Poesia primo novecento

 

 

 

Poesia primo novecento

 

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La poesia del primo Novecento

Se si volesse indicare una caratteristica comune delle varie esperienze con cui inizia il nostro novecento poetico, dovremmo forse dire che essa consiste nella diversa consapevolezza che il poeta ha del suo ruolo, che non è  più quello del poeta-vate e nemmeno quello romantico di colui che ha il privilegio di esprimere il mondo dell’interiorità e dei sentimenti. I poeti del novecento, ad iniziare dai crepuscolari, sembrano essere consapevoli proprio della crisi di questo ruolo, della necessità di trovare non solo nuovi moduli espressivi, ma anche una nuova dimora interiore. «Perché tu mi dici: poeta?» si chiede Corazzini, definendosi invece un «piccolo fanciullo» che non ha altro che «lagrime da offrire al Silenzio» e trema d’amore e d’angoscia di fronte ai «grandi angioli su le vetrate delle catedrali». Ma già Pascoli stesso aveva avvertito, sia pure in modo conflittuale, questo problema; per questo egli conferisce centralità al mito del fanciullino ed affida al poeta il compito di evidenziare «quella poesia che è nelle cose stesse». Più tardi Montale negherà che il poeta possa essere artefice di un’illuminazione sentimentale od intellettuale («Non chiederci la parola che squadri l’animo nostro informe...non domandarci la formula che mondi possa aprirti,/sì qualche storta sillaba e secca come un ramo./ Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»). Dunque l’avventura della poesia del novecento inizia e prosegue nel segno della sospensione, dell’interrogazione, di una ricerca rivolta soprattutto verso il mondo interiore ma non più animata da alcuna delle antiche certezze. E quando talvolta viene riscoperto il valore assoluto   della poesia, ciò accade veramente come un  evento straordinario, quasi miracoloso, che tuttavia conferisce un problematico senso all’avventura esistenziale e letteraria del poeta.
Un posto di tutto rilievo nella storia della poesia novecentesca, e più precisamente del primo novecento, lo occupano i crepuscolari: Corazzini, Moretti ed in particolare  Guido Gozzano. L’universo poetico dei crepuscolari è malinconico, dimesso, umile; anche gli elementi più tipici di esso (i giardini e le ville abbondonate, le palme solitarie, gli organetti di Barberia e poi l’«antica suppellettile forbita» e le «buone cose di pessimo gusto» tanto care a Guido Gozzano) assumono un valore eminentemente simbolico, dato che in essi si rispecchia una condizione interiore. La personalità di maggiore rilievo è proprio quella di Guido Gozzano, torinese, morto anche egli molto giovane di tisi. La poesia di Gozzano, per la sua stessa raffinata fattura, per i temi e soprattutto gli scenari prescelti, per quell’aria di antico che in essa circola, potrebbe sembrare a prima vista un prodotto di altri tempi; ma si tratta solo di un’impressione, perché le immagini dell’antico non vengono celebrate da Gozzano come immagini di bellezza o verità perenni, ma esprimono invece la profonda malinconia di un animo rassegnato (pur se a volte ironicamente o quasi giocosamente rassegnato) alla consapevolezza della caducità delle cose, della fragilità della vita stessa. Il caso Gozzano è stato anche definito un caso di «dannunzianesimo rientrato» (Edoardo Sanguineti); la poesia di Gozzano è sostanzialmente ironica, di un’ironia raffinatissima e lieve, leggibile già nell’intrecciarsi delle rime, un abile gioco che trasmette al lettore l’impressione di trovarsi di fronte a calligrafiche esercitazioni poetiche. Del resto quasi analoga è l’impressione che possono comunicare certi scenarî della sua poesia: il «giardino antico» della signorina Felicita, Vill’Amarena, il salotto di nonna Speranza, la «bellezza riposata dei solai dove il rifiuto secolare dorme». Ma questa apparente ovvietà di temi ed immagini già obsolete costituisce solo il tramite che consente al poeta di rispecchiare in questo mondo la sua stessa malinconia, l’altro tono, forse il più profondo, della sua poesia. Si veda in particolare la Signorina Felicita ovvero la Felicità, forse il capolavoro di Gozzano. In essa il poeta, abbandonandosi al ricordo («...a quest’ora/ scende la sera nel giardino antico/ della tua casa. Nel mio cuore amico/scende il ricordo...»), accarezza con la memoria quel piccolo e chiuso mondo provinciale in cui tutto pare ripetersi sempre eguale ed in cui un giorno ha sognato di poter ritirarsi, di poter ricostruire la sua esistenza intorno ad un affetto semplice e sicuro, ad abitudini immutabili. Personaggio centrale è la signorina Felicita, il suo umile e semplice amore, che il poeta ricorda con compiacimento ed una punta di rimpianto:

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

...Unire la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah, con te, forse, piccola consorte
vivace, trasparente come l’aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte...

Gozzano forse ha veramente amato la signorina Felicita, pur tuttavia descritta come «quasi brutta, priva di lusinga nelle...vesti quasi campagnole», ed insieme a lei ha amato quella sua casa, ove si potevano trovare «armadi immensi pieni di lenzuola...» e la «cena d’altri tempi, col gatto e la falena/ e la stoviglia semplice e fiorita...e la siesta e la partita», e la «bellezza riposata» dei suoi solai; ma ha amato  queste persone e queste cose essenzialmente come una proiezione del suo sogno e della sua malinconia. Il mondo poetico di Gozzano ha anche qualcosa di vagamente e fuggevolmente fiabesco, perché a volte sembra che egli voglia fermare per sempre il tempo, ritirarsi in una dimensione atemporale (com’è quella del sogno); ma questo sentimento dura solo un attimo, perché poi rapidissima ed inesorabile sopravviene la consapevolezza dello scorrere del tempo e del logoramento che esercita sull’uomo e le cose.

L’ingenuo romanticismo della situazione è al tempo stesso condiviso dal poeta ma anche rappresentato con ironico distacco. Il gioco di Gozzano, che potrebbe apparire a tratti perfino crudele, è in realtà molto complesso: infatti oggetti della sua pur affettuosa e cordiale ironia sono quello stesso mondo e quegli stessi sentimenti di cui egli è in certa misura compartecipe, e che pur tuttavia  sono rappresentati come già avvolti dalla polvere inesorabile del tempo, già confinati in una dimensione separata, altra. Ma oltre  quest’atteggiamento si leggono con chiarezza l’angoscia e la malinconia, la consapevolezza tutta moderna del limite intrinseco non solo delle cose, ma anche dei sentimenti, s’intravedono gli spettri dell’aridità interiore e della «spaventosa chiaroveggenza» evocati in Totò Merumeni.
Per altri versi la poesia gozzaniana sembra poi attuare moduli molto moderni: particolarissima è la sua capacità di caricare gli oggetti e le cose  di un valore simbolico ed evocativo. Sono proprio gli arredi e le presenze minime di questo mondo quelle che servono a rappresentare un’atmosfera, uno stato d’animo. In questo modo i crepuscolari e Gozzano soprattutto sono i primi a sperimentare quella «poetica delle cose», che tanta fortuna incontrerà nella poesia del novecento, soprattutto con gli ermetici.
Si deve inoltre segnalare ­ facendo riferimento al panorama della poesia del primo novecento ­ come l’atteggiamento dei crepuscolari e di Gozzano nei confronti della realtà, almeno apparentemente così dimesso, sia alternativo rispetto a quello di D’Annunzio, nella cui poesia è sempre viva la mitografia dell’esperienza eccezionale e sensuale e spesso prevale la tentazione di una risoluzione puramente musicale del verso; e sia alternativo anche rispetto a quello dei futuristi, come Marinetti, che predicavano sì la necessità di una rivoluzione letteraria, che fosse anche espressiva e comportasse il superamento dei tradizionali limiti sintattici e grammaticali (l’immaginazione «senza fili...»), ma poi finivano spesso per concepirla come pura trasgressione e come acritica adesione ai miti del presente (ne è una manifestazione la celebrazione del mito delle macchine, della velocità).
L’altro evento centrale nella storia del nostro novecento poetico è quello rappresentato dall’affermarsi della poesia ermetica, nelle sue diverse espressioni. Il fortunato aggettivo «ermetico» fu coniato da Francesco Flora e sta ad indicare non tanto una scuola poetica (perché di una vera e propria scuola ermetica si può parlare solo negli anni ‘40, mentre invece le prime e più significative esperienze risalgono agli anni ‘20) quanto piuttosto uno stato d’animo, un atteggiamento verso la realtà, che caratterizza molte espressioni della poesia italiana tra gli anni ‘20 e ‘40. La parola ermetismo etimologicamente  indica una chiusura: in effetti il sentimento della realtà e la visione del mondo che svilupparono poeti come Montale, Ungaretti, Quasimodo appaiono caratterizzati dal rifiuto di ogni fiducia ottimistica, dalla consapevolezza della difficile condizione dell’uomo e del suo disagio esistenziale (il  montaliano «male di vivere»), dalla fuga verso un mondo di esperienze marginali, private, da una costante attenzione verso eventi anche minimi. Il fatto che Ossi di seppia di Montale sia del 1925 ha poi un suo rilievo perché l’angoscia esistenziale e la visione della realtà che caratterizzano la raccolta hanno anche un’implicita valenza etico-intellettuale, esprimono una sostanziale estraneità rispetto al clima retorico della cultura del ventennio. Diversa fu la posizione di Ungaretti, che nel 1923 pubblicava il Porto sepolto con prefazione di Benito Mussolini, pur se di una vera e propria organica adesione al fascismo non si può parlare. Nel complesso però l’esperienza ermetica, pur senza essere quasi mai caratterizzata da precise intenzioni politiche, può considerarsi (proprio per il suo silenzioso antagonismo) una delle più significative espressioni letterarie di un tempo in cui ­ come poi scrisse Pavese ­ la poesia italiana fatalmente tendeva a ridursi ad un «sofferto silenzio» e la prosa ad un «colloquio estenuato» con se stessa. Anche per queste ragioni la poesia ermetica fu caratterizzata da un bisogno profondo d’essenzialità, che si tradusse nella ricerca di un linguaggio sostanzialmente nuovo, libero da condizionamenti retorici, ridotto ai nessi logico-sintattici più essenziali. Pertanto gli ermetici mirarono soprattutto alla riscoperta del valore intrinseco della parola e dell’immagine, spesso della loro primitiva significatività, ed alla tradizionale similitudine preferirono l’analogia: con l’analogia un’immagine, una situazione, un evento rappresentano efficacemente uno stato d’animo oppure un particolare sentimento della realtà senza che il nesso intercorrente tra loro venga spiegato esplicitamente. Leggiamo la bellissima San Martino del Carso  di Ungaretti, che non a caso è fortemente influenzata ­ come tutta la sua prima poesia ­ dall’esperienza della guerra di trincea, cui il poeta aveva preso parte, e che ci può dare immediatamente una misura dell’efficacia di questo nuovo linguaggio:

Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro

Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto

Ma nel cuore
nessuna croce manca

È il mio cuore
il paese più straziato

L’impatto di quell’immagine di rovina e di distruzione è enorme, e l’effetto è tanto forte ed incisivo proprio perché il poeta la presenta nella sua nuda essenzialità. Per la verità dopo l’esperienza di Allegria di naufragi, che rappresenta per Ungaretti la scoperta dell’ermetismo, la sua poesia evolve verso altre, più complesse mete. Ungaretti riscopre tanto il linguaggio della tradizione italiana (ad iniziare soprattutto da Leopardi), quanto una forma di commossa religiosità, che nasce anche dalla coscienza della violenza e della crudeltà della storia umana più recente, dalla ricerca di un «amore non vano» che sia un tramite autentico di redenzione, che ridia all’esistere dell’uomo quel senso che ad esso paiono negare i terribili eventi contemporanei.

Più chiusa in se stessa, quasi rarefatta, caratterizzata da soluzioni originalissime e da un lessico particolare è invece la poesia di Eugenio Montale. Motivo centrale di essa è la consapevolezza dolorosa del «male di vivere», cui fanno da contraltare improvvise illuminazioni ed un sentimento di amore per la vita tenacemente legato ad un  riservato universo di memorie, presenze, incontri. Proprio grazie a questi straordinari momenti d’illuminazione, ad un faticoso, talvolta doloroso, ma anche vitalissimo scavo interiore, la poesia montaliana si risolve poi in una sofferta meditazione sulla condizione esistenziale dell’uomo. Al centro della riflessione del poeta ligure resta comunque la consapevolezza del male di vivere, che è consapevolezza del rischio dell’esistenza, del suo essere inevitabilmente  esposta alla sofferenza ed al dolore, del suo consistere in un esile e tenace filo di vita, che può essere reciso in qualunque momento. In una sua famosa composizione Montale l’ha così descritto:

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato

Il male di vivere è colto in una serie di immagini simboliche di grande efficacia, in quelle che sono le sue espressioni più naturali e minute: l’inaridirsi  di un ruscello, lo stramazzare di un animale, l’accartocciarsi di una foglia poco prima verde ed ora riarsa. Bellissima ed enigmatica la chiusa con una serie di altre immagini, che costituiscono l’antidoto al dolore: la statua, a tutto refrattaria nel sonnolento letargo pomeridiano, la nuvola e il falco, presenze lontane ed al tempo stesso distaccate e quasi serene.
Anche la visione del mondo montaliana ha in sé qualcosa di intimamente, seppur laicamente religioso, come dimostrano alcuni motivi fondamentali della sua poesia: il sentimento del mistero e del rischio dell’esistenza, il culto  della memoria, la dolente ed affettuosa sollecitudine verso gli altri, «i raminghi che il male del mondo estenua e che recano il loro soffrire con sé come un talismano» (Ripenso il tuo sorriso), la comunanza essenziale con il mondo della natura, specchio tenace e fedele dei sentimenti, ancora il senso profondo della dignità dell’esistenza, di ogni esistenza.
V’è una delle più belle fra le poesie di Montale, Incontro, che inizia con una struggente invocazione alla tristezza, perché non l’abbandoni (altrimenti si sentirebbe abbandonato dalla vita stessa), e si chiude con un insolito dialogo del poeta (di tono vagamente crepuscolare) con una povera pianta che «in un vaso s’alleva s’una porta d’osteria».  Nell’invocazione alla tristezza brucia ancora il desiderio della vita, e la tristezza è la materna custode dei ricordi, della memoria, del sentimento stesso di sé. V’è anche in questa composizione qualcosa di rarefatto, l’intrecciarsi fitto e contorto di una serie di sentimenti, immagini, impressioni, presenze, l’incombere di un’angoscia che non riesce ad esprimersi ma pare pervadere di sé le cose ed al tempo stesso il faticoso balenare di una speranza. 
L’imperativo che sembra ispirare la vita del poeta è proprio quello di scendere «senza viltà», protetto solo dalla presenza della «cara tristezza», di evitare la dissipazione della propria vita. Il tendere la mano alla «misera fronda» è anch’esso un evento tipicamente montaliano, commovente appunto perché non si tratta di un espediente letterario, ma di un gesto profondamente sentito.
Il mondo montaliano del resto è ricco di incontri minimi, di presenze, di «occasioni», per parafrasare il titolo della sua seconda raccolta (Le occasioni).
In un tenace attaccamento ad una vita di cui non si conosce bene né la meta, né la misteriosa legge che la regola, ma che pare acquistare un senso proprio per la sua stessa necessità, e di cui limite e misura rimane il mondo della natura, sembra  del resto consistere uno dei messaggi più profondi della poesia montaliana.

Ed anche nella prima raccolta di Quasimodo, Acque e terre (1930), incentrata sul tema della Sicilia, terra natale dell’autore, l’isola diviene l’emblema di una felicità perduta cui si contrappone l’asprezza della condizione presente, dell’esilio in cui il poeta è costretto a vivere. Dalla rievocazione del tempo passato emerge spesso un’angoscia esistenziale che, nella forzata lontananza, si fa sentire in tutta la sua pena. Questa condizione di dolore insopprimibile assume particolare rilievo quando il ricordo è legato ad una figura femminile, come nella poesia Antico inverno. Se in questa prima raccolta Quasimodo appare legato a modelli abbastanza riconoscibili (soprattutto D’Annunzio, del quale viene ripresa la tendenza all’identificazione con la natura), in Oboe sommerso (1932) ed Erato e Apollion(1936) il poeta raggiunge la piena maturità espressiva. La ricerca della pace interiore è affidata ad un rapporto col divino che è, e resterà successivamente, tormentato anche se animato da un anelito sincero, mentre la Sicilia si configura come terra del mito, terra depositaria della cultura greca: non a caso Quasimodo pubblicherà, nel 1940, una notissima traduzione dei Lirici greci. In particolare, nel libro del ’36 vengono celebrati Apollo - il dio del sole ma anche il dio cui sono legate le Muse, e quindi la stessa creazione poetica che è resa dolorosa dalla distanza fisica dell’isola - ed Ulisse, l’esule per eccellenza. E’ in queste raccolte che si può cogliere appieno la suggestione dell’ermetismo, di un linguaggio che ricorre spesso all’analogia e tende ad abolire i nessi logici tra le parole: importante è in questo senso l’uso frequente dell’articolo indeterminativo e degli spazi bianchi che, all’interno della lirica, sembrano rimandare continuamente a una serie di significati nascosti che non possono trovare una piena espressione.
Nelle Nuove poesie (pubblicate insieme alle raccolte precedenti nel volume Ed è subito sera del 1942 e scritte a partire dal 1936) il ritmo diventa più disteso grazie anche all’uso più frequente dell’endecasillabo: il ricordo della Sicilia è ancora vivissimo ma si avverte nel poeta un’inquietudine nuova, la voglia di uscire dalla sua solitudine e confrontarsi con i luoghi e le persone della sua vita attuale. In alcune liriche compare infatti il paesaggio lombardo.
Questa volontà di dialogo si fa evidente nelle raccolte successive, segnate da un forte impegno civile e politico sollecitato dalla tragedia della guerra; la poesia rarefatta degli anni giovanili lascia il posto un linguaggio più comprensibile, dai ritmi più ampi e distesi. Così avviene in Giorno dopo giorno(1947) dove le vicende belliche costituiscono il tema dominante. La voce del poeta, annichilita di fronte alla barbarie («anche le nostre cetre erano appese», afferma in Alle fronde dei salici), non può che contemplare la miseria della città bombardata, o soffermarsi sul dolore dei soldati impegnati al fronte, mentre affiorano alla memoria delicate figure femminili, struggenti simboli di un’armonia ormai perduta (S’ode ancora il mare). L’unica speranza di riscatto è allora costituita dalla pietà umana (Forse il cuore).

 

Fonte: http://www.istitutomontani.it/appunti/8/La%20poesia%20del%20primo%20Novecento.doc

 

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 


 

Poesia primo novecento

La poesia del Novecento: movimenti, poetiche, tendenze

In Europa ci sono due grandi filoni, fondati da Baudelaire, che sono quello simbolista e quello allegorico. Nel filone simbolista abbiamo una poesia che procede per simboli, mentre l’allegoria necessita di un’ulteriore interpretazione razionale. Il primo novecento è il periodo delle avanguardie: Espressionismo, Futurismo, Dadaismo e Surrealismo. L’Espressionismo è un movimento culturale che ha interessato la pittura, il cinema, il teatro, nel quale la realtà non è vista più oggettivamente, ma in maniera soggettiva. Infatti con l’avvento del cinema e della foto non c’è più la necessità di ricreare la realtà in maniera oggettiva: nessuna opera d’arte potrà mai rappresentare un qualcosa meglio di una fotografia. Quindi i pittori hanno iniziato a rappresentare una realtà deformata, soggettiva, che rappresenta una certa emozione (ad esempio l’urlo di Munch o Guernica suscitano una sensazione di angoscia e inquietudine). Inoltre queste nuove tecnologie hanno creato un bagaglio di immagini nel pubblico che ha reso possibile l’abbandono in letteratura della descrizione come sequenza dominante. Il Dadaismo prende il suo nome dal balbettio dei bambini ed è un movimento artistico basato su una pittura di tipo elementare e infantile. I dadaisti cercano di ritrovare l’innocenza del bambino con questo tipo di pittura. Il Surrealismo rappresenta una realtà superiore, identificata con l’inconscio, visibile durante il sogno. Anche in poesia si cerca di rappresentare le sensazioni e lo stato di quando sogniamo. Il Surrealismo è presente in tutte le arti, dalla pittura (Picasso, Dalì) al teatro, al cinema. La capitale europea della cultura nel Novecento è Parigi. Qui tutti posso dire la loro e proporre nuove idee. Anche Montale e Martinetti vi si trasferiranno.


La situazione italiana
In Italia nasce e si sviluppa il Futurismo, fondato da Marinetti nel 1909 con il manifesto pubblicato sul giornale francese “Figaro”, affermando la necessità di abolire i musei, le accademie e le biblioteche, in quanto istituzioni che intendono salvaguardare i valori della tradizione e del passato. Il manifesto futurista è programmatico, in quanto è stato studiato a tavolino e non è una vera e propria opera d’arte come, ad esempio, Corrispondenze di Baudelaire. Questo movimento generale-culturale esalta la velocità, l’industria, l’ innovazione,  cioè tutto ciò che è sinonimo di modernità. E’ vista positivamente la guerra in quanto porta sempre a una crescita tecnologica (es: l’aereo) e riesce a mantenere stabile il numero della popolazione mondiale, evitando così la sovrappopolazione. In guerra ci devono andare le masse e non coloro che sono dotati di una certa cultura e ricchezza. Dal punto di vista letterario la rivoluzione è presente nella forma: le parole sono libere, non è considerata la punteggiatura, la sintassi non è logica, parti di frase sono omessi, sono utilizzati termini ed onomatopee che rimandono alla modernità. A volte le parole sono disposte in maniera da ricreare la forma dell’argomento trattato dalla poesia, sono utilizzati caratteri e stili differenti ecc. Lo stesso d’Annunzio tratterà argomenti moderni ed esalterà l’innovazione verso la fine della sua vita.
In Italia la capitale culturale è Firenze. Firenze è la sede della rivista “La Voce”. Altra rivista importante è “La Ronda” a Roma. Queste riviste sono frequentate da giovani intellettuali, tra cui spiccano i nomi di Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolino, Giuseppe Antonio Borghese ed Aldo Palazzeschi. La maggior parte di loro affronteranno la prima guerra mondiale senza più tornare.
Il primo quarto del Novecento è caratterizzato dalla compresenza di tendenze fra di loro contrastanti: il movimento antitetico al Futurismo è il Crepuscolarismo. Il movimento crepuscolare è influenzato dal Poema Paradisiaco di d’Annunzio. La maggioranza dei crepuscolari muoiono in giovane età a causa della tubercolosi, malattia per la quale non esisteva ancora una cura; i principali esponenti sono Gozzano, Corrazzini e Moretti. E’ proprio la malattia e la consapevolezza della morte a caratterizzare la loro poesia: triste, malinconica, grigia. Gozzano, appartenendo a una famiglia benestante, ha vissuto una vita più lunga rispetto agli altri crepuscolari. La sua poesia è fondata sulla descrizione delle piccole cose (che poi in realtà sono molto importanti) e in particolare delle “buone cose di pessimo gusto” (ad esempio la mobilia barocca o altri oggetti che rimandano al passato e sono brutti). Il lessico è simile al parlato e le rime sono rare (addirittura c’è una poesia intitolata “Colloquio”).

 

Fonte: http://www.riassuntibuse.altervista.org/La%20poesia%20del%20Novecento.doc

 

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