Espressionismo nella letteratura italiana

 

 

 

Espressionismo nella letteratura italiana

 

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Espressionismo nella letteratura italiana

 

Brevi note sull’Espressionismo

 

L’Espressionismo è un movimento in prima istanza pittorico ma anche poetico. La difformità tra realtà e opera d’arte è il pungolo degli espressionisti. L’opera d’arte diventa il punto d’incontro tra interno ed esterno, tra invisibile e visibile, tra soggetto e oggetto. In pittura tutto questo si traduce in forte incisività e immediatezza del gesto e in violenza del colore. Dal punto di vista poetico la parola diventa un proiettile nella pagina, una forma di protesta che vuole affermare la potenza dell’Io. Anche nella poesia si sente l’urlo, la violenza della semantica. C’è un notevole sommovimento della grammatica (verbi transitivi che diventano intransitivi o assoluti, preponderanza di infiniti che scivolano dalla funzione verbale a quella nominale, eccesso di trasgressività del linguaggio unita ad una minuziosa precisione della metrica e del ritmo,…). La grammatica diventa grammatica interiore, grammatica del sogno. La realtà viene vista come caos, disordine ed il disordine come creatività.

 

CLEMENTE REBORA

(Milano 1885 – Stresa 1957)

 

  • poeta vociano (la letteratura come impegno morale)
  • tendenza all’Espressionismo
  • scelte formali forti: lessico originale,sintassi con stile verbale o nominale,metrica libera e varia (stilismo lombardo)
  • sfida solitaria nell’affrontare la realtà sforzandosi di darle ordine e significato senza il supporto di una solida ideologia

 

Secondo il filologo Gianfranco Contini, Clemente Rebora è il più grande esempio dell’Espressionismo poetico in Italia.

Rebora, personaggio molto complesso, nasce a Milano nel 1885, quella stessa Milano considerata la Parigi italiana che per il poeta sarà la città caotica che fa paura.

Già nel 1912 Rebora collabora con La voce e nel 1914 pubblica per le edizioni della rivista la sua prima raccolta dal significativo titolo Frammenti lirici.

Il termine frammenti fa pensare a qualcosa di incompleto o a qualcosa tra poesia e prosa. In effetti caratteristica de La voce è quella di teorizzare sul frammentismo, su poesie cioè che stanno sul crinale tra prosa e poesia, che appaiono non finite, alla stregua di certe opere di Michelangelo in cui il non finito è significativo di creatività inespressa.

I Frammenti lirici si inseriscono in una struttura portante molto densa e quindi possiamo definirli Canzoniere. Si tratta di una raccolta di 72 testi in cui il poeta narra di una tormentata ricerca di Dio attraverso la propria esperienza fatta di frustrazioni, cedimenti, ansie, passi indietro. I testi, ognuno con un incipit ed un excipit, hanno come caratteristica l’anonimato che Rebora considera un valore. L’essere dedicati non ad una persona, ma ai primi 10 anni de XX secolo è una dichiarazione di anonimato e anche dell’importanza che l’autore attribuisce al tempo, un tempo qui circoscritto perché importante, denso com’è di innovazioni delle quali il poeta ha piena coscienza.

 

 

L’esperienza della guerra, raccontata in Poesie sparse, segna profondamente la già problematica personalità di Rebora che verrà congedato e sarà per sempre tormentato da crisi nervose di tipo depressivo.

Nel 1920-22 scrive e pubblica Canti anonimi (ecco che torna l’anonimato) testimonianza del profondo travaglio interiore che nel 1930 lo porteranno alla conversione alla fede cattolica. Nel 1936 viene ordinato sacerdote e rinuncia alla scrittura, considerata ormai uno spreco di tempo, per riprenderla solo sul finire della vita, colpito da una grave malattia degenerativa che nel 1957 ne provocherà la morte. Fra le ultime sue opere i Canti dell’infermità.

 

Anche Rebora prende a modello Leopardi. Su Leopardi filosofo e sulle Operette morali scrive la propria tesi laurea e in seguito anche il saggio Per un Leopardi mai nato.

Dalle poesie di Rebora, che non sono mai preghiere, tuttavia traspaiono la disarmonia, la fatica della scrittura e un’ansia spasmodica di elevarsi al cielo espressa attraverso la disposizione dei versi, per cui la pagina assume una sorta di  verticalità che rievoca gli inni di Jacopone da Todi, e anche attraverso numerosi parallelismi che fanno pensare a versetti biblici o a salmi.

 

O pioggia dei cieli distrutti

da Frammenti lirici

 

 

  • 14° dei frammenti
  • Poesia verticale
  • L’inquietudine della città viene trasposta nei fenomeni naturali, in una pioggia di città che determina turbative all’interno del tessuto urbano.
  • Poesia difficile in cui nei momenti nodali, nei momenti più alti il verso si distende e diventa un endecasillabo o un verso doppio (il modello è quello de La pioggia nel pineto di D’Annunzio), dunque verticalità con qualche apertura orizzontale.
  • C’è una cura particolarissima dei suoni che non sono affatto idillici perché sono i suoni di una città trasfigurata che una pioggia che non lava (livida,come livido è il colore dell’inferno) rende ancora più mostruosa. La modernità di Rebora sta proprio nell’aver capovolto le cose e nell’averci così restituito una città alla gogna, sepolta dagli odori e dai rumori dissonanti, quasi funebre.

 

In questa poesia il poeta racconta la città e ne sottolinea la separatezza da Dio attraverso l’uso di pochi aggettivi, molti verbi e parole astratte.

 

 

O pioggia dei cieli distrutti

che per le strade e gli alberi e i cortili

livida sciacqui uguale,

È una invocazione alla pioggia di cieli distrutti, sfatti, cieli in cui è passata l’angoscia e la noia, la ripetitività del quotidiano rese dall’aggettivo livida, parola sdrucciola, un attacco dattilico che rallenta il ritmo, e dall’aggettivo uguale.

tu sola intoni per tutti!

Intoni il gran funerale

dei sogni e della luce

Alla pioggia è dato  il compito di stabilire il tono, una musica che però è dissonante, non armonica.

nell'ora c'ha trattenuto il respiro:

 

Nella dimensione della città il tempo è sospeso, non è vita quella della città.

bussano i timpani cupi,

strisciano i sistri lisci,

Parallelismo che cadenza con due attacchi dattilici i suoni della musica dissonante in cui prevalgono i suoni scuri.

mentre occupa l'accordo tutti i suoni;

intoni il vario contrasto

della carne e del cuore

L’accordo è dissonante perché c’è contrasto tra carne e cuore: il cuore sente il disagio della carne che è difforme rispetto al cuore.

fra passi neri che han gocciole e fango:

Il colore da livido è diventato nero.

scivola il vortice umano,

Ancora un attacco dattilico. Il vortice umano è la folla che inghiotte, anonima.

vibra chiuso il lavoro,

mentre s'incava respinta l'ebbrezza.

Ma tu, ragione, avanzi:

C’è un’emozione nel lavoro scomposto della città, ma non c’è posto per l’ebbrezza, è la ragione che avanza.

Onnipossente a scaltrire il destino,

nell'inflessibil mistero

a boccheggiare ci lasci;

Il poeta, inghiottito dalla folla, non riesce neanche a respirare.

Ma voi, rapimento e saggezza

in apollinea gioia

in sublime quiete,

al marcio del tempo le nari chiudete

o mitigando l'asprezza

nella fiala soave dell'estro

o vagheggiando dall'alto

numerose le parole astratte.

la vita, che qui di respiro in respiro

è con noi belva in una gabbia chiusa!

Nella città la vita, anche quella del poeta è chiusa in una gabbia,

Un'eletta dottrina,

un'immortale bellezza

uscirà dalla nostra rovina.

ma c’è una possibilità di redenzione elevandosi

 

Stile particolare quello di Rebora, una sorta di miscuglio di parole appartenenti a registri diversi, spesso parole del dialetto milanese (stilismo lombardo).

Il linguaggio, strumento con il quale il poeta cerca di forzare la lingua, di portarla al limite della sua espressività, diventa trasgressivo e gioca su vari livelli, timbrico, fonico, semantico,…

 

SBARBARO E REBORA A CONFRONTO

 

  • Entrambi evidenziano la sfasatura tra mondo interiore e mondo esteriore, Sbarbaro (poeta del desiderio irrealizzato, ndr) attraverso una poesia sottovoce, fatta di silenzi , di desertificazione del linguaggio, Rebora con una violenza verbale corrispettivo della violenza del colore nella pittura espressionista.
  • Espressionista è la matrice di entrambi.
  • Entrambi, soprattutto per quanto riguarda la ritmica  dei versi,  hanno come modello Leopardi però rivisitato attraverso Beaudelaire.
  • In entrambi possiamo riscontrare una forma di rinuncia alla vita che, partendo dall’incertezza di vivere, in Sbarbaro si rifugia nel collezionismo e in Rebora nel sacerdozio.
  • In Sbarbaro,  poesia solo apparentemente semplice, c’è la tendenza all’aforisma, alla rima gnoseologica.
    In Rebora c’è una oscillazione continua e violenta tra interno ed esterno per la conquista del divino come si evince soprattutto dai Frammenti lirici.

 

 

 

 

FRAMMENTI LIRICI

 

72 frammenti all’interno di una struttura portante che tutti li contiene ed è un viaggio dal contingente all’eterno.

Nella violenza di questo viaggio, il lettore scopre tutta la forza che il poeta deve esercitare su se stesso per mantenere la rotta e quella che subisce dal mondo che lo circonda, la folla anonima che lo fagocita.

Sulle pagine di Rebora la violenza diventa di tipo sintattico e grammaticale.

Gianfranco Contini parla di onomatopea psicologica perché spesso nella poesia di Rebora significato e significante delle parole collaborano con un particolare effetto fonico che sollecita i movimenti della psiche, un vero paradosso dal momento che in Rebora, come in Sbarbaro, il movimento è solo apparenza.

 

Voce di vedetta morta      

[1917,da  Poesie sparse]

 

 

C’è un corpo in poltiglia

con crespe di faccia, affiorante

sul lezzo dell’aria sbranata.

Frode la terra.

Forsennato non piango:

affar di chi può, e del fango.

Però se ritorni

tu uomo, di guerra

a chi ignora non dire;

non dire di cosa, ove l’uomo

e la vita s’intendono ancora.

Ma afferra la donna

una notte, dopo un gorgo di baci,

se tornare potrai;                   

soffiale che nulla del mondo

redimerà ciò ch’è preso

di noi, i putrefatti di qui;

stringile il cuore a strozzarla:

e se t’ama, lo capirai nella vita

più tardi, o giammai.

 

 

Pubblicata sulla rivista Riviera ligure nel 1917, non è compresa in nessuna raccolta. Deriva da una esperienza di trincea tanto traumatica da segnare per sempre la vita dell’autore che fu addirittura congedato per una forma di nevrosi contratta durante il servizio di prima linea.

C’è in questa poesia una tensione visionaria molto forte che parte già dal titolo paradossale perché i morti non parlano, ma la vedetta morta ha una voce.

Viene da pensare che siano i lamenti della vedetta colpita a morte che risuonano ancora nell’animo del poeta.

[ndr: in trincea la vedetta è morta e ci stupiamo che abbia una voce, ma in trincea è la vita che tace mentre la voce dei morti suona alta nel rombo del cannone, nel boato della granata, nel crepitio della mitragliatrice,…]

I suoni aspri (crespe di faccia) e il linguaggio crudo (corpo in poltiglia,lezzo, aria sbranata,afferra, putrefatti, strozzarla )rendono la violenza della morte.

Il tono è tragico e rassegnato nei versi in cui il poeta afferma che se anche qualcuno riuscirà a tornare (se tornare potrai), il suo destino sarà ancora più triste e disperato di quello di coloro che sono morti perché chi ha vissuto l’inferno della guerra è morto anche se è vivo [ndr: perché la sua vita è sbranata come il corpo della vedetta morta; non a caso le due parole sono in rima] e ciò che la guerra ha tolto non sarà mai reso. I termini si fanno più dolci solo negli ultimi versi perché forse solo nell’amore è la speranza.

 

 

 

 

GIUSEPPE UNGARETTI 

(Alessandria d’Egitto 1888- Roma 1970)

 

Brevi note biografiche

 

Giuseppe Ungaretti nasce ad Alessandria d'Egitto nel 1888, da genitori italiani. Dopo gli studi liceali si trasferisce a Parigi, dove frequenta l'università e conosce esponenti della cultura francese, come i pittori Braque e Picasso, gli scrittori Apollinaire e Breton, ma incontra anche alcuni scrittori italiani (Soffici, Palazzeschi, Savinio) che di Parigi avevano fatto in quegli anni una seconda patria. Interventista convinto, allo scoppio della prima guerra mondiale, torna in Italia e si arruola come soldato semplice combattendo in prima linea sul fronte del Carso. La vita di trincea è un'esperienza decisiva per il poeta. Negli anni successivi aderisce al fascismo lavorando come addetto culturale all'ambasciata italiana a Parigi. Fa il corrispondente dei giornali "Il Popolo di Italia" e "La Gazzetta del Popolo". Nel 1931 accetta la cattedra di letteratura italiana all'università di San Paolo in Brasile. Lì nel 1939 la tragica morte del figlio Antonietto di nove anni sconvolge la sua esistenza. Tornato in Italia, insegna letteratura italiana all'università di Roma dal 1942 al 1958 e continua la sua attività di poeta e uomo di cultura. Muore a Milano nel 1970

 

 

IL PORTO SEPOLTO

 

 

Nel 1916  Ungaretti pubblica la raccolta Il porto sepolto che rappresenta il primo nucleo di Allegria e nel 1919 pubblica contemporaneamente Allegria di naufragi a Firenze e la raccolta in francese La guerre a Parigi.

Al di là del loro significato immediato, i titoli hanno un significato metafisico che lo stesso Ungaretti rivela. Nell’ossimorico Allegria di naufragi il naufragio è quello della guerra. Nel fango della trincea tra topi e cadaveri il poeta ha vissuto un’esperienza tragica e fortissima sul piano emotivo dalla quale ha tratto la forza interiore che gli ha permesso di sopravvivere. È il racconto di questa energia profonda, di questo slancio vitale, che egli definisce allegria, che il poeta racchiude nella raccolta poetica.

Il porto è invece quello di Alessandria, sepolto in epoca tolemaica. Nel pensiero del poeta rappresenta anche “ciò che rimane in noi indecifrabile”, è ciò che non si può dire, è il mistero nascosto in ognuno di noi.

Nella poesia, in una poesia di “scavo interiore”,come egli stesso la definisce, il poeta individua lo strumento per far riaffiorare il proprio porto sepolto.

Ed ecco che in questa operazione maieutica le sue poesie diventano nel tempo sempre più essenziali, si spogliano di ogni ridondanza, snodano in verticale circondate dal silenzio della pagina mentre congiunzioni e articoli e preposizioni si vestono di una semanticità mai posseduta perché la poesia è dentro di noi e bisogna liberarla dal superfluo affinchè l’opera d’arte finalmente affiori.

Un altro elemento caro a Ungaretti, vissuto in Egitto fino all’età di diciotto anni, è il deserto. “Il miraggio del deserto è il primo stimolo alla mia poesia”, dice il poeta. Non la paura dunque ma un miraggio coltiva l’immaginazione del poeta che nelle cantilenanti nenie arabe apprende l’importanza del ritmo in poesia, sullo sfondo un porto e un deserto che diventano scenario interiore.

 

 

 

Pellegrinaggio
[da Il porto sepolto]

 

 

In agguato
in queste budella
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
usata dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba

Ungaretti
uomo di pena
ti basta un'illusione
per farti coraggio

Un riflettore
di là

mette un mare

nella nebbia

 

 

Poesia verticale suddivisa in tre strofe(la prima di dieci versi più due quartine) di versi liberi brevissimi. Manca la punteggiatura (come in Apollinaire) e  lo spazio bianco amplifica il significato delle parole mentre i numerosi enjambement costringono a indugiare nella lettura.

È un pellegrinaggio tutto terreno quello che l’Io lirico compie nello scenario di guerra perché  è proprio lui (questa è l’unica poesia in cui compare esplicitamente il nome di Ungaretti)che trascina la sua carcassa nel fango dei camminamenti di una trincea dove non c’è differenza tra la vita e la morte. Il poeta si paragona a una suola consumata, ma anche a un seme di biancospino, che, da quello stesso fango, saprà portar fuori l’energia per fiorire perchè non c’è dolore tanto grande da impedire all’uomo di conservare  un’illusione che dia la forza di andare avanti e allora basta un riflettore per aprire una vasta distesa di luce.

 

 

SINTESI Lezione 13^

 

Gli archetipi della poesia di Ungaretti, il porto e il deserto, si costruiscono ne Il porto sepolto. Il deserto è reale, è luogo dell’infanzia, luce, sabbia,cielo limpido di stelle e anche miraggio, perciò la poesia di Ungaretti è aridità e fuoco e anche poesia di allucinazione, una poesia epifanica, fatta di musica, di nenie, di cantilene come quelle della poesia araba quindi di ritmi, di suoni che si ripetono, di parole isolate nella pagina che acquistano pesantezza semantica.

 

L’incipit de Il porto sepolto è la poesia In memoria,dedicataall’amico Moammed Sceab, arabo.

Moammed Sceab conosce Beaudelaire, ama Nietzsche ed è interlocutore privilegiato di Ungaretti. Si trasferisce con lui a Parigi e muta il proprio nome in Marcel, ma non si sente francese. Persi i propri punti di riferimento, Moammed non riesce ad acquisirne altri e non ha nemmeno il conforto che deriva al poeta dal saper “sciogliere il canto del suo abbandono”, il dono della poesia che aiuta a superare il distacco da ogni certezza. Nell’assenza di patria e identità si consuma il suo dramma. Ungaretti accompagnerà l’amico suicida al cimitero di Ivry, sobborgo di Parigi, in un rito del tutto familiare e privato, ulteriore testimonianza della solitudine e della desolazione che avevano accompagnato la vita del giovane.

 

In memoria

[da L’Allegria, 1916]

Locvizza il 30 settembre 1916

 

 

Si chiamava

Moammed Sceab

Discendente

di emiri di nomadi

suicida

perché non aveva più

Patria

 

Amò la Francia

e mutò nome

 

Fu Marcel

ma non era Francese

e non sapeva più

vivere

nella tenda dei suoi

dove si ascolta la cantilena

del Corano

gustando un caffè

 

E non sapeva

sciogliere

il canto

del suo abbandono

 

L’ho accompagnato

insieme alla padrona dell’albergo

dove abitavamo

a Parigi

dal numero 5 della rue des Carmes

appassito vicolo in discesa

 

Riposa

nel camposanto d’Ivry

sobborgo che pare

sempre

in una giornata

di una

decomposta fiera

 

E forse io solo

so ancora

che visse

 

Poesia caratterizzata da una strategia della negazione (non aveva più, non era Francese, non sapeva più, non sapeva) che suggerisce un forte senso di assenza.

La sapienza metrica, la desertificazione della pagina, la conquista dell’ictus, la conquista di significato di parole che apparentemente significato non hanno, l’assenza di punteggiatura costituiscono una “rivoluzione” che nasce dal Futurismo ma che Ungaretti vive in modo del tutto personale , distante dai vuoti sperimentalismi dei futuristi, e usa per comunicare essenzialità.

I verbi al passato evidenziano il ricordo e il distacco  attraverso cui viene sublimata poeticamente la vicenda tragica dell’amico.

I versi si presentano frantumati con forti enjambement  che rallentano il ritmo e accentuano il tono malinconico della composizione.

Le parole acquistano la maiuscola quando hanno un peso semantico forte (Discendente, Patria, Francese )

 

 

 

 

 

L’ALLEGRIA

 

Inizialmente composta da un piccolo gruppo di poesie apparse sulla rivista Lacerba nel 1915, la raccolta poetica L’Allegria si arricchisce nel 1916 di un altro gruppo di poesie intitolato Il porto sepolto, prevalentemente incentrato sull’esperienza del poeta sul Carso, e, nel 1921, del volume Allegria di naufragi.

Tutti i componimenti vengono riuniti nel 1923 nella raccolta Il Porto Sepolto, titolo mutato in L’Allegria nel 1931.

La raccolta raggiunge la forma definitiva nel 1942 e comprende cinque sezioni, cinque grandi capitoli di un’unica opera e precisamente:

  • Ultime
  • Il porto sepolto
  • Naufragi
  • Girovago
  • Prime

Ungaretti, esegeta di se stesso , spiega gli alquanto singolari titoli.

Alla prima sezione, per esempio, ha dato titolo Ultime poiché raccoglie poesie

dalle quali il poeta desidera allontanarsi, anche se gli sono molto care, in quanto le considera troppo legate all’Avanguardia. Il poeta se ne distacca con un forte lavoro di riduzione come quello operato, per esempio, sulla poesia Levante.

 

Levante 

1916

 

Pubblicata a marzo 1915 su Lacerba con il titolo Le suppliche è di 75/76 versi, ridotti in seguito a 50 e titolati Nebbia, ridotti ancora a 25 nella forma definitiva dal titolo Levante.

Dietro ogni poesia di Ungaretti c’è sempre un evento reale, qui è il viaggio per mare con il quale il poeta lascia definitivamente Alessandria d’Egitto, incerta la data, forse il 1912.

 

La linea
vaporosa muore
al lontano cerchio del cielo

Linea /vaporosa àÈ l’orizzonte colmo di vapori che dà un senso di dissolvenza, di lontananza, di morte

 

 

Picchi di tacchi picchi di mani

e il clarino ghirigori striduli

e il mare è cenerino

trema dolce inquieto
come un piccione

il poeta vuole dare il senso di allegria e di confusione che c’è sulla nave. Le sillabe toniche sono in a, ma la prevalenza delle i rende il rumore dei tacchi sulla nave. Effetto onomatopeico che aiuta il significato. Significato e significante collaborano.

clarino – cenerino à rima interna

ghirigori striduli à sinestesia

mare cenerino à effetto visivo

il mare trema dolce inquieto à nel mare viene trasposta l’inquietudine di chi parte.
Salto analogico con il come che fa pensare ad una similitudine

 

 

 

A poppa emigranti soriani ballano

 

 

 

 

A prua un giovane è solo

un giovane è solo àsi tratta del poeta , solo nella malinconia per aver lasciato la città natale, il proprio mondo; solo perché non riesce a identificarsi con gli altri.

I due versi isolati rendono l’idea di due stati d’animo contrapposti.

 

 

 

Di sabato sera a quest’ora
Ebrei

laggiù

portano via
i loro morti

nell’imbuto di chiocciola

tentennamenti
dei vicoli
di lumi

laggiù à non c’era nelle versioni precedenti; deittico del ricordo, della lontananza, della dissolvenza, dell’immagine che sopravviene ex abrupto; usato in modo improprio.

Il ricordo è per Alessandria. Nel quartiere ebraico, di sabato sera, i morti vengono portati via attraverso un dedalo di viuzze, un labirinto di stradine che inerpicano come il guscio di una chiocciola e nelle quali si rischia di rimanere intrappolati. Per associazione di idee vengono in mente le trincee: anche lì si rischia di rimanere intrappolati nei cunicoli labirintici, anche lì si trasportano morti.

 

 

 

Confusa acqua

come il chiasso di poppa che odo

dentro l’ombra
del
sonno

Confusa acqua àè l’acqua del mare, in essa viene trasposta la confusione della nave.

Quest’ultima strofe è una sorta di consuntivo ma con un approfondimento, con un effetto di dissolvenza. Il poeta è a prua, non si identifica con la chiassosa compagnia che è a poppa e questo fa sì che il poeta viva in una dimensione di immaginazione, una dimensione onirica, archetipica, fuori dal tempo, la stessa dimensione nella quale Mohammed Sceab(In memoria) ha scelto il suicidio.

 

SINTESI Lezione 14^

 

da L’Allegria

 

 

 

C’era una volta

 

Bosco Cappuccio
ha un declivio
di velluto verde
come una dolce
poltrona

Appisolarmi là
solo
in un caffè remoto
con una luce fievole
come questa
di questa luna

 

Quota centoquarantuno, l’1 agosto 1916

 

 

1916, siamo in piena guerra, ma il nome del monte suggerisce una dimensione fiabesca e il paesaggio carsico, addolcito da un declivio soffice d’erba e dalla luce lieve della luna, trasporta il poeta in un altro luogo conosciuto, lontano dal teatro della guerra. Così il declivio è la poltrona di velluto di un caffè nella lontana Parigi, uno di quelli in cui era solito sostare e chiacchierare con l’amico Moammed Sceab e con altri letterati e dove dolce gli sarebbe appisolarsi alla luce di una lampada, fioca come la luce della luna che spande su Bosco Cappuccio. Non la speranza del futuro ma la memoria del passato  è luogo del sogno che allontana il poeta dalla triste realtà.

 

I deittici (là, questa), anello di congiunzione memoriale,suggeriscono un salto spaziale, un allontanamento dalla realtà che solo la poesia consente.

Nei versi , liberi e frantumati, c’è un uso molto attento degli aggettivi (verde, dolce, remoto, fievole) e delle pause che rendono lento il ritmo e danno risalto ad alcune parole (declivio, velluto, dolce, poltrona, appisolarmi) che, anche attraverso l’allitterazione in l, comunicano un senso di dolcezza onirica. È un sogno infatti, un viaggio dell’immaginazione come il verbo all’infinito (appisolarmi), non collocato cioè in una specifica dimensione temporale, ci indica.

 

Lontano

 

Lontano lontano
come un cieco
m'hanno portato per mano

Versa, il 15 febbraio 1917

 

Pubblicata sulla rivista La Diana, la poesia, molto simile per dimensione e struttura ad un haiku giapponese, ci trasporta già con il primo verso (Lontano lontano)in unadimensione fiabesca, quella del viaggio, e poi, con l’aggettivo cieco, archetipica, Omero è infatti il poeta cieco per antonomasia.

Anche Ungaretti è cieco perché non è dai suoi occhi ma dalla propria luce interiore che si lascia guidare per giungere, presumibilmente, al porto sepolto, alla verità della poesia.

 

Natale

 

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

 

Napoli il 26 dicembre 1916

 

 

Non ho voglia camminare in un intrico di strade (il “gomitolo di strade” richiama alla mente il caos della trincea)

 

 

Stanchezza/sulle spalle àallitterazione in s, dà una sensazione di silenzio;

versi che trasmettono il senso di spossatezza accentuato dall’enjambement;

 

Voglio essere lasciato solo così come un oggetto dimenticato in un angolo (la “cosa posata e dimenticata” è riconducibile ai compagni massacrati e abbandonati sui campi di battaglia)

Catena allitterante in t

posata /dimenticata à rima facile

cosa/posata à rima interna 

 

 

 

 

 

Qui è in contrapposizione con il "là" della prima linea;

l'utilizzo dell’ aggettivo buono serve a contrapporre il caldo consolatore del focolare al freddo crudele e nemico delle trincee

 

la strofe è un endecasillabo parcellizzato

 

 

 

Anche questa strofe è un endecasillabo parcellizzato

 

Pubblicata per la prima volta sulla rivista La Diana, viene composta nel Natale 1916 mentre il poeta si trova a Napoli presso amici in una pausa dalla guerra.

Il poeta è stanco, stanco dell’orrore di una guerra che pure aveva desiderato, stanco di tutte le morti (l’allitterazione in s dà una sensazione di silenzio e

trasmette il senso di spossatezza accentuato dall’enjambement). Anche se è Natale e sembra che si attraversi una tregua, la guerra rimane una presenza sospesa in sottofondo e il poeta esprime il suo desiderio di pace estraniandosi dalla vita sociale, evita di inoltrarsi nel groviglio di strade della città che, nel suo malessere interiore, emotivamente associa ai labirinti delle trincee. Il Qui isolato e a inizio strofa, come pure lo Sto della strofa successiva, sottolinea che il poeta si allontana da tutto e da tutti in cerca di un rifugio nel calore del focolare, quasi a sfuggire il freddo delle gelide nottate in trincea. Ma, mentre ci sembra di vedere gli arabeschi disegnati dal fumo del camino, ci raggiunge il terribile senso di solitudine del poeta.

Poesia in verticale anche questa cui parole molto spesso circondate di silenzio e un linguaggio colloquiale eppure in certi tratti oscuro conferiscono un senso di vaga indeterminatezza.

 

 

Girovago

 

In nessuna
parte
di terra
mi posso
accasare


A ogni
nuovo
clima
che incontro
mi trovo
languente
che una volta
già gli ero stato
assuefatto


E me ne stacco sempre
straniero


Nascendo
tornato da epoche troppo
vissute


Godere un solo
minuto di vita
iniziale


Cerco un paese
innocente

 

Campo di Mailly maggio 1918

 

 

 

 

Siamo tutti girovaghi? Sì, secondo Ungaretti, poiché l’essere girovago è uno stato dell’essere metafisico. La poesia Girovago, che ha la verticalità di un inno, che sembra quasi una preghiera, ci invita a entrare con discrezione nel mondo interiore del poeta.

Costretto ad una vita di continui spostamenti, il poeta indossa la maschera del nomade e ne mostra lo spaesamento e tuttavia non è un luogo, non è uno spazio fisico quello in cui non riesce ad accasarsi. È un luogo-non-luogo che il poeta ricerca, un luogo ancestrale di innocenza archetipica, un luogo non sciupato dalla vita vissuta, un luogo prima del tempo che ritorna al tempo, è un desiderio di tornare alle origini. Ma la ricerca è vana perché, ovunque egli si trovi, sente la fatica e l’angoscia dell’assuefazione a qualcosa che alla vita si oppone, al male in tutti i suoi aspetti, e dunque si allontana sentendosi estraneo, impossibilitato a godere ancora di un attimo di quella gioia che pure ha una prima volta conosciuto.

 

SENTIMENTO DEL TEMPO

 

Frutto di una profonda meditazione sulla poesia e sulla condizione dell’uomo, la raccolta Sentimento del tempo vede una prima edizione nel 1933 ed una seconda, accresciuta, nel 1936.

La raccolta è suddivisa in sette (numero biblico) sezioni:

  • Prime
  • Fine di Crono
  • Sogni e Accordi
  • Leggende
  • Inni
  • La morte meditata
  • L'Amore

e il suo titolo è legato alla ricerca del tempo da parte del poeta,  della quarta dimensione. Ne L’Allegria la ricerca è esplicitazione del “piccolo” tempo per cui la raccolta è una sorta di diario progressivo con luoghi, giorni dettagliatamente annotati e la sperimentazione va dunque verso la dissolvenza del grande tempo, va dalla realtà al sogno, perché il poeta ha il dono di saper trovare la linea di fuga nella lontananza, nell’immaginazione, nel sogno e dunque nelle intermittenze della memoria in quanto sogno e in quanto dissolvenza, anche filmica oltre che escatologica. Il poeta parla del veloce scorrere del tempo, del mutare e della brevità del tempo e “ciò che rimane del tempo è il soffio della poesia” che Ungaretti persegue con ritmo nuovo fin dalle raccolte L’AllegriaIl porto sepolto.

Nella raccolta Sentimento del tempo vengono fuori due modi di concepire il tempo perché da una parte c’è un tempo lineare, classico che ha una scansione, un inizio e una fine e dall’altra l’intuizione più segreta di un tempo sgretolato, sconnesso , frantumato, un tempo epifanico che si rivela nell’attimo la cui durata dipende dal nostro spirito. È proprio quest’ultimo il tempo novecentesco che può avere tre momenti:

  • tempo come paesaggio, come scenografia
  • tempo in rapporto strettissimo con l’eterno (sezione Fine di Crono)
  • tempo in rapporto all’invecchiamento, al decadimento della carne (sezione L'Amore)

Sentimento del tempo è la raccolta in cui nasce e si percepisce l’Ermetismo:

  • i versi si aprono al canto
  • c’è il recupero della punteggiatura
  • la sintassi diventa ricca, evoluta, ipotattica
  • i verbi vengono declinati anche al passato, al tempo del racconto
  • la metrica si fa complessa, trasfigurata dal peso della scansione ritmica data dagli accenti e non più dal numero delle sillabe
  • il vocabolario sempre più alto, aulico

 

L’isola

[da Sentimento del tempo, 1919-1935, sezione  LA FINE DI CRONO]

 

A una proda ove sera era perenne

A una proda…sceseàanastrofe

Di anziane selve assorte, scese,

anziane selve à personificazione

E s’inoltrò

Eàattacco anaforico

E lo richiamo rumore di penne

richiamo rumore àallitterazione in r

Penneà metonimia

Ch’erasi sciolto dallo stridulo

stridulo/ Batticuore àenjambement

Batticuore dell’acqua torrida,

 

E una larva (languiva

Didascalia, voce di chi scrive e non è detto che sia il poeta; qui l’io narrante è indeterminato

larva languivaàallitterazione

E rifioriva) vide;

E una larva…videà anastrofe

Ritornato a salire vide

 

Ch’era una ninfa e dormiva

ninfaà natura mitica non umana

Ritta abbracciata ad un olmo.

in fusione con la natura

In sé da simulacro a fiamma vera

 

Errando, giunse a un prato ove

Errando àgerundio che dà il senso della continuità dell’andare, del viaggiare

L’ombra negli occhi s’addensava

iperbato

Delle vergini come

Dimensione ancestrale, verginale; comeàveicola

Sera appiè degli ulivi;

ulivià simbolo sacrale legato alla purezza francescana; si sente l’influenza della poesia dannunziana.

Distillavano i rami

anastrofe

Una pioggia pigra di dardi,

pigra àlenta

 pioggia pigra àallitterazione

 di dardi àallitterazione

Qua pecore s’erano appisolate

 

Sotto il liscio tepore,

liscio tepore à sinestesia

Altre brucavano

brucavano/ La coltre àenjambement

La coltre luminosa;

 

Le mani del pastore erano un vetro

 

Levigato da fioca febbre.

fioca febbre à allitterazione/sinestesia

“La poesia è poesia quando porta in sé un segreto”  afferma Ungaretti in una delle tante interviste a lui rivolte, parole che sottolineano un concetto che appartiene alla poesia ermetica di cui Ungaretti è caposcuola: la poesia non è da tutti né per tutti e il poeta è depositario di un singolare enigma che non a tutti è dato sciogliere. A questo proposito emblematica è la poesia L’isola, trattada Sentimento del tempo (1919-1935)sezione  La fine di Crono, nella quale c’è una logica che va oltre la logica corrente e sembra quasi che il poeta prenda gusto a mettere in difficoltà il lettore rendendogli oscuro il passaggio da un verso all’altro. Non è casuale la scelta grafica della maiuscola ad ogni capoverso che sembra suggerire che ogni verso parla per suo conto e nemmeno la presenza di elementi tipici della letteratura arcadica (ninfa,pastore, gregge) che non sottolinea un ritorno al passato bensì un uso sapiente dell’analogia.

 

Attraverso il recupero della punteggiatura, l’uso di un linguaggio alto, aulico (proda, perenne, vergini, distillavano, dardi, languiva…), arricchito da numerose e varie figure retoriche (anastrofe, anafora, iperbato, allitterazione, metonimia, sinestesia, parallelismo, metafora, enjambement; solo alcune segnate in tabella), tra settenari, novenari e endecasillabi non più frantumati e una sintassi complessa e ipotattica è un secondo Ungaretti che scopriamo in questa lirica attraversata da un serpeggiante senso di indeterminazione perché mancano gli articoli determinativi, non si riesce a dare identità certa  all’Io narrante e lo stesso titolo si presta a interpretazioni diverse.

 

Cos’è allora l’isola?

 

È un luogo reale, geografico oppure è un luogo dell’anima, uno stato mentale? Nei versi del poeta l’isola diventa tutto questo e anche altro, diventa uno spazio assoluto, un luogo ancestrale dove azioni e processi avvengono in una dimensione mitica che tende alla catarsi(fondamentale la presenza dell’acqua). Ma mentre il passato remoto, tempo dell’assoluto, torna a rendere immutabilmente reali immagini lontane ma non perdute, insoluto rimane per noi comuni lettori il quesito: sogno o realtà?

 

IL DOLORE

 

C’è un terzo Ungaretti ed è quello della raccolta Il dolore (1947).

I lutti della guerra appena conclusa, la perdita del fratello e successivamente, più dolorosa, quella del figlio, la consapevolezza dell’orrore di un sistema politico in cui ha creduto rendono il poeta sempre più cupo e addolorato. Ungaretti si cala nel dramma  e riversa nel terzo libro di poesie tutto il dolore che percepisce dentro e intorno a sé.

 

[da Il dolore 1957,sezione Il tempo è muto]

 

                   2

 

Alzavi le braccia come ali
e ridavi nascita al vento
correndo nel peso dell'aria immota

Nessuno mai vide posare
il tuo lieve piede di danza 

 

 

                        3


Grazia, felice,
Non avresti potuto non spezzarti
In una cecità tanto indurita
Tu semplice soffio e cristallo,

Troppo umano lampo per l'empio,
Selvoso, accanito, ronzante
Ruggito d'un sole d'ignudo.

 

 

Formano una sorta di epigrammi queste due poesie senza titolo, racconto di un dolore che da corale, come era in L’Allegria, diventa individuale pur restando tragedia che si colloca nella tragedia del mondo.

Ungaretti narra del proprio dolore per la perdita del figlio Antonietto di otto anni alla cui lenta agonia assiste in assoluta impotenza.

 

Ed è un’emozione intensa quella che ci suggeriscono questi pochi versi in cui il bimbo trasfigura in figura alata, quasi angelica, che con la sua corsa, che ha la leggerezza di una danza e che nessuno ha mai potuto ammirare, dà vigore all’elemento di natura.

Nelle parole del poeta, la morte di questa creatura sembra quasi una tragedia annunciata:nella cecità, nella volgarità, nella grettezza della vita, sottolineata dalla catena allitterante in r e dall’accumulazione di aggettivi forti, non poteva non spezzarsi, lui che era così etereo e fragile, puro e trasparente come cristallo.

 

Ricordiamo l’importanza dei versetti biblici e dei salmi per Whitman ( Foglie d’erba, 1855), modello per tanti poeti, tra i quali, per esempio, Pavese,per uscire dalla metrica tradizionale e arrivare al verso libero.

 

 

Fonte: http://omero.humnet.unipi.it/matdid/66/SINTESI%20FINALE%20COMPLETA.doc

Sito web da visitare: http://omero.humnet.unipi.it

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