le pagine contemplative, solitarie, remote dal mondo della giovanile, astratta Vita Nova, ma una opera creata da un "uomo fatto per vivere tra gli uomini, e tra essi e contro di essi provare e raffinare le sue forze spirituali" con il concorso di una fantasia "che ha bisogno, come di nessun’altra, di una realtà mobile e concreta ".Ma è proprio in questa capacità di tradurre un nodo di esperienze biografiche e di ragioni morali in una lucida contemplazione di miti e di immagini che si realizza l’intento del Poeta di rappresentare un duplice processo di redenzione: la sua redenzione personale e quella di tutta l’umanità. E’ "il punto di incontro, in cui convergono le due componenti essenziali dell’ispirazione dantesca, è il tema etico-politico, che affonda le sue radici nella vicenda concreta dell’uomo d’azione e dell’esule, e su quel fondamento costruisce i termini di una dottrina universalmente valida, ma non mai astratta, sempre implicata in una trama di sentimenti e risentimenti, angosce e polemiche, speranze e nostalgie, impeti di collera sdegnosa e desolati ripiegamenti contemplativi " (Sapegno). Se completiamo queste osservazioni rilevando che caratteristica del poeta medievale è quella di presentarsi sempre nelle vesti del saggio e del profeta, cioè di colui che possiede. e rivela la "scienza" e come tale agisce sui destini dell’umanità, possiamo concludere che il XVII è il canto dove la duplice natura del poema, personale e universale, lirica e dottrinale, trova la sua trascrizione più stilizzata e sublimata. Poiché il centro di questa scienza e di questa rivelazione è la contemplazione del divino e in Dio la creatura riceve la propria giustificazione e la propria esaltazione, man mano che ci si avvicina a quel punto luminoso i problemi si chiarificano, le speranze si concretano, l’uomo conosce meglio se stesso nei suoi limiti e nelle sue possibilità. E il Poeta acquista piena consapevolezza della sua missione, a Cacciaguida chiedendo l’investitura di un proposito già maturo. Nessuno ha mai solennizzato come Dante l’importanza del suo apostolato, nessuno essendo convinto, come lui, di aver ricevuto una rivelazione speciale, nella "prodigiosa sicurezza di uno che cammina al suo segno senza dubitarne" (Apollonio), perché già sa che ogni destino d’uomo è divino, già conosce che gli sono dati i soccorsi per la salvezza. Occorre infatti ricordare che vari secoli di meditazione cristiana, da Sant’Agostino a San Bonaventura e a San Tommaso, avevano già fissato lo schema, il disegno entro il quale avviene, per successive tappe, la conversione dell’anima dal peccato alla Grazia: Dante, sotto questo punto di vista, non inventa nulla, ma proprio dal fatto che la struttura del suo poema è fondata su tale meditazione secolare e che la verità che egli rivela è la verità rivelata da Dio nella Sacra Scrittura, deriva la sua "prodigiosa sicurezza", perché egli "vede da poeta, e da poeta rappresenta ciò che nella dottrina cristiana è già concettualmente elaborato e convenuto" (Singleton).Se sull’io universale non si fosse inserito l’io storico di Dante avremmo una Summa sapienziale, non un’opera di umanissima poesia: perché fra la visione del ritorno dell’anima a Dio e l’adempimento della sua missione - che è l’atto di rivelare agli uomini la verità che gli è stata comunicata - si interpone la sua persona con la propria esperienza di peccato e di Grazia per "assicurare che quel che uomo ha fatto, uomo, soccorso, può fare" (Apollonio). Oltre a quelle del peccato e della Grazia, il canto XVII testimonia una terza esperienza-fulcro - quella dell’esilio per mezzo della quale il Poeta conosce la solitudine morale necessaria per farsi giudice dell’umanità; anche questa vicenda personale, dunque, subisce un processo di trasvalutazione, come la storia di Firenze nei canti XV e XVI. Il Ramat riassume con queste parole il significato della trilogia di Cacciaguida: La storia di Firenze e la vicenda di Dante divengono nella Commedia due miti religiosi essenziali e inseparabili; e se lungo il poema corrono con tracciati formalmente distinti, anche se talvolta incrociandosi, la loro unità sostanziale si manifesta nei tre canti di Cacciaguida, i quali definiscono insieme il significato diabolico universale della città - ed era un modo con cui Dante riconosceva la centralità effettuale della sua terra nella storia contemporanea - e la figura eroico-religiosa della sua vittima, la cui vicenda autobiografica si inserisce strettamente stazioni del Calvario, qualità del suo messaggio - nella logica metafisica che regge l’ordine terrestre e cosmico".


PARADISO CANTO XVIII

             

 

Beatrice esorta Dante a distogliere la sua mente dal doloroso pensiero dell’esilio e a riporre ogni speranza nella giustizia divina: la bellezza di Beatrice e l’affetto che dimostra verso di lui sono tali che il Poeta prova un dolce smarrimento. Poi la sua donna lo invita a rivolgere l’attenzione ancora a Cacciaguida, il quale gli presenta alcune fra le anime più famose del cielo di Marte: Giosuè e Giuda Maccabeo, Carlo Magno e il paladino Orlando, Guglielmo d’Orange e lo scudiero Renoardo, Goffredo di Buglione e Roberto il Guiscardo. Dopo che Cacciaguida ha ripreso il suo posto nella croce luminosa di Marte, Dante e Beatrice ascendono al sesto cielo, quello di Giove. Le anime di coloro che nel mondo perseguirono in sommo grado la giustizia, disponendosi nella forma di lettere alfabetiche, scrivono nel cielo la frase: "Diligite iustitiam qui iudicatis terram". In seguito altri spiriti luminosi scendono a disporsi nell’ultima M della scritta e la lettera, a poco a poco, si trasforma, assumendo la figura dell’aquila, simbolo dell’Impero al quale è affidata l’amministrazione della giustizia in terra. Il canto termina con una dura invettiva di Dante contro la cupidigia degli uomini di Chiesa, che con il loro comportamento offendono gravemente la giustizia, dimenticando la semplicità e la povertà predicate dal Vangelo.

 

 

Introduzione critica

 

Dopo la trilogia di Cacciaguida il canto XVIII apre quella del cielo di Giove, accentrata intorno al tema della giustizia. Sono questi i canti che certa critica considera esempi cospicui della composizione a nuclei o a strati della Commedia, come già avvenne per la Vita Nova. Tuttavia tali nuclei, anche se sviluppano motivi, personaggi, fatti per più canti in una "progressione logica e sentimentale che gradua e arricchisce la vicenda" (Vallone), non possono, a differenza di quanto accade nell’opera giovanile, essere considerati a sé, poiché è sempre accorgimento di Dante - accorgimento, nota ancora il Vallone, che nasce dalla logica stessa del poeta che compone - " sciogliere le angolazioni dei canti a chiusura e ad inizio" e "predisporre un motivo lungo tutto l’arco del canto... che serva poi di avvio o di aggancio al canto o al nucleo dei canti che seguono". Nel nostro caso l’aggancio fra questo canto e quelli che lo precedono è offerto da due motivi: il tono largamente umano e personale dei primi versi (1-8) subito proiettato in un piano metafisico (versi 9-18) - così come nei canti precedenti il destino individuale di Dante diventava il modello di una vicenda collettiva, di un dramma storico generale - e il ruolo di protagonista assunto ancora una volta da Cacciaguida, che prosegue, nella rassegna delle anime dei forti, l’alta eloquenza e il fortissimo slancio spirituale dei suoi discorsi precedenti. La lettura a nuclei, inoltre, presenta il grosso rischio di isolare il motivo o il personaggio o il fatto rappresentati, perdendo di vista l’unità lirico-narrativa dell’opera. Analizziamo i tre canti di Giove: la considerazione sdegnata o dolente di Dante per certe vicende terrene rappresentate in essi nulla toglie alla sua grande e insistente certezza: che il mondo della trascendenza sia opposto al contingente solo nella misura scandita dal peccato. Ma poiché il peccato è stato redento dal Cristo, sussiste una positiva colleganza fra il divino e l’umano, simboleggiata in questi tre canti dal motivo centrale della giustizia umana procedente da quella divina. Proprio nell’ansia della realizzazione di un’unità, il più possibile perfetta, fra terra e cielo è il profondo "centro " poetico da cui nasce la unità di tutto il poema. L’accordo tematico e tonale dei canti dei giusti non esclude che all’interno di ciascuno di essi il Poeta si sia preoccupato di disporre e graduare la sua materia. La lettura del canto XVIII non tarda a scoprirne l’estrema, inesausta mobilità espressiva, la quale fa sì che la voce del Poeta trasformi e plasmi la temperie del canto, passando da climi di assorta e meditativa contemplazione agli attimi del più acceso rapimento dell’intelletto e, subito dopo, alle più crude tonalità scaturite da una sferzante, disincantata visione delle cose terrene. Tornano, infatti, con insistenza, alcuni fra i motivi più alti dell’ispirazione che accende tutto il Paradiso: un misticismo che giunge al "dismagarsi" del Poeta di fronte a visioni di sovrumana dolcezza (versi 13-18), un’ardente luminosità che pervade ogni cosa, penetrando e rischiarando, attraverso la vista, l’intelletto e lo spirito (versi 55-69); una costante preoccupazione per i problemi terreni che, alla fine del canto, si concreta nella feroce asprezza della satira contro gli uomini di Chiesa (versi 118-136).

 

Un discorso a parte meriterebbe la minuta rappresentazione delle anime che si dispongono nel segno dell’aquila secondo i canoni di una speciale forma di coreografia celeste. Il Barberi-Squarotti giudica questa parte una "sezione di suprema maestria tecnico-figurativa e simbolica". In essa "si avverte più intenso il gusto dantesco per la difficoltà espressiva, per l’arduo impegno sulla materia difficile, mediante il servizio di una tecnica d’eccezione, che riesce a sollevare la meccanicità descrittiva, l’aridità, anche, dei temi e delle ragioni della figurazione, il suo ritmo complesso e non immediatamente distinguibile per l’accurata minuzia dei particolari, involti entro un linguaggio estremamente allusivo... a una suggestione di lotta accanita con le difficoltà dell’assunto, con la parola e il ritmo e la metrica". L’unità della rappresentazione appare fondata proprio "sulla perspicuità esercitatissima della tecnica", di fronte a una materia eccezionale e oggettivamente difficile da descrivere. Due sono le fasi della rappresentazione: nella prima (versi 76-81 e 88-96) appare "una chiarezza quasi matematica di organizzazione, razionalmente evidenziata: si noti l’esattezza delle indicazioni temporali e spaziali (dentro, prima, un poco, poi, or... or), i parallelismi di costruzione sintattica (cantando... diventando), la rispondenza accuratissima della similitudine degli uccelli con le anime beate (or tonda, or altra schiera... or D, or I, or L)" (Barberi-Squarotti). La presenza del numero (versi 88-89) ribadisce il rigore costruttivo, geometrico della descrizione, nella quale spicca, rileva lo stesso critico, "tanto più chiaramente quanto meno vivida è l’intonazione poetica, il gusto tutto medievale per la chiarezza razionale della matematica come ordinamento perspicuo e armonico delle cose" Nella seconda fase, quella delle celesti metamorfosi della M, la chiarezza e l’equilibrio descrittivi vengono in parte meno, ma ne acquistano la suggestione delle immagini (si noti, ad esempio, la pioggia di luci che scende con una direzione ben precisa e la similitudine dei ciocchi arsi) e la ricchezza fantastica con la quale il Poeta traduce in figure un gioco di simboli densi di riposti significati.


PARADISO CANTO XIX

             

 

Le anime dei giusti, raccolte nella maestosa figura dell’aquila, ricordano d’aver meritato la gloria dei cieli per aver osservato sulla terra la giustizia e la misericordia, la quale è complemento indispensabile della giustizia. A loro Dante chiede la spiegazione di un tormentoso dubbio, presente in lui da lungo tempo e riguardante il mistero della predestinazione. L’aquila dichiara, innanzitutto, l’imperscrutabilità dei decreti divini: nessuna intelligenza umana potrà mai penetrare il mistero della sapienza e della giustizia di Dio. Poi risponde alle domande che più frequentemente gli uomini si pongono intorno alla predestinazione: perché sono condannati alla dannazione coloro che, non per colpa propria, non hanno mai conosciuto la fede e sono morti senza battesimo? La risposta è una sola: Dio, sommo Bene, non può volere il male e l’ingiustizia. Gli uomini devono essere paghi di questa verità: tutto ciò che Dio decide avviene secondo giustizia e amore: è più facile che entri nel regno dei cieli un pagano che visse secondo le leggi di natura e secondo i dettami della ragione che non un cristiano il quale non ubbidì ai comandamenti della sua fede. Nell’ultima parte del canto il Poeta leva una dura invettiva contro i malvagi reggitori d’Europa. Nel giorno del Giudizio Universale la loro disonestà e la loro corruzione appariranno scritte a piene lettere nel libro della giustizia divina.

 

 

Introduzione critica

 

Il ritmo caratteristico del Paradiso - continua alternanza di fasi contemplative di momenti dominati da preoccupazioni terrene - si realizza pienamente nel canto XIX, come già in quello precedente. Le due lezioni dell’aquila, infatti, si aprono l’una sulla sfera della teologia (trattazione del tema della predestinazione), l’altra su quella della storia (rassegna dei malvagi reggitori d’Europa), la prima sull’umile riconoscimento dei limiti dell’intelletto umano di fronte al mistero divino, la seconda sul giudizio, imperiosa e deciso, relativo ai sovrani indegni. Questo fatto ha spinto una parte della critica a giudicare il canto XIX frammentario nell’ispirazione e nell’esecuzione, per cui il discorso dell’aquila relativo alla predestinazione sarebbe una digressione dottrinale, estranea all’atmosfera spirituale palpitante di vivi interessi terreni e sociali con la quale la trilogia dei giusti e lo stesso canto XIX (versi 13-18) si erano aperti. Tale discorso, vertendo sui misteri divini, avrebbe dovuto essere pronunciato, nel cielo seguente, dagli spiriti contemplativi, non essendo opportuno che " Dante cercasse qui nell’aquila, simbolo della giustizia umana, la soluzione del suo angoscioso problema della giustizia divina" (Chimenz). Ma la giustizia umana non è che la proiezione di quella divina (canto XVIII, versi 1 15-117), alla quale deve conformarsi in ogni suo atto per essere santa e vera, e coloro che fecero della giustizia l’ideale supremo della loro vita possono essere ben degni di affrontare il mistero dei decreti divini. La sfera teoretica e la sfera pratica in Dante, come in tutto il Medioevo, non furono mai soggette ad arbitrarie scissioni: scienza e storia, mondo religioso e mondo politico erano gli elementi costitutori di quell’ordine-forma dell’universo che il Poeta incominciò a vagheggiare dal quarto libro del Convivio e che divenne, secondo la felice definizione del Cosmo, il concetto-fulcro della Commedia, per cui "tutti i problemi si risolvevano nella dimostrazione di quell’ordine, tutta la storia si piegava a provarne in modo concreto l’attuazione". Fra i più attenti lettori di questo canto, il Sapegno è quello che ha puntualizzato con più chiarezza l’equilibrio, narrativo e rappresentativo, arditamente dinamico del canto. La celebrazione della giustizia, che "è luce di Dio nell’ordine dell’universo", è sentita, "dantescamente, in termini drammatici e si attua in un vasto contrappunto di motivi intellettuali e morali... Il cruccio e l’irosa polemica del Poeta per i segni dell’ingiustizia terrestre, sul piano politico, implicano un dubbio appena accennato sulla validità della concezione provvidenziale della storia umana, e trovano rispondenza, sul piano teologico, nelle perplessità dottrinali attinenti all’arcano dell’attuazione della giustizia divina nell’eterno. Ma la risoluzione di queste perplessità teologiche, in una convinta accettazione del mistero e nel riconoscimento della corta vista dell’uomo, si riflette a sua volta in una più serena valutazione delle contraddizioni storiche, destinate a risolversi nel quadro di un disegno provvidenziale". Infatti la lezione teologica si conclude, attraverso il delicato tratto della similitudine della cicogna, nella calma ampiezza prospettica dei versi 97-99 e la rassegna dei principi si svolge tra il quietarsi dei lucenti incendi che formano l’aquila e le melodie di quelle aire luci all’inizio del canto seguente. L’animazione lirica, nello svolgimento del tema della predestinazione, giustifica l’interesse sempre rinnovantesi con cui si leggono i versi 40-90, a proposito dei quali occorre sottolineare una caratteristica: ben 29 versi sono dedicati all’introduzione, elaborata e concettosa, del problema, la cui spiegazione, ulteriormente rimandata, acuisce l’interesse e l’attenzione del lettore, benché questo esordio, martellando il principio dell’insufficienza dell’intelletto umano, anticipi la conclusione. E’ un procedimento psicologico-stilistico che fa affiorare un clima di attesa e di tensione (già impostato con l’ansiosa e ardente richiesta di Dante nei versi 25-33), poeticamente efficace a preparare la trattazione di un problema che è soprattutto un dramma storico (la condanna del mondo antico che non conobbe la fede) e che come tale fu sempre avvertito da Dante (nel Convivio e nella Monarchia), e a rilevare, per contrasto, la serena soluzione di esso: Dio opera sempre secondo giustizia e secondo amore. L’analisi del dato stilistico ci rende ancora più certi della straordinaria partecipazione affettiva del Poeta a quanto l’aquila viene dicendo. Il discorso impone subito la visione del mistero di Dio (versi 40-41) e quindi dell’impotenza della mente umana di fronte ad esso, concludendosi nella potente immagine del mare (versi 58-63). Allorché l’aquila entra nel vivo della questione, la sua lezione perde ogni rigidezza di schema logico e scolastico, sviluppandosi con il libero movimento di una forma concreta e determinata: un uom nasce alla riva dell’Indo... muore non battezzato... Il Poeta abbandona i titoli astratti di certi suoi discorsi teologici (si vedano, per esempio, i versi 19-21 del canto IV che aprono il discorso sulla volontà assoluta e relativa: tu argomenti: "Se ‘l buon voler dura, la violenza altrui per qual ragione di meritar mi scema la misura?") e scompone le sequenze logiche per seguire l’imprevedibile ordine poetico. La formulazione è condotta in modo drammatico attraverso lo scontro di domande (ov’è questa giustizia? ov’è la colpa sua...?) e la risposta al quesito diventa subito ammonimento (or tu chi se’...) che ribadisce - con il significato, con il suono, con il movimento dei versi - il senso del mistero divino, dal quale la lezione aveva preso inizio.


           

 

PARADISO CANTO XX

             

 

Dopo che l’aquila ha concluso il suo discorso sulla predestinazione, le anime dei giusti riprendono i loro canti finché dal collo dell’uccel di Dio sale un mormorio che diventa ben presto voce. L’aquila indica a Dante gli spiriti che formano il suo occhio e che godono il più alto grado di beatitudine nel cielo di Giove. Il primo è Davide, l’autore dei Salmi; il secondo è Traiano, che conobbe, come sarà spiegato più avanti, anche il mondo della dannazione eterna; terzo appare il re ebraico Ezechia che, giunto in punto di morte, ottenne da Dio di poter vivere per altri quindici anni; il quarto spirito indicato è Costantino, che trasferì la capitale dell’impero romano da Roma a Bisanzio; nella parte bassa dell’arco sopracciliare dell’aquila si trova Guglielmo II, re di Sicilia e di Puglia; l’ultimo è il guerriero troiano Rifeo. A Dante, che ha manifestato il suo profondo stupore nel vedere due pagani, come Traiano e Rifeo, partecipi della beatitudine celeste, l’aquila spiega che il primo fu salvato per le preghiere di San Gregorio Magno e il secondo perché, amantissimo della giustizia, ricevette da Dio il dono di conoscere la futura redenzione.Occorre dunque che gli uomini siano cauti nel giudicare quelli che sono dannati e quelli che sono salvi, perché neppure i locati conoscono ancora tutti gli eletti.

 

 

Introduzione critica

 

Nella lettura del canto XX si è tentati di isolare le pause lirico-descrittive dell’esordio e delle similitudini (singolarmente numerose), dissociandole dalla trama teologica del canto: se il Poeta si è concesso una pausa, analizziamo, dunque, questi momenti senza preoccupazioni di struttura e di dottrina. Il risultato potrebbe essere interessante al fine di meglio determinare certi aspetti della poesia intima, raccolta, musicale del Paradiso, poesia che ha sua base l’esperienza psicologica e stilistica del periodo dolcestilnovistico, ma impedirebbe di identificare gli specifici attributi poetici, la particolare verità, i caratteristici toni del canto XX. In esso ogni punta polemica si dissolve (anche il rimprovero rivolto agli incauti, che come donna Berta e ser Martino pretendono di conoscere il destino ultraterreno del loro prossimo, ha un tono fraterno), poiché la giustizia che ora il Poeta contempla non è più quella terrena, che i sovrani d’Europa sono incapaci di realizzare, ma quella divina che apre le porte del cielo anche ai pagani. Si conclude, nel canto XX, la ricerca, lungamente perseguita da Dante (si vedano le belle pagine ad essa dedicate da J. Batard nella sua opera Dante, Minerale et Apollon, pubblicata a Parigi nel 1952), di un accordo fra la libera volontà umana e la Grazia che preordina alla salvezza, fra le virtù naturali e le virtù sovrannaturali, cioè fra il mondo classico, che conobbe solo le prime, e il mondo cristiano che a queste conferì una vita trascendente unendole alla fede, alla speranza,alla carità La presenza di Traiano e di Rifeo nella rassegna degli spiriti giusti garantisce che la giustizia divina, avvolta nel mistero di una sapienza trascendente (secondo l’affermazione del canto XIX), opera con una misericordia che, per vie inaccessibili, modera ed equilibra il suo stesso rigore. Quel dramma che sconvolgeva la storia dell’umanità, opponendo un abisso incolmabile fra l’uomo rigenerato dal sangue di Cristo e l’uomo ingannato dagli dei falsi e bugiardi, si compone nella certezza di un amore, che ristabilisce l’ordine nel mondo. Nel canto XIX, con l’accettazione del mistero, l’ansia religiosa di Dante si era placata, ma quella serena disposizione interiore trova ora - di fronte alla misericordiosa giustizia di Dio, che viene incontro ad ogni umana speranza - le cadenze di un inno, che emergono nel trionfale preludio, nella mobile festosità delle luci, nell’osannare dei canti, nella ricchezza contemplativa delle similitudini, proprio in quegli elementi, cioè, che si vorrebbero isolare dal contesto del canto e che invece ne lievitano la calda e perorante intonazione. In questo canto, dunque, più ancora che nei due precedenti, Dante "dà rilievo all’esigenza duplice dell’anima medievale, la ricerca della giustizia da un lato e l’affidarsi alla fede dall’altro. Questa duplicità dello spirito dantesco è attratta in un’orbita superiore; non ha più il senso drammatico che ha il dissidio tra verità e fede nel canto di Ulisse, e in cospetto del divino si compone in scoperto equilibrio " (Malagoli). La stessa tecnica retorica applicata alla presentazione dei sei spiriti giusti - per ognuno due terzine e ogni blocco ternario perfettamente bilanciato rispetto agli altri, tanto puntuale nei dettagli e nella costruzione paratattica quanto variato nella presentazione biografico-spirituale risponde a questo fervido slancio unitaria, il quale spiega anche la scelta delle figure storiche chiamate a simboleggiare la sintesi fra giustizia umana e giustizia divina. Vogliamo qui ricordare il capitolo che il Renaudet, nel suo ponderoso studio sulle componenti dell’umanesimo dantesco, ha dedicato ai criteri di tale scelta, come esempio di certe esagerazioni alle quali può giungere una ricerca critica fondata unicamente sull’assunto simbolico. Premesso che l’aquila è l’emblema del " diritto eterno, fondato in Dio, servito e realizzato dai giusti" e che tale diritto "nasce dalla legge divina che subordina il governo degli uomini al rispetto di un principio rivelato", il Renaudet osserva che il posto d’onore nell’occhio dell’aquila è occupato da un rappresentante del mondo ebraico perché "al solo Israele fu rivelata fin dalle origini la legge di Dio". Traiano, che rappresenta "la saggezza della Roma imperiale... saggezza rischiarata dalla sola ragione e capace delle virtù umane", concede giustizia :alla vedovella "non per carità, virtù che ancora Roma disprezza, ma per il sentimento romano del dovere e secondo la regola della moderazione e della giustizia definita razionalmente nelle scuole filosofiche"; solo la Rivelazione aggiungerà a questo diritto la legge dell’amore. Con Ezechia compare il terzo elemento che- entra nella composizione del diritto eterno, "la coscienza della debolezza di ogni opera umana, l’umiltà che occorre alla giustizia degli uomini per esortarla a non ritenere infallibili i suoi decreti": perché la decisione ultima spetta solo a Dio. La storia dell’umanità raggiunge il suo momento centrale, la sua data fatidica, con Costantino, I’imperatore che con l’editto di Milano "ha fondato un accordo nuovo fra l’Impero e il Cristianesimo il diritto razionale di Roma e la rivelazione giudeo-cristiana, l’autorità romana e la carità ". Tale accordo è stato perfezionato nel Medioevo dal diritto feudale: nel suo rappresentante, Guglielmo II - simbolo di quel mondo aristocratico e conservatore al quale Dante è restato fedele (cfr. la trilogia di Cacciaguida) - "la nobiltà umana... era quella del sovrano, cosciente dei suoi doveri verso i vassalli". L’ultima anima della rassegna, Rifeo, rappresenta l’umanità eroica cantata da Omero e da Virgilio, la quale gettò le basi del diritto, prima ancora dei progressi del mondo greco e della fondazione di quello romano, con l’acquisizione Dei più importanti principi etici e con la percezione di alcune fondamentali verità religiose.


           

 

Divina commedia paradiso riassunto

 

PARADISO CANTO XXI

             

 

L’ascesa al cielo degli spiriti contemplanti, Saturno, avviene subito dopo che l’aquila formata dalle anime dei giusti ha terminato il suo discorso. Per la prima volta Beatrice non rivela con il suo sorriso l’avvenuto passaggio ad un cielo superiore, perché la potenza di tale sorriso avrebbe abbagliato completamente Dante. Nella settima sfera appare una scala luminosa la cui cima sembra toccare l’empireo. Le anime contemplanti scendono e salgono con ritmo incessante, ma una di esse resta accanto al Poeta e gli rivolge la parola, invitandolo a manifestare il desiderio che in questo momento occupa il suo animo. Due cose brama sapere Dante: perché proprio questo spirito si è fermato accanto a lui e perché in questo cielo i beati non innalzano alcun canto. Non solo nessuna mente umana - risponde lo spirito Interrogato - ma nessuna anima beata e neppure i Serafini, la gerarchia angelica più vicina a Dio, potranno mai spiegare i motivi che guidano il Creatore nella sua azione. Nessuno, quindi, potrà mai sapere perché solo determinate anime sono destinate a parlare con il pellegrino che sale attraverso i cieli. Quanto al silenzio dei beati di Saturno, essi tacciono per lo stesso motivo per cui Beatrice non ha sorriso: per non sopraffare le deboli facoltà umane di Dante. Ad una nuova domanda del Poeta questo spirito rivela di essere San Pier Damiano. Parla poi della propria vita, che trascorse nella solitudine e nella contemplazione nell’eremo camaldolese di Fonte Avellana, finché fu nominato cardinale e costretto a ritornare nel mondo. Contro la decadenza degli ordini monastici e la corruzione della Chiesa San Pier Damiano lancia una dura invettiva, alla quale tutti i beati del settimo cielo rispondono per manifestare il loro plauso - con un altissimo grido.

 

 

Introduzione critica

 

Occorre individuare, nello svolgimento del canto XXI, la presenza di due piani tematici sapientemente uniti fra di loro. Il motivo della solitudine e dell’estatico raccoglimento - che dovrebbe essere proprio del cielo degli spiriti contemplanti - non trova la sua figurazione concreta nel personaggio presentato, che è, anzi, una fra le figure storiche più attive e impegnate del mondo religioso medievale, ma è affidato ad elementi in apparenza secondari: la figura assorta di Beatrice, il silenzio assoluto delle anime, la scala luminosa che si innalza vertiginosamente verso l’alto, la visione dell’abisso divino nel quale ogni terrena indagine necessariamente si perde. Se è vero che tali elementi costituiscono solo lo sfondo e lo scenario del cielo di Saturno, è altrettanto vero che senza di essi la figura del protagonista perderebbe gran parte della sua forza morale e poetica. Infatti anche qui, come nel cielo di Giove (cfr. l’introduzione critica del canto XIX), " la situazione è sentita drammaticamente: ché da un lato, nel concetto di Dante, la contemplazione e l’ascesi sono premessa e guida alla attività apostolica; dall’altro, nel concreto sviluppo della sua psicologia, costituiscono l’approdo estremo, faticosamente raggiunto, di una dura esperienza terrestre" (Sapegno), per cui nell’episodio di Pier Damiano "il misticismo è puntualmente risolto in operoso zelo di riforma e la santità ascetica è sigillo d’autorità ai fieri giudizi polemici sui tralignanti istituti monastici e sulla curia corrotta ".Un altro attento lettore di questo canto, il Getto, ha accostato l’episodio di Pier Damiano a quelli di San Francesco e di San Domenico. interpretandoli come esemplificazioni dell’eroica e combattiva volontà di perfezione di Dante, come "suggestivi emblemi del sentimento dell’ascesi proprio del Poeta". In questo episodio l’animazione lirica è da ricercarsi nella convinta affermazione di una prassi religiosa, "nel gusto dichiarato dell’aspra ascesi, dell’energia morale, dell’alacre forza interiore, della virilità gagliarda dello spirito che innalza un ideale e per esso combatte. Celebrazione dell’eroismo religioso e ascetico, che illumina di più rivelatrice evidenza la religiosità di Dante, che sa l’ebbrezza del contemplare e l’asprezza dell’agire ". San Francesco, San Domenico, San Pier Damiano non sono personaggi e temi poeticamente persuasivi per quel che immediatamente dicono, per il loro contenuto psicologico e storico: per Dante essi sono modelli di vagheggiata perfezione e la sua poesia non celebra tanto le loro figure storiche quanto "il piacere dell’anima assetata di perfezione nell’accostarsi a questi umani esemplari". Anche se il Getto tempera subito dopo il suo giudizio, affermando che è pur sempre presente un’effettiva "volontà di dire poeticamente il fascino" di queste vite di santi, la sua posizione ci sembra contenere un grosso pericolo: quello di concentrare l’attenzione del lettore solo sul valore simbolico del personaggio o dell’episodio, distogliendolo dall’individuarne il valore umano e poetico. Valori che, invece, sono stati magistralmente esaminati dal Cosmo. Secondo l’illustre critico non sono gli aspetti della vita ascetica quelli che attirano Dante, bensì la forza morale che rivela il protagonista, per cui l’accento non cade sulL’ermo, che suole esser disposto a sola latria o sui cibi di liquor d’ulivi o sui caldi e geli sopportati lievemente, ma sul fatto che egli è contento ne’ pensier contemplativi. "Ciò che Dante sentiva ed ammirava del Damiano era essenzialmente la forza morale. L’essere di lui non è nella penitenza, ma nell’animo onde la sostenne... La asprezza del luogo in cui visse è descritta con tanto compiacimento perché metta in risalto la sua virtù: " quivi egli si fè fermo al servizio di Dio ‘’ ".Proprio dall’ammirazione per questa forza morale deriva il tono tutto particolare della breve biografia di Pier Damiano, la quale, pur sviluppandosi solo per 14 versi, durante il terzo sermo pronunciato dal Santo, è fra le più vibranti e le più concluse del Paradiso; soprattutto è fra le meglio individuate, perché qualunque possa essere l’intento morale che guida il Poeta nel tracciare il profilo dei personaggi della terza cantica, mai egli perde di vista la loro realtà storica e la necessità di definire, al di là del compito morale o religioso ad essi affidato, i tratti salienti della loro psicologia, i motivi centrali della loro vita. Un breve accenno al monastero sperduto nel silenzio dei monti e celato dietro la vetta del più alto di essi, pone subito un distacco totale fra il mondo e il santo eremita: surgon sassi... e fanno un gibbo. Qui l’uomo vive solo nel pensiero e nel culto di Dio. In questo religioso isolamento il tempo è in funzione solo del servigio di Dio, scandito solo dai pensier contemplativi, davanti ai quali passano in secondo piano tutte le più rigide pratiche ascetiche. Ma alla visione di questo chiostro che preparava una "fertile" messe per i cieli, si sovrappone ben presto la visione di ciò che esso è diventato: un luogo vano sul quale la vendetta di Dio non tarderà ad abbattersi. Nella pace del monastero l’uomo ha trovato la sua strada, ma l’umiltà di colui che volle sempre essere chiamato Pietro Peccator è totale, come la sua ubbidienza. Davanti ai bisogni della Chiesa e all’invito del pontefice, Pier Damiano, ormai vecchio, abbandona il suo eremo senza indugio né incertezza. "È il momento che il monaco entra nella grande vita, e questo soprattutto il Poeta vuole mettere in luce di lui: l’uomo dalla vita contemplativa uscito all’attività delle alte prelature." (Cosmo).


PARADISO CANTO XXII

             

 

Beatrice spiega al suo discepolo che il grido innalzato dalle anime del cielo di Saturno dopo l’invettiva di San Pier Damiano era una preghiera per invocare la punizione divina sulla corruzione della Chiesa e lo invita a rivolgere di nuovo la sua attenzione ai beati della settima sfera. Uno di essi, San Benedetto da Norcia, il fondatore del monachesimo occidentale nel VI secolo, dopo aver ricordato la famosa abbazia di Montecassino da lui fondata, indica a Dante le anime di due monaci, Macario e Romualdo. Allorché il Poeta chiede a San Benedetto di poterlo vedere nella sua figura umana, che ora è velata dalla luce che la circonda, il beato risponde che ciò sarà possibile solo nell’Empireo, dove tutti i desideri potranno essere appagati. Inizia poi - da parte del santo monaco - una fiera invettiva contro la corruzione dei suoi seguaci, che hanno abbandonato la pratica della regola benedettina. Dopo che i beati del cielo di Saturno sono ascesi, in un vortice di luce, all’Empireo, Beatrice spinge Dante a salire la scala sulla quale erano apparse le anime contemplanti. I due pellegrini entrano così nell’ottavo cielo, quello delle stelle fisse, e si fermano nella costellazione dei Gemelli, sotto il cui influsso Dante è nato. Invocata la protezione di queste gloriose stelle per il difficile compito che lo attende (rappresentare la visione finale del paradiso), Dante, per esortazione di Beatrice, volge lo sguardo verso il basso, allo scopo di misurare il cammino fin qui compiuto. Gli appaiono così sette pianeti e, in fondo, poco più grande d’ un punto, la terra.

 

Introduzione critica

 

L’invettiva di Pier Damiano contro la degenerazione della Chiesa non è sembrata sufficiente a Dante, il quale non esita mai a ritornare su uno stesso tema, qualora lo ritenga essenziale per i destini dell’umanità, sviluppandolo con invenzioni narrative, descrittive, dialogiche che eliminano ogni pericolo di ripetizione e di monotonia. Nella terza cantica i problemi della Chiesa costituiscono certamente uno dei nuclei più importanti e più vitali della meditazione di Dante. Alla base di tutta la Commedia è la consapevolezza che la vita del credente è nella vita della Chiesa, è partecipazione ad un destino comune che si svolge nel cammino di tutta la città terrena verso il regno di Dio: la fede di Dante è di ordine sociale e si riflette nell’interesse del singolo individuo per la salvezza di tutta l’umanità. Tuttavia la Chiesa nella sua storia, nella sua drammatica vicenda terrena, nell’eroismo o nella bassezza dei suoi rappresentanti è entrata come protagonista solo negli ultimi canti del Purgatorio attraverso la grandiosa processione del paradiso terrestre, nel momento in cui (si noti l’importanza di questo fatto) Beatrice riappariva, come "figura" di Cristo, agli occhi del Poeta. Ma là la realtà della Chiesa era espressa in movimenti e forme simbolici (l’albero, il carro, il grifone ecc.), e tali essi rimanevano, pur nella loro ricca e vibrante drammaticità: quanto il pellegrino ha contemplato sulla montagna del purgatorio è stata una rapida visione allegorica delle cadute e delle altezze della Chiesa; quanto il pellegrino contempla attraverso i cieli paradisiaci sono i problemi essenziali della Chiesa, il suo modo di essere sulla terra, il suo modo di procedere verso il mondo sovrannaturale, il suo modo di agire, come società divina, attraverso poveri, peccatori rappresentanti. Tale contemplazione si traduce in un’alta, accorata, insistente protesta contro le deviazioni morali della sposa di Cristo. Il Getto ha puntualizzato con molta chiarezza la prospettiva nella quale Dante vede la Chiesa, osservando che " non è la Chiesa corpo mistico di Cristo, che occupa l’orizzonte speculativo e fantastico del Poeta. Questa ariosa prospettiva teologica, che aveva avuto in San Paolo il suo grande celebratore, rimane estranea alla poesia di Dante. Per lui la Chiesa è la Chiesa visibile, la Chiesa gerarchica... insomma il pathos delle somme chiavi quello che soprattutto commuove l’animo del Poeta...". Tutto ciò significa, in altre parole, la presenza continua, nell’alto dei cieli, dell’attualità terrena. Essa, nel canto XXII, si estrinseca, oltre che nell’invettiva di San Benedetto, nel comportamento stesso del grande fondatore del monachesimo occidentale e nella visione finale dell’aiuola che ci fa tanto feroci. Anche la figura di San Benedetto, come quella di San Pier Damiano, lungi dall’essere ridotta a mero simbolo di quella che dovrebbe essere, secondo Dante, la vera vita del cristiano (sintetizzata nella formula benedettina ora et labora), è lucidamente individuata dal Poeta: pur avvolto nello splendore abbagliante della sua luce, ci appare ancora la figura tutta pervasa di sollecitudine vigile, comprensiva, soccorrevole dell’abate benedettino, quale si riflette nei settantatre capitoli della sua Regola. E mentre la dura figura del cardinale Pier Damiano continuava anche nel cielo la sua fiera battaglia per la riforma della Chiesa e, come nei suoi scritti, inveiva contro la corruzione e il fasto insolente del clero, sognando di restituire alla Chiesa la primitiva purezza, lo sguardo di San Benedetto si volge, con accorato dolore, ai suoi monaci che stanno soccombendo nella lotta contro i falsi beni del mondo. Anche quando il tono della sua voce sembra farsi violento (versi 76-84), il suo rimprovero non sale alla satira e al sarcasmo, ma " si tiene nel tono di un rammarico, in cui, se è vibrato il disgusto, manifesto è anche il dolore di veder dispregiato ciò che egli ama e sentir dispersa la gioia delle anime infiammate dello stesso ideale e premiate della stessa beatitudine" (Chiari). Per questo egli non invoca la vendetta divina, ma il soccorso misericordioso (versi 94-96): in questa ultima terzina, oltre che nella terzina 85, è tutta la diversa tonalità spirituale dell’invettiva di San Benedetto rispetto a quella di San Pier Damiano. Dopo le aspre immagini dei versi 76-84 l’ira e lo sdegno non continuano, trattenuti dalla dolorosa constatazione che le lusinghe della carne sono una comune sventura. E’ lo stesso accento con il quale Dante ha confessato a Beatrice di essersi lasciato trascinare dalle presenti cose col falso lor piacer (Purgatorio XXXI, 34-35), o ha invocato le preghiere dei beati per il mondo sviato (Paradiso XVIII, 124-126) o piangerà le passioni umane (Paradiso XXVII, 121-123). Questi versi perdono ogni durezza di suono, ogni violenza d’immagine, mentre la chiarezza dello sguardo si accompagna, nei versi 85-87, ad un certo abbandono ritmico, ad un’accorata cadenza che non giudica e non colpisce. Se la partecipazione di tutti i beati del settimo cielo all’invocazione di Pier Damiano ha confortato l’animo con l’annuncio della prossima liberazione della terra dal male, l’attesa dell’Empireo (versi 61-67) e la visione della scala che varca gli spazi per proiettarsi in Dio (versi 68-69), lo rassicurano sull’approssimarsi della catarsi. Infine una biblica ascensione riporta all’Empireo le anime dei contemplanti che erano discese incontro a Dante, ricostituendo la coralità del Paradiso dopo i due momenti individuali di Pier Damiano e di Benedetto: "questa folata di beati - conclude il Momigliano - che prorompe verso l’Empireo, disegnata con una travolgente precisione di parola, è come un impetuoso preludio alla grandiosa azione scenica del canto XXIII".


           

 

PARADISO CANTO XXIII

             

 

Rivolta verso la parte orientale del cielo, Beatrice si prepara ad assistere allo spettacolo del trionfo di Cristo e dei santi del paradiso. La figura di Cristo appare come un sole dalla luce sfolgorante che illumina sotto di sé migliaia di altri splendori, i beati. Abbagliato da questa visione, il Poeta cade in un mistico rapimento, dal quale lo riscuote Beatrice per invitarlo a guardarla in tutto il fulgore della sua bellezza: ormai le forze visive ed intellettuali di Dante ne possiedono la capacità. La bellezza di Beatrice è così grande che il Poeta, ancora una volta, è costretto a procedere oltre senza descriverla. Esortato dalla donna amata Dante distoglie il suo sguardo da lei per volgerlo allo spettacolo che gli presenta l’ottavo cielo. Appare così la figura della Vergine Maria, circondata dagli apostoli. Mentre Cristo risale verso I’Empireo per non abbagliare ancora la vista di Dante, una luce discende dall’alto per disporsi, in forma di cerchio, intorno alla Vergine. E’ l’arcangelo Gabriele, che innalza un inno di lode a Maria, imitato subito da tutti i beati. In un secondo momento anche la Vergine, seguendo il Figlio, ascende all’Empireo, mentre la luce dei singoli beati si protende verso l’alto, quasi volesse seguire la rosa in che il verbo divino carne si fece. Il canto del "Regina coeli" chiude quest’ultima visione.

 

 

Introduzione critica

 

Secondo il Momigliano, a partire dai colloqui con Cacciaguida fino al termine del canto XXVII, ci troviamo di fronte a una serie di ben coordinati motivi (celebrazione della giustizia nel cielo di Giove, salita nella costellazione dei Gemelli, visione del trionfo di Cristo, della Vergine, dei beati e triplice esame sulle virtù teologali) che mirano alla celebrazione dell’ascesa che ha sollevato il pellegrino sulle miserie della terra e alla consacrazione della sua dignità a salire alla presenza di Dio. Tuttavia il centro di questo ampio giro di scene e di avvenimenti è il canto XXIII, nel quale la consacrazione di Dante è resa mirabilmente solenne dal trionfo di Cristo e di Maria alla presenza di tutte le schiere del paradiso. Questo momento particolarissimo della vicenda spirituale del Poeta non può non richiamare, per complessità di motivi, per altezza e sincerità d’intonazione, un altro momento, ugualmente importante, ugualmente decisivo: quando, nel paradiso terrestre, Beatrice rivolge a Dante l’aspro rimprovero per il suo passato traviamento e Dante, riconosciutosi colpevole, ottiene, alla presenza della Chiesa trionfante, il perdono definitivo e quindi la possibilità di accedere alla gloria celeste. Orchestrato sullo spettacolo che si rivela a Dante nel cielo ottavo, il canto XXIII ha uno sviluppo prevalentemente visivo (quasi una mistica scenografia), nel quale si traduce l’esperienza dell’anima che, opposta alla visione di Cristo, della Vergine, di tutti i beati del paradiso, sperimenta il suo trasalire e il suo venir meno davanti all’ineffabile. All’intensità di queste emozioni fa riscontro, nel Poeta, una stupefatta e smarrita adorazione (versi 42-45; 58-60) e una momentanea rinuncia a qualsiasi volontà espressiva (versi 61-63). A proposito di quest’ultimo fatto si impone un rilievo necessario: le proteste d’impotenza descrittiva da parte del Poeta non sono semplici modi retorici, o, come vorrebbe il Croce, inutili "iperboli negative", ma si caricano di un profondo valore emotivo - gioia e ansia dell’inesprimibile, sgomento della parola che non dice - e culturale. Infatti alle spalle di queste espressioni c’è tutta una "mistica negativa" che, a partire da San Paolo, attraverso la patristica latina (ad esempio Sant’Agostino) e quella greca (ad esempio lo Pseudo-Dionigi l’Areopagita) fino al mondo medioevale, testimonia questo atteggiamento particolare del cuore e dell’intelletto: di Dio si può parlare solo per via indiretta, attraverso il riconoscimento dell’impossibilità di parlarne. Tale riconoscimento, tuttavia, non comporta, per Dante, una rinuncia assoluta e definitiva, bensì uno sforzo "epico" per conferire una voce, e una voce poetica, a una sovrumana esperienza della propria anima. Per ottenere questo risultato Dante - e lo svolgimento del canto XXIII lo dimostra ampiamente - aveva a sua disposizione un ricco linguaggio metaforico e analogico, anche questo collaudato da una lunga tradizione di mistici e teologi. Il momento in cui l’anima "s’india" nella gloria è cantato - spiega il Getto - "attraverso un perpetuo soccorso di simboli, i quali, lungi da ogni artificiale e intellettualistico allegorismo e sull’autorizzazione delle spontanee metafore della teologia e della mistica, si muovono lungo un’ideale tastiera che va dalle spirituali emozioni relative alla vita dell’intelligenza, alle verità corporee delle figure della luce e del cielo, dei fiori e delle più pure parvenze della terra, ai sensi fantastici della musica e della bellezza, del moto e dell’abisso". Per questo non è possibile definire il canto XXIII solo suggestivo e paesistico come può sembrare a critici di sensibilità crepuscolare, poiché ogni immagine è rigorosamente pensata e costruita. Per il Vossler, ad esempio, il trionfo di Cristo sarebbe simile ad un suggestivo e tempestoso fenomeno naturale, che ha la solennità di una cerimonia sacra, " una festa vertiginosa di luci, di voci, di melodie, di quadri e di pensieri che nei rapidissimi mutamenti non riescono ad attuarsi in forma, una magica fantasmagoria che si può dichiarare in parole, ma non descrivere né farne altri partecipi". Per controbattere tale posizione, basti pensare che per due volte la rappresentazione di Cristo trionfante è resa perspicua mediante la spiritualizzazione di fenomeni naturali (quale ne’ pleniluni sereni... come a raggio di sol che puro mai), il secondo dei quali appare legato ad una osservazione fin troppo attenta e precisa, freddamente analitica. Ma proprio in questi due momenti il Poeta corona il suo sforzo di comunicare, se non una diffusa rappresentazione dell’ineffabile, almeno l’eco, la vibrazione sentimentale che esso suscita nell’animo. Il sentimento che accompagna Dante in questo canto è un’ebbrezza di godimento e di gioia, una gioia fisica e spirituale nello stesso tempo, di fronte a quanto con la battaglia de’ debili cigli egli può osservare e con l’entusiasmo della sua anima può gustare. Secondo il Croce questa luce e questa gioia che il Poeta vorrebbe pensare e rappresentare sono così pure, perfette e sante, così assolute, che si convertono in astrattezza e, come tali, non possono né essere pensate né essere rappresentate. A questa affermazione, che non solo impedisce di afferrare la profonda poesia del canto XXIII, ma preclude la comprensione di tutto il Paradiso, ha risposto egregiamente il Santini: "la luce che illumina il canto non è puro simbolo come altrove. Essa va dal dolce crepuscolo dell’alba e di pleniluni sereni in una notte tempestosa di stelle al fulgore di migliaia di lucerne, al raggio luminosissimo che piove dall’alto, a infiammati candori in immenso armonico disegno dipinto dalla fantasia del Poeta. Se la vista se ne abbaglia, se trema l’omero di Dante sotto il poderoso tema, nulla sen perde dell’effusione di gaudio, che sa valorizzare con arte sovrana dolci ricordi terreni, luci di finestre a rosa di cattedrali gotiche, ampie fiorite primaverili e quanto di più luminoso e prezioso v’ha nell’aiuola terrena".


           

 

PARADISO CANTO XXIV

             

 

Alle anime che hanno accompagnato l’apparizione di Cristo nel cielo delle stelle fisse, Beatrice chiede di rivelare a Dante una parte della sapienza divina che esse possiedono. Poiché uno dei beati - San Pietro - è uscito dalla sua schiera per farsi incontro ai due pellegrini, Beatrice lo prega di interrogare Dante intorno alla prima delle tre virtù teologali, la fede. Il Poeta inizia il difficile esame davanti al principe degli apostoli rispondendo prima di tutto alla domanda: che cos’è la fede? Dopo aver richiesto alcuni chiarimenti relativi alle risposte ricevute, San Pietro esorta Dante a dichiarare se egli possiede o meno la fede. Ottenuta una risposta affermativa, il Santo interroga il Poeta intorno alle fonti dalle quali deriva la prima virtù teologale. Dopo che, concluso positivamente l’esame, tutti i beati hanno innalzato il canto del " Te Deum laudamus ", San Pietro esige da Dante una solenne professione di fede, al termine della quale l’apostolo manifesta la propria soddisfazione circondando per tre volte il Poeta con la sua luce e benedicendolo.

 

 

 

Introduzione critica

 

La presenza di una situazione d’esame quale quella che si viene creando nei tre canti dedicati alle virtù teologali è determinata dalla struttura stessa della Commedia, struttura che si configura come rapporto continuo e diretto fra maestro e discepolo: Dante-Virgilio, Dante-Beatrice, Dante-Stazio (o Marco Lombardo o San Tommaso ecc.). Perciò parlare di "esame" a proposito di un canto della Commedia è parlare di uno degli aspetti fondamentali di essa. Tuttavia in questi canti il Poeta ricorre addirittura all’interrogatorio e alla risposta scolastica, costruendo un vero e proprio "ambiente" di esame, dove il maestro avanza le sue domande e le sue obiezioni e il discepolo risponde e difende, controbattendo, le sue posizioni. Ciò significa che in questi canti l’io-personaggio di Dante avanza in primo piano, polarizzando ogni attenzione. Se è vero che ogni artista considera la sua opera come realtà e che in ciascuna opera si riflette appieno la personalità del suo autore, bisogna rilevare che con la Commedia ci troviamo di fronte a un caso diverso, perché Dante non solo scrive il suo poema, ma ne è anche il personaggio protagonista, il quale si muove, parla, discute e sente alla maniera di tutti gli altri personaggi che, derivati dal mondo del mito o della storia, immagina di incontrare sul suo cammino. Tuttavia, nel Paradiso, Dante-personaggio appare sempre più come figura centrale, nella quale convergono discorsi sentimenti, visioni, laddove nell’Inferno (in misura molto minore nel Purgatorio) la sua figura appariva circondata e posta in antagonismo con quella degli altri protagonisti. Questa precisazione permette di rilevare una delle caratteristiche dei canti XXIV, XXV, XXVI: la profonda immedesimazione di Dante nella visione e nella vita del mondo paradisiaco, per cui egli diventa in questo momento l’unico attore responsabile (le figure dei tre apostoli appaiono generiche e indeterminate: è il proprio personaggio, studiato in ogni suo atteggiamento e in ogni sua reazione psicologica, che interessa al Poeta in questo momento; i tre grandi dignitari del regno celeste - la cui vita terrena, che li ha preparati a quella dignità, non ha bisogno di una rappresentazione che dia loro una nuova forma - servono solo per impostare l’azione e il dialogo, dei quali è centro il personaggio Dante). Sbaglierebbe però chi cercasse nel canto XXIV (o nei due immediatamente seguenti) una lirica pura, una confessione abbandonata dell’animo che ripercorre le tappe della sua vicenda religiosa, perché la solennità dell’ambiente circostante (sono presenti tutte le schiere del trionfo di Cristo), l’alto grado nella gerarchia celeste dell’interlocutore, San Pietro, il rigore filosofico della dissertazione, il "Te Deum laudamus" cantato dalle anime alla fine dell’esame, la triplice incoronazione di Dante da parte dell’apostolo alla conclusione della professione di fede, sono elementi non solo che concorrono ad accentuare l’importanza di questo momento nell’economia generale della cantica, ma anche a consacrarne il significato universale. La corte celeste non si è riunita solo per ascoltare Dante e il principe degli apostoli non ha lasciato la sua schiera solo per interrogare Dante, ma per ascoltarlo e interrogarlo come simbolo di tutta la umanità redenta prima che essa si accosti alla visione finale di Dio, e per imporgli, dopo aver ricordato che Scipione l’Africano per volere della provvidenza difese a Roma la gloria del mondo, di riferire al mondo quanto egli ha lì udito e appreso (canto XXVII, versi 61-66). Il compito di Dante non è destinato a cristallizzarsi allorché il pellegrino è giunto nell’alto dei cieli, ma prosegue tornando dal cielo alla terra, dove la sua scienza e la sua poesia risuoneranno con parole umane, e tuttavia piene di assolutezza divina; è una missione che lo pone "medium tra finito e infinito, maestro eroico della logica sublime che insegna il termine assoluto d’ogni vicenda relativa" (Ramat).La lettura, in questa linea prospettica del canto XXIV, permette di invalidare il giudizio critico del Croce, il quale ritiene di trovarsi di fronte a una scena "affatto umana": un uomo illustre, un gran dotto, bonariamente interroga un fanciullo su cose elementari. E bonariamente, e incoraggiando, San Pietro comincia: di’, buon cristiano, fatti manifesto: fede che è?... E il fanciullo, alquanto timido, si rivolge verso colei che gli è maestra, ed ella lo esorta col cenno del sembiante: perch’io spandessi l’acqua di fuor del mio interno fonte. Le risposte del bravo ragazzo sono una per una approvate e lodate dall’esaminatore, che a ogni risposta fa seguire una nuova domanda, col desiderio che quegli si faccia sempre più onore; mentre il candidato sale via via dalla timidezza alla sicurezza e dal rispondere secondo la lezione appresa all’eloquenza entusiastica e personale: quest’è il principio, quest’è la favilla che si dilata in fiamma poi vivace, e, come stella in cielo, in me scintilla. Al che... San Pietro, il buon esaminatore, ricinge Dante tre volte del suo lume... e il candidato è tutto lieto, soddisfatto di sé: sì nel dir gli piacqui!" Inoltre con questo suo giudizio il Croce contraddice quanto ha affermato a proposito del valore poetico dei canti di contenuto teologico: in essi la sorgente della poesia sarebbe nel sentimento di gioia dell’insegnare e dell’apprendere, " nel godimento di un’intima luce, meno inebriante ma più calma e ferma di quella che lo avvolge e abbarbaglia" di fronte alle ultime visioni paradisiache. Il Getto, tuttavia, ha superato tale posizione crociana, affermando che il carattere poetico di queste pagine del Paradiso è in uno stato d’animo tutto particolare, che egli ha definito "gusto della teologia": nell’interesse e nella passione con cui Dante si accosta al destino divino dell’uomo, alla sua dignità sacra, alla garanzia di una immortalità vera, alla vita dello spirito.


           

 

PARADISO CANTO XXV

             

 

Dal gruppo dei beati, dal quale si era già staccato San Pietro, esce un’altra luce, quella di San Giacomo apostolo, che interrogherà Dante intorno alla seconda virtù teologale: la speranza. Tre sono i quesiti che il Santo sottopone al pellegrino: che cos’è la speranza, in che misura la possiede, quali sono le fonti dalle quali l’ha ricevuta. Alla seconda domanda risponde subito Beatrice: nessun appartenente alla Chiesa militante spera con più intensità del suo discepolo. Agli altri due quesiti di San Giacomo risponde invece lo stesso Dante, e ogni sua affermazione si fonda su salde conoscenze teologiche. Il Poeta si sofferma particolarmente su ciò che promette la seconda virtù teologale: la risurrezione del corpo, il quale dopo il Giudizio Universale si ricongiungerà per l’eternità all’anima. Concluso il secondo esame di Dante, una voce, che proviene dall’alto, canta il versetto di un salmo davidico ("Sperent in te") e tutti i beati dell’ottavo cielo rispondono in coro. Infine una terza luce si avvicina a quelle di San Pietro e di San Giacomo: appare l’apostolo San Giovanni, al quale è affidato l’incarico di interrogare Dante sulla carità. Prima, però, San Giovanni nega di trovarsi in paradiso anche con il corpo, come vorrebbe una tradizione accolta da molti scrittori medievali.

 

Introduzione critica

 

Un’imponente cultura teologica, che attinge alla Scrittura, alla letteratura patristica e alla Scolastica, sorregge il contenuto della terza cantica. La teologia di Dante è la teologia dogmaticamente definita, che accetta nel suo insieme tutto il complesso di articoli della fede che la Chiesa impone di credere, ma presenta anche un carattere "personale" (che non ne infirma certo la validità), essendo il Poeta portato, dal suo temperamento e dalla sua personalità, ad insistere su un dogma piuttosto che su un altro, a mettere in rilievo determinati rapporti fra le verità di fede, a sottolineare determinate conseguenze che da queste derivano. Intervengono, cioè, nella sua prassi religiosa - e perciò nella sua poesia - motivi preferenziali dettati da una partecipazione sentimentale più o meno intensa: la meditazione della vita dell’anima come movimento ascensionale che ha per suo termine Dio infinito, come dinamico sviluppo che si concluderà nella gloria celeste, è il motivo teologico che raggiunge in Dante un rilievo essenziale, presentandosi come sintesi di tutta la sua spiritualità. L’appassionata celebrazione di questa meditazione è l’animato sfondo poetico del Paradiso, che è l’"epos della vita interiore come esultanza dello spirito elevato verso le cime vertiginose della partecipazione al Dio della gloria e dell’eterno" (Getto) e che appare, perciò, pervaso "da un sentimento unico, da un entusiasmo ben definito, da un clima affettivo uguale e preciso". A questo tema fondamentale - la dignità dell’uomo e il suo destino di gloria come figlio di Dio - è strettamente legato un motivo teologico al quale Dante ha già dedicato uno dei canti più belli del Paradiso, il XIV: il motivo della risurrezione dei corpi, la quale perfezionerà il destino di gloria e di beatitudine delle creature. Proprio la risurrezione dei corpi è posta, nel canto XXV, come oggetto della speranza Non solo per questo il canto che stiamo esaminando è fondamentale al fine di capire la personale accentuazione che Dante conferisce alla teologia del suo Paradiso. Se l’esposizione intorno alla fede impegna a fondo le capacità intellettuali e il sapere teologico di Dante (che paragona se stesso al baccellier in attesa dell’esame), quella intorno alla speranza trova il Poeta pronto ad una partecipazione affettiva più profonda. "La speranza è in verità la sua stessa vita. Tutta la sua opera, la sua attività politica, la sua poesia sono nate dalla aspettazione, dall’anelito più ardente verso la pace, la restaurazione. Il poema è la voce della speranza: per una doppia via: perché con esso Dante spera di vincere la crudeltà dei propri concittadini e di essere chiamato, coronato in patria, e perché con esso egli pensa di avviare il processo di riscatto della umanità traviata. In effetti all’inizio del canto - la cui prima parola o, diremmo, la cui chiave, è se - egli dice questa speranza del ritorno in parole commosse, piene di alta fede. Le due speranze sono in qualche modo connesse nel suo animo." (Montano)Così la definizione teologica della speranza (uno attender certo della gloria futura...) si colora delle personali aspirazioni di Dante uomo e poeta, è possentemente nutrita dalla sua coscienza di uomo di giustizia, di interprete del vero, di maestro di spiritualità, mentre il canto acquista la scioltezza e la varietà di una libera conversazione, laddove l’esame della fede si è svolto attraverso una rigida e rigorosa concatenazione di domande e risposte. Scompare anche l’intonazione drammatica che ha contraddistinto il dialogo con San Pietro (la conquista della verità è apparsa, ancora una volta, come una dura lotta dell’intelletto contro difficoltà, obiezioni e contraddizioni di ogni genere): ormai certo che la fede è sostanza di cose sperate, l’animo gioisce nell’attender certo della gloria futura e della dolce vita del paradiso. La lettura del canto XXV può, perciò, fare cadere facilmente l’accusa di astrattezza che la critica romantica ha addensato sul Paradiso o quella di assurdità poetica perché esso vorrebbe essere una rappresentazione del trascendente di cui l’uomo, finché resta sulla terra, non può avere esperienza. Lo stesso De Sanctis, che per primo aveva avanzato quelle accuse, tentava, in un secondo momento, di salvare la poesia della terza cantica cercandola nelle immagini e nei sentimenti terreni che la pervadono (con questa posizione concordava sostanzialmente anche il Croce), per cui la monotonia del Paradiso si disperderebbe solo quando lo sguardo del Poeta si volge verso la terra (allora "il Paradiso si trasforma in una tribuna dalla quale si ammaestra e si riprende; l’ordine divino diviene come tipo e modello delle cose umane") e la teologia assumerebbe valore poetico solo quando viene "rappresentata" e "calata in un contenuto perfettamente determinato" con immagini Tuttavia anche questo contenuto poetico resta, per il De Sanctis, "troppo vuoto di umanità. Dio, gli angeli, i santi, le intelligenze rimangono in un oscuro indeterminato", perché l’Amore entusiastico della pura scienza" troppo spesso prevale e portando il Poeta "negli aridi campi della mistica gli fa dimenticare la terra". Ma il canto XXV dimostra che da ben altra fonte nasce la poesia del Paradiso: da una personale, umanissima meditazione teologica, che, prendendo l’avvio da una sofferta esperienza personale, sale ad illustrare quei momenti " in cui l’anima trema ed esulta nella parentela nuova che con Dio istituisce" (Getto). Perché la speranza terrena - alla quale il Poeta ha affidato le sue più eroiche aspirazioni, il suo bisogno, che è quello di tutte le creature, di dilatarsi nel tempo e nello spazio diviene generatrice di sterili illusioni, immette l’uomo nel cerchio chiuso di un immanentismo destinato a tradirlo e a beffarlo continuamente, se non viene collegata alla speranza sovrannaturale, a quella speranza, cioè, che ha come suo fine e come suo appagamento Dio.


PARADISO CANTO XXVI

             

 

Dante, in uno stato di momentanea cecità perché la sua vista è rimasta abbagliata dalla luce di San Giovanni, viene interrogato dall’Apostolo intorno alla carità. Principio e fine del suo amore - risponde il Poeta - è Dio. Infatti l’uomo è portato, naturalmente, ad amare ciò che è buono e il suo amore è tanto più grande quanto più è perfetto il bene verso il quale è diretto. Dio è il bene supremo: dunque a Lui è dovuto ogni amore. Queste continua Dante - sono le conclusioni alle quali è arrivata la filosofia di Aristotile e questo è il comandamento impartito dalla Bibbia. Rispondendo ad un’altra domanda dell’Apostolo, il Poeta dichiara che la sua carità trova alimento anche da altre fonti: dall’esistenza del mondo e delle creature, dal sacrificio di Cristo per riscattare gli uomini dal peccato, dalla speranza della beatitudine eterna. Legato all’amore verso Dio - conclude il pellegrino - è l’amore verso le creature. Mentre tutti i beati intonano un inno di lode a Dio, Dante riacquista la vista e si accorge che accanto a San Pietro, San Giacomo e San Giovanni è comparso un quarto personaggio. Beatrice rivela al suo discepolo che questo beato è Adamo. Il padre antico, per soddisfare una preghiera di Dante, risponde a questi quattro quesiti; quanto tempo è trascorso dalla creazione dell’uomo, per quanto tempo egli è rimasto nel paradiso terrestre, quale è stata la natura del peccato d’origine, quale la lingua creata e usata dal primo uomo.

 

 

Introduzione critica

 

Il XXVI non è uno di quei canti che si impongono immediatamente all’attenzione del lettore per unità di motivi ispiratori, per simmetrica vicenda d’immagini, per taglio sapiente di proporzioni. E’ il canto della carità o quello di Adamo ? E’ l’epica celebrazione dell’ordine dell’universo che, derivato da Dio, a Dio ritorna, oppure il canto nel quale il Poeta si limita a sfoggiare, nelle risposte di Adamo, la sua erudizione, preoccupato di correggere alcune affermazioni del Convivio (a proposito del problema delle lingue) ? E’ il canto caratterizzato dalla corpulenza di immagini come quella delle fronde onde s’infronda tutto l’orto dell’ortolano etterno o quella dell’animal che coperto Broglia o è il canto caratterizzato dalle suggestive figurazioni psicologiche dei versi 14-15 70-78, 82-84, 85-90? Tuttavia anche se in esso non si determina una compiuta unità lirica, si realizza una fondamentale sintesi contenutistica, grazie alla quale appare pienamente giustificata, di contro alla perplessità di alcuni critici, l’apparizione di Adamo e il ruolo assegnato al progenitore nel cielo delle stelle fisse. Salendo attraverso le sfere sottostanti, Dante ha analizzato e classificato, secondo un criterio etico, l’umanità, così che il Parodi può giustamente definire il paradiso delle sfere "una gerarchia e una didattica delle virtù"; ma in paradiso non si può pensare nessuna umana virtù se non già trasformata in virtù cristiana (volta, cioè, al raggiungimento di un fine sovrannaturale) e consacrata dall’apporto delle tre virtù teologali, le quali, infatti, dominano, dall’alto dell’ottavo cielo, tutte le altre. Giunto in questa sfera, Dante ha ormai ricostruito la natura umana nella sua perfezione originaria, quale era uscita dalle mani di Dio. Questa reintegrazione nell’ "innocenza" primitiva è resa possibile solo mediante l’intervento delle tre virtù teologali, (simboleggiato dal triplice esame sostenuto e superato da Dante, dal quale, non si dimentichi, sono rivissuti tutti i singoli momenti del ritorno dell’anima a Dio), che innalzano di nuovo l’uomo alla dignità di figlio di Dio dopo lo smarrimento nella selva oscura. Si impone, a questo punto, un rilievo necessario. Dopo la rivoluzione scientifica del XVII secolo, la natura umana viene comunemente considerata una materia sulla quale si esercita assiduamente lo studio e il progresso della scienza e dell’industria, e anche per i credenti la umanità è impegnata ad attuare uno sviluppo, a realizzare un complesso di possibilità prima solo implicite. Invece "lo schema culturale soggiacente all’operare della fantasia di Dante è... ancora quello della cultura antica, pre-cristiana: c’è una natura originale perfetta (l’età dell’oro, interpretata nel senso del paradiso terrestre), e tutta l’impresa umana consiste nel recuperare tale originaria perfezione" (Montanari). In Dante e in molti pensatori a lui contemporanei il fulcro della meditazione filosofico-teologica è la visione della natura umana del paradiso terrestre, splendida e perfetta in ogni sua azione, ornata dai doni preternaturali di integrità? immortalità, inerranza. In questa prospettiva non può più essere giudicato strano l’eccezionale rilievo conferito da Dante ad Adamo in questo canto, perché " alla nostra mentalità quantitativa - secondo l’affermazione del Montanari Adamo appare un primo prevalentemente numerico: alla mente di Dante Adamo appare come un archetipo che contiene in sé tutta l’umanità come natura. E perciò la liturgia di venerazione con cui Dante saluta, stupendo, Adamo è così solenne (come la fronda che flette la cima...)". In Adamo Dante onora la natura umana perfetta, contempla la sua insuperabile magnificenza, gode del suo destino di gloria. Il sentimento del peccato originale, vivissimo in tutto il Medioevo, che guardava alla colpa di Adamo come ad un doloroso fardello che gravava sull’umanità soffocandola, non lascia tracce profonde nella poesia di Dante, il quale, invece, preferisce insistere sulla grandezza e sulla dignità della natura umana destinata ad essere divinizzata: questo è il significato dell’apoteosi di luce con la quale viene celebrato Adamo e della glorificazione di Eva, quella ch’è tanto bella, ai piedi della Vergine (Paradiso XXXII, 5). Così, al termine della sua ascesa, prima della visione dell’Empireo, il Poeta vagheggia la creatura perfetta, quello che l’uomo fu, nel paradiso terrestre, per poco più di sei ore (versi 139-142) e quello che può ridiventare dopo la sofferta, combattuta esperienza religiosa, alla quale Dante ha dato un volto e una voce nella sua Commedia. L’apparizione di Adamo, dunque, non è che la logica conseguenza del triplice esame di Dante e, in modo particolare, di quello dedicato alla carità (si opera, in tal modo, una fusione fra la prima e la seconda parte del canto XXVI). Infatti l’amore del quale parla Dante, in risposta alle domande di San Giovanni, è l’ordine-forma dell’universo, il quale è stato creato da Dio per un atto di amore e verso Dio converge con tutte le sue creature. Questo mondo creato dall’Essere infinito, lungi dall’impaludarsi nel basso, si agita, si sforza di risalire e giunge di nuovo là da dove era venuto; ogni creatura arriva al posto assegnatole in virtù del proprio istinto, ma questo nell’uomo non si manifesta come aspirazione sorda o desiderio cieco, bensì come volontà chiara del proprio fine, che è quello di realizzare in sé la somiglianza con Dio: il modello di questa restaurazione è, appunto, Adamo. Dante, dopo aver assistito al trionfo di Cristo, ha superato l’esame sul valore dottrinale e vitale delle tre virtù sante, e, vivendo ormai tutto di esse e con esse, incorporato in Cristo, finalmente e naturalmente incontra il primo parente, redento: è un trionfo che congiunge la creazione con la redenzione, il passato con il presente, l’uomo antico col nuovo, che è Dante, cui è affidata dalla Provvidenza un’alta missione per la salvezza del mondo; questo trionfo avrà la sua consacrazione nell’inno di ineffabile allegrezza e di solenne lode con il quale si apre il canto seguente.


           

 

PARADISO CANTO XXVII

             

 

Tutti i beati innalzano un inno di lode alla Trinità, mentre Dante prova un senso di smarrimento di fronte alla beatitudine del paradiso, che egli percepisce con lo sguardo e con l’udito. San Pietro, mentre la sua luce acquista un’intensa tonalità rosseggiante, inizia una violentissima invettiva contro Bonifacio VIII, al quale rivolge l’accusa di aver trasformato Roma, la città santa per tutti i fedeli, in una grande cloaca di vizi e di corruzione. La Chiesa - continua San Pietro - non fu fondata con il sangue di Cristo e allevata con il sangue dei martiri per diventare uno strumento di arricchimento in mano a pontefici indegni, né per provocare feroci divisioni e sanguinose lotte di parte fra cristiani (è, questo, un riferimento diretto alle fazioni politiche dei Guelfi e dei Ghibellini). Le chiavi pontificie devono essere simbolo dell’autorità spirituale del papato, non insegna degli eserciti papali mandati a combattere contro cristiani. L’immagine di San Pietro impressa sui sigilli dei papi non può essere adoperata per sigillare privilegi e benefici acquistati con la simonia. Tuttavia - conclude l’Apostolo - presto la Provvidenza porrà fine a questa rovinosa situazione della Chiesa. I beati, apparsi nell’ottavo cielo per assistere al trionfo di Cristo, risalgono, in grandiosa processione, all’Empireo, mentre Beatrice incita il suo discepolo a misurare il cammino percorso con il cielo Stellato nella costellazione dei Gemelli. Poi entrambi ascendono al Primo Mobile, l’ultimo dei cieli fisici, al di sopra del quale si trova solo l’Empireo. Dopo avere spiegato le caratteristiche di questa sfera, Beatrice, sull’esempio di San Pietro, rivolge una dura invettiva contro l’umanità, accusandola di mirare solo ai beni terreni. Anch’ella, tuttavia, preannuncia il prossimo, atteso rimedio a questa corruzione.

 

 

Introduzione critica

 

La critica, di fronte a quei canti del Paradiso nei quali, come nel XXVII, la presenza dell’elemento "terreno" è particolarmente avvertibile, tenta spesso una lettura a "contrappunto", cercando di isolare i momenti di schietta intonazione paradisiaca da quelli in cui lo sguardo è rivolto alla terra e alla sua corruzione morale, e di verificare la loro sapiente alternanza. Questa tecnica di lettura, di per sé feconda di risultati, se applicata continuamente e in modo meccanico, rischia di fare considerare la terza cantica alla stregua di una paziente opera di mosaico e il suo poeta un abile intarsiatore, compiaciuto di ricerche di effetti. L’analisi contrappuntistica del canto XXVII (tentata ultimamente dal Bezzola) opera queste determinazioni: la presenza del divino risuona in forma di canto nell’inno iniziale dei beati (versi 1-9), riprende con il ritorno dei beati all’Empireo (versi 67-75), con l’ascesa di Dante e Beatrice al Primo Mobile (versi 88-99) e con la descrizione del nono cielo (versi 100-120). Tale presenza si alterna con quella della terra nell’invettiva di San Pietro contro i pontefici (versi 10-27), seguita dall’ira dolente dei beati e ripresa in forma amplificata (versi 37-60). Allo sguardo di Dante, che segue il volo delle anime verso Dio, fa riscontro lo sguardo rivolto alla terra (versi 76-87), mentre il tema della degenerazione dell’umanità espresso nel dolore di Beatrice sulla cupidigia degli uomini (versi 121-141) fa seguito alla rappresentazione del nono cielo (versi 100-120). Le due invettive, quella di San Pietro e quella di Beatrice, si concludono con una dichiarazione di attesa e di speranza nel soccorso divino (versi 61-66 e 142-148), mentre alla visione della terra si sostituisce l’ascesa al Primo Mobile (versi 88-99). A questo contrappunto tematico fa riscontro una calcolata struttura numerica del canto, la quale distribuisce i temi a contrappunto su gruppi di sei terzine (e poi di dodici nell’invettiva di San Pietro), incorniciati per tre volte da tre terzine dedicate al coro dei beati, e fa corrispondere, alle quattro terzine che descrivono la terra, altre quattro terzine che narrano l’ascesa al Primo Mobile e, alle sette terzine sulla natura di questo cielo le sette terzine sulla cupidigia terrena. Un’indagine critica di questo tipo rivela, innegabilmente, lo sconcerto di certi critici di fronte al carattere terreno di questo canto (per cui ci si affretta a rivelare la presenza di motivi ascetico-mistici) e la loro perplessità di fronte alla sua unità (che essi si sforzano di fissare attraverso una indagine sottile, ma esteriore). La soluzione critica di canti, come il XXVII, a carattere politico, polemico, profetico, non può essere cercata con un’indagine di superficie intorno a immagini e a blocchi di versi ma su un piano più profondo e impegnativo, per ritrovare anche in queste pagine quell’essenziale motivo mistico che pervade tutta la terza cantica. In queste terzine, pur nell’invettiva e nel sarcasmo (ma, precisa molto bene il Getto, qui c’è "la memoria di un’invettiva e di un sarcasmo"), opera il massimo comandamento evangelico, duplice e unico nella sua essenza - l’amore di Dio e l’amore del prossimo - che è l’humus ideale dell’ispirazione di Dante. Tuttavia mentre in un San Bernardo da Chiaravalle o in una Santa Caterina da Siena questo atteggiamento religioso si configura sempre alla luce dell’amore, in Dante esso non opera come un amoroso servizio fatto a Dio attraverso le creature, ma come "volontà di instaurazione dell’ordine umano stabilito da Dio legislatore universale. L’amore del prossimo, il servizio del prossimo, in Dante, si traduce in lotta per la giustizia, battaglia per la fondazione di una società, di una città terrena che assicuri all’uomo la beatitudo huius vitae. Di questo ordine sociale politico Dante si fa... il teorico" (Getto). Tuttavia la sua politicità è sempre di schietta ispirazione religiosa, perché l’ordine che Dante vuole restaurare nel mondo (nella Chiesa come nell’Impero) non è che il riflesso dell’ordine divino. E’ una politicità, dunque, che non contrasta con il misticismo, ma che da esso scaturisce: " di cui - conclude il Getto - l’accento religioso, profetico e apocalittico della sua polemica". Non solo l’invettiva nel Paradiso è, perciò, pienamente giustificata, ma assolve, secondo quanto abbiamo sopra osservato, una funzione importantissima. Per ritornare alle invettive di San Pietro e di Beatrice, occorre precisare che esse acquistano ancora maggiore solennità per il fatto di essere pronunciate poco prima della visione dell’Empireo, allorché l’animo del Poeta si accosta per l’ultima volta alla terra (negli ultimi sei canti, infatti, la visione paradisiaca ha il completo sopravvento: all’invettiva subentra la preghiera, al mondo l’Empireo). Secondo il giudizio del De Sanctis la satira di San Pietro contro il Papato è la più poetica fra tutte quelle - e sono numerose - del Paradiso. "Magnifica è la parte teatrale. Dapprima vedi la luce in tutta la sua magnificenza e la letizia celeste nella sua più alta espressione lirica; indi come contrasto al trascolorare di San Pietro trascolora tutto il paradiso ed acquista una fisionomia; [anche] Beatrice muta sembianza". Poi "l’indignazione suscita l’immaginazione, e ne fa scoppiare immagini originali e ardite". Tuttavia questa poesia appare, dalle parole del critico, qualcosa di esteriore, affidata alla teatralità della voce e dell’atteggiamento nonché alla originalità delle immagini, laddove essa è nella forza vivificante del dolore e dell’indignazione e nella mirabile unità drammatica di tutto il discorso. Questo, dopo la violenta introduzione, si sviluppa in un crescendo che sale dal rimpianto (la Roma di un tempo rivive attraverso la sua schiera di martiri in cruda antitesi con quella attuale dei lupi rapaci) allo sdegno (versi 46-54) all’ira (verso 57) senza fratture, come per un musicale intensificarsi, finché l’ammonimento si chiude con la tipica clausola profetica di tutti gli ammonimenti del Paradiso: ma l’alta provedenza  soccorrà tosto.


           

 

PARADISO CANTO XXVIII

             

 

Nel Primo Mobile appare a Dante un punto luminosissimo (Dio), intorno al quale si muovono nove cerchi concentrici (i cori angelici). Il Poeta osserva che questi cerchi, dal primo al nono, aumentano in grandezza e diminuiscono in splendore. Tale fatto suscita in lui un grave dubbio: nell’ordine cosmico i cieli, quanto più si allontanano dalla terra (centro dell’universo), tanto più appaiono vasti, mentre, nei cerchi angelici, quello più vicino a Dio è il più piccolo. Poiché dalle intelligenze angeliche dipende e viene regolato il moto dei cieli, come può essere spiegata questa contraddizione? Nelle sfere fisiche - chiarisce Beatrice - la grandezza è in proporzione della potenza o "virtù" che viene infusa in esse dalle intelligenze angeliche, per essere poi trasmessa al mondo sottostante perciò il cielo più grande è quello più dotato di virtù e, quindi, più potenzialmente capace di influssi salutari. Occorrerà, dunque, che i cieli più vasti siano governati dalle intelligenze angeliche più dotate di virtute. Per questo al cielo più grande, il Primo Mobile, corrisponderà il cerchio angelico più vicino a Dio: quello dei Serafini, il più piccolo di tutti. Poi Beatrice enumera a Dante tutti i nove cori angelici, raccogliendoli in tre gerarchie, ciascuna delle quali costituita da tre cori: Serafini - Cherubini - Troni, Dominazioni - Virtù - Potestà, Principati - Arcangeli - Angeli.

 

Negli ultimi versi del canto Dante dichiara di accogliere, riguardo alle intelligenze celesti, la disposizione fissata da Dionigi l’Areopagita, respingendo quella di Gregorio Magno.

 

Introduzione critica

 

La posizione critica del De Sanctis di fronte alla terza cantica può essere cosi riassunta: tema del Paradiso è il divino, il puro spirito, qualcosa che è al di la dell’immaginazione della poesia e dell’uomo; Dante, per rappresentarlo, ricorre ad una forma " musicale ", ad una visione, cioè, che presenta fantasmi evanescenti anziché corpi distinti. Tuttavia questa forma, per quanto assottigliata, e ancora "soverchia", presenta un "troppo vivo colore per rispetto al puro divino"; può essere adatta per la rappresentazione delle anime beate, dove c’è ancora qualche traccia dell’umano, ma "falsificherebbe il divino la cui essenza è di non aver forma e di sottrarsi all’immaginazione". Perciò quando Dante si accosta al divino, deve attingerlo "non con la forma ma con la negazione della forma. Le estreme tenebre e l’estrema luce conseguono entrambe lo stesso effetto rubandoci la vista degli oggetti". Scopo del Poeta non è quello di offrirci la "visione" del paradiso, ma il "sentimento" di essa; tuttavia "questo sentimento celeste si rivela in alcuni pochi tratti, ed in modo troppo indeterminato", per cui solo l’intervento del terreno può conferirgli "maggior varietà e colore". Tuttavia il De Sanctis ha coperto troppo in fretta con la luce tutto il paradiso dantesco ("nel paradiso e il soverchio della luce, che toglie a Dante la visione") e non ha considerato il presupposto fondamentale della poetica della terza cantica: la caratteristica del sentimento religioso del Medioevo - di cui Dante offre una delle più alte testimonianze - consiste nella volontà, tenacemente, perseguita, di rappresentare il mondo sovrannaturale nel modo più concreto e dettagliato possibile. Nella spiritualità moderna non sì pensa a descrivere Dio, a precisare quanti sono gli angeli o in che posizione essi si trovano rispetto a Dio, ne si tenta di definire le parti in cui è diviso il paradiso e di distinguerne i differenti gradi di luce, di verità, di beatitudine. Anche per lo spirito cristiano piú profondo, oggi, Dio è nell’osservanza dell’insegnamento della Chiesa, nell’ansia e nel fervore dell’anima che si eleva verso di Lui, ma non è in nessuna figurazione concreta. Tuttavia questa diversa - ma non contrastante - posizione di fronte al sovrannaturale, non ci può impedire una lettura obiettiva del canto XXVIII, dove, per la prima volta, Dante tenta una rappresentazione diretta di Dio (un punto... che raggiava lume acuto sì, che ‘l viso ch’elli affoca chiuder conviensi per lo forte acume) e delle gerarchie angeliche.

 

Occorre, a nostro parere, insistere sul concetto di " rappresentazione ", sullo sforzo e la tesa volontà, da parte del Poeta, di tradurre visivamente il mondo dell’astrazione pura. Questo non significa un ritorno ai principii della critica romantica ( ricerca - fine a se stessa - dell’immagine e del concreto), ma un modo di lettura più obiettivo, più vicino, cioè, agli intenti " rappresentativi " del Poeta. Poiché Dante non vuole soltanto rappresentare il suo sentimento del paradiso (la percezione della gloria del Creatore e delle sue creature in un’attonita luce d’eterno), ma vuole anche descrivere, nel canto XXVIII e nel XXXIII, Dio. Possiamo forse affermare che nel XXVIII non esiste poesia perché Dante si accosta a realtà - Dio e gli angeli - che, per loro natura, si sottraggono a qualsiasi concreto rilievo? Ma, di questo passo, anche le immaginifiche creazioni dell’Ariosto dovrebbero essere sottoposte alla censura della critica.

 

Il canto della cosmologia dantesca deve essere letto tenendo ben presenti l’inesausto descrivere del Poeta (ciò che egli cerca in ogni momento è la possibilità di trovare parole e immagini adeguate a ciò che ha visto e si e impresso nella sua mente), l’ardore religioso che anima e dirige questo sforzo, la sicurezza del dialogo teologico che sorregge entrambi.

 

All’inizio del canto, quando appare il punto luminoso, di Dio, e nella descrizione, fatta da Beatrice, dei cori angelici, ci troviamo di fronte a un’esperienza mistica, ma la posizione del Poeta "rimane quella di chi ritrae una realtà e una vicenda autonome" (Montano), non venendo mai meno "alla obiettività della sua rappresentazione e alla fermezza del suo distacco dalla materia trattata". Non c’e dunque "impassibilità", come vorrebbe il Vandelli (secondo il quale, di fronte alla mirabile teofania del canto XXVIII, non c’e, nel Poeta, "una sola parola che ci attesti o ci faccia intravedere la commozione del suo spirito"), né, tanto meno, un tono astratto e rigidamente ragionativo, bensì la capacita, che e quella dei grandi poeti, di rievocare un’esperienza personale e un’emozione profonda in termini di logica chiarezza e in esiti espressivi di pregnante significato.

 

A proposito della realizzazione formale della visione che ha per suo centro il moto vertiginoso degli angeli (nel quale si riflette tutta la dinamica dei cieli) e la sublime staticità dell’Ente supremo, è sufficiente un esempio molto significativo. Quando Dante presenta la seconda gerarchia angelica che gira intorno al punto luminoso (versi 115-117), ricorre ad un’immagine (l’altro ternaro, che così germoglia in questa primavera sempiterna che notturno Ariete non dispoglia) che e probabilmente imposta o condizionata da una suggestiva attrazione di rime. Infatti, dalla rima (rara e difficile) voglia del verso 113 scaturisce la comparazione del ternaro degli angeli con un albero che germoglia in mezzo ad un’eterna primavera. L’immagine, come osserva il Parodi, riesce alquanto inattesa, e non sgorga necessariamente dal contesto né illustra o continua il pensiero fondamentale, ma si svolge, per così dire, a fianco di esso, lumeggiando particolari ai quali l’attenzione non si sarebbe rivolta. Tuttavia "non è ridondante, poiché ad un tratto codesti particolari si confondono coll’insieme, facendo lampeggiare d’un riso primaverile tutta la scena; e il terzo verso che notturno Ariete non dispoglia, uno dei piú bei versi di Dante, compie in noi la visione, coll’evocazione magica della notte e il confronto della primavera terrena".


PARADISO CANTO XXIX

             

 

Nel canto XXIX Dante espone, per mezzo di Beatrice, i problemi principali riguardanti le gerarchie angeliche: dove, quando, come furono creati gli angeli; quando e perché avvenne la ribellione di alcuni di essi; quale fu il premio per quelli rimasti fedeli; per quale motivo sbagliano quei pensatori che attribuiscono alle creature angeliche le tre facoltà umane dell’intelligenza, volontà e memoria; il numero sterminato degli angeli e la diversa intensità con la quale godono la visione diretta di Dio. A Dante interessa soprattutto mettere in rilievo che la creazione degli angeli fu un atto gratuito dell’amore divino, che volle estrinsecarsi in altri esseri, e che le intelligenze angeliche, i cieli e la materia prima furono creati da Dio istantaneamente e simultaneamente. a proposito delle facoltà umane attribuite agli angeli, il discorso di Beatrice diventa polemico e le sue parole raggiungono un tono particolarmente aspro e duro. I cattivi predicatori del Vangelo, che hanno sostituito alle verità della fede cristiana le loro inutili ciance, sono rappresentati attraverso la grottesca figura del frate che predica dal pulpito con motti e con iscede, mentre il diavolo si annida nel bacchetto del suo cappuccio. Il canto si chiude con la visione di Dio che, pur rispecchiandosi in migliaia di creature angeliche, conserva la sua eterna unità.

 

 

 

Introduzione critica

 

Nel secondo canto dedicato agli angeli, dopo il XXVIII, il tema teologico è predominante, ma esso raggiunge una intensità poetica eccezionale nella prima parte del canto (versi 13-36) e nell’ultima (versi 136-145), attenuandosi, invece, nella parte centrale, dove la lezione di Beatrice non riesce a sollevarsi dal piano puramente informativo (versi 37-81) o polemico (versi 82-126). Profondamente legato al canto precedente (i problemi ai quali Beatrice dà soluzione sono nati, in Dante, dalla contemplazione delle gerarchie angeliche, contemplazione che è stata, appunto, oggetto del canto XXVIII), il XXIX si apre con una similitudine astronomica fra le più interessanti, se non fra le più poetiche. La terza cantica presenta innumerevoli immagini del cielo, che appare sotto due aspetti: uno astronomico-scientifico e uno paesistico-quotidiano, il primo contemplato con gli occhi dello studioso, il secondo con gli occhi dell’uomo comune che resta abbagliato dalle celesti bellezze. Da qui derivano due tipi di immagini; e due diversi motivi di poesia, perché al primo appartengono alcuni fra i più suggestivi momenti contemplativi (e si come al salir di prima sera ... quale ne’ plenilunii sereni Trivia ride...) e al secondo le indicazioni di fenomeni astronomici che "conferiscono al cielo dantesco come un’aura di scienza arcana, un senso remoto e favoloso, di matematica e di ermetica soprannaturalità" (Getto). Si può anzi concludere che la poesia di certe rappresentazioni celesti nasca dall’incontro di immagini pittoriche e musicali con severi simboli astronomici e matematici fissati con un calcolo rigoroso e severo (incontro che è, del resto la condizione essenziale di tutta la poesia del Paradiso, legata contemporaneamente ad aspetti fantastici e geometrici, per cui una obbiettiva lettura-critica non può attribuire valore lirico soltanto ad uno di questi aspetti, prescindendo dall’altro che lo integra e lo completa). Ritornando, dopo questa necessaria: premessa, alla nostra similitudine, essa ci appare, nonostante la sua impostazione resa alquanto macchinosa dalla preoccupazione di definire il tempo d’equilibrio fra sole e luna, un’ardita figurazione di vicende astronomiche: alla maestosa immagine del sole e della luna, i figli di Latona (il ricordo mitologico conferisce solennità alla loro apparizione) coperti dalle costellazioni con cui si trovano in congiunzione, fa riscontro quella dello zènit, "rappresentato come un gigantesco pesatore" (Torraca), che sostiene, su due piatti di una gigantesca bilancia distesa attraverso il cielo, i due astri che regolano, con il loro alterno corso, la vita degli uomini. Si può parlare, a questo proposito, di uno stile "eroico" (nel senso vichiano del termine), che, usato nella creazione di personaggi quali Farinata o Ugolino, serve a fissare, senza sforzo apparente, anche i modi di una similitudine o di una lezione teologica. Spesso a questo stile, che abbiamo definito "eroico" e che altri critici hanno chiamato " barocco", per sottolinearne, senza alcun senso negativo, la preziosità, si accoppia la profonda suggestione della rima rara e difficile, come, in questo caso, nei versi 4 e 6 ‘nlibra e dilibra, due verbi di straordinaria evidenza plastica, sui quali si regge tutto il movimento della similitudine: una vicenda astronomica ritratta in un segno - il movimento inarrestabile degli astri e del tempo - dominata dall’intelligenza che coglie con ingegnoso acume un fatto scientifico così raro e che contribuisce a suggerire quel paesaggio di simboli zodiacali che l’attento lettore non può certo dimenticare. La potenza inventiva della frase, osserva il Parodi, nel suo studio fondamentale sulla rima nella Divina Commedia, è in Dante senza confini, ed è essa la grande produttrice di rime, ma dalla rima attinge a sua volta continuamente nuova materia e nuovi impulsi. "Certo anche in Dante, come in qualunque poeta, la parola usata in rima, è usata per la rima; giacché solo di rado avviene che la parola necessaria cada naturalmente proprio là dove dovrebbe; ma le cose, interrogate dal suo cuore o dal suo pensiero, rispondono con una varietà immensa di suoni, e fra questi ve n’è sempre uno, che rende, con mirabile felicità, l’eco voluta. Egli vede e sente per immagini, e anche una semplice parola e anche il pensiero più astruso o più impalpabile e il ragionamento più astratto assume subito nella sua mente una forma concreta di cosa sottoposta ai sensi. " (Parodi) La rima scaturisce insieme con la espressione nuova ed immortale, e la visione dantesca, nella sua straordinaria intensità, si fissa in modo immediato, nella parola: Cosi lo zenit ‘nlibra i figli di Latona e ciascuno di essi poi si dilibra dal cinto dell’orizzonte. L’immagine dell’orizzonte come cinto non è nuova, ma l’ultimo verso della terzina, che pure si direbbe suggerito dalla rima, trasforma improvvisamente la vicenda degli astri in una lotta personale, faticosa (si dilibra) per sciogliersi, liberarsi ciascuno del proprio emisperio. Certamente se noi consideriamo certe rime di Dante, singolari e bizzarre, potremmo pensare che il Poeta, talvolta, abbia volutamente cercato il vocabolo meno comune e, anche, più oscuro, al fine di ottenere una rima nuova e inaspettata, e che volutamente si sia inoltrato in quelle circonlocuzioni o in quelle immagini alle quali, ancora oggi, i critici, pur con tutta la buona volontà, non riescono a conferire una spiegazione sufficiente.Se è vero che un grave pericolo si nasconde dietro questa preferenza per la rima immaginosa e per la via stilistica meno battuta, per cui Dante talvolta può offrire un tecnicismo linguistico di grande effetto, ma di nessun valore artistico, è anche vero che la difficoltà stilistica esercita su di lui un’influenza (il Parodi parla anche di "suggestione’’) benefica importantissima, spingendo e incitando il suo pensiero poetico a fluire non come rivo limpido e tranquillo, in un letto sempre uguale e fors’anche monotono, ma come torrente ch’alta vena preme e più vivamente preme là dove si manifesta una resistenza più forte.


PARADISO CANTO XXX

             

 

Scomparsi alla vista dei due pellegrini celesti il punto luminoso e i nove cerchi angelici ruotanti intorno ad esso, il Poeta si volge di nuovo a guardare Beatrice: la bellezza della sua donna è tale che egli si sente incapace di descriverla. Riprendendo a parlare, Beatrice rivela al discepolo che essi non si trovano più nel Primo Mobile, l’ultimo dei cieli fisici, ma sono ascesi all’Empireo. Nella decima sfera ha la sua sede Dio e godono l’eterna beatitudine le due "milizie" del cielo, quella degli angeli e quella dei beati, questi ultimi con lo stesso aspetto che avranno nel giorno del Giudizio Universale, allorché ciascuno riprenderà il proprio corpo. Dopo essere rimasto abbagliato dallo splendore dell’Empireo, il Poeta, riacquistando la vista, si accorge che i suoli occhi sono diventati capaci di sopportare anche la luce più fulgida. Dapprima Dante osserva un fiume di luce che scorre tra due rive fiorite. Dal fiume escono innumerevoli faville che, dopo essersi posate sui fiori, ritornano nel miro gurge dal quale erano uscite. Questa visione - spiega Beatrice - è solo un "umbrifero prefazio" di ciò che è realmente e che Dante, per le sue deboli capacità umane, non può ancora cogliere nella sua integrità. Allorché il suo sguardo ha preso nuovo vigore, il Poeta vede che quel fiume di luce ha assunto una forma circolare e che i fiori non erano altro che i locati e le faville gli angeli. La visione diventa sempre più chiara: l’Empireo ha la forma di un grande anfiteatro, i cui seggi sono occupati dai santi. Su un seggio vuoto Dante scorge una corona: quello - commenta Beatrice - è il posto riservato ad Arrigo VII, l’imperatore che tenterà, inutilmente, di porre termine alle lotte politiche che tormentano l’Italia, e che troverà nel pontefice Clemente V il suo più fiero avversario.

 

 

Introduzione critica

 

La mistica rosa dell’Empireo è il punto di chiusura e di trasfigurazione delle componenti strutturali che hanno fatto nerbo, di canto in canto, attraverso tutto il Paradiso. Se la Sacra Scrittura ha offerto al Poeta lo spunto per l’immagine iniziale del fiume di luce, ben presto al ricordo biblico si sovrappone la consapevolezza e la sapienza dell’artista, che ricorre ad una serie ininterrotta di immagini (due rive dipinte di mirabil primavera... d’ogni parte si mettìen ne’ fan; quasi rubin che oro circumscrive... miro gurge... li topazii... ‘l rider dell’erbe... come clivo in acqua di suo imo si specchia... nel verde e ne’ fioretti opimo... rosa sempiterna, che si dilata ed ingrada e redole), legate a una ben precisa tradizione di stile - quella del dolce stil novo - e a quel senso del prezioso, del raffinato e dell’elegante che Dante ha tante volte mostrato nella Vita Nova e nella stessa Commedia, in particolare nella terza cantica. Tuttavia non è possibile - senza falsarne il significato - astrarre, isolandola, questa raffinatezza di linguaggio e di immagini, perché essa è un elemento della complessa poesia del canto XXX; ma quest’ultima non si esaurisce qui, come non si esaurisce neppure in motivi puramente mistici. Il Varese scrive con molta efficacia: "La visione dell’Empireo e la gioia che l’accompagna, non è, a propriamente parlare, gioia mistica, ma intellettiva, conoscitiva: la gioia, lo slancio e la commozione sentimentale, il movimento, il trepidare dell’arbore, viene forse dopo, non prima. Di questo sentire sono prova la struttura, la composizione artistica e l’ispirazione dei canti trentesimo e trentunesimo. Si direbbe che lo spirito francescano e mistico abbia alimentato momenti e motivi particolari nell’ispirazione dantesca, abbia soprattutto mosso il calore e la libertà di questa ispirazione, ma non regga l’ordine e la composizione, né in senso strutturale, né in senso estetico. La poesia di questo canto gioca sulla continua presenza e consapevolezza dell’autore ch’è insieme personaggio: la visione si accompagna sempre con la storia e con la coscienza dei modi di essa, con la collaborazione attiva e continua dello scrittore. Qui tuttavia lo stesso tramutarsi di visione in visione, questo passaggio dalla fiumana alla rosa, è sentito nella precisione e nella netta intensità, nella fermezza dell’ordine e dell’intelligenza, che gusta la bellezza quasi come un aspetto, un limpido manifestarsi in se stessa. La stessa poesia didascalica si raccoglie e si riflette nel vigore, ma insieme nella chiarezza dell’espressione. Le immagini non hanno un valore episodico o antologico, ma sono un chiarimento, sono diretta espressione di ciò che il Poeta ha visto e vuol farci vedere; sono, in questo senso, il paradiso stesso". Se nel canto XXXIII il motivo dominante sarà quello di una grandezza eccedente le umane capacità, nei tre canti che lo precedono, e in modo particolare nel XXX, il motivo dominante è da cercarsi in un sentimento di ebbrezza sempre temperato da un controllato atteggiamento ragionativo, il quale non pretende di definire, attraverso una serie di immagini, il mondo dell’Empireo, bensì di suggerirne la vastità infinita e la ricchezza incommensurabile. È sufficiente, a questo proposito, prendere in esame l’ultima parte del canto. Dopo il turbine d’ebbrezza che troviamo nella terzina 97 (o isplendor di Dio...), ecco un’immagine classicamente precisa e concreta (e’ si distende in circular figura...), e, dopo il felicissimo ritorno alla visione del verde e dei fioretti nel delicato quadro dei beati colti in un moto di candido autocompiacimento, il Poeta misura lo spazio che lo circonda (la vista mia nell’ampio e nell’altezza non si smarriva), annotando, con precisa attenzione, che le leggi della natura perdono ogni validità dove Dio è presente direttamente. Pervaso ormai dalla presenza del divino, lo spirito dantesco non dimentica, al tempo stesso, l’attualità spaziale e temporale. Vibrante, ma sempre dominato da una insuperabile padronanza tecnica, appare l’entusiasmo del Poeta nella terzina seguente (nel giallo della rosa sempiterna...), dove la dilatazione coloristica ed estensiva è tale da superare tutte le amplificazioni precedenti, ed è concentrata tutta nel secondo verso, in virtù di un’abile struttura sintattica e metrica: in tre verbi sono sintetizzate tre immagini piene e scandite (si dilata... ingrada... redole) Poi l’entusiasmo sembra travolgere il Poeta (mira quanto è ‘I convento delle bianche stole! Vedi nostra città quant’ella gira: vedi li nostri scanni sì ripieni), finché l’imperiosa necessità di sostare, di evitare ogni possibile degenerazione emotiva e stilistica, non verrà bruscamente ad interromperlo. Si avrà allora, in un certo senso, un completo capovolgimento di prospettiva: da una contemplazione, per così dire, quantitativa, dell’Empireo, si passa a quella condensata in un solo punto, il gran seggio preparato per l’alto Arrigo. Anche ora, quando sarebbe facile per Dante abbandonarsi a una facile polemica politica, la sua poesia resta controllatissima; la sublimazione della figura dell’imperatore tedesco potrebbe essere definita l’"idealizzato archiviamento" (Guidobaldi) del proprio sogno politico: eppure non c’è nulla che riveli il suo interno tormento, nulla che parli di odio o di personale vendetta. Anche nei confronti del papa ingannatore il Poeta lascia l’ultima parola a Dio, che deciderà secondo la sua giustizia. Una potente e continua intelligenza ha qui distribuito gli elementi e i motivi della rappresentazione, ha trovato un chiaro rapporto tra il cielo che si esprime nelle immagini e nelle forme della terra, e la terra, le cose e gli interessi della terra che prendono posto e dimensione in cielo, tra quello che Dante oggettivamente vuol farci sentire nella visione del paradiso e lo sguardo con il quale egli segue e descrive la tensione e il procedere di questa visione.


           

 

PARADISO CANTO XXXI

             

 

Il Poeta osserva con stupore e ammirazione, lo spettacolo tripudiante dell’Empireo. Mentre gli eletti, seduti sui loro seggi, contemplano la luce eterna di Dio, gli angeli volano, con moto incessante, come intermediari d’amore, dai beati a Dio e da Dio ai beati. Percorrendo con lo sguardo i gradini dell’immenso anfiteatro celeste, Dante scorge i volti, luminosi e trasfigurati dalla gioia, dei beati, osserva i loro atteggiamenti dignitosi e improntati alla più profonda serenità. Desideroso di rivolgere a Beatrice alcune domande, il pellegrino si volge verso di lei, ma al posto della donna amata trova un beato, in atteggiamento benevolo e paterno. San Bernardo da Chiaravalle, il più famoso mistico del secolo XII, particolarmente devoto alla Vergine. Egli, quale simbolo della scienza contemplativa, sostituisce Beatrice per guidare Dante alla visione finale di Dio. Poiché il Poeta vuole sapere dove si trova ora Beatrice, il Santo gli spiega che è ritornata al suo seggio, il terzo, a partire dall’alto, dopo quello della Vergine e di Eva, accanto a quello di Rachele. Dopo che Dante ha innalzato alla sua donna una fervida preghiera di ringraziamento per averlo guidato dal peccato alla salvezza eterna e dopo che ha invocato, ancora una volta, il suo aiuto, San Bernardo lo invita a percorrere di nuovo con lo sguardo tutto l’Empireo, per prepararsi alla visione di Dio. Dante - esorta il Santo - deve contemplare anzitutto la regina del cielo. La Vergine appare al pellegrino nel punto più alto della candida rosa, avvolta in una luce intensissima, circondata dal volo festoso di migliaia di angeli.

 

 

Introduzione critica

 

Mentre il canto precedente ha rivelato l’aspetto esteriore della candida rosa, il XXXI ha il compito di rappresentare la vita che anima tutto l’Empireo. I beati appaiono finalmente con la loro figura umana; il Poeta può finalmente posare il suo sguardo sui loro volti, seguire i loro gesti, scrutare ogni loro movimento. E’ questo, uno dei momenti più importatori di tutta la Commedia, perché nel regno dell’astrazione e della pura spiritualità "raggiunge il suo vertice la determinazione della personalità o dell’individuo: il sommo ideale è il sommo reale. Gli stessi angeli, che nel Primo Mobile non erano che scintille di un unico immenso incendio, ci appariscono nella loro forma personale con le facce di fiamma viva; ma specialmente le anime beate, che negli astri si confondevano insieme in una comune uniformità di splendori, qui si mostrano con immagine scoperta, nell’aspetto della loro individualità terrena" (Parodi), perché la natura sale fino alla sommità dell’Empireo. Essa, continua l’illustre critico nel suo studio dedicato alla "costruzione" del paradiso dantesco, " dopo un primo baleno di una visione, in cui... ricompare, co’ suoi incanti d’acque, di fiori, di esseri alati, quasi a rammentare che è uno specchio divino del vero... trionfa nell’immagine umana delle anime beate". L’uomo, che avevamo incontrato all’inizio del paradiso ancora legato alla natura, ma pur da essa diviso e come assorto nello sforzo di liberarsene in una sempre più alta spiritualità, ora ha trovato con essa il suo equilibrio, riconquistandola e con essa identificandosi in una realtà compiuta e suprema. L’aspetto corporeo delle anime non è che "la luce della loro vita individuale, che Dante vede e distingue nel divino lume, è l’eterno suggello che in sé riportarono impresso della loro penosa ma cara e indimenticabile prigione terrena " (Parodi), perché se l’anima è forma del corpo, Dante, forse, intravede, nell’Empireo, che anche il corpo è forma dell’anima. Sotto questo punto di vista il dogma della risurrezione della carne non ha mai avuto una più alta e più poetica interpretazione. Il poeta cristiano - questa è la conclusione del Parodi - "è così riuscito a portarsi con sé, anche lassù nelle somme vette dell’Empireo, la sua cara terra", simboleggiando una perfezione umana dove il corpo, la terra e ogni bellezza sensibile rivendicano i propri diritti accanto a quelli del puro spirito. Se per il mistico Medioevo le due realtà dello spirito e della materia si compendiano nella lotta della terra con il cielo, del senso con l’intelletto, le nell’aspirazione - profondamente avvertita - dello spirito a spogliarsi di ogni legame terreno per immergersi nella volontà e nell’essenza divina, in Dante non esiste più alcuna lacerazione di opposti, bensì una concordia metafisica, per cui le due forme dell’essere si armonizzano in cielo. Nel canto XXXI culmina la potenziale poesia drammatica di tutta la filosofia scolastica, impegnata appunto a distinguere per unire, per risolvere in unità tutta la creazione, superando la tendenza manichea pronta a lacerare il mondo nei due opposti principii della materia (principio del male) e dello spirito (principio del bene). L’ "ampio respiro epico" che il Sapegno vede in questo canto, la "voce piena fluente e maestosa, che sottolinea la chiara armoniosa struttura dello spettacolo fantastico e la grandiosità della concezione ideale", l’"ebbrezza di una realtà trascendente ", lo " stupore estatico del contemplante " trovano la loro origine proprio in questo raggiunto equilibrio metafisico. Il paradiso dei nove cieli fisici è un grande mito poetico che ha il compito di far segno (cfr. canto IV, verso 38) agli uomini dell’ordine gerarchico di tutti gli esseri e di tutti i concetti, ossia dell’ordine e della bellezza - morali e materiali - che regnano nell’universo e che, fluendo da Dio, a Dio ritornano. Questo mito poetico raggiunge la sua compiuta espressione nell’aspetto umano delle anime dell’Empireo, quando, come nei miti platonici, la luce della poesia scaturisce dall’ardore di una profonda idea. Non è causale l’accenno che abbiamo fatto a Platone: la singolare ma grandiosa concezione del mondo come un flusso continuo di raggi luminosi che dalla Causa Prima scendono, riflettendosi in innumerevoli specchi e perdendo via via, una parte del loro splendore, fino all’ultima delle cose e portano dovunque il pensiero di Dio, costituendo quell’infinita gradazione di esseri nella quale appunto risiedono l’ordine e l’armonia, risale a Platone. Platonica, o meglio neoplatonica, oltre che la teoria della processione delle cose da Dio, è anche quella del loro ritorno, come quella della indivisibile unità di Dio che splende nel molteplice o quella della luce come struttura dell’universo. E’ una conclusione evidente (e unanimemente accettata dalla critica) che il mondo filosofico che esercita su Dante una suggestione di ordine artistico, è essenzialmente quello neoplatonico-agostiniano, il quale, per di più, offre al Poeta una tradizione di linguaggio potentemente figurativo. Sarebbe sufficiente confrontare la prosa di Aristotile e di San Tommaso con quella di Dionigi e Sant’Agostino per rendersi conto della diversa quantità e qualità di suggestione da esse esercitate, perché è la concezione stessa del mondo neoplatonico che non si affida solo al rigore logico, ma ha in sé una ricchezza poetica. Quel mondo dove l’essere è luce nel senso più proprio, e i corpi fatti di luce visibile sono segni e vestigia della vera luce, dove la separazione fra spirito e materia è estremamente esigua e il simbolo e l’analogia hanno valore essenziale di conoscenza, è certamente un mondo dove la logica si allea alla poesia per meglio comprendere ed esprimere la realtà. Ed è appunto questo mondo che è alla base della struttura stessa del Paradiso e che trova il suo compimento, nell’Empireo, nella figura umana dei beati.


PURGATORIO CANTO XXXII

             

 

Le figure femminili che simboleggiano le sette virtù invitano Dante a distogliere il suo sguardo da Beatrice per volgerlo alla processione, la quale, in questo momento, riprende a muoversi in direzione opposta rispetto a quella prima seguita; finché tutti i suoi membri si fermano intorno a un albero altissimo e spoglio di fronde. Dopo che il grifone vi ha legato il suo carro, la pianta rinasce a nuova vita, coprendosi di fiori e di foglie. Il canto dolcissimo innalzato dai personaggi del corteo provoca in Dante una specie di tramortimento, e, quando si risveglia, Matelda gli indica Beatrice che siede sotto l'albero circondata dalle sette virtù, mentre i ventiquattro seniori, il grifone e gli altri componenti del corteo risalgono al cielo. La seconda parte del canto è occupata dalla rappresentazione delle vicende del carro della Chiesa attraverso successive allegorie. Dante ricorda - con la figura dell'aquila - le persecuzioni portate contro i primi cristiani e con l'immagine della volpe il diffondersi delle eresie; in un secondo tempo l'aquila - simbolo dell'Impero - ritorna e lascia sul carro una parte delle sue penne, per indicare il potere temporale di cui fu investita la Chiesa dopo la donazione territoriale fatta dall'imperatore Costantino a papa Silvestro. Poi un drago, che rappresenta Satana, esce improvvisamente dalla terra e, dopo aver colpito con la coda maligna il carro, si allontana pieno di soddisfazione. L'immagine della Chiesa si trasforma infine in una figura mostruosa, dotata di sette teste e dieci corna: su di lei siede una sfrontata meretrice, a fianco della quale compare un gigante, che flagella ferocemente la donna subito dopo che questa ha volto il suo sguardo verso Dante. Il canto termina mostrando il gigante che stacca dall'albero il carro della Chiesa per trascinarlo nella selva.

 

Introduzione critica

 

Il discorso esegetico intorno al canto XXXII potrebbe allargarsi indefinitamente, perché esso si trova di fronte, ancora una volta, al problema dei rapporti fra allegoria e storia - entrambe presenti in modo preponderante in questo canto - e a quello della loro trasformazione in termini poetici. La vastità e la complessità di una simile indagine possono, tuttavia, spiegare i risultati diversi, per non dire opposti, ai quali é pervenuta la critica. É evidente, infatti, che la sola analisi estetica, di ascendenza romantica, non possa trovare che brevi momenti di « poeticità », considerando il resto del canto una confusa e macchinosa costruzione. D'altra parte risponde ad un saggio criterio di lettura evitare una eccessiva storicizzazione del carro XXXII, giudicandolo solo una manifestazione dell'ansia di rinnovamento - in campo ecclesiastico e politico - assai diffusa ai tempi di Dante o, peggio, confinandolo al rango di una delle tante pagine visionarie delle quali il Medioevo si é mostrato fecondo. Quanto si compie nell'alta selva vota ripropone l'atmosfera gravida di tensione della selva oscura del I canto dell'Inferno, perché vi riecheggia lo stesso stimolo ad una azione vigorosa contro il peccato, lo stesso senso di attesa di fatti futuri destinati a sconvolgere il corso degli eventi, le stesse immagini di male (alla lupa che di tutte brame sembiava carca nella sua magrezza e molte genti fe' già viver grame si contrappone la volpe che «si avventa» e che d'ogni pasto buon parea digiuna), ma soprattutto perché vi si ribadisce la missione profetica dal Poeta assunta in pro del mondo che mal vive fin dalle prime battute della Commedia. In esse Dante prendeva coscienza della colpa che gli aveva meritatala morte spirituale, ma la misericordia di Dio provocava un capovolgimento nella situazione: "il peccatore - nota il Montanari - sarà salvato e proprio perché è stato peccatore, già condannato a morte, sarà fatto strumento di salvezza per tutti gli altri uomini .... Sarà un nuovo Paolo fermato sulla via di Damasco e fatto profeta della verità che lui perseguitava", perché il profeta non é mai "scelto per i meriti suoi, ma anzi viene scelto nonostante il suo peccato o almeno nonostante i suoi gravi difetti..." Coerentemente alla mentalità medievale - per la quale la relazione fra salvezza eterna e salvezza terrena é sostanziale, non potendo l'uomo tendere alla prima senza avere realizzato la seconda, attraverso l'efficiente azione dell'Impero - la missione profetica di Dante si impone e sul piano spirituale e sul piano temporale. Per questo non é possibile sostenere uno stacco netto fra i canti XXX-XXXI, dominati dal colloquio fra il Poeta e Beatrice, in qualità rispettivamente di penitente e di giudice, e il canto XXXII, occupato dalla presentazione delle vicende principali dei rapporti fra Chiesa e Impero: anzi essi indicano chiaramente come l'opera di Dante sia il frutto di una sintesi, poetica e sistematica nello stesso tempo, di tutta la realtà universale. Per lui, giunto sulla vetta del purgatorio, il tema storico-politico può vivere solo come interpretazione della volontà di Dio, avendo Dio manifestato la sua volontà proprio attraverso la storia e le sue vicende: si tratta solo di trovare il criterio esatto per spiegare gli avvenimenti terreni presi come espressione della provvidenza divina, e per trovare in essi, attraverso gli sconvolgimenti causati dalle azioni peccaminose degli uomini, il principio razionale che li guida alla meta ultima. "Dante non fu il primo a presentare la sua interpretazione come autentica, essendo l'appello all'autorità divina il modo naturale e normale nella civiltà medievale come ai tempi della profezia ebraica, di esprimere forti convinzioni politiche. Certo, pochissimi fra i predecessori di Dante si erano spinti fino a pretendere che una rivelazione speciale era stata loro largita, e mai prima di lui una tale pretesa era stata manifestata con altrettanta unità enciclopedica di visione e con altrettanta forza d'espressione poetica." (Auerbach) A partire dal verso 37 e fino alla fine del canto si riversa su ogni allegoria e su ogni metamorfosi la presenza del sovrannaturale, che non può non esserci allorché una storia di secoli viene contratta in pochi attimi e vissuta in movimenti simbolici che colgono il valore spirituale, il significato etico-religioso degli eventi, che presentano i fatti come già sottoposti al giudizio finale di Dio e quindi già collocati nel luogo che a loro compete nell'ordine divino, che distinguono nelle azioni umane i disegni segreti che preparano l'adempimento di una giustizia riparatrice. Dante ha sentito con appassionata intensità questo "dramma sacro" e lo ha risolto in un "dramma figurato", che non a torto molti critici hanno accostato alle sacre rappresentazioni medievali. La trama del canto XXXII, infatti, non può non richiamare tutta la letteratura allegorica, profetica, apocalittica che fu propria del Medioevo e che trovò la sua espressione più famosa negli scritti di Gioacchino da Fiore, soprattutto nel momento in cui, di fronte alla dilagante corruzione morale della Chiesa, al venir meno di ogni ordine civile e alla mancanza di una salda guida politica, da ogni parte si invocava un rinnovamento dei costumi ecclesiastici e una rinascita del potere imperiale. Dante, dalla ricchissima simbologia del suo tempo, che investiva non solo la letteratura ortodossa e riformatrice, ma anche le figurazioni artistiche, ha scelto forse gli archetipi più rappresentativi, dai quali deriva il "carattere, oltre che drammatico, anche spiccatamente « visivo » e descrittivo di questa poesia, con cui si accorda l'idea e l'efficacia figurale, pittorica e plastica della parola, quella disposizione a fissare immagini, linee e colori, in movimento, che in questo canto XXXII s'intensifica in virtù animatrice, in vicenda di drammaticità allucinante, in rapida magia di azioni sceniche" (Grana).


           

 

PARADISO CANTO XXXIII

             

 

San Bernardo innalza alla Vergine un’ardente preghiera, nella quale, dopo aver celebrato la bontà di Maria e la sua opera di intermediaria di grazia tra Dio e gli uomini, invoca una protezione particolare sul suo discepolo. Questi, che dal profondo dell’inferno fino alla sommità dell’Empireo ha potuto conoscere le diverse condizioni delle anime, è pronto ormai a contemplare la visione finale di Dio, purché la Vergine lo liberi da ogni residuo impedimento terreno. San Bernardo conclude la sua invocazione chiedendo a Maria di conservare la purezza di cuore che Dante ora possiede, mentre i beati, prima fra tutti Beatrice, ne accompagnano le parole congiungendo le mani in un silenzioso gesto di preghiera. Gli occhi della Vergine, fissi sul Santo, dimostrano che la sua supplica è stata accolta. Poi si volgono verso la luce eterna di Dio. San Bernardo, prima di scomparire, invita, sorridendo, Dante a guardare verso l’alto. Ma ormai il pellegrino non ha più bisogno di nessun incoraggiamento: il suo animo è pronto alla contemplazione divina. Dopo aver affermato che egli non ricorda quasi nulla della visione ricevuta, il Poeta rivela di aver visto l’essenza divina come una luce intensissima. Nel profondo di questa luce tutto ciò che è sparso e diviso nell’universo, appare fuso in mirabile unità, legato ad un vincolo d’amore. Dante, pur riconoscendo che le sue parole sono insufficienti ad esprimere quanto egli, in un solo attimo, ha potuto contemplare, descrive il momento in cui i suoi occhi videro, sotto forma di tre cerchi di uguale dimensione, ma di colore diverso, il mistero della Trinità. Nel secondo cerchio - rappresentante il Figlio - appare poi un’immagine umana, per significare il mistero dell’incarnazione. A questo punto la mente del Poeta, giunta alla soglia del mistero più grande, e incapace, quindi, di proseguire con le sole sue forze, viene illuminata dalla grazia divina, che le concede l’intuizione del mistero dell’incarnazione.

 

 

Introduzione critica

 

I versi che hanno subìto la più sconcertante vicenda critica ed esegetica di tutta la Commedia sono certamente quelli che aprono l’ultimo canto del Paradiso e che presentano la preghiera di San Bernardo alla Vergine. I primi commentatori (fino al Landino) ritennero di trovarsi di fronte a una pagina di teologia. I critici romantici, dal Tommaseo in poi, a una pagina di oratoria (in seguito, su questo giudizio, insistettero particolarmente il Croce e il Chimenz). Un altro gruppo di lettori del canto XXXIII, fra i quali il Pistelli e il Del Lungo, trova proprio in questa "eloquenza" la nota altamente positiva della preghiera alla Vergine. Rimuovendo le interpretazioni rigidamente polemiche, tentano un risultato - felicemente raggiunto - di compromesso, il Casella e il Momigliano. Il primo, infatti, osserva che "la preghiera di San Bernardo si diffonde e si innalza con la calda e vibrante eloquenza dell’affetto" il secondo vede che "gli elementi dogmatici sono immersi e trasfigurati in un’alta e sottolineata cadenza". Anche il Fubini, che analizza accuratamente i dati stilistici della preghiera, la ritiene, nella prima parte, un’orazione che "si svolge secondo un ritmo lineare, ribattendo un unico motivo, senza dissimulare lo schema retorico su cui poggia e a cui è affidata la sua efficacia", e, nella seconda parte (versi 22-39), un invocazione intensa e appassionata che dà rilievo, potenza e ampiezza al moto dell’animo verso l’alto. Per risolvere questo problema critico, che forse ha polarizzato troppo l’interesse degli studiosi, a danno della seconda parte del canto, certamente più valida dal punto di vista poetico, è indispensabile cercare l’intenzione del Poeta nello scrivere questi versi, chiarendo se e in che misura quelle parole così studiate e, al tempo stesso, così fervide, abbiano vita puramente fantastica o anche vita storica: Dante, cioè, ha voluto offrirci una sua preghiera o invece "la preghiera" nei termini e nella natura più vicini a quelli che per lunga consuetudine correvano sulla bocca dei fedeli o erano oggetto di meditazione e di studio? L’Auerbach e il Vallone, che hanno ricercato tutte le possibili fonti storiche della preghiera mariana e le hanno minuziosamente confrontate con i versi danteschi, sono d’accordo sulla seconda ipotesi senza ricorrere alla superata formula crociana del "romanzo teologico", occorre ricordare che nella Commedia l’esigenza della "struttura" è pur sempre presente: al termine del Paradiso, prima della celebrazione finale di Dio, appariva indispensabile la celebrazione della Vergine madre di Dio, di colei che la teologia presentava come intermediaria di grazia fra il cielo e la terra. Con questa esigenza di struttura si è fuso, fortunatamente per la poesia, il particolare culto di Dante verso Maria, presentata, fin dall’inizio della Commedia, come sua salvatrice (Inferno II, 94-99) e invocata mane e sera (Paradiso XXIII, 88-89). Tenendo presente che la tradizione letteraria precedente a Dante offre innumerevoli forme di "elogio" da quello classico, che presenta funzioni e fatti mitici, a quello ebraico, che parafrasa la essenza e l’onnipotenza di Dio, a quello paleo-cristiano, che comincia a fondere il dogma con la storia di Cristo) e che nei testi patristici medievali - a cominciare da quelli di San Bernardo - l’inno alla Vergine è fra i più frequenti, è facile concludere che Dante ha voluto inserirsi in questa tradizione. Poiché la sua doveva essere una "preghiera" e non un brano di lirico abbandono (come sarà la famosa canzone alla Vergine del Petrarca), Dante non poteva discostarsi dalla natura della preghiera, cioè da una necessaria aderenza teologica e morale, e, contemporaneamente, da quella scia di suggestioni e di echi emotivi che la preghiera imprime nell’animo dell’orante. Era, questa, la prova più impegnativa per l’uomo e per il poeta: aderire alla tradizione ed essere poeta, rispettare la natura della preghiera e rinverdirla di poesia. Dante usa tutto il materiale della tradizione dell’elogio cristiano (l’elemento drammatico, lo storico, il figurale), condensandolo e organizzandolo. Il canto - scrive il Vallone - "nasce su concetti o anche parole e immagini di tradizione con un vigore e un tono veramente inconfondibili: sintesi, legamenti, ellissi di passaggi e di contro amplificazione gaudiosa e su tutto e in tutto vigile senso di stile... Se poi a tutto questo unite l’enorme difficoltà della materia, l’altezza dell’argomento, che in Dante-uomo suscitava apprensioni di sentimento e di intelletto, la preghiera ci sembrerà sì ‘una libera creazione della commossa fantasia" [Cosmo] del Poeta, ma, soprattutto, e per la sua natura, un canto umano". Se i motivi principali sono quelli dogmatici, e l’elemento emotivo, nel senso di una parafrasi sentimentale degli eventi riguardanti la Vergine, manca, la lucidità contenutistica e stilistica, che sembra essere il prodotto di un piano consapevole e rigoroso, non è soltanto perspicuità razionale, ma irraggiamento poetico, perché il fervore dell’emozione è espresso proprio attraverso l’ordine tematico, l’armonia della frase, la varietà dei modi sintattici, attraverso quegli elementi, cioè, sui quali è fondata la poesia di tutta la Commedia. Ma la preghiera alla Vergine, con il suo ossequio alla teologia, la sua solennità di canto la sua concretezza di umana rappresentazione, la sua ansia del trascendente non è che il preludio del canto XXXIII, non presenta che le prime note di quella ispirazione epica che, cimentandosi con la metafisica, tenterà la rappresentazione di Dio. M. Rossi sostiene che Dante ha compiuto un "vano tentativo di poetizzazione dell’astratto", e che, immaginando Dio come un triplice cerchio di luce, non ha fatto altro che offrire la più semplice e astratta immagine di perfezione presentatasi al suo spirito. Ma la idea che Dante vuol darci di Dio non è già nella figura del triplice cerchio, ma è in tutto il canto, in quell’ansia di cogliere Dio, in quella sensazione di averlo attinto e subito smarrito.


DANTE: La vita e la personalità

 

Nacque a Firenze nel maggio del 1265 da Alighiero, di famiglia guelfa nobile ma non ricca. Presso scuole e maestri, a Firenze e Bologna, apprese l'arte retorica e da se stesso l'arte di "dir parole per rima", cui si dedicò con ingegno e passione fin dai primi anni della giovinezza. Fu amico di molti poeti e soprattutto di Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Cino da Pistoia, coi quali ebbe, secondo l'uso del tempo, una corrispondenza in versi. A 18 anni si innamorò di Beatrice, figlia di Folco Portinari andata poi sposa a Simone dei Bardi,e per lei scrisse numerose rime alla maniera stilnovistica. Dopo la morte di lei,avvenuta nel 1290,si dedicò con maggiore impegno ai suoi studi, che riguardavano i classici antichi e le opere letterarie moderne italiane, francesi e provenzali, la teologia, la politica, la filosofia, la retorica, l'arte, la lingua. Per partecipare alla vita politica di Firenze si iscrisse all'arte dei medici e speziali. A quel tempo i guelfi di Firenze, dopo aver cacciato i ghibellini dalla città, s'erano divisi in due fazioni: i Bianchi, capeggiati dalla famiglia dei Cerchi, ed i Neri, guidati dai Donati. Dante appoggiò i primi, più gelosi dell'indipendenza della propria città, pur avendo sposato una Donati, Gemma, dalla quale ebbe tre figli, Iacopo, Pietro ed Antonia, che poi divenne suora ed assunse il nome di Beatrice. Tra il 1295 e il 1296 fece parte del Consiglio speciale del Capitano del Popolo e del Consiglio dei Cento. Dal 15 giugno al 15 agosto del 1300 fu uno dei Priori. L'anno successivo i Neri, con l'aiuto di Carlo di Valois, inviato dal Papa Bonifacio VIII, si impadronirono del potere, mettendo al bando i Bianchi. Dante, che si era recato dal papa per convincerlo a desistere dai suoi propositi di interferire nella politica del comune fiorentino, non poté far ritorno in città, perché condannato per due anni all'esilio sotto la falsa accusa di baratteria. Da allora visse in esilio, non avendo mai accettato l'invito dei Fiorentini a rientrare in città a patto di riconoscersi colpevole dei reati di cui era stato ingiustamente accusato. Fu ospite di Bartolomeo della Scala a Verona, dei marchesi Malaspina in Lunigiana, ancora a Verona di Cangrande della Scala ed infine di Guido Novello da Polenta a Ravenna, dove morì nel settembre del 1321.

 

Di temperamento fiero e risoluto, Dante non mostrò mai debolezze e tentennamenti. Convinto che la giustizia superiore di Dio dovesse compiersi anche nella vita terrestre, pose tutto il suo impegno di studioso e di scrittore al servizio della redenzione dell'umanità, che gli sembrava ai suoi tempi aver toccato il fondo del male.


DANTE: Biografia

 

Di antica nobiltà sono i suoi antenati, discendenti addirittura dai Romani. Cacciaguida, suo trisavolo, a Firenze vive con le famiglie dei fratelli Moronto ed Eliseo, nella zona del Mercato Vecchio; armato cavaliere dall'imperatore Corrado III, mentre era al suo seguito durante la seconda Crociata, muore in Terrasanta. La moglie, una Alighiera forse di Ferrara, gli dà dei figli, uno dei quali si chiama come lei, Alighiero I, da cui derivano i rami dei Bellincione e dei Bello. Al primo appartiene Durante, chiamato Dante, figlio di Alighiero II e nipote di Bellincione.

Il padre di Dante vivacchia facendo il cambiavalute e forse anche l'usuraio, a giudicare da alcune voci maligne. Abita nel Sesto di Porta San Pietro, è di tradizione guelfa, ma non si getta certo nel vivo della lotte faziose; è figura scialba che il poeta passa sotto silenzio. Dante nasce in una casa posta di fronte alla Torre della Castagna, verso la fine del mese di maggio del 1265, sotto la costellazione dei Gemelli da Alighiero Alighieri di Bellincione e da donna Bella (Gabriella) di casato ignoto e battezzato in San Giovanni.

Così racconta Boccaccio:

 

 

Del quale, come che alquanti figliuoli e nepoti e de' nepoti figliuoli discendessero, regnante Federico secondo imperadore, uno ne nacque, il cui nome fu Alighieri, il quale più per la futura prole che per sé doveva esser chiaro; la cui donna gravida, non guari lontana al tempo del partorire, per sogno vide quale doveva essere il frutto del ventre suo; come che ciò non fosse allora da lei conosciuto né da altrui, e oggi, per lo effetto seguìto, sia manifestissimo a tutti.

Pareva alla gentil donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo alloro, sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte, e quivi si sentia partorire unofigliuolo, il quale in brevissimo tempo, nutricandosi solo delle orbache, le quali dello alloro cadevano, e delle onde della chiara fonte, le parea che divenisse un pastore, e s'ingegnasse a suo potere d'avere delle fronde dell'albero, il cui frutto l'avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere, e nel rilevarsi non uomo più, ma uno paone il vedea divenuto. Della qual cosa tanta ammirazione le giunse, che ruppe il sonno; né guari di tempo passò che il termine debito al suo parto venne, e partorì uno figliuolo, il quale di comune consentimento col padre di lui per nome chiamaron Dante: e meritamente, perciò che ottimamente, sì come si vedrà procedendo, seguì al nome l'effetto.

Questi fu quel Dante, del quale è il presente sermone; questi fu quel Dante che a' nostri seculi fu conceduto di speziale grazia da Dio; questi fu quel Dante, il qual primo doveva al ritorno delle Muse, sbandite d'Italia, aprir la via. Per costui la chiarezza del fiorentino idioma è dimostrata; per costui ogni bellezza di volgar parlare sotto debiti numeri è regolata; per costui la morta poesì meritamente si può dir suscitata: le quali cose, debitamente guardate, lui niuno altro nome che Dante poter degnamente avere avuto dimostreranno.

 

 

La madre muore ancor giovane, lasciando il figlioletto in tenera età; subito dopo il padre Alighiero si risposa con Lapa di Chiarissimo Cialuffi che gli dà due figli; Francesco e Tana (Gaetana). Prima del 1283 Anche il padre muore, ma già dal 1277 (Dante ha 12 anni) aveva "provveduto al futuro coniugale del figlio, stipulando l'instrumentum dotis, una specie di fidanzamento ufficiale garantito con atto notarile, col quale Dante veniva promesso in matrimonio a Gemma Donati".

Poco si sa dell'infanzia del poeta; studia presso i francescani, poi ascolta le lezioni di retorica di Brunetto Latini e segue le lezioni di diritto, filosofia e forse anche di medicina all'Università di Bologna, fra l'estate del 1286 e la primavera del 1287. Nel 1274 (all'età di nove anni, come afferma nella Vita nova) conosce Beatrice, figlia di Folco Portinari, che andrà sposa a Simone Bardi, e la rivede nove anni dopo, nel 1283: è l'avvenimento amoroso decisivo della sua vita, che durerà anche dopo la morte della donna avvenuta nel 1290.

Giovanissimo, da vero autodidatta comincia a dire parole per rima, assorbendo la lezione dei numerosi poeti fiorentini, di scuola guittoniana e stilnovista. La sua curiosità e il desiderio di sperimentare tecniche diverse, lo inducono a tentare anche il genere giocoso e forme poetiche di vario genere, in componimenti raccolti nelle Rime. I suoi primi tentativi sono opere anonime come il Fiore, che ripropone in 232 sonetti l'allegoria del Roman de la Rose (dei francesi Guillaume de Lorris e Jean de Meung), completato intorno al 1280 e il Detto d'Amore, poemetto allegorico che segna il trapasso ai moduli guinizelliani. Questi due componimenti, comunque, solo da Gianfranco Contini e pochi altri, con argomenti puramente indiziari, sono attribuiti a Dante: i dubbi restano molti.

Non mancano le esperienze tipicamente giovanili, di prammatica per un nobile rampollo di un comune del Duecento; l'1 giugno del 1289 combatte nella battaglia di Campaldino‚ contro Arezzo e i ghibellini toscani, mentre nell'agosto dello stesso anno partecipa all'assedio del castello di Caprona, in Valdarno, tenuto dai ghibellini. Ma la guerra non fa per lui; meglio la letteratura e anche la politica, intesa come dovere e contributo al pubblico bene.

L'amore, come abbiamo detto, si impersona nell'austera e angelica Beatrice, moglie di Simone dei Bardi e figlia di un ricchissimo borghese che ha donato alla città l'ospedale degli Innocenti, Folco Portinari. L'ha conosciuta a nove anni, la rivede e ne riceve il saluto a diciotto; l'ama in silenzio, pago di vederla, di ricevere la salute dello spirito dal suo saluto per via, di lodarla nelle sue liriche quando lei, forse per le voci che circolano sul suo conto, gli toglie anche questo esile filo di comunicazione. Dante, infatti, per evitare i pettegolezzi, finge di corteggiare altre donne. La sua morte ha il potere di prostrare Dante sino all'abbrutimento, da cui esce con l'aiuto di amici, conoscenti, forse anche di fanciulle pietose, sogni premonitori; decide, allora, di scrivere per Beatrice qualcosa di straordinario e inedito, qualcosa che nessun altro prima d'allora, mai aveva pensato in onore di una donna. E intanto pubblica nel 1292-93 un prosimetro (insieme di poesie e prose), intitolato Vita nuova in cui ricostruisce le fasi e la storia del suo amore per la fanciulla-angelo che gli sembra essere scesa in terra a miracol mostrare, tanto intensa è la bellezza e purezza della sua immagine.

Beatrice, guida di Dante nel Paradiso e sollecitata dal Cielo a trarlo dalla vita di traviamento in cui s'è lasciato cadere dopo la sua morte, sembrerebbe l'obiettivo della Commedia; ma il poema, forse, al di là delle stesse aspettative del poeta, diventerà qualcosa di più che una semplice apologia della donna amata.

Abbandonati i divertimenti giovanili, Dante si dedica agli studi di filosofia (Boezio, Cicerone, Aristotele, Platone, san Tommaso d'Aquino) e di teologia presso i Domenicani di Santa Maria Novella e presso i Francescani di Santa Croce; fra l'estate del 1286 e l'agosto del 1287 lo troviamo a Bologna, a seguire le lezioni di diritto, filosofia e forse anche di medicina.

Intanto, probabilmente nel 1285, comunque prima del 1290, Dante si sposa con Gemma di Manetto Donati parente del fazioso Corso; dalla moglie, sulla quale non scriverà mai una riga, ha tre figli: Iacopo, Pietro e Antonia (forse la suor Beatrice del Convento di Santo Stefano degli Olivi a Ravenna) e probabilmente un Giovanni che premuore al padre, ma risulta da un atto notarile del 1308. Quale parte abbia avuto Gemma nella vita di Dante, non sappiamo. "Fu la madre de' suoi figli e la reggitrice della casa. E paga di tanto ufizio, ella, secondo ogni probabilità, più oltre non ambì. Il marito era poeta, e cercava la vita dove le consuetudini del tempo gliela facevano trovare. Perciò il matrimonio non gli impedì di continuare a cantare la donna che aveva fino allora servito... (Umberto Cosmo, Vita di Dante, La nuova Italia, Firenze 1965, III edizione).

A trent'anni, nel 1295, Dante può buttarsi in politica, dopo che sono stati parzialmente rettificati gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella che, in origine (1293), impedivano ai nobili di accedere alle cariche pubbliche. Ora un nobile che sia iscritto alla matricola di un'Arte, può essere eletto nel Consigli del popolo e al Priorato. Dante diviene membro dell'Arte dei Medici e Speziali, la meno lontana dalle sue attitudini di intellettuale, poeta e scienziato. Non gli è difficile venire eletto; a Firenze tutti lo conoscono come uomo accorto, colto, equilibrato. Nel semestre novembre 1295-aprile 1296 è membro del Consiglio speciale del Capitano del Popolo: 36 cittadini, sei per sestiere (i quartieri di Firenze): Dante era stato eletto con altri cinque compagni per il "sesto" di Por San Pietro; nel dicembre 1296 viene invitato, come uno de' Savi, nel Consiglio delle Capitudini a dire il suo parere sulla procedura, che si sarebbe dovuta seguire per la nomina dei nuovi Priori. "Nel Consiglio dei Capitani - quale ne fosse la ragione - non profferì verbo; in quello delle Capitudini confortò della sua autorità il parere di un altro Savio: Dantes Alaghieri consuluit. (Cosmo, cit.).

Nel maggio 1296 è nel Consiglio dei Cento, che si occupa dell'amministrazione del pubblico denaro, quattro anni, il 7 maggio, dopo viene inviato come ambasciatore a san Gimignano per rafforzare la lega Guelfa tra i comuni della Toscana e serviva a Firenze per esercitare la sua egemonia. Il 15 giugno, come continuatore della politica di resistenza del Comune contro le ingerenze e le sopraffazioni del Pontefice, proprio mentre si trovava in città il Cardinale d'Acquasparta mandatovi in apparenza come paciere fra le opposte fazioni, è chiamato a far parte della Signoria: è il momento della massima considerazione goduta il patria. Ma ovunque volge lo sguardo vede violenza e cupidigia che generano scontri violenti di fazioni, la voglia del Papa Bonifacio VIII di piegare Firenze alla sua egemonia politica. Il 1300 è un anno cruciale per la città. A Calendimaggio nella piazza di Santa Trinità scoppia una zuffa tra giovani esponenti della fazione dei Guelfi neri (capeggiata da Corso Donati, violento e fazioso, e dei Guelfi bianchi (guidata da Vieri dei Cerchi, commercianti inurbatisi da poco).

La tensione tra e Bonifacio VIII è altissima e negli ultimi tempi si era acuita per la condanna di tre cittadini fiorentini, Guelfi Neri e banchieri della Corte di Roma, per macchinazioni contro la libertà di Firenze e della Toscana. Il Papa si sente colpito dalla condanna ed esige che vengano annullati processo e condanna: ma la Signoria resiste imperterrita, firma la sentenza di condanna dei cospiratori, impedisce con una provvisione dei Consigli ogni intromissione pontificia nell'esercizio della giurisdizione cittadina e frena le facoltà stesse dell'inquisitore romano. Il 15 giugno entra in carica la nuova Signoria e il Notaio della Camera del Comuni presenta nelle mani dei Nuovi Priori la condanna inflitta ai tre cittadini fiorentini residenti presso la corte di Roma. Comincia così il primo giorno del Priorato di Dante, eletto Priore per il bimestre 15 giugno-15 agosto 1300, proprio quando più insistenti si fanno i tentativi di papa Bonifacio VIII di mettere le mani su Firenze, attraverso gli intrallazzi del suo legato, cardinal Matteo d'Acquasparta, apparentemente incaricato di pacificare le fazioni in lotta.

Il 23 giugno una nuova zuffa, ai danni dei consoli delle Arti, che, come era usanza, andavano in processione a San Giovanni, insanguina le vie della città. I priori decidono, pare proprio per suggerimento di Dante, di espellere i capi più sediziosi delle due parti. In esilio andrà pure Guido Cavalcanti, il migliore amico di Dante.

Finito il suo priorato, Dante non rinuncia a dar battaglia a Bonifacio VIII, mandando a monte alcune sue iniziative egemoniche. Nel 1302, per evitare una rottura con il pontefice, Firenze invia alla Corte romana tre ambasciatori: Dante, Maso Minerbetti che aveva buone conoscenze presso la Curia romana, e Guido Ubaldini degli Aldobrandi detto il Corazza, uomo 'guelfissimo', che era stato Gonfaloniere della Signoria, principale autore del processo contro i tre fiorentini di cui abbiamo detto.

L'ambasceria si presentava in atto di sottomissione, confidando in un atto di resipiscenza del Papa, di "quel peccatore di grande animo. In Laterano il Pontefice accolse l'ambasceria: "così Dante si trovò finalmente di fronte all'uomo che in nome del Dio ond'era sacerdote si proclamava padrone del mondo: un uomo dal corpo disfatto, cui non rimanevano più che lingua e occhi; l'impressione che da quel colloquio il poeta ritrasse di quell'uomo, ironico, sarcastico, satanicamente tentatore, è rimasta in alcuni atteggiamenti di una scena famosa del canto XXVII dell'Inferno." (Cosmo, cit.). Il Papa chiede agli ambasciatori di umiliarsi e sottomettersi a lui e afferma che le sue azioni erano dirette solo al bene della città; rimanda indietro gli altri due e trattiene Dante.

 

La situazione è grave; sta scendendo in Italia, con cinquecento cavalieri, il fratello del re di Francia, Carlo di Valois, che entra in Firenze il 1 novembre, con il pretesto di pacificarla. In realtà i Neri approfittano del cambiamento di regime, intrallazzando con Carlo. Corso Donati e i fuorusciti fanno ritorno, vendicandosi crudelmente sui beni e sui familiari, oltre che sulle persone dei nemici. La casa di Dante viene saccheggiata, mentre il nuovo podestà, favorevole ormai ai Neri, bandisce i più importanti esponenti dei Bianchi dalla città. Dante, che si è sottratto in tutta fretta dall'assillante protezione di Bonifacio VIII, viene raggiunto a Siena dalla condanna all'esilio per due anni, il 27 gennaio 1302. È stato accusato di baratteria, con l'ammenda di 5.000 fiorini. La pena viene trasformato in condanna al rogo il 1° marzo successivo, poiché il poeta non si è presentato a discolparsi, per timore della cattura.

 

L'esule

 

Uno dei massimi dantisti italiani, Michele Barbi (Dante, Vita opere e fortuna, Firenze, Sansoni, 1952), nota che l'esilio fa di Dante un uomo sopra le parti, lo spoglia del suo municipalismo, per renderlo cittadino d'Italia. Il Foscolo nell'Ottocento, sposa la tesi di un ghibellinismo del poeta che, allontanato dalla patria, si accosta al partito avverso e rivaluta il ruolo dell'imperatore. In effetti l'esilio muta radicalmente la vita del poeta; l'inizio è durissimo, come egli stesso confessa nel Canto XVII del Paradiso. Si tratta di lasciare le persone care, i luoghi sicuri, i beni che danno sostentamento. Si trova in balìa della sorte e con la pessima etichetta di bandito dalla patria, come funzionario corrotto e ladro del pubblico denaro (in questo consiste l'accusa di baratteria con cui a Firenze i Neri giustificano il bando del poeta).

Nei primi tempi egli si unisce ai fuorusciti bianchi per tentare di rientrare in città con la forza: è presente a Gorgonza‚ e a San Godenzo, dove l'8 giugno 1302 i guelfi Bianchi e i Ghibellini stringono un'alleanza e si accordano con gli Ubaldini di Mugello contro i Guelfi neri. Ma l'impresa fallisce. La necessità di sopravvivere trasforma Dante in uomo di corte; lo troviamo come poeta, segretario, ambasciatore, delegato dei maggiori signori dell'Italia settentrionale che gli offrono ospitalità, accettata con buona grazia, ma vissuta come una durissima umiliazione.

Nel 1303 è segretario presso il signore di Forlì Scarpetta Ordelaffi, poi si sposta a Verona, presso Bartolommeo della Scala. L'anno successivo partecipa alla delegazione di Parte Bianca che tratta la pace con i Neri di Firenze, attraverso la mediazione del legato pontificio Niccolò da Prato. Intanto Bonifacio VIII è morto e gli è succeduto Benedetto XI. La trattativa non va in porto, i Bianchi organizzano una sortita violenta che si risolverà nella sanguinosa e drammatica battaglia della Lastra (1304). Tra polemiche, accuse ingiuste, sospetti, Dante si toglie dal gruppo e preferisce lottare da solo per la propria vita, aspettando una congiuntura politica più favorevole per il ritorno in città. Già da un anno la condanna comminatagli dai magistrati fiorentini è stata estesa ai suoi figli, quando raggiungeranno l'età di quattordici anni; è giunto il momento di rafforzare la sua posizione, e, benché esule, acquisire fama, prestigio, dignità che gli consentano di vivere alla meno peggio lontano dalla patria. Il problema maggiore è la questione economica che il fratello cerca di alleggerire con prestiti. Per guadagnarsi buona fama, Dante inizia la stesura di trattati e opere letterarie, che rappresentino una sorta di biglietto da visita per i suoi futuri ospiti.

Nel 1304 inizia il Convivio, un banchetto di sapere che rimane incompiuto e che, steso in volgare, si indirizza ai nobili che vogliano approfondire la propria cultura. Rimane incompiuto al quarto libro: dopo il trattato iniziale, gli altri chiosano tre canzoni che saranno citate nella Commedia; Voi che 'intendendo il terzo ciel movete (sulle gerarchie angeliche), Amor che nella mente mi ragiona sulla scienza e la filosofia), Le dolci rime d'amor ch''i solìa (sulla nobiltà come conquista morale e intellettuale).

Negli stessi anni (1304-1309), mentre stende l'Inferno, progetta un'altra opera di argomento linguistico, il De vulgari eloquentia in latino, in difesa del volgare. Interrotto a metà del secondo libro, esamina le origini del linguaggio, i vari dialetti italiani e definisce le caratteristiche di un volgare privilegiato che dovrebbe essere preso a modello degli intellettuali, come lingua comune italiana. Sono anni molto tristi; il poeta si sposta dalla corte di Gherardo da Camino‚ signore di Treviso, alla casa degli Scrovegni, ricchi mercanti padovani. A Bologna conosce Cino da Pistoia, giurista e poeta stilnovista, poi si ferma in Lunigiana, presso Moroello Malaspina‚ e a Lucca. Pare che tra il 1308 e il 1310 sia in Francia per frequentare la facoltà di teologia a Parigi. Sicuramente, se la notizia è vera, ascolta, in vico degli strami le lezioni di filosofia di Sigieri di Brabante. Con l'elezione di Arrigo VII di Lussemburgo a imperatore, Dante spera vivamente che la pace e la giustizia tornino a regnare in Italia.

Il 10 0ttobre 1310 invia una Epistola ai Signori e Comuni e Popoli d'Italia affinché accolgano con obbedienza e umiltà le disposizioni dell'imperatore che sta scendendo in Italia per l'incoronazione. Papa Clemente V ha invitato le città italiane a porsi a sua disposizione, ma ben presto si palesa il suo voltafaccia. Firenze per prima si oppone all'imperatore seguita da altre città timorose di perdere la propria autonomia. L'imperatore mette Firenze al bando dell'impero e l'assedia, ma invano.

Le speranze di Dante svaniscono; non tornerà più in patria in un clima di giustizia. Arrigo VII viene incoronato a Roma nel giugno 1312, ma il Papa lo invita a tornare in Germania, su istigazione degli Angioini e del re di Francia; Dante sente questo come un tradimento. Sta scrivendo un trattato in latino, De Monarchia in tre libri, in cui rivaluta il ruolo dell'impero, dichiara il potere imperiale e quello pontificio indipendenti e sostiene che entrambi derivano dalla volontà di Dio, che vuole garantire agli uomini due mezzi per ottenere la salvezza.

Il 24 agosto 1313 Arrigo VII muore a Buonconvento, presso Siena, di febbri malariche. Dante ha terminato la stesura dell'Inferno e del Purgatorio.

Scrive Boccaccio nel Trattatello in onore di Dante: "Questo libro della Comedia, secondo il ragionare d'alcuno, intitolò egli a tre solennissimi uomini italiani, secondo la sua triplice divisione, a ciascuno la sua, in questa guisa: la prima parte, cioè lo 'Nferno, intitolò a Uguiccione della Faggiuola, il quale allora in Toscana signore di Pisa era mirabilmente glorioso; la seconda parte, cioè il Purgatoro, intitolò al marchese Moruello Malespina; la terza parte, cioè il Paradiso, a Federigo III re di Cicilia. Alcuni vogliono dire lui averlo intitolato tutto a messer Cane della Scala; ma, quale si sia di queste due la verità, niuna cosa altra n'abbiamo che solamente il volontario ragionare di diversi; né egli è sì gran fatto che solenne investigazione ne bisogni."

Dante ha perso definitivamente la speranza di tornare a Firenze. Nel 1311, infatti, a Firenze Baldo d'Aguglione ha varato una riforma che consente il ritorno di molti esuli, ma Dante ne è stato escluso; troverà ospitalità presso Cangrande della Scala, succeduto al fratello Bartolommeo nella signoria su Verona. Presso di lui Dante si ferma sino al 1318-19.

Il 19 maggio 1315 il Comune di Firenze approva un'amnistia a tutti gli esiliati, e questa volta senza limitazioni (dalla precedente, infatti, Dante era stato volutamente e dichiaratamente escluso); il 24 di giugno, in occasione della festa del Patrono della città. La cerimonia per gli amnistiati prevedeva che partendo dal carcere, avrebbero dovuto percorrere il tragitto in processione a piedi scalzi, vestiti d'un sacco, con una mitra di carta con sopra scritto il nome e il reato dei malfattori in capo, un cero acceso in una mano e una borsa con danaro nell'altra, fino al Battistero, al "bel San San Giovanni", dove venivano offerti in stato di pentimento all'altare e al santo della città. Compiuto questo rito sarebbero stati reintegrati nei loro beni e in ogni loro altro diritto. Se si trattava di fuorusciti politici che, al momento del provvedimento non erano in carcere, l'oblatio consisteva nel toccare simbolicamente col piede la soglia del carcere e quindi presentarsi al tempio, senza l'umiliazione della mitra né altre condizioni degradanti.

Con sdegno rifiuta l'umiliante proposta: mai avrebbe accettato di stare a fianco di malfattori, come Ciolo degli Abati, che, condannato nel 1291, era stato poi assolto proprio mediante una amnistia. Come Dante si trovava tra gli esuli contumaci, anche lui escluso dalla riforma di Messer Baldo d'Aguglione del settembre 1311.

All'amico (anonimo, ma dalla lettera si ricava che era un religioso, parente di Dante col quale aveva in comune "un nipote", forse Niccolò di Fusino di Manetto Donati, figlio di un fratello di Gemma) risponde con questa lettera, dichiarandosi pronto a rientrare, ma con tutto il rispetto dovuto alla sua innocenza conclamata e a tutti manifesta e al suo lavoro, per il quale in esilio non gli manca il pane e può continuare i suoi studi, a cercare le dolcissime verità (Epistola XII):

 

[I] Per mezzo delle vostre lettere ricevute e con la debita riverenza e affetto, ho con animo grato e diligente attenzione appreso, quanto vi stia a a cuore e quanta cura abbiate per il mio rimpatrio; e quindi tanto più strettamente mi avete obbligato, quanto più raramente agli esuli accade di trovare amici. Per questo, anche se non sarà quale la pusillanimità di alcuni desidererebbe, vi chiedo affettuosamente che la risposta al loro contenuto, prima di essere giudicata, sia ponderata all'esame della vostra saggezza.

[II] Ecco dunque ciò che per mezzo delle lettere vostre e di mio nipote e di parecchi altri amici mi fu comunicato riguardo al decreto da poco emanato in Firenze sul proscioglimento dei banditi che se volessi pagare una certa quantità di denaro e volessi patire l'onta dell'offerta, potrei sia essere assolto che ritornare subito. Ma ci sono, o padre, due cose degne di riso e oggetto di cattivo consiglio nelle lettere di quelli che mi hanno comunicato tali cose; le vostre lettere, infatti, formulate con maggiore discrezione e saggezza, non contenevano nulla di ciò.

[III] È proprio questo il grazioso proscioglimento con cui è richiamato in patria Dante Alighieri, che per quasi tre lustri ha sofferto l'esilio? Questo ha meritato l'innocenza a tutti manifesta? questo ha meritato il sudore e l'assidua fatica nello studio? Sia lontana da un uomo, familiare con la filosofia, una così avvilente bassezza d'animo da sopportare di offrirsi come un carcerato al modo di un Ciolo e di altri infami! Sia lontano da un uomo che predica la giustizia, che dopo aver patito un ingiusto oltraggio, paghi il suo denaro a quelli stessi che l'hanno oltraggiato, come se lo meritassero!

[IV] Non è questa, padre mio, la via del ritorno in patria; ma se un'altra via prima o poi da voi o da altri verrà trovata, che non deroghi alla fama e all'onore di Dante, l'accetterò a passi non lenti; ma se per nessuna onorevole via s'entra a Firenze, a Firenze non entrerò mai. E che? forse che non potrò vedere dovunque la luce del sole o degli astri? o forse che dovunque non potrò sotto il cielo indagare le dolcissime verità, senza prima restituirmi abietto e ignominioso al popolo e alla città di Firenze? E certamente non mi mancherà il pane.

 

Negli anni del soggiorno veronese scrive la famosa Epistola a Cangrande in cui gli dedica il Paradiso. Nel 1319 Dante si trasferisce presso Guido Novello da Polenta con i figli. Mentre compone il Paradiso risponde con due Ecloghe a Giovanni del Virgilio che vorrebbe rielaborasse la Commedia in latino. Poi scrive il trattatello scientificoQuaestio de aqua et terra che presenta a Verona in una dissertazione del 20 gennaio 1320.

Muore di ritorno da un'ambasceria a Venezia per conto del signore di Ravenna, dopo aver contratto le febbri malariche; il 22 agosto vennero firmati i patti dell'alleanza tra Forlì e Venezia e Dante chiese di poter tornare a Ravenna. "L'uomo era stanco, malazzato. Probabilmente chiese e ottenne licenza per il ritorno. Mai, in tanto peregrinare fece viaggio più triste. Attraverso la laguna, lungo il cordone litorale: le terre deserte... La sera del secondo giorno sostò secondo il costume, a Pomposa... Arrivò a Ravenna per riposare sul letto di morte. Il corpo bruciante per febbre, lo spirito immerso in Dio. Intorno i figli piangenti, gli amici, il Signore stesso nelle ore che consentiva l'aggravarsi della situazione politica. ... Il mondo veniva dinanzi a lui: tra lui e Dio non c'era più alcuno. E sentì che Egli giungeva. Era la notte fra il 14 e il 15 settembre 1321.Mentre il grande mistero si compiva, Beatrice, levata con le sorelle per il mattutino, pregava nella piccola cappella dell'Uliva. Il cielo incominciava a imbianchire, e Beatrice sollevò gli occhi umidi di pianto verso quella luce: pareva il cielo si aprisse ad accogliere il padre suo." (Bosco, cit., pag. 261-2).

Secondo l'Altomonte "È una notte di settembre, tra il 13 e il 14, quando entra nel suo «maggior sonno», dopo che il medico Fiducio de' Milotti aveva usato tutta la sua scienza per salvarlo. "Guido Novello aveva predisposto una cerimonia pubblica. Subito dopo il cadavere veniva «seppellito a grande onore in abito di poeta e di grande filosofo». Lo annotava un cronista, confermato poi da Boccaccio, il quale aggiungeva che Guido aveva «adornare il morto corpo di ornamenti poetici sopra un funebre letto». La chiesa della tumulazione - «in un'arca lapidea» - era quella di San Pietro Maggiore. Usciti dalla chiesa, quanto avevano partecipato al rito tornarono alla casa in cui Dante aveva abitato. Guido vi tenne «uno ornato e lungo sermone»."

In quella casa erano conservati gli ultimi 13 canti del Paradiso; li troverà il figlio Jacopo, dopo un sogno nel quale il padre gli era apparso indicandogli il luogo nel quale aveva nascosto la parte conclusiva del suo lavoro. Intanto la figlia Antonia entrava in convento (o forse vi era già) assumendo il nome di Beatrice.


DANTE: Beatrice

 

Beatrice, che apparve a Dante ai suoi nove anni e che alla sua ultima età terrena lo conduce alla soglia dell'Empireo, la donna che ispira il suo primo libro giovanile, la Vita Nova, e che egli sceglie a guida nel poema sacro (Divina Commedia) del grande pellegrinaggio umano che è prima di tutto il suo pellegrinaggio, vissuto e sofferto, resta indissolubilmente legata al poeta nel cuore dei suoi lettori. Egli è riuscito, come il suo amore voleva, a fare splendere per sempre il suo nome di uno splendore vivo e profondo, come pochi altri nomi umani. Ma la luce che si irradia da Beatrice non rende facile conoscerla; ella si chiude in un mistero che non è agevole penetrare. Le cronache fiorentine ci fanno sapere che la Beatrice del mondo era la figlia di Folco Portinari. Ma la Beatrice di Dante, quella della Vita Nova e della Commedia, che sola ci importa, questa è ben difficile definirla, ridurla, tradurla nelle nostre comuni parole senza magia. Molti si sono accaniti a farne soltanto un simbolo, e molti si sono ugualmente accaniti a farne soltanto una donna viva e reale. Ma non è su questa via che otterremo risposta da lei. Rifacciamoci a Dante, al suo verso pel quale solo ella vive, e all'ultimo Dante, là dove le parvenze vane sono ormai scomparse in una trasparenza di assoluta verità. Quando il pellegrino raggiunge l'Empireo, in quell'inizio del XXX canto del "Paradiso" che è tra le cose più grandi che egli ci ha lasciato, dove la sua penna già si muove, dopo tanta fatica, come per naturale potenza e sovrabbondante grazia, e spira l'aura divina dell'ultimo cielo, è venuto il momento per la sua poesia di rinunciare al tema più caro, di cessare dalla lunga consuetudine che durava da quando per le prime volte egli tentava di accordar parole nei versi: lasciare di cantare Beatrice. Al momento di incontrarsi con Dio, Dante perde la sua guida fedele. Anche il più alto e puro degli amori umani non può fare da intermediario, tra il pellegrino e il suo Dio, al quale finalmente è tornato: ogni legame con la terra è infranto. E in questo addio alla sua donna, e alla poesia che la canta, Dante ci lascia una preziosa testimonianza. Tutta la sua vita di poeta gli è davanti, ora, ed egli ripercorrendola col pensiero la vede sempre illuminata da un'immagine fedele, la riconosce assiduo tentativo di ritrarre quello che di più bello ha visto sulla terra. E dal suo cuore consapevole, dalla distaccata e serena altezza di quest'ora conquistata, dalla sua arte ormai senz'ombre, senza residui vani, nascono le sublimi parole: "Dal primo giorno ch'io vidi il suo viso - in questa vita, infino a questa vista, - non m'è il seguire al mio cantar preciso; - ma or convien che mio seguir desista - più dietro a sua bellezza, poetando, - come all'ultimo suo ciascuno artista" ("Paradiso, XXX, 28-33). È da qui che bisogna partire per conoscere Beatrice, Beatrice vivente creatura del cuore di Dante, parte del suo cuore. Ella sfugge di mano come un fantasma inafferrabile a volerla fermare entro i limiti di un simbolo, o entro la psicologia di un personaggio drammatico. L'uno e l'altro modo non servono con lei. Ella è con Dante in un rapporto molto più intimo, profondo e antico di tutte le altre persone della Commedia, più dello stesso Virgilio. È una cosa tutta speciale, è un po'l'anima stessa di Dante, se così si può dire, la luce della sua anima. Per questo bisogna accostarsi a lei con grande delicatezza, o certamente la perderemo Questo prezioso volto, il migliore e più sacro tesoro di un animo come quello di Dante dalla prima giovinezza alla cosciente e chiaroveggente maturità, ricca di tanto dolore e di tanta poesia, non può essere assalito dalle nostre classificazioni, così poco pieghevoli nelle delicate e multiformi configurazioni dello spirito. La poesia di Beatrice è una delle più difficili, perché si tratta di un tema tutto interiore, e della più chiusa stanza dell'animo di Dante; per coglierla bisogna seguire con attento orecchio le indicazioni che egli ci dà là dove la sua parola, più diretta e pura, lascia intravedere la segreta roccaforte. L'addio all'entrata dell'Empireo ci rivela appunto, nella sua singolare nudità, una delle ragioni essenziali del motivo di Beatrice. E si tratta di un vero addio, anche se Dante saluterà poi la sua guida nella celebre preghiera del canto seguente ("Paradiso", XXXI, 79-90). Perché Beatrice lo lascia veramente, quando la sua poesia cessa di descriverla; ed egli saluta qui Beatrice tema inesauribile di poesia, Beatrice da descrivere e da lodare, Beatrice miracolo di bellezza da cantare. Miracolo di bellezza da cantare: proprio questo ella è stata, fin dal principio, fin dai primi anni. Ella era l'incarnazione viva e amabile di quella bellezza e quella bontà a cui tendeva la vita di Dante, e colla vita la sua poesia; in lei Dante poté cantare, e quindi raggiungere, a suo modo, quello che l'animo suo poteva concepire di bello e puro. Perché per Dante tutto si risolveva in poesia: dolore e amore, pentimento, sacrificio, ascesa e gaudio. "Dal primo giorno ch'io vidi il suo viso..." altri direbbe: l'ho amata. Egli dice invece: l'ho cantata. Quello era il suo perfetto modo di amare, e di conquistare l'oggetto amato. Queste estreme parole del "Paradiso" hanno il loro evidente riscontro in una delle prime e più chiare affermazioni della Vita Nova, in modo che tutta la vita della Beatrice di Dante si svolge entro questi due termini di limpida consapevolezza. Nel famoso cap. XVIII una donna chiede a Dante: "- A che fine ami tu questa tua donna, poi che tu non puoi sostenere la sua presenza? Dilloci, ché certo lo fine di cotale amore conviene che sia novissimo!". E Dante risponde che il fine del suo amore è in qualcosa che non gli potrà venir meno: "In quelle parole che lodano la donna mia". Egli ha dichiarato dunque fin da allora il profondo significato del suo amore. E in lode di Beatrice è scritta la Vita Nova, e in lode di lei è concepita la Divina Commedia. Ella diviene la mèta, la misura, il paragone della poesia di Dante, che gareggia colla sua bellezza proprio come l'animo di Dante gareggia colla bellezza eterna. E Beatrice si fa tanto più bella, quanta più bellezza l'occhio interiore del poeta può conquistare. Per questo dicevo che Beatrice è un po'la luce stessa dell'anima di Dante. Essa rispecchia quella luce fedelmente e assiduamente nella sua poesia. Indagando questo primo motivo si è già scoperta in fondo la doppia essenza di Beatrice, i due inseparabili aspetti del suo volto che Dante ci dà col suo canto. Essi si rivelano nel modo più puro quando nel cielo delle stelle fisse, vicino ormai alla mèta, appare al poeta il mirabile trionfo di Cristo, e la luce del Verbo sopraffà l'occhio mortale: "E per la viva luce trasparea - la lucente Sustanza tanto chiara - nel viso mio, che non la sostenea. - O Beatrice, dolce guida e cara!" ("Paradiso", XXIII, 31-34). Mai come in questo momento, in questa pura invocazione, Dante ci fa toccare il fondo della poesia di Beatrice. Non è difficile qui capire che cosa ella sia per lui: donna amata e guida, l'uno e l'altro insieme, l'uno e l'altro profondamente e per sempre. Donna amata e, per questo amore, guida al bene. Guida, e per questo doppiamente amata. I due aggettivi che così castamente accompagnano il nome fanno sentire con intensità come l'amore s'aumenti e s'avvalori per quella sacra riconoscenza. Nessun ornato discorso ormai, ma solo un interno movimento, come un sospiro, può dire il profondo rapporto che si è creato cogli anni, questo raddoppio di gratitudine e di amore. Tale è dunque la Beatrice di Dante. E se questa forza di sentire non può trovarsi che negli ultimi anni, dove si sommano le complesse ragioni di tutta una vita e di tutta una grande opera di poesia, il volto di Beatrice ha quella doppia luce fin dal principio. I due motivi sono indissolubili l'uno dall'altro. Come l'amore non si smentisce fin nei più alti cieli, dove ella è la guida per eccellenza, così nella Vita Nova, che è libro d'amore, ella porta già il segno divino della salute. L'amore fervido e candido che si riversa su lei vede sempre in quella fanciulla "la donna de la salute". Il tema della salute è essenziale nella Vita Nova, come è essenziale quello della lode. Fin dal cap. II, dove si narra la sua prima apparizione a Dante fanciullo di nove anni, lo "spirito animale" dice: "Apparuit iam beatitudo vestra". E Dante soggiunge: "Ella non parea figliola d'omo mortale, ma di Deo". Nel cap. III ella è già chiamata "la donna de la salute", e più volte Dante ripete come nel saluto di lei stia tutta la sua beatitudine. La sua pura bellezza splende nella Vita Nova come persuasiva di bene. Pensate all'effetto del saluto: "una fiamma di caritate, la quale mi facea perdonare a chiunque m'avesse offeso". Pensate alla prima canzone: "Dice di lei Amor: Cosa mortale - com'esser po'sì adorna e sì pura? - Poi la reguarda, e fra se stesso giura - che Dio ne 'ntenda di far cosa nova", motivo ripreso nel grande sonetto "Tanto gentile", che raccoglie l'ispirazione di tutto il libro: "e par che sia una cosa venuta - da cielo in terra a miracol mostrare". La sua bellezza chiama amore; ma in quella bellezza traspare il divino, onde ella guida a Dio. E miracolo di bellezza e di bene sceso in un corpo mortale, ella è l'eterno tema, l'inesauribile visione del poeta. I tre motivi si sovrappongono e si fondono in uno solo, per quella centralità e coordinamento a un solo fine tipici del Medioevo e in particolare della natura di Dante. E così nasce Beatrice, fonte di luce costante dal principio alla fine della vita del poeta. Ma se l'essenza poetica di questa figura resta coerente dalla Vita Nova al "Paradiso", il suo aspetto però si va mutando. E questo ci dice ancora una volta come ella sia intimamente legata alla vita di Dante, e come sia impossibile ricercare in lei un personaggio drammatico. Ella si volge fedelmente insieme all'animo, all'ispirazione, al linguaggio del suo poeta. Vediamo Beatrice nella Vita Nova. Niente di più candido e delicato del suo aspetto, che ha tutta la soavità della giovinezza. "Angiola giovanissima" egli la chiama, e così la descrive: "Color di perle ha quasi, in forma quale - convene a donna aver, non for misura"; e guardate come è ritratto il suo sorriso: "Quel ch'ella par quando un poco sorride, - non si po'dicer né tenere a mente, - si è novo miracolo e gentile". Dante aduna attorno a lei tutta la tenerezza e lo stupore del suo cuore, colla parola incantata e innamorata del suo primo sguardo sul mondo: la capacità di dolcezza propria della sua natura, di cui tanto poco si è parlato per dare ascolto solo alle corde più risonanti, e che ha sviluppi così profondi nella Commedia, ci si rivela in pieno e tiene il campo in questo libro degli anni giovanili. Tale dolcezza modula il verso, e questa modulazione, questo linguaggio creato per Beatrice, avranno la loro eco nella Commedia, dove si parla di lei, fin nel "Paradiso", fino nell'espressione sovrana dell'artista che tocca il vertice della sua fatica. Tuttavia la Beatrice della Vita Nova non è la Beatrice della Commedia. C'è in lei qualcosa di generico e di indistinto, un incanto senza forza precisa. Ella è fanciulla ancora, che passa e sorride. Beatrice, vive qui, come sempre, solo nel suo rapporto con Dante; è l'amore di Dante che la fa vivere. E questo amore è ancora senza una delineata fisionomia. I motivi della lode e della salute rientrano nel circolo dello Stil Novo, non sono ancora ricreati nella vita concreta, rifatti sulla misura dantesca. Non avendo ancora una sua storia, questo amore si configura un poco genericamente, e Beatrice ci appare come il termine ideale di una incantata contemplazione. E non si vuol certo dire con questo che ella sia solo un sogno o una fantasia, come pure si è sostenuto. Anzi, ella è creatura tanto vera e viva, che non è possibile dubitare della sua esistenza. Basterebbe la scena del gabbo, dove ella ride colle altre fanciulle della confusione di Dante (Vita Nova, cap. XIV) o il suo pianto per la morte del padre, o il suo stesso aspetto nella morte: "ed avea seco umilità verace - che parea che dicesse: io sono in pace!". No, ella fu certo donna vista, e amata, e pianta, ma il suo volto nella Vita Nova non poteva esser che quello. Quella vaghezza è carattere proprio della gioventù, che non porta i segni e i solchi che poi incide la vita, è propria della prima poesia, che non può non essere influenzata dalla, scuola, ed è propria infine del fantasioso amore giovanile, che si chiude in se stesso, e non chiede nulla di fuori, ma è pago della sua contemplazione, e di una verissima fanciulla si fa un incanto e un sogno. Beatrice, specchio nella Vita Nova della giovinezza di Dante, muta nella Commedia dove Dante è mutato. La Vita Nova è libro lirico, e Beatrice non agisce, non parla neppure. Ma la Commedia è un'altra cosa: qui agisce Dante, e quindi agisce Beatrice. Il vago rapporto di quel primo amore non potrebbe farsi più concreto: Dante si perde, ed ella viene a salvarlo. Siamo nel vivo della vita di Dante, matura di esperienza e di dolore: a lui sull'orlo della morte, ella si muove per portare soccorso; per lui fatto pellegrino, ella è luce e conforto nella via. Così la poesia di Beatrice si fa dramma, fattasi dramma la vita di Dante; e che profondo e vivo legame è ora tra loro quell'amore antico, che torna colla potenza di tutti gli anni trascorsi! Dante ricollega più volte la Commedia alla Vita Nova, come se quella continuasse questa. E componendo, passata ormai la metà della vita, la grande storia di salvezza, affida a quella che fu la luce dei suoi primi anni l'azione centrale. Beatrice apre e chiude infatti tutto il cammino della purificazione, che percorre l'Inferno e il Purgatorio, ed è guida a Dante nel regno della beatitudine. Ella appare nel II canto dell'"Inferno", discesa al Limbo a chiamare Virgilio in aiuto di Dante. È faro e conforto nel lungo cammino per i due regni. E ricompare sulla cima del Purgatorio, a compiere l'opera che fa Dante puro per la salita alle stelle. Questo è veramente il momento centrale della poesia di Beatrice, come è il momento centrale della salvezza di Dante. Ella scende qui cinta dell'autorità della beatitudine, in un mirabile trionfo. Ora Dante rivede per la prima volta la soave bellezza che lo conquistò quando era fanciullo, ma questo è anche il momento doloroso e grave della confessione. È il momento solenne, dove qualcosa deve essere spezzato perché torni la chiarezza. Dante ha affidato a Beatrice quell'alta autorità e quel compito, perché è l'antico amore per lei che egli ha tradito, è il suo volto che egli ha dimenticato. È Beatrice che salva Dante nella Commedia, perché ella è il bene che egli ha conosciuto e amato nella giovinezza. Tutta la Vita Nova sta dietro a questa scena. Del tradimento verso quel giorni Dante deve rendere conto ora, a lei che soltanto ora gli riappare, con tutta l'antica forza d'incanto. Il suo amore si ridesta potente, coi segni stessi di allora, ma più intensi per l'animo fatto adulto: "senza de li occhi aver più conoscenza - per occulta virtù che da lei mosse - d'antico amor senta la gran potenza". Amore pentimento e vergogna fanno tempesta nel suo cuore. In questa scena drammatica il personaggio è uno solo, ed è Dante: Beatrice non è persona che gli stia a fronte. Ella, gli parla colla sua stessa voce, ella è la luce alla quale finalmente riapre gli occhi il suo cuore. L'azione non è in lei, ma in Dante, nella cui tenebra si riflette quella luce. E quando egli è passato attraverso il duro cimento, e la vede senza velo, allora nessuno può ridire con che parola egli canta quella bellezza ritrovata: "O isplendor di viva luce eterna..."; così s'innalza la fine del XXXI canto, dove già vibra la poesia del Paradiso. E nella terza cantica, Beatrice si trasfigura ancora, come tutto si trasfigura agli occhi di Dante. Perduta ogni scoria terrena, ella diventa la sensibile misura dell'immortale splendore che l'occhio del poeta contempla. Dante ha rotto tutti i ponti colla terra; egli tenta qui di ridire, lottando contro la sorda parola, lo stato, sperato e non sperimentato dagli uomini, della beatitudine. E Beatrice si fa centro vivente di quella beatitudine, ardore e riso degli stessi cieli, ella che è la prima e sola parvenza di quel mondo che Dante abbia mai visto in terra. Non per nulla è grazie alla sua luce che Dante sale. E quando ella lo ha lasciato alla soglia dell'Empireo, noi la vediamo ancora tendere le mani per lui, nel suo ultimo gesto, chiedendo a Maria che l'aiuti nell'ultimo passo dell'incontro con Dio. Quasi tutti han visto in Beatrice un simbolo di sapienza, di divina sapienza. Ed è probabile che ella lo sia, che ella impersoni quella sapienza che si può avere solo in Paradiso, dove si contempla l'eterna verità. Ma ella non è soltanto questo. Quest'attributo rientra in un significato più vasto, che è indubbiamente il suo motivo essenziale: ella è dono di grazia, è quello a cui l'uomo non può giungere colle sole sue forze, miracolo che Dio dona a tutte le creature perché possano arrivare a lui; è quel lume d'eterno che Dante intravide, e instancabilmente seguì, colla sua vita e la sua arte, fino a toccare coll'una e coll'altra, il Paradiso.

 

Divina commedia paradiso riassunto

 


DANTE: Dante autore e personaggio

 

Per poter fare un qualsiasi discorso interpretativo sulla Divina Commedia, è indispensabile anzitutto chiarire alcune questioni.

 

La Prima è questa: Dante va, di volta in volta, distinto in tre ruoli specifici: quello dell'autore, quello del narratore e quello del personaggio. Come "autore" è colui che scrive l'opera; come "narratore" è colui che racconta all'autore gli eventi che costituIscono la trama dell'opera; come "personaggio" è il protagonista degli eventi stessi. Naturalmente la sequenza autore-narratore-Personaggio, valida per il lettore che si avvicina alla Divina Commedia e scopre nell'autore il narratore e nel narratore il personaggio, si ribalta totalmente per Dante, il quale, da "protagonista" di una "visione", si fa prima "narratore" della stessa" e, quindi, "autore" di un'opera che quella visione racconta. Un esempio: il personaggio Dante, a trentacinque anni di età, si smarrì in una selva oscura; il narratore Dante confessa l'episodio; l'autore versifica: "Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura". Come si vede chiaramente l' "autore" traduce in versi il racconto del "narratore" che, ovviamente,usa il verbo al passato ("mi ritrovai") per distinguersi dal "personaggio". A sua volta l' "autore", quasi a voler sottolineare il distacco da entrambi (cioè dal narratore e dal personaggio) ed a voler affermare il suo diritto ad esprimere giudizi sul significato morale ed anagogico della vicenda narrata, dice "di nostra vita" col chiaro intento di coinvolgere, fin dalle prime battute, nell'esperienza del personaggio l'intera umanità.

 

Però se i ruoli del personaggio, del narratore e dell'autore vanno distinti, non si deve tuttavia pretendere che essi non si confondano o sovrappongano, trattandosi pur sempre della stessa persona, cioè di Dante. Per esempio, nella terzina successiva, autore e narratore si confondono ("Ahi quanto a dir qual era è cosa dura"), mentre subito dopo autore e personaggio si distinguono l'uno dall'altro alternandosi: "ma per trattar del ben (qui c'è l'autore) ch'io vi trovai (qui c'è il personaggio), dirò de l'altre cose (autore) ch' i' v'ho scorte (personaggio). Io non so ben ridir (autore) com' i' v'entrai (personaggio)".

 

La seconda questione da chiarire è quella dei "sensi" da attribuire alla scrittura per interpretare compiutamente l'opera.

 

Come si sa, fin dai primi secoli del Medioevo, era invalso l'uso di interpretare i Sacri testi (Antico e Nuovo testamento) risalendo dal senso letterale a quello allegorico, a quello morale ed a quello anagogico. Verso la fine del Medioevo tale metodo interpretativo fu esteso anche alle opere letterarie e, in particolare, a quelle poetiche. Lo dice lo stesso Dante nel "Convivio", chiarendo anche il valore e le caratteristiche dei quattro sensi: quello "letterale" si ricava dalle parole pure e semplici usate dall'autore per narrare un episodio (Dante, perdutosi in una selva oscura, ai primi raggi del sole scopre un colle che potrebbe costituite per lui la strada della salvezza, ma è impedito nell'ascesa da tre fiere che lo risospingono in basso); quello "allegorico" bisogna intuirlo dal letterale (ad esempio, la selva oscura rappresenta il peccato, il Sole la Grazia Divina illuminante che indica la via della redenzione, il colle indica la via del riscatto dal peccato, le tre fiere - lonza, leone e lupa - rispettivamente i tre vizi capitali che ostacolano il cammino dell'uomo peccatore verso il bene, e cioè la lussuria, la superbia e l'avarizia); quello "morale" si ricava poi dal senso allegorico: nell'episodio riferito sarebbe che l'uomo caduto nel peccato mortale non può, con la sola forza della volontà, riscattarsi, anche se la Grazia Divina gli indica la strada, ma ha bisogno di ricorrere alla Ragione umana (Virgilio),la quale tuttavia, se vale a far superare l'ostacolo rappresentato dai vizi capitali, nemmeno potrebbe condurre alla salvezza eterna, cioè al Paradiso,senza la Fede (Beatrice).

 

Più ardua è la definizione del senso "anagogico", per quanto riguarda l'interpretazione della Divina Commedia, perché lo stesso Dante, sempre nel "Convivio", sembra riservarlo alle sole Scritture. Infatti egli porta l'esempio del popolo d'Israele che, guidato da Mosè, si libera dalla schiavitù egiziana attraversando il Mar Rosso, e interpreta l'episodio narrato nella Bibbia come simbolico del popolo dei credenti che, guidato dal Cristo, si libera dalla schiavitù del paganesimo. C'è però da dire che nell' Epistola a Cangrande il Poeta riconosce che comunque il senso anagogico è possibile riscontrarlo in tutte le opere che trattano di cose riguardanti l'eternità, il mondo dell' aldilà, e quindi anche nella "Commedia". Ma per poter estendere il senso "anagogico" alla interpretazione della Divina Commedia, bisogna far ricorso alla proposta dell'Auerbach. Questi, riferendosi al metodo dell'esegesi biblica medievale, afferma che i primi teologi cattolici consideravano i fatti della vita terrena narrati nel Vecchio Testamento come "figure" di una realtà più solida ed eterna, quella rivelata nel Nuovo testamento. Con questo procedimento un avvenimento o un personaggio storico vengono proiettati verso l'eternità, là dove si realizza il disegno divino, e perciò sono "figura" reale di una realtà ancor più vera. Insomma, come afferma il Pasquazi, l'interpretazione figurale proposta dall' Auerbach "vede la realtà terrena e la realtà eterna come due momenti di cui il primo significa anche l'altro, mentre l'altro comprende e adempie il primo". Infatti l'Auerbach così spiega il significato anagogico della Commedia: essa "è la storia dell'evoluzione e della salvezza d'un uomo singolo, di Dante, e come tale una figurazione della salvezza dell'umanità". Anche Umberto Bosco concorda con la tesi dell' Auerbach quando afferma che la legge generale della Commedia consiste nell' "assunzione del personale a valore universale".

 

Tuttavia, nel leggere e nello studiare la Divina Commedia, non dobbiamo mai dimenticarci che essa è essenzialmente un'opera di altissima poesia. Tutto il discorso fatto prima ci aiuta a penetrare nel significato morale dell'opera, in un certo senso ad assecondare la volontà dello stesso Dante che, appunto, nella Commedia intendeva dare un contributo al riscatto dell'umanità dal peccato. Ma, al di là delle intenzioni, il poeta ha prevalso sul moralista. Come afferma giustamente il De Sanctis, "Dante è stato illogico; ha fatto altra cosa che non intendeva". Infatti la Commedia appare al critico Irpino "il Medio Evo realizzato, come arte, malgrado l'autore e malgrado i contemporanei". Questo giudizio basta da solo a spiegarci come sia possibile, in un poema che si propone di esaltare la beatitudine eterna e di indicare la strada del riscatto e della purificazione dal peccato, dalla carne, dalla storia, dalla vita terrena, trovarvi tanto peccato, tanta carne, tanta storia descritti con un linguaggio crudo e finanche "ripugnante" (come osservò il Goethe). A tal proposito l'Auerbach cita un verso, apparentemente volgare, che compare in uno dei passi più "solenni" del "Paradiso", e cioè: "e lascia pur grattar dov'è la rogna", ma il critico ha precedentemente precisato che "Dante non conosce limiti nella rappresentazione esatta e schietta del quotidiano, del grottesco e del repellente; cose che in sé non potevano venir considerate "sublimi" nel senso antico, lo diventano con lui per la prima volta". Proprio da ciò l'Auerbach nota l'enorme distanza che intercorre tra Virgilio (classico) e Dante (moderno). E, rifacendosi ad un giudizio di Benvenuto da Imola, afferma che la Divina Commedia contiene ogni sorta di poesia ed ogni sorta di scienza, ed anche se l'autore l'ha definita "Commedia" per lo stile umile e la lingua popolare, essa tuttavia appartiene al genere di poesia "sublime e grandioso".


DANTE: Dante e Dio

 

Nella figura di Dante confluisce la crisi degli istituti e delle forme della civiltà medievale, mentre in tutta la sua opera, particolarmente nella Divina Commedia, è presente l’estremo tentativo di superare questa crisi per poter restaurare l’equilibrio ormai spezzato. Anche se oggi l’ideale politico del poeta può sembrarci un’Utopia, è necessario che lo si comprenda, posto nel suo periodo, per capire la genesi stessa della Divina Commedia. Bisogna ricordare, prima di tutto, il Convivio e la Monarchia: nel primo, Dante si sofferma sulla necessità dell’Impero e dei suoi limiti: da Romolo ad Augusto, l’ascesa di Roma fu voluta da Dio e perciò l’autorità data da Dio all’Imperatore ha lo scopo di raggiungere i beni temporali, che preparano a quelli spirituali. Tale argomento verrà meglio sviluppato nel De Monarchia, in cui Dante vuole dimostrare ancora la necessità dell’Impero che, mediante un’autorità universale, l’Imperatore, può assicurare la pace universale, essenziale affinché l’uomo possa svolgere la sua opera in terra e diventare perfetto nella vita intellettuale. Anche qui è presente l’interpretazione provvidenziale della missione di Roma e dell’Impero romano nella storia del mondo. Affrontando i rapporti fra Impero e Papato, Dante afferma che l’Imperatore, come la luna, riceve, grazie alla benedizione del Papa, non il proprio essere, ma la luce della grazia che gli consente di operare con giustizia e onestà. Il poeta è anche convinto che la chiesa non precede l’Impero, perchè per i due fini assegnati da Dio all’uomo in terra (la beatitudine di questa vita e quella della vita eterna) sono necessarie due guide per gli uomini: il Papa, per guidare l’umanità alla vita eterna e l’Imperatore per la felicità temporale, due poteri autonomi.(Anche se alla fine Dante ammette che ci può essere una certa subordinazione del Principe romano al romano Pontefice in qualche cosa, dal momento che la felicità terrena è ordinata verso la felicità eterna).

 

Il pensiero politico di Dante, con il passare degli anni, sembra (anche se questo è un problema molto dibattuto) che abbia subito dei mutamenti: il poeta, con la Divina Commedia pare aver dato, rispetto alle opere precedenti, maggior importanza al rinnovamento della chiesa non solo per i fini ultra terreni ma anche per quelli politici. Riguardo al fondamentale concetto dell’interpretazione provvidenziale la Divina Commedia sarà meglio compresa, ricordando l’interpretazione figurale di Auerbach, secondo cui la Provvidenza divina ha eletto, fin dagli inizi, Roma a capitale del mondo, dando al popolo romano grandi virtù per conquistare il mondo e ridurlo in pace; dopo, sotto Augusto, giunse finalmente il momento del Redentore: per questo Roma terrena, figura, anticipazione della Roma celeste, specchio dell’ordine divino nel mondo, diventa il centro del Cristianesimo e sede del Papa. Così, tutta la tradizione romana confluisce nella storia della redenzione.

 

La Divina Commedia è sicuramente un’opera nel suo insieme politica e autobiografia ma è particolarmente nei canti sesti dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, che queste caratteristiche si evidenziano maggiormente. Nella sua ascesa verso Dio, Dante "pellegrino" non può sminuire il valore della città terrena, frutto della sua osservazione della storia, la quale gli serve a dare concretezza alla sua poesia, che altrimenti diventerebbe astratta.

 

Per questo, dopo la lode della volontà assoluta dell’individuo ideale, vi è la celebrazione, nel Canto VI del Paradiso, dell’ideale sociale, affinché l’ordine divino si possa realizzare non solo nell’individuo e nel mondo intero, ma anche nella "civitas".

 

Con il Canto VI del Paradiso, ci troviamo nel secondo Cielo di Mercurio dove appaiono gli spiriti attivi per desiderio di onore e di fama. L’Imperatore Giustiniano, dopo essersi presentato e dopo aver affermato che, sotto l’ispirazione divina, si dedicò "all’alto lavoro" (Corpus iuris) affidando il comando dell’esercito al generale Belisario, celebra l’Aquila, (simbolo dell’Impero romano e poi cristiano), che campeggia fin dall’inizio in primo piano nelle vicende storiche, dominate dai disegni provvidenziali di Dio; si sa che in Dante pensiero politico e religioso non vanno mai separati, anche se il tema politico, in questo canto, è trattato soprattutto con uno spirito teologico, che permette di trascendere le pure vicende della cronaca come afferma il Sapegno. Infatti a Dante interessa non tanto la storia di Roma quanto la "translatio Imperii", il trasferimento dell’Impero la sua continuazione sia da Cesare a Tito, sia da Tito a Giustiniano e da questi a Carlo Magno e ai successori, fino a Federico II e Arrigo settimo. Le varie figure, mediante le quali opera il segno dell’Aquila, prima dei re, poi degli Imperatori (puris strumenti), Cesare, che prende in mano l’insegna dell’Aquila per volere del popolo romano; Ottaviano, che portando l’Aquila fino alle rive del Mar Rosso, stabilì la pace nel mondo; Tiberio, sotto il quale fu mandato a morte Gesù ed ancora Tito, che fece giustizia di questo fatto, con la distruzione di Gerusalemme dove era avvenuta la crocifissione.

 

A questo punto, si ha la chiara denuncia dei Guelfi e dei Ghibellini, con una maggiore polemica verso i Guelfi per il tono pauroso della profezia (la giustizia divina punirà la malvagità dei Guelfi); dopo aver detto che questi spiriti sono felici perché riconoscono in Dio l’esatta corrispondenza tra merito e premio, Giustiniano presenta l’anima di Romeo di Villanova, esempio di giustizia contrapposto agli exempla di ingiustizia (Guelfi e Ghibellini); quest’uomo gusto, dopo aver accresciuto il patrimonio del suo signore, viene ingiustamente calunniato e costretto a lasciare la corte, povero e vecchio. Anche se Romeo appare rassegnato mentre Dante reagisce sempre fortemente alle sventure, i due personaggi sono molto vicini. La vicenda privata di Romeo, uomo giusto, si rivela a Dante più vicina ad un ideale di giustizia universale (dunque imperiale) della politica partigianesca di Guelfi e Ghibellini, che nei loro comportamenti affermavano di seguire valori universali. E’ giusto ribadire con il Sapegno che "quello che nel Convivio e nella Monarchia è un concetto storiografico e un assunto teorico" si trasforma, soprattutto nel Canto VI del Paradiso in "un motivo di grandiosa epopea, dove il protagonista è Dio stesso", ma bisogna puntualizzare che in questo epos si ha la prevalenza del figurante sul figurato, cioè del "sacrosanto segno" incarnatosi ne "li egregi / Romani" (vv. 43-44) rispetto a Dio che li trascende tutti. Basta un pronome "lo" a rendere, nella sua martellante ripetizione, l’idea di un poema epico.

 

La struttura narrativa del canto (nella terza persona del passato) è veramente tipica di un epos, particolarmente di un poema epico, dove l’eroe è uno solo, anche attraverso le azioni di figure diverse: ecco i protagonisti positivi dell’epos, dal progenitore Pallante (v.36) agli Orazi e a Bruto, Torquato, i Deci e i Fabi, Scipione e Pompeo, poi Cesare; di contro gli anti eroi o protagonisti negativi: Brenno, Pirro, Annibale, Tolomeo, Bruto con Casso, Cleopatra, i Longobardi, che servono ad esaltare meglio gli eroi positivi, come Ottaviano, Tito e Carlo Magno (si pensi ai poemi epici a Gano contro Orlando). Il centro ideale di questa epopea divina è la Redenzione, che dà significato religioso al processo provvidenziale della Storia, che viene vista così come teologia della Storia, per Dante un punto preciso di partenza per giungere, alla fine, al Vero Supremo, a Dio, diventando da storia, Metastoria. Il Poeta riesce a comprendere la realtà del suo tempo, grazie alla conoscenza della storia che lo aiuta a fare luce su tutte le miserie del suo periodo. Egli scorge nelle oscure profondità del Consiglio divino il processo del manifestarsi storico: storia ebrea e storia romana sono diretti verso un medesimo fine, quello trascendentale; la storia romana diventa anche storia sacra. Dante vede Dio –vivere- attraverso i fatti, per indirizzare l’umanità verso uno scopo determinato, diventando così Ispiratore della storia, fatta dagli uomini -strumenti-.

 

E’ il divino che, trasfuso nella ricostruzione del passato, dà a quest’ultima il motivo di esistere. In questo modo, nel Canto VI del Paradiso, si nota la storia rivestita di trascendenza e vista nel suo insieme e gli uomini che fanno la storia si realizzano non tanto per la loro singola opera ma perché fanno parte di Lei, che si svolge e si manifesta per mezzo di questi stessi uomini. Infatti il Poeta raffigura la storia con un Simbolo: il santo segno dell’Aquila, che opera e manifesta le sue virtù, per mezzo degli uomini: "Vedi quanta virtù l’ha fatto degno / di riverenza…" (Paradiso C. VI vv.34-35).

 

Pur partendo dalla figura concreta dell’Imperatore Giustiniano, si giunge subito alla figura ideale di Cesare, che è diretto verso un ideale "reggimento" perché è <<Dio che lo ispira>>. Dante, mosso da un profondo interesse politico e religioso, trascende la verità storica e fa operare Giustiniano sotto l’ispirazione divina, per affermare l’estrema verità, che è la santità e la grandezza della storia imperiale, la guida ideale, astratta, teorica per la vita civile. Nella sua visione terrena della storia, il poeta non bada ad un racconto cronologico preciso e lineare, ma sceglie, dalla storia stessa, gli avvenimenti che riescano ad evidenziare l’insieme, l’universalità, in una parola il trascendente, il Divino che traspare da essa.

 

E’ chiara la fusione del tema politico con quello teologico, quando chi lotta per la grandezza e l’affermazione dell’Impero, lotta contemporaneamente per la grandezza di Dio e così la "missione" politica, terrena, storica coincide con quella religiosa, a costo del dolore, del martirio politico come ben fa notare Giustiniano quando parla dell’opera di Romeo, un altro "pellegrino" dell’ideale, che come Dante "vaga." dalla selva terrena verso la Roma Celeste, dalla storia terrena a quella Divina, che è trasfusa in quella terrena, per mezzo delle imprese degli uomini, "baiuli", strumenti e portatori di essa. Il Poeta, partendo da un concetto storiografico e da un assunto teorico, giunge così ad una grande e maestosa epopea di Dio e della sua opera che si svolge in terra per poi, alla fine, elevarsi nel regno dei cieli. Questo itinerario dantesco, che inizia sempre dall’analisi attenta dei fatti storici e da un assunto teorico per poi giungere all’immensa celebrazione di Dio, si riscontra anche esaminando il VI Canto dell’Inferno: siamo nel terzo cerchio, dove le anime dei golosi giacciono prostrate nel fango, sotto una pioggia, mista ad acqua fetida, di neve, di grandine. Il custode Cerbero, cane tricipite, latra sopra gli spiriti che squarta con le sue unghie. In tali dannati c’è solo bestialità senza nessuna luce di intelligenza. Fra i golosi, Dante riconosce un fiorentino, Ciacco, che visse da parassita presso le mense dei ricchi gentiluomini. Un tono pesante ed angoscioso è presente in questo canto politico e profetico di Firenze, la cui vera situazione viene rivelata proprio da un personaggio come Ciacco che sul piano dell’eternità, continua la stessa funzione che ebbe in terra come parassita che, strisciando nelle mense dei signori, ne osservava i vizi.

 

Sollevandosi per un attimo dal fango (il fango della sua anima) ritrova per un secondo la sua umanità perduta solo nella condanna dei vizi, di cui egli stesso si macchiò. Ciacco, in una visione generale della Commedia, esprime tutta la carica e la tensione del tema politico della giustizia e dell’esilio, che sarà uno dei temi fondamentali del poema dantesco. Dante, personaggio del suo itinerario ultraterreno, illumina della sua umanità e della sua drammatica esperienza, molti personaggi dell’Inferno come Ciacco, Filippo Argenti, Farinata e anche del Paradiso come Cacciaguida. Così il tema dell’esilio, qui vagamente accennato, sarà nella missione affidatagli da Dio, il motivo da cui Dante partirà per rivelare e condannare vizi e colpe dell’umanità. Ciacco, infatti accenna profeticamente all’esito delle discordie civili a Firenze e alla rovina della parte Bianca, in cui sarà coinvolto anche Dante, soffermandosi sulle cause di tali discordie, come la superbia e la cupidigia. Alla fine a Dante viene chiarita la condizione dei dannati dopo il Giudizio universale, condizione che si perfezionerà nel bene e nel male. Le profezie di Ciacco esprimono il giudizio e lo sdegno di Dante che vede nelle lotte e nelle divisioni politiche, un legame con la degenerazione morale dell’umanità. (In questo assunto si evidenzia sempre come il cammino della storia sia legato al cammino che porta o allontana da Dio ed è chiara la fusione del tema politico con quello teologico, del momento che, in tale visione moralistica, la morte delle cose terrene serve ad affermare l’importanza e la grandezza dell’assoluto e dell’Eterno).

 

Lo scopo di Dante è fondamentalmente quello di condurre l’umanità dalle lotte e dai dolori terreni verso la pace, dalla città terrena alla città celeste verso la purezza della luce divina. Per questo trascendente scopo di giustizia, Dante attraverso le parole politiche di Ciacco, condanna l’uomo che lotta contro l’uomo ed anche l’uso della violenza, di cui è imbevuta la storia. Nelle profezie di Ciacco, gli avvenimenti di cronaca e di storia politica diventano anche fatti di metastoria e metapolitica, che trascendono quindi la semplice storia e la semplice politica di quei tempi, se si riflette bene sull’assunto teoretico, sulla concezione che ha Dante della vita e sullo scopo ultimo del suo poema: partire dal terreno per giungere al celeste, in una visione cosmica, in cui Dio illumina e vive nel Tutto. Il tema delle lotte intestine che lacerano le città d’Italia, realtà di quei tempi, è pure presente nel Canto VI del Purgatorio, con la medesima visione altamente moralistica presente nel Canto VI dell’Inferno, visione che rafforza e stimola un bisogno di purificazione, di ribellione a tanta corruzione terrestre per giungere a godere del nuovo ordine di pace e di giustizia che regna nei cieli. (Ancora una volta, il tema politico si fonde con quello teologico). Nella pittoresca similitudine di apertura del gioco d’azzardo, Dante riflette sul Caso, presente nelle vicende della vita; ma per Dante "cristiano" il Caso è la profonda e abissale volontà divina, è Dio nella Storia e nella vita degli uomini. Siamo nell’Antipurgatorio, dove i negligenti uccisi con violenza si accalcano attorno a Dante per chiedere preghiere (a questo riguardo, viene chiarito a Dante che solo la preghiera degli uomini qui ha valore). Un’anima solitaria attira l’attenzione di Dante ed è quella di Sordello da Goito, che al solo nome di Mantova proferito da Virgilio, lo abbraccia affettuosamente.

 

E’ proprio dal contrasto fra questo abbraccio affettuoso tra compaesani e le feroci divisioni e lotte fratricide dell’Italia, che nasce l’apostrofe dantesca all’Italia, al Papa, all’Imperatore ed anche a Firenze. La scelta del personaggio di Sordello è motivata dal fatto che egli, un poeta politico-civile del phanh (poema) per la morte di Blacatz (cavaliere provenzale), fu anche fustigatore della corruzione civile del tempo. L’apostrofe all’Italia "serva", cioè priva di libertà in quanto prova dell’ordine e delle leggi forniti da l’autorità imperiale e quindi in preda a regimi tirannici e a rovine come la decadenza dei partiti politici, lo squallore di Roma e l’odio feroce tra la "gente" della penisola. Dove manca l’autorità imperiale, non c’è speranza di pace né di salvezza eterna preparata in terra dalla stessa autorità imperiale. L’Italia, in questo canto, appare come il "giardino" dell’Impero, il fulcro, la sede legittima della Monarchia voluta dalla Provvidenza. Il messaggio di Dante si presenta in una prospettiva etico-ideologica che trascende gli stessi istituiti civili in vista di un loro riscatto. Si desume pure che il potere politico e quello religioso, distinti nei loro rispettivi campi ma subordinati alla volontà di Dio, devono collaborare in armonia, allo scopo di raggiungere i fini che la provvidenza ha indicato per l’umanità, quali la felicità terrena e la gioia celeste. Solo guardando le tristezze della storia da una prospettiva ultraterrena, Dante può tendere ad un ideale di armonia terrena fra gli uomini, retta dalla leggi della Provvidenza.

 

Il poeta è teso sempre a cercare nella Storia un destino, un disegno della Provvidenza divina, un giudizio di Dio nello scorrere del tempo storico, un rapporto profondo fra il momento reale, concreto e l’assoluto: quell’ideale assoluto, che è la suprema e ultima speranza al dolore degli uomini, si ritrova nell’emozione del presente: "perché foco d’amor compia in un punto…". (Purgatorio C. VI vv 38). Infatti per il Poeta, la politica, la storia, è soprattutto e fondamentalmente realizzazione dell’Assoluto e l’ansia stessa del rinnovamento e di purificazione di Dante-uomo è ansia di Assoluto: tutto è proiettato verso l’Infinito, in una continua e trascendente tensione sovrumana. Si pensi all’invocazione al sommo Giove, crocefisso in terra per noi, dove il fato viene cristianizzato e l’Assoluto s’incarna e si prepara a soffrire nell’umano; ancora, è nell’Incarnazione il primo passo concreto, reale, storico per la redenzione finale. E’ quindi sempre presente il concreto, il contingente, la storia e l’assoluto, l’universalizzazione dei richiami alla Bibbia, dei toni profetici e l’attualizzazione, la storia contemporanea dei Montecchi e Cappelletti, e Monaldi e Filippeschi, "attualizzazione" che permette di presentare sempre gli assunti ideali, universali e assoluti in modo non troppo astratto. E’ appunto questa continua tensione fra attualità e universalità, tra storia concreta e tendenza verso l’Assoluto, tra cronaca contemporanea ed eternità, che dà alle invettive di Dante un’impronta fortemente realistica, plastica e nello stesso tempo magnanima e grandiosa. L’invettiva del Poeta all’Italia, alla gente della chiesa, all’Imperatore Alberto di Asburgo, poi alla Divinità, poi di nuovo all’Italia, diventa da imprecazione, preghiera e fonde la visione gretta, meschina della terra con la visione maestosa, del cielo, giungendo così ad una grandiosa epopea, il cui protagonista è Dio.

 

Dante, autore universale e di ogni tempo, trasmette a noi l’importanza e l’eterna attualità di un Valore, la Fede in qualcosa che superi, trascenda la triste corrotta realtà, illuminandola della luce divina: infatti è solo questa luce divina che può dare un’ultima e suprema spiegazione a quella che inizia come semplice e contingente storia umana ma che sarebbe incompleta, assurda ed imperfetta se non tendesse verso una Metastoria, qualcosa cha va al di là della stessa storia terrena. Solo con questa speranza, con questa tensione verso l’assoluto, come scopo ultimo della vita terrena, si può vivere ed accettare con dignità la stessa vita terrena, in cui operiamo secondo disegni imperscrutabili.

 

 

Fonte: http://utenti.multimania.it/assodeli/divina_commedia.doc

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