Il crepuscolarismo e i crepuscolari

 

 

 

Il crepuscolarismo e i crepuscolari

 

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Il crepuscolarismo e i crepuscolari

 

Il CREPUSCOLARISMO

 

Il nome è da attribuire ad una metafora secondo la quale i  periodi della storia poetica italiana  vengono sommariamente divisi secondo le fasi del giorno. Dante, Petrarca, Boccaccio : mattino della poesia italiana; Boiardo, Ariosto, Tasso: mezzodì; Goldoni, Parini, Alfieri: primo pomeriggio; Foscolo, Manzoni, Leopardi: vespro e infine un lunghissimo crepuscolo: Corrado Govoni, Sergio Corazzini, Guido Gozzano, Fausto Maria Martini, Marino Moretti e per un certo periodo Aldo Palazzeschi.

La frattura tra individuo e società, un angoscioso senso di solitudine, il ripiegamento sull'interiorità sono gli aspetti più evidenti dell'epoca e ben ravvisabili nei crepuscolari. I poeti che vi sono ascritti presentano sensibilità, temi, moduli  in certo qual modo simili, arricchiti però in ogni singolo poeta da contaminazioni di diversa provenienza, per questo possiamo dire che i crepuscolari non formarono, come altre avanguardie di inizio secolo, un movimento veramente formalizzato con terminologie proprie e progetti comuni.

Poeti che si sentono malati, i crepuscolari, non solo spiritualmente e non a caso visto che molti di loro lo sono davvero e muoiono giovanissimi di tisi come Sergio Corazzini (21 anni) o Guido Gozzano (33 anni), caposcuola tra loro.

I poeti crepuscolari sublimano in poesia la vita quotidiana fatta di poche cose, banali e dimesse. Essi operano una dicotomia dalla tradizione in una perenne insoddisfazione che non si tramuta in ribellione, ma nella ricerca di un rifugio in angoli tranquilli del mondo e dell’anima.

 

 

GUIDO GUSTAVO GOZZANO

(Torino1883- 1916)

poeta

  • dello shock
  • dell’arte come consolazione e sostituto della vita
  • della vergogna d’essere poeta
  • dell’ironia straniante
  • del paradosso del far poesia in un mondo nel quale essa non ha più significato e ragione d’essere

 

Se per D’Annunzio “il verso è tutto” e “la vita si sfa in musica”, Gozzano, pur identificando la vita con la letteratura, si vergogna di essere poeta come dirà ne La Signorina Felicita:

 

Oh! Questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno
sì, mi vergogno di essere poeta!

 

Gozzano percepisce interamente il cambiamento politico ed economico di inizio Novecento, e non si riconosce in un’epoca in cui si passa dall’oggetto raffinato e ornamentale all’oggetto di consumo che ha un mero valore economico, oggetti ormai defunzionalizzati che nelle parole del poeta diventano “le buone cose di pessimo gusto” , oggetti di un’epoca alla quale Gozzano guarda con una certa nostalgia malinconica ma senza mai lasciarsi vincere dal rimpianto, sempre con quel distacco ironico che proviene dall’allontanamento in un passato prossimo e gli consente di salvare e la poesia e la vita.

 

Gozzano nasce a Torino, centro, insieme a Milano , della rivoluzione industriale ma anche città che saluta la nascita della cinematografia.

Il poeta entra perfettamente in questo nuovo meccanismo di comunicazione e per il Cinema scrive novelle, Il nastro di celluloide, Pamela e il riflesso delle cesoie, I serpi di Laocoonte (pubblicazione postuma, il contrasto tra cinema e mito è l’argomento), e due sceneggiature, La vita delle farfalle e La vita di San Francesco, opere non realizzate a causa della prematura morte dell’autore.

 

Dissolvenza, concitazione, rallentamento, ritmo …alcune tra le tecniche cinematografiche che Gozzano sperimenta e che noi possiamo ritrovare nel verso lungo formato da doppi settenari o doppi novenari o nella strofe lunga, sestina o ottava, dei suoi poemetti, “racconti in versi” come li definì P.P.Pasolini che parla di Gozzano come di un “bravo narratore in versi”.

 

Anche la scienza influenza la poesia di Gozzano-entomologo, collezionista di farfalle, piccoli esseri effimeri che in un solo giorno attraversano tutte le fasi della vita fino alla morte. Alle farfalle il poeta dedica un intero poemetto ed è questa una ulteriore linea di fuga, una via del rifugio perché la trasformazione rende la morte necessaria, il bruco deve morire per dare vita alla farfalla, un modo per esorcizzare la morte.

 

Proprio Via del rifugio è il titolo della prima raccolta pubblicata nel 1907 per la TREVES di Torino, rifugio anche nel sogno (evidente l’influenza delle teorie freudiane), nel sogno che con la sua grammatica, il suo linguaggio, le sue leggi  trasforma la realtà e rappresenta un altrove in cui la tradizionale logica di causa ed effetto non funziona più, ma funzionano la metafora, la condensazione, le ossessioni dei ritmi, le allucinazioni.

 

Tra i poeti che hanno studiato la poesia di Gozzano primo fra tutti è Vittorio Sereni che, tra il 1935 e 1936, proprio su Gozzano prepara la propria tesi di laurea e parla della sua “spaventosa chiarovveggenza” e chi meglio l’ha compresa è Eugenio Montale che è riuscito a carpirne l’ironia e la musicalità e che di Gozzano ha detto:

“È il poeta che è riuscito ad attraversare D’Annunzio per arrivare ad un territorio suo” e anche “…è maestro nel creare uno shock tra parola aulica e parola prosaica, colloquiale” facendo riferimento, per esempio, a rime proverbiali come basso-Tasso o come camicie- Nietzsche (La signorina Felicita). E ancora, sempre a parere di Montale, “Gozzano è un classico…” perché utilizza la metrica tradizionale ma lo fa con tutta una serie di trasgressioni che indeboliscono dall’interno la gabbia metrica come, per esempio, versi lunghi e spesso anisosillabici.

 

Lettura, analisi e commento della poesia

Un rimorso 

[da La via del rifugio, 1907]

 

I portici di Palazzo Madama, in piazza Castello, sono un punto di ritrovo per i torinesi. Transitandovi, Guido torna indietro con la memoria ad una passeggiata con un lontano amore somigliante all’attrice Emma Gramatica. La donna lamenta il male che l’uomo le ha fatto per non averla saputa amare, a lui resta il rimorso, la consapevolezza che però sa ancora soffrire.

 

 

 

I.

O il tetro Palazzo Madama...
la sera... la folla che imbruna...  
Rivedo la povera cosa,

la povera cosa che m'ama:
la tanto simile ad una
piccola attrice famosa.

Ricordo. Sul labbro contratto
la voce a pena s'udì:
«O Guido! Che cosa t'ho fatto
di male per farmi così?»


II.

Sperando che fosse deserto
varcammo l'androne, ma sotto
le arcate sostavano coppie

d'amanti... Fuggimmo all'aperto:
le cadde il bel manicotto
adorno di mammole doppie.

O noto profumo disfatto
di mammole e di petit-gris...
«Ma Guido che cosa t'ho fatto
di male per farmi così?».

 

III.

Il tempo che vince non vinca
la voce con che mi rimordi,
o bionda povera cosa!

Nell'occhio azzurro pervinca,
nel piccolo corpo ricordi
la piccola attrice famosa...

Alzò la veletta. S'udì
(o misera tanto nell'atto!)
ancora: «Che male t'ho fatto,
o Guido, per farmi così?».

 

IV.

Varcammo di tra le rotaie
la Piazza Castello, nel viso
sferzati dal gelo più vivo.

Passavano giovani gaie...
Avevo un cattivo sorriso:
eppure non sono cattivo,

non sono cattivo, se qui
mi piange nel cuore disfatto
la voce: «Che male t'ho fatto,
o Guido per farmi così?».

 

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      

La poesia è divisa in quattro sezioni che ricordano la scansione narrativa.

Nel titolo, l’articolo indeterminativo suggerisce che si fa riferimento ad un particolare episodio di vita e non all’idea di rimorso. All’interno del testo il termine rimorso non compare che indirettamente e una sola volta attraverso il verbo rimordi (III,2). I versi sono novenari di tradizione in cui le rime(ABC ABC DEDE) e gli ictus che si ripetono nelle identiche posizioni (2^, 5^, 8^) conferiscono alla poesia il ritmo di una cantilena che diventa ossessiva nel momento del refrain.

I personaggi sono solo due,  Guido, che però non è il poeta anche se porta il suo nome, e un suo lontano amore. Dei due solo la donna parla, suo è il ripetersi ossessivo del refrain che simboleggia l’ossessione del rimorso nel cuore del personaggio maschile che tace e al quale appartiene invece il ricordo.

È un finto colloquio in cui il passato remoto caratterizza il racconto e il presente la visione.

C’è una ostentata povertà terminologica sottolineata dal ripetersi degli epiteti(cosa, disfatto,cattivo, piccolo), parole colloquiali che appartengono ad un poeta che non è più vate, parole che vogliono esprimere il vuoto che c’è dentro il poeta.

L’unico punto esclamativo, una sorta di “a parte” dell’io narrante, ha valenza melodrammatica. L’influenza del melodramma è fondamentale per Gozzano, la si può riscontrare nell’impianto teatrale dei versi lunghi di molti suoi componimenti che ricordano il recitativo, parte più aperta del melodramma.

 

L’influenza del recitativo del melodramma si avverte in tutta la poesia di inizio Novecento. Significative in questo senso sono in Gozzano Le due strade e L’amica di nonna Speranza, unici componimenti presenti, seppure con alcune variazioni, sia ne La via del rifugio sia ne I colloqui, quasi a sottolineare lo stretto rapporto che c’è fra le due raccolte.

In effetti inizialmente Gozzano aveva pensato ad un’unica grande opera di tanti “tasselli”dal titolo Il libro, una sorta di grande “romanzo”di formazione di un personaggio che dalla giovinezza alla vecchiaia non vive ma si lascia vivere.

È anche per questo che  I colloqui è diviso in tre sezioni, Il giovenile errore, Alle soglie, Il reduce, che rappresentano tre diversi stadi della vita dell’io lirico.

 

Le due strade (1907)

[da I colloqui,1911 sezioneIl giovenile errore]

 

La versione della poesia Le due strade qui in esame è quella tratta da I colloqui (1911) nella sezione Il giovenile errore.

La stesura del testo, antecedente alla pubblicazione della raccolta, risale al 1907.

Il verso è il doppio settenario o martelliano, lungo dunque e di impianto teatrale, tipico delle commedie in versi. La rima è interna incrociata (poesia per l’orecchio nella definizione di Jacobson), molto familiare al poeta che spesso l’aveva ascoltata nei versi di Giacosa recitati dalla madre.

Tre i personaggi:

- Grazia, la Signorina

- la Signora

- l’avvocato(alter ego del poeta)

La noiosa passeggiata dell’avvocato e della Signora viene interrotta dall’incontro casuale con Grazia, giovane conoscente della Signora, che procede in bicicletta. Dopo aver consegnato la bicicletta all’avvocato, le due donne proseguono chiacchierando amabilmente. L’Io lirico tace e riflette sulla propria vita vissuta e su quella sognata, sulle occasioni perdute e sulla possibilità di una vita nuova che resta irraggiungibile. Segue una breve descrizione del paesaggio, quindi le due donne si salutano con la promessa di rivedersi. Grazia riprende la bicicletta e si allontana senza neppure salutare l’avvocato.

 

 

 

L’amica di nonna Speranza

[da I colloqui, 1911]

 

Il poemetto, in doppi novenari a rima interna incrociata(verso di ispirazione dannunziana, nolente Gozzano), fa parte di entrambe le raccolte La via del rifugio e I colloqui e, insieme a Le due strade, costituisce un fortissimo legame tra due parti di quella che Gozzano aveva immaginato come un’unica grande opera  dal titolo Il libro.

Troviamo anche qui un Gozzano che fa dell’ironia l’arma che gli consente di esorcizzare il disagio dell’assenza di un ruolo in quanto poeta, di esorcizzare la tristezza per la non appartenenza ad un tempo presente che tutto mercifica e di esorcizzare, non ultima, il poeta sa già di essere condannato, la morte. L’ironia diventa strumento per continuare a vivere in un tempo cui il poeta sente di non appartenere.

Ecco che, per guardare con quel giusto distacco che l’ironia richiede e nella consapevolezza che il futuro non gli appartiene, il poeta fa un balzo all’indietro di 50/60 anni, torna nel passato e relativizza il tempo che scivola nello spazio della finzione, assume a volte i toni del melodramma e, immobilizzato nella cornice di una foto, trasforma e confonde la finzione con la realtà, fa della letteratura la vita.

Gozzano si conferma “narratore in versi” , come lo definì Montale, e le sue parole, semplici e solo apparentemente banali, ci offrono con ironia garbata e ovunque presente (puntini di sospensione, superlativi, iperboli,… la esprimono)

la malinconia nostalgica di un presente e di un passato egualmente distanti. [Se osassi usare un neologismo, parlerei di “malinconoia”, così M. Masini ha definito il sentimento tormentato di chi non si riconosce uomo del proprio tempo e cerca collocazione in un altrove che, per uno che dichiara di essere affetto da “aridità sentimentale”,  non esiste se non nella teatralità della finzione. ndr ]

 

E allora un balzo nel secolo precedente, 28 giugno 1850, riporta in vita oggetti demodè, desueti,che non hanno più una funzione e sono “le buone cose di pessimo gusto” inizialmente solo nell’immaginario del poeta per diventare “reali” alla fine appena della I sezione.

 

Nella II sezione fanno la loro comparsa Speranza e Carlotta, diciassettenni, appena tornate dal collegio, intatti i loro sogni.

 

Per loro è la festa che riunisce amici e parenti (III sezione) nel salotto alto-borghese dove fanno mostra di sé “le buone cose di pessimo gusto”.

A parte le due ragazze, i personaggi non hanno nome, sono genericamente zio, zia, babbo, mamma, anche loro ormai parte, simili a oggetti,  di un passato irraggiungibile. Discutono di banalità, brandelli di conversazioni in cui fa la sua apparizione il discorso diretto, una vera novità per un componimento in versi, tentativo di trasgressione  del poeta che cerca di minare dall’interno la gabbia della metrica di tradizione. Forte è qui l’ironia del poeta.

 

La scena ha un che di teatrale. E con il teatro ha dimestichezza Gozzano e con

le sue finzioni e i suoi travestimenti ai quali fa partecipare anche la luna di un giorno giunto all’imbrunire e il sole che tramonta sulle confidenze tra Carlotta e Speranza: a loro solamente è concesso sognare, immaginare il futuro (IV sezione),

 

per un attimo anche a Carlotta (V sezione) che pure porta un nome che fa la pariglia con pizzi, scialle e crinoline e che appartiene alle eroine di romanzi in cui i protagonisti maschili muoiono suicidi, ed è vestita di rosa (colore anch’esso desueto)per farsi ritrarre in fotografia.

Ma è proprio sulla fotografia che torna a posarsi  lo sguardo del poeta e sulla data,  entrambe immobilizzano il tempo e danno al poeta la consapevolezza di poter amare solo attraverso la finzione letteraria.

 

La dimensione di teatralità è forse la caratteristica che meglio riusciamo a individuare ne L’amica di nonna Speranza in cui sia i personaggi sia gli oggetti partecipano della stessa avventura. È un’avventura che parte da un travestimento: personaggi e oggetti sono vestiti di Tempo, Tempo che serve per allontanare la vita e vivere la finzione.

Nella finzione, che è finzione scenica e teatrale e melodrammatica, rientra il gioco metaletterario, il modo di far poesia, l’accettare la gabbia metrica di tradizione per sottolinearne l’insufficienza.

 

 

GOZZANO E LE SUE DONNE

 

Affetto da una sorta di confessata aridità sentimentale, Gozzano non può amare le donne che conosce e frequenta.

Il poeta tende ad evadere dal presente e a vivere la finzione.

Nella poesia L’esperimento(1909), che fa pendant con L’amica di nonna Speranza, il gioco del “viaggio nel tempo” è scoperto: il gioco erotico sul divano rococò, il vestito di lei che ricorda quello di Carlotta, una collana kitch al collo di lei formata da effigi di città italiane che il personaggio maschile bacia e… il gioco finisce, si ferma sull’immagine di Roma papale che pende tra i seni di lei e allontana l’amore perchè il tempo presente non esiste, esiste solo il gioco teatrale. Il passato, con una vena fortemente nostalgica e ironica, assume i toni del sogno.

 

Gozzano è poeta del desiderio. Il desiderio che non è e non può essere appagato, che talora è irrealizzabile come nel caso di Carlotta (L’amica di nonna Speranza) e della prostituta di Cocotte, che rimane in essere come per la Graziella ciclista de Le due strade o che, come nei versi de La signorina Felicita, si trasforma nell’acre rimpianto della banale ovvietà del quotidiano e di un ideale di bellezza femminile schietta e casalinga.

In tutte le liriche di Gozzano il personaggio maschile è costretto ad assumere di volta in volta una maschera diversa,(nipote, bambino, amante, sofista…)  è malato di tabe letteraria, è malato di letteraturae le donne cercano di liberarlo dalla malattia.

I nomi femminili non vengono scelti a caso. In Carlotta Capenna e in Cocotte prevale il significante, l’effetto fonico; in Speranza (paradosso: nome proiettato nel futuro che però viene retrodato nel passato) e in Felicita prevale il significato e poi Virginia e poi…Torino, la città-donna, scenario urbano in cui avvengono e si misurano le avventure dell’io lirico. Sono tutte donne, quelle di Gozzano, in netto contrasto con le “donne rifatte sui romanzi” di D’Annunzio, anche la Signorina Felicita.

 

La Signorina Felicita ovvero la Felicità

 [da I colloqui, sezione Alle soglie] 1909-1911

 

Qui si gioca tra la parola felicità,tronca, e la parola Felicita,sdrucciola: la “via del rifugio” è anche la via per arrivare alla felicità, quella stessa di cui nel cronotopo de Le due strade si sperimenta un possibile percorso che si rivela anche qui fallimentare.

 

Una data sul calendario induce nell’io lirico il ricordo di una figura femminile e del mondo provinciale e sereno anche se monotono e pettegolo che la circonda nel quale al poeta (l’avvocato) sembra di ravvisare una più autentica dimensione del vivere, una autentica alternativa al proprio mondo che gli appare inaccettabile. Ancora una volta il poeta si abbandona consapevolmente alla finzione, ad un altro sogno ad occhi aperti destinato al fallimento. Se infatti la malattia fisica giocherà un importante ruolo, più preponderante sarà il male invisibile che affligge il poeta, quello di chi non sa affidarsi alla vita e rimane spettatore del suo fluire.

 

Pubblicato per la prima volta su Nuova Antologia e poi inserito ne I colloqui del 1911 nella sezione Alle soglie, aveva come titolo iniziale Idilio poiché il poeta desiderava sottolinearne il genere e la Signorina Felicita era Signorina Domestica, nome fortemente prosaico, che diventa poi protagonista di un’altra lirica, L’ipotesi,pubblicata nel 1910 sulla rivista Il viandante ed esclusa dalla raccolta, che però fa pendant con La Signorina Felicita.

 

Il poemetto, di tipo epistolare perchè si rivolge direttamente ad un tu, si apre con una epigrafe, 10 luglio:Santa Felicita, come si può trovare in un componimento di Jammes e anche nel Poema paradisiaco di D’Annunzio ed è diviso in otto capitoli lirici, ognuno suddiviso in sestine o, come direbbe Montale, “ottave rinviate”(l’ottava è la strofe dei poemi cavallereschi, idonea al racconto), variamente rimate secondo lo schema  AB BA AB non sempre rispettato per lasciare posto a rime come pirografia/malinconia, camicie/ Nietzsche, sofista/farmacista nelle quali si crea lo shock tra parola aulica e parola prosaica. Qui Gozzano prova la romanzizzazione del discorso lirico sul modello europeo  dell’ Onegin di Puskin, tradotto magistralmente da Giudici o del Don Giovanni di Byron in ottave di pentametri giambici.

 

 

Capitolo I

 

Già nella prima sestina ci sono tante citazioni, ricordi che il poeta come un esperto giocoliere riesce a ricombinare tra loro.

Il ricordo del luogo, per esempio, rievoca la poesia Piemonte (Ivrea la bella che le rosse torri / specchia sognando a la cerulea Dora)di Carducci di cui Gozzano ricombina in modo del tutto inedito la scenografia.

Il personaggio viene caratterizzato da una serie di azioni prosaiche (Tosti il caffè, cuci,  canti). Le rime sono facili (caffè/ me / te, ossitone ; giorno/intorno, pascoliana ). Le sensazioni olfattive veicolano il rapporto tra interno ed esterno. Si traccia il disegno di una realtà dimessa sottolineata anche dal nome dell’abitazione, Villa Amarena. Una residenza molto diversa dalle ville dannunziane, difesa da un muro di cinta disseminato di cocci di vetro( li ritroveremo in Meriggiare pallido e assorto di Montale), le stanze silenziose, arredi e suppellettili piccolo-borghese descritti con minuziosa malinconia attraverso la sintassi nominale, l’enumerazione di una serie di miti classici (pirografie)che non hanno più senso di esistere come le “buone cose di pessimo gusto”… tutto affonda nel passato, tutto si veste di Tempo,di un Tempo personificato.

La combinazione di aggettivi antinomici (squallido/severo, antico/nuovo) determina una situazione iperbolica che scade nel comico e nel grottesco e l’ostentazione dell’iterazione (semplicità che l’anima consola, /semplicità dove tu vivi sola/con tuo padre la tua semplice vita!), che insegue una parola astratta, un’idea, dà in un certo senso un senso di vuoto alla comunicazione.

La rima casa/cimasa/invasa …è una parabola che parte da Pascoli (Addio,1903 dei Canti di Castelvecchio), passa attraverso Gozzano (1909) e arriva fino a Montale (Felicità raggiunta, 1920 e anche I limoni in cui Montale fa una dichiarazione di poesia prosastica, a registro basso). È la rima come indizio di un percorso in cui prevale il significato ma c’è anche il significante che è in quel grumo metafisico che è la ricerca della felicità attraverso il viaggio verso un altrove esotico(rondini).

 

 

Capitolo II

 

Siamo nell’interno. C’è una dimensione melodrammatica fortissima sottolineata da brandelli di discorsi. L’assurdità e il grottesco della situazione sono messi in evidenza da aggettivi iperbolici come putrefatto e dalla paradossale rima facile senza/frequenzain cui una parola vuota rima con una piena di significato.

Gli attacchi anaforici con da creano un ritmo che va al di là della semantica.

Torna il Tempo:l’orologio è guasto, strumento inattendibile perché il piccolo tempo non può essere misurato.

Il personaggio femminile compare ex abrupto e con distacco definisce psicologicamente il personaggio maschile come malato immaginario, come uno che finge.

 

Capitolo III

 

Certo sono i valori di una realtà umile e dimessa che Gozzano, in continua polemica con le estetizzanti situazioni della produzione dannunziana, vuol mettere in evidenza anche nella descrizione del personaggio femminile. Ne risulta un “capolavoro”, così la definì Montale, un bozzetto singolare di ironia in cui la donna non più giovanissima è
quasi brutta, priva di lusinga, perfino le sue vesti sono quasi campagnole, la sua bocca si allarga troppo quando ride o beve. Paragonare la sua “bellezza”, contornata da bei capelli biondi raccolti in minute trecce, a quella celebrata da tanti pittori fiamminghi non basta a cancellare gli aspetti comici della descrizione perché Felicita non è brutta, è quasi brutta, ha il volto quadro, cosparso di efelidi, privo di sopracciglia e l’azzurro dei suoi occhi, che pure sono capaci di blandizie femmininama sono fermi, fissi, non è quello della profondità del cielo o del mare, è un azzurro di stovigliaI puntini di sospensione lasciano spazio alla fantasia di una scena che scivola definitivamente nel grottesco quando vi si affaccia la serva Maddalena decrepita che lava e ripone le stoviglie della cena. In cucina, tra gli odori pascoliani di basilico d’aglio di cedrina…, il poetaassurdamente vagheggia versi sul ritmo eguale dell’acciottolio delle stoviglie, si allontana ancora una volta dalla realtà di una vita ipotecata dalla malattia e lascia che l’illusione della speranza lo raggiunga attraverso il sorriso della ragazza, silenziosa compagna del suo silenzioso fantasticare senza sbocco. La vita è da un’altra parte, nelle voci dei giocatori, i notabili del posto, della stanza accanto.

 

Capitolo IV

 

La scena si sposta in soffitta tra il ciarpame/reietto così caro alla mia Musa, corrispettivo delle buone cose di pessimo gusto così care a Gozzano e alla sua poetica. Ed è un nuovo salto nel passato dove forse è possibile vivere la vita perché quella che fuori scorre nel bel paesaggio canavese, immobilizzato dall’abbaino antico, appartiene ad un Mondo vuoto di significato colmo di altri innumerevoli nonsense, cosa tutta piena di quei cosi/con due gambe che fanno tanta pena in cui tutto è merce, dove non c’è spazio per la poesia né per il poeta e chi si affanna, per gloria (quella tanto cara ai “poeti laureati”) o per guadagno, dimentica che la morte tutto e tutti livella. L’ansia di evasione sfocia in una delicata e insieme melodrammatica dichiarazione d’amore su cui incombe però un misterioso senso di morte che l’atropo sulla parete, non solo soletto e prigioniero, ma anche con un segno spaventoso/chiuso tra le ali ripiegate, ben rappresenta. Un cielo punteggiato di stelle invita al sogno, ma, di fronte al moralismo piccolo borghese della Signorina, si insinua nella coscienza dell’io lirico il dubbio, tutto crepuscolare, che sogno  rimarrà il vagheggiato inserimento nel  mondo di Felicita.

 

Capitolo V

 

Il poeta ricorda il piacere di certe giornate trascorse in mezzo alla natura con lui che racconta e lei che ascolta e intanto cuce, lei tanto diversa dalle donne rifatte sui romanzi Sono i giorni del corteggiamento, del debole rifiuto di lei che si schermisce, consapevole della propria bruttezza, che è capace di arrendersi a emozioni diverse e che per questo fa esclamare al poeta : Donna: mistero senza fine bello!

 

Capitolo VI

 

Le rime sono facili ( centenaria/ aria/letteraria; sorte/consorte… e la famosa  camicie/ Nietzsche) in queste sestine in cui il poeta immagina la propria vita con la consorte, tanto ignorante da non distinguere un ramo d’alloro da un ramo di ciliegio, ma rassicurante quanto il paesaggio nel quale è immersa, e dichiara tutta la sua vergogna d’essere poeta in un mondo in cui non c’è posto per la poesia e in cui la vita del sognatore non ha senso. Il distacco ironico del poeta è doppio, rivolto sia a se stesso che non riesce che a vivere di sogno sia alla ragazza che non fa poesia ed è ignorante.

Il capitolo si conclude con la non casuale ripetizione in un verso isolato e aforistico dell’esclamazione

Ed io non voglio più essere io!
in cui Gozzano sconfessa i suoi molteplici “io” perché sono tutti distaccati dalla vita, una vita che tutto mercanteggia.

 

Capitolo VII

 

A inizio Novecento si teorizza molto sull’esotismo di maniera e Gozzano, nella speranza, senza esito, di guarire, fa realmente un viaggio in India del  quale scriverà in una sorta di diario di viaggio dal titolo Verso la cuna del mondo.

In questo capitolo il protagonista dichiara la sua intenzione di partire a breve per terre lontane, per un altrove esotico, proprio come fanno le rondini.

Ricompaiono i brandelli di discorso diretto a dare una dimensione melodrammatica ad una scena in cui anche la scenografia naturale subisce una trasfigurazione grottesca, un irrigidimento, e anacronistico è il distacco dei due protagonisti che si baciano, secondo una moda ormai da tempo superata, sotto la fissità di una luna non reale che sembra<< un punto sopra un I gigante >>, immagine che Gozzano riprende da De Musset e adatta molto bene al paesaggio artificioso di questo capitolo.

 

Capitolo VIII

 

È il momento dell’addioe torna il gusto della data,non più anacronistico perché è la data in cui viene composta la poesia, trenta settembre novecentosette.

Il distacco è amaro, d’altri tempi, come quelli di taluni romanzi ottocenteschi di Fogazzaro e del Prati.

Lei giura che non lo dimenticherà, inutile promessa carpita nel momento dell'abbandono perché lui sa che non tornerà. È ancora finzione, il poeta non è il sentimentale giovine romantico che mostra d’essere come finzione è il viaggio d’oltremare che ha il sapore del viaggio oltremondano dantesco e serve a salvare il poeta da un altro viaggio estremo, come finzione è il far poesia che salva il poeta dalla vita stessa.

 

Fonte: http://omero.humnet.unipi.it/matdid/66/SINTESI%20FINALE%20COMPLETA.doc

Sito web da visitare: http://omero.humnet.unipi.it

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