Sintesi i promessi sposi

 

 

 

Sintesi i promessi sposi

 

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MANZONI I PROMESSI SPOSI


CAPITOLO I

  1. Descrizione (da Quel lago… a dell’altre vedute)
  2. Presentazione don Abbondio e descrizione particolare del paesaggio (Per una di queste stradicciole… vide una cosa che non s’aspettava e che non avrebbe voluto veder).
  3. Presentazione bravi (Due uomini stavano … si davano a conoscere per individui della specie dei bravi)
  4. Digressione storica (Questa specie…. Questo basta ad assicurarci che, nel tempo di cui trattiamo, c’era dei bravi, tuttavia).
  5. Descrizione stato d’animo di don Abbondio (Che i due descritti di sopra… e si fermò su due piedi).
  6. Dialogo (Signor curato… e dei tempi in cui gli era toccato vivere).
  7. Storia di don Abbondio e considerazioni sul 1600 (LITOTE Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuore di leone … non accadono mai brutti incontri).
  8. Pensieri di don Abbondio (Pensino ora i mie 25 lettori … apparecchiare la tavola per la cena).
  9. In casa- canonica (Era Perpetua … per amore del Cielo e disparve).

CAPITOLO II

  1. pensieri di don Abbondio (Si racconta che il principe di Condè… con timore, a un tempo, con impazienza)
  2. Presentazione Renzo (Lorenzo, o come dicevano tutti Renzo…ai modi gioviali e risoluti del giovanotto).
  3. Dialogo Renzo – don Abbondio (Che abbia qualche pensiero per la testa argomentò Renzo tra sé…e dandogli un’occhiata più espressiva che riverente).
  4. Dialogo Renzo – Perpetua (Uscito poi, e camminando di mala voglia… entrò in fretta nell’orto e chiuse l’uscio).
  5. Renzo torna da don Abbondio (Renzo rispostole con un saluto…non faceva che replicare il proprio argomento).
  6. Don Abbondio sgrida Perpetua (Perpetua! Perpetua!…dove lo lasceremo).
  7. Pensieri di Renzo (Renzo intanto camminava a passi infuriati…al suo promesso!).
  8. Presentaione di Lucia (Dominato da questi pensieri…non senza un presentimento di terrore).
  9. Dialogo in casa di Lucia (Lucia! Rispose Renzo, per oggi tutto è a monte!…misteriose nei loro discorsi).

CAPITOLO III

  1. Conversazione Agnese, Renzo, Lucia (Lucia entrò nella stanza terrena…faceva un tristo contrapposto alla pompa festiva dei loro abiti) Lucia piange e dice quello che sa. Agnese e Renzo le chiedono come mai non aveva detto niente.
  2. Agnese ha un’idea (Sentite figlioli, date retta a me…a pensarci un anno). Agnese propone di andare dal dottor Azzeccagarbugli: è come un avvocato.
  3. Renzo va e arriva a casa del dottor Azzeccagarbugli (Renzo abbracciò molto volentieri questo parere…figliolo ditemi il vostro caso). Osservazioni sui capponi. Descrizione del dottore e del suo studio.
  4. Renzo spiega la sua situazione viene frainteso, scambiato per un bravo che ha fatto lui il sopruso. Reazione del dottore (Vorrei dirle una parola in confidenza…a raccontare alle donne il bel costrutto della sua spedizione). Il dottore legge le grida interrompendosi, anche noi abbiamo l’impressione di non capire nulla come Renzo, che pure si sforzava di capire se ci fossero parole riguardanti la sua specifica situazione.
  5. Fra Galdino viene per prendere le noci. Storiella. Lucia manda a chiamare Padre Cristoforo (le donne nella sua assenza…se ne andò un po’ più curvo e più contento di quel che fosse venuto).
  6. Breve dialogo Lucia e Agnese e arrivo di Renzo (Al vedere che una povera ragazza….non sa più quel che si dica).

CAPITOLO IV

  1. descrizione dell’autunno e della carestia (spiegare che cosa significa “poetico” riferito a un passo di prosa)
  2. presentazione di Padre Cristoforo con la sua storia (Ludovico: dal male si può fare uscire del bene)

CAPITOLO V
Fra Cristoforo va da don Rodrigo: pranzo a casa di don Rodrigo (argomenti trattati: 1) discussione sul caso fittizio del cavaliere spagnolo che manda una sfida a un cavaliere milanese 2) politica locale 3) carestia)

 

CAPITOLO VI (queste non sono sequenze)

    1. In che posso ubbidirla?
    2. Dal “lei” al “voi”. Don Rodrigo poi dè il “tu” a Fra Cristoforo
    3. Dialogo sempre più difficile, proposta di don Rodrigo di mettere Lucia sotto la propria protezione
    4. Fra Cristoforo esce deluso, ma c’è “un filo” a cui aggrapparsi, il vecchio servitore che ha sentito tutto e che dice a Fra Cristoforo che lo terrà informato, perché ha capito che don Rodrigo sta tramando qualcosa (cioè lo sapremo dopo) di rapire Lucia.
    5. Mentre fra Cristoforo fa il viaggio di ritorno, Manzoni ci spiega cosa sta succedendo a casa di Lucia: Agnese ha un’idea: obbligare don Abbondio a sposarli, comparendo all’improvviso davanti a lui con dei testimoni e dicendo la formula del matrimonio. Lucia non è convinta.
    6. Renzo esce per cercare i testimoni: Tonio (descrizione della famiglia affamata), che poi dice che porterà suo fratello Gervasio.
    7. Renzo torna, Lucia ancora non è convinta.
    8. Arriva fra Cristoforo e Agnese fa cenno a Lucia di non dire niente.

CAPITOLO SETTIMO

    1. padre Cristoforo riferisce il dialogo avuto con don Rodrigo
    2. Lucia, Renzo, Agnese discutono ancora sul matrimonio a inganno
    3. Il mattino dopo. Menico
    4. Strane figure attorno alla casa di Lucia e Agnese
    5. Progetto di don Rodrigo e dialogo con il conte Attilio (è ancora il giorno precedente)
    6. Accordo fra don Rodrigo e il Griso
    7. Il vecchio servitore riesce a capire il progetto del rapimento
    8. Nell’osteria
    9. La sera

CAPITOLO OTTAVO

    1. Tonio bussa alla porta della canonica
    2. Agnese distrae Perpetua
    3. Tonio e don Abbondio
    4. Entrano Renzo e Lucia
    5. Breve riflessione sull’oppressore e la vittima. Ironia sull’attualità
    6. Don Abbondio chiama aiuto
    7. I Bravi a casa di Lucia
    8. Agnese e Perpetua sentono le urla e le campane
    9. Agnese, Renzo, Lucia e Menico si allontanano
    10. La gente (commenti dell’autore sulla folla non guidata)
    11. I protagonisti lasciano Menico e scappano
    12. Al convento
    13. Al lago

     

     

PERSONAGGI SECONDARI A CUI MANZONI CON POCHI TRATTI DA’ MOLTA IMPORTANZA: Bettina, Menico, la famiglia di Tonio, Tonio e Gervaso,


OSSERVAZIONI DOPO I PRIMI 8 CAPITOLI

    1. attenzione ai personaggi piccoli (Bettina, Menico, la famiglia di Tonio)
    2. il lettore sa più dei personaggi: i bravi davanti alla casa di Lucia non sanno che è vuota, noi sì. Quando don Rodrigo aspetta il ritorno dei bravi con Lucia noi sappiamo che non sono riusciti a prenderla
    3. a volte noi non sappiamo . come succede nella narrazione dei gialli -  e i personaggi sanno più di noi. Ad esempio quando Renzo va da don Abbondio non sappiamo che cosa ha deciso di dirgli. Poi vedremo la monaca di Monza, ma l’Autore accenna solo al fatto che era un po’ strana: tutta la descrizione ci lascia un po’ lì e non sappiamo bene cosa dobbiamo aspettarci
    4. interventi del Manzoni: così va il mondo o meglio così andava al tempo della nostra storia…
    5. immediatezza dei dialoghi. Linguaggio proprio di ogni persona: Perpetua, Agnese, Renzo … parlano come persone del popolo. Don Abbondio parla da persona un po’ più colta. Fra Cristoforo spesso non finisce le frasi (impulsivo, pensa a due o tre cose insieme…), don Rodrigo e don Attilio che hanno sempre delle frasi ironiche… e che fanno riferimento alla violenza…
    6. INFATTI quando Manzoni ci descrive l’Addio ai Monti di Lucia non le mette in bocca quelle parole (che non sarebbe stata in grado di dire), ma gliele fa pensare

 

 

Fonte: http://www.inpicciolettabarca.it/italiano/Manzoni%20I%20PROMESSI%20SPOSI.doc

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 


 

Sintesi i promessi sposi

Manzoni e I promessi sposi

Fermo e Lucia: tra il 1821 e il 1823 Manzoni inizia la storia che ha come protagonisti Fermo Spolino e Lucia Zarella.

I promessi sposi 1827: Manzoni modifica il titolo ma anche il testo, togliendo parti, spostando o riscrivendo episodi. Si tratta di un intervento contenutistico.
I promessi sposi 1840: Manzoni "risciacqua i panni in Arno", cioè rivede il romanzo dal punto di vista linguistico, modificando l'idioma prima misto di forme lombarde e francesi con il "fiorentino" "vivente/parlato" delle classi medie. La scelta è di ordine culturale: il Paese, non ancora unito e privo di capitale, non ha una parlata comune; ma come per la Francia si assume per convenzione il linguaggio parigino, così sembra opportuno all'autore riconoscere l'egemonia di Firenze sul piano letterario (a Firenze e dintorni sono nati o vissuti Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli…)

perché la scelta del romanzo? Questo genere era molto in voga nell'Ottocento; in particolare, Walter Scott era considerato l'"inventore del romanzo storico", avendo composto l'Ivanhoe, ambientato in un'epoca passata (la storia di un cavaliere  nell'Inghilterra del XII sec., al tempo di Riccardo Cuor di Leone). Manzoni vi trovò molti difetti, soprattutto una ricostruzione poco attenta e precisa, ma fu senza dubbio influenzato da questo "modello" nella decisione di scrivere un romanzo storico.

I protagonisti sono due popolani: solitamente ci si avvaleva della tragedia per raccontare le vicende di personaggi di "alto affare" (nobili, aristocratici…vedi Adelchi per es.) e invece della commedia per trattare di gente umile o comune (vd. titolo Comedia di Dante).
Manzoni introduce nel romanzo – e ciò costituisce nel nostro Paese una novità di portata rivoluzionaria – due protagonisti del mondo socialmente "basso", con le loro aspettative e delusioni non ridicolizzate (come si faceva nella commedia o nella satira), bensì trattate seriamente.

Un pubblico allargato: probabilmente la scelta del genere romanzesco è dovuta anche ad un altro intento, quello di rivolgersi a un pubblico più vasto, non solo elitario e nobile; già in epoca illuministica infatti il lettore appartiene alla borghesia e l'interlocutore cui si rivolge lo scrittore è dunque il ceto medio.
Manzoni in questo caso è d'accordo con quanto teorizzava il Berchet nella sua Lettera semiseria, che cioè l'autore dovesse scrivere per il "popolo", intendendo con questo termine però non tutti, bensì quelli che il Berchet diceva essere in mezzo fra Parigini (nobili oziosi e annoiati) e Ottentoti (contadini o ceti umili, rozzi, incapaci per giunta di leggere o apprezzare l'arte). Il ceto medio è appunto, in pieno Ottocento, ciò che si definisce pubblico "popolare".

Ambientazione nel '600: quando Manzoni sceglie il Seicento (la vicenda di Renzo e Lucia si svolge fra 1628-1629 circa) intende riferirsi ad una situazione passata che però ricorda quella presente. 
In genere i Romantici si rapportavano ad epoche lontane (esotismo temporale), ma Manzoni sceglie deliberatamente il XVII sec., allorché la Lombardia subiva la dominazione spagnola, per alludere ai soprusi che la nostra penisola era costretta a sopportare per opera degli stranieri in pieno XIX sec.
Insomma, quando racconta le ingiustizie perpetrate dagli Spagnoli ai danni dei Lombardi del 1630, quando  presta attenzione alla mancanza di leggi, agli arbitri, alle violenze dei signorotti del XVII sec., sta pensando ad una situazione analoga determinata nel suo presente dai nuovi dominatori (gli Austriaci per es.).

Cosa s'intende per narratore onnisciente? Il narratore onnisciente è, etimologicamente parlando, colui che "sa tutto", che conosce passato, presente e futuro, tutte le circostanze dei fatti (ha "il punto di vista di Dio"!) e interviene continuamente con spiegazioni e riflessioni, commenti e giudizi.
Manzoni ci presenta un narratore di questo tipo, che "entra" nel racconto con analessi (quando spiega per es. i  precedenti di fra Cristoforo e di Gertrude) o con prolessi (anticipazioni di ciò che avverrà).
Questa scelta rivela un saldo dominio della realtà, l'idea che del mondo e degli avvenimenti si abbia una visione precisa, determinata da convinzioni certe: è tipica dell'Ottocento, almeno della prima metà del secolo, soprattutto di coloro come Manzoni che hanno punti di riferimento stabili (fede, concetto che il dolore "ha un senso", che tutto rientra in una logica provvidenziale, che tutto è logos = ordine e razionalità, nulla è casuale e gratuito).
Nel Novecento assistiamo alla crisi del narratore onnisciente: questi – si pensi a "La coscienza di Zeno" di Svevo – diviene addirittura inattendibile, ingannevole, a testimoniare la perdita di certezze (non solo religiose, ma anche relative, che so, ai concetti di tempo, di spazio, di "io" come unicum…) cui si assiste progressivamente già a partire dalla fine del XIX secolo.

 

Fonte: http://www.liceogrigoletti.it/docenti/doc07/files/Manzoni%20e%20I%20promessi%20sposi.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

ALESSANDRO MANZONI
- Riassunto e sintesi I PROMESSI SPOSI -

 

1° CAPITOLO

La sera del 7 Novembre 1628 Don Abbondio, il curato di un paesello in provincia di Lecco, stava passeggiando tranquillamente su un sentiero leggendo il suo breviario e ripetendo di tanto in tanto qualche passo ad alta voce quando vide al bivio di fronte a se due uomini che aspettavano evidentemente qualcuno. Ma quando s’accorse che colui che aspettavano era proprio lui e che le due persone erano due bravi, ovvero persone al servizio spesso dei signorotti locali (in questo caso di Don Rodrigo), incominciò ad agitarsi e a preoccuparsi in quanto  questi non erano certo conosciuti per la loro onestà ma per la loro prepotenza e arroganza. Don Abbondio mise quindi da parte il suo breviario e affrettò il passo, quasi per ridurre i tempi di attesa; subito i due bravi gli si misero davanti diffidandolo dal celebrare il matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella che si sarebbe tenuto l’indomani.
Dopo un breve discorso, durato comunque il tempo necessario per impaurire per bene il curato, i due bravi di Don Rodrigo presero il sentiero del ritorno mentre Don Abbondio, impaurito si affrettò a tornare casa.
Qui,una volta giunto, il suo atteggiamento insolito venne subito notato da Perpetua, la quale lo incoraggiò a liberarsi delle sue preoccupazioni; in un primo momento Don Abbondio sembrò diffidente, in quanto temeva che poi Perpetua avrebbe potuto raccontarlo in giro, pena la sua stessa vita. Tuttavia il curato, dopo averla pregata di non dire niente a nessuno, raccontò tutto a Perpetua ,che gli consigliò di darsi da fare e a non farsi impaurire da queste minacce. Ma Don Abbondio, sulla strada della camera da letto, le ricordò ancora una volta che non sarebbe stato il caso di spargere la voce. Si conclude così il primo capitolo.

 

 

2° CAPITOLO

Durante la notte Don Abbondio non riuscì a chiudere occhio, poiché, ancora sconvolto dallo spiacevole incontro con i bravi, cercò di escogitare qualche scusa da presentare a Renzo, che sarebbe venuto a casa sua l’indomani, per fissare l’ora del matrimonio. Però ogni rimedio sembrava poco adatto, tanto che Don Abbondio cercò di convincersi che lui non aveva colpa e che l’indomani avrebbe spiegato a Renzo che la colpa per il mancato matrimonio di certo non era sua. Così riuscì a chiudere occhi per poco tempo, anche se i suoi sogni furono tormentati dagli episodi del giorno precedente.
Il giorno seguente Renzo, un ragazzo di venti anni rimasto fin dall’adolescenza orfano dei genitori e di professione filatore di seta, si presentò puntuale a casa del povero curato. Notò subito qualcosa che non andava nell’atteggiamento di Don Abbondio, che dopo una breve premessa, chiarì a Renzo che a causa della sua salute quel giorno non avrebbe potuto celebrare il matrimonio; tuttavia non si limitò a questa spiegazione e aggiunse che, poiché non aveva svolto tutte le pratiche necessarie al compimento del matrimonio, aveva bisogno di un po’ più di tempo. Naturalmente Renzo non accettò le sue scuse, in quanto Don Abbondio in precedenza gli aveva assicurato che le poche pratiche rimanenti sarebbero state effettuate entro quel giorno senza problemi; volle quindi maggiori spiegazioni che non ottenne. Don Abbondio a questo punto incominciò a parlare di persone importanti, di persone che, come lui, per essere troppo buone con tutti alla fine ci rimettono sempre. Allora Renzo se ne andò con le idee sempre più confuse e si incamminò verso casa di Lucia ripensando all’assurdità delle scuse di Don Abbondio e convincendosi sempre più che ci doveva essere sotto qualcosa.
Proprio mentre tornava a casa incontrò Perpetua a cui chiese immediatamente spiegazioni sullo strano comportamento di Don Abbondio notando che Perpetua sapeva il problema che si celava dietro ma che non poteva riferire assolutamente niente. Così si incamminò con passo svelto nuovamente dal curato deciso a farsi rivelare quale personaggio prepotente si celava dietro; quindi irruppe in casa chiudendo la porta a chiave dietro di se e costringendo Don Abbondio a rivelare tutto; il povero curato dopo molte discussioni rivelò il nome di Don Rodrigo a Renzo, il quale naturalmente andò su tutte le furie precipitandosi dalla sua promessa. Una volta giunto a destinazione mandò Bettina, a chiamare Lucia affinché potesse parlarle in privato. Una volta riassunto il problema Lucia naturalmente rimase sconvolta alla notizia di potersi sposare e quasi sorpresa quando Renzo le fece il nome di Don Rodrigo. Nel frattempo Don Abbondio, per evitare visite disse a Perpetua che era malato e che non avrebbe potuto ricevere nessuno per tutto il giorno.

 

3° CAPITOLO

Il terzo capitolo si apre con la discussione fra Lucia, Renzo e Agnese riguardo l’accaduto. Infatti questi ultimi volevano delle chiare spiegazioni da Lucia riguardante il precedente incontro con Don Rodrigo e con suo cugino Don Attilio. Infatti recentemente mentre Lucia tornava a casa con delle amiche, venne avvicinata da Don Rodrigo, che cercò di intrattenerla incominciando a discutere; tuttavia, poiché Lucia non dimostrò nessun interesse per la conversazione, si affrettò e raggiunse le sue amiche sentendo di sfuggita Don Rodrigo che accettava una scommessa con suo cugino (è questo probabilmente il fatto che scaturisce tutti i problemi riguardanti il matrimonio con Renzo).
Lucia confessa anche di aver raccontato tutto a Padre Cristoforo, durante l’ultima confessione al convento dove si erano recate poco tempo prima. A questo punto ecco che interviene Agnese, la quale dà dei consigli ai due promessi sposi sul da farsi: in particola consiglia a Renzo di recarsi a Lecco per incontrare il dottor Azzecca – garbugli, esperto in questi tipi di problemi. Così Renzo, presi dei capponi da portare in regalo al dottore, esce dalla casa di Lucia e si reca a Lecco. Qui, dopo aver chiesto informazioni riguardanti il dottor, si reca al suo appartamento, dove viene invitato ad accomodarsi nel suo studio: un luogo pieno di librerie colme di libri impolverati, con al centro della stanza un grosso tavolo pieno di lettere e pratiche da svolgere. Qui, dopo un piccolo malinteso, Renzo espone al dottor Azzecca – garbugli il suo problema, chiedendo se fosse perseguibile dalla legge minacciare un curato affinché non celebrasse un matrimonio. Il dottore provvede a trovare gli articoli riguardanti il caso, ma appena il ragazzo fa il nome di Don Rodrigo, il dottore cambia improvvisamente atteggiamento (in quanto protetto dello stesso Don Rodrigo) invitando immediatamente Renzo a lasciare il suo studio, spiegandogli che di questi affari se ne lava le mani.
Renzo se ne andò deluso e riprese il cammino per casa di Lucia, dove intanto era arrivato Fra Galdino, un frate del convento che passava in paese per chiedere l’elemosina, e che aveva ricevuto il compito di avvisare Padre Cristoforo di passare al più presto a casa della ragazza per una questione urgente. In questo modo, con il ritorno di Renzo a casa di Lucia, si conclude il terzo capitolo che, proprio per questa sua particolarità di aprirsi e di chiudersi con lo stesso scenario, viene definito circolare.   

 

4° CAPITOLO

Il capitolo si apre con la descrizione del cammino di Fra Cristoforo dal convento del paese di Pescarenico alla casa di Lucia, che il giorno prima l’aveva mandato a chiamare tramite Fra Galdino. Sebbene il paesaggio autunnale sia splendido, il cammino del frate verso la casa è rattristato dalle immagini di miseria che si vedono ovunque: persone per la strada, animali magrissimi per la fame e poveri mendicanti senza riparo.
Fra Cristoforo è un uomo di circa 60 anni, con una lunga barba bianca, umile ma fiero al tempo stesso e con due occhi vivacissimi. E’ figlio di un ricco mercante con ambizioni da nobile e viene educato in maniera aristocratica. Non essendo però accettato dalla cerchia dei nobili, il inizia a difendere gli umili contro i signorotti prepotenti locali.
In realtà Fra Cristoforo non si chiamava veramente così: infatti il suo vero nome era Lodovico. Un giorno (inizia il lungo flash-back), mentre percorreva un sentiero, scoppia un litigio tra lui e un signorotto locale che pretendeva, in quanto nobile, di avere la precedenza su di lui: fu questa la scintilla diede inizio allo scontro: infatti Lodovico, per difendere Cristoforo (il suo più fedele servitore) uccise il signorotto che, altrimenti avrebbe fatto lo stesso con Cristoforo. Si recò quindi subito al più vicino convento per rifugiarsi dalla vendetta dei familiari del signorotto; ed è proprio nel convento che riaffiora l’idea di Lodovico di diventare un frate cappuccino. Così, chiamato un altro frate, decide di realizzare la sua idea.
Lodovico, ora Fra Cristoforo, (in ricordo del suo servitore più fedele) decide di recarsi presso la famiglia del signorotto ucciso per chiedere perdono. Qui l’intera famiglia era stata riunita dal fratello per consumare la sua vendetta, cosa che non riuscì a fare proprio per l’umiltà di Fra Cristoforo, che ottenne il perdono di tutti i parenti (finisce qui il flash-back).
La conversione di Fra Cristoforo rispecchia quella di Manzoni: infatti è come se l’autore abbia voluto raccontare il suo cammino verso la conversione e la decisione finale attraverso Fra Cristoforo.
Il capitolo si chiude con l’arrivo di Fra Cristoforo alla casa di Lucia e Agnese, dove viene accolto con grande gioia dalle due.

 

5° CAPITOLO

Giunto a casa di Lucia, fra Cristoforo apprende con sdegno dalle due donne l’accaduto. Esaminata la situazione, e spinto dal suo carattere impulsivo, decide di andare a parlare con Don Rodrigo per distoglierlo dal suo proposito. Intanto arriva anche Renzo, il quale rivela di aver tentato di organizzare un agguato contro il signorotto e per questo viene rimproverato dal frate.
Congedatosi, fra Cristoforo si incammina quindi verso il palazzo di Don Rodrigo. Nel palazzo stesso e nel villaggio sottostante tutto appare segnato da un clima di violenza e di malvagità: ovunque si vedono armi e neppure sui volti dei bambini e dei vecchi si riesce a scorgere l’innocenza.
Dopo aver parlato con due bravi e con un servitore, fra Cristoforo viene accompagnato nella stanza da pranzo; intorno al tavolo numerose persone, fra cui Don Rodrigo, il conte Attilio, il Podestà, Azzecca-garbugli, discutono animatamente su una questione di cavalleria. Il frate è chiamato ad esprimere un giudizio, ma la sua opinione, che invita alla pace e alla carità, viene scambiata per una battuta. La discussione cambia tema e volge poi sulla guerra per il ducato di Mantova e sulle relative manovre politiche di Spagna, Francia, Germania e Papato (il Manzoni da qui prova di grande coerenza e documentazione storica). In questa circostanza il Podestà si spaccia per un fine conoscitore dei maneggi politici. Il narratore informa poi il lettore circa quella guerra, nata per la successione al ducato di Mantova, che vede opporsi il duca di Nevers, sostenuto dalla Francia e dal papato, e Ferrante Gonzaga principe di Guastalla, appoggiato dalla Spagna e dal duca di Savoia. Le discussioni vengono abbandonate per un attimo per lasciare posto a un brindisi, ma subito riprendono sul tema della carestia, evocato da Azzecca-garbugli in un suo elogio al vino. La colpa della penuria di cibo viene attribuita ai fornai che farebbero incetta di grano per alzarne il prezzo. E don Rodrigo a porre fine al dibattito congedando i commensali e conducendo infine fra Cristoforo in un altra stanza. Su questo momento di grande suspence, a un passo dallo scontro finale, si conclude il capitolo, invitando il lettore a continuare a seguire le vicende del romanzo.

 

6° CAPITOLO

Comincia dunque il colloquio tra fra Cristoforo e don Rodrigo. Con tatto e diplomazia, fra Cristoforo chiede a don Rodrigo di far cessare le persecuzioni contro Lucia e di permettere il matrimonio tra i due promessi. Il nobile reagisce però violentemente accusando il frate di nutrire un equivoco interesse per la ragazza. Il colloquio si trasforma così in un duello verbale nel quale Cristoforo predice al suo antagonista il compiersi della giustizia divina (“verrà un giorno...”). Al termine il frate viene cacciato. La sua missione è fallita, ma don Rodrigo rimane scosso dalle minacciose profezie del cappuccino. Don Rodrigo resta solo, vittorioso sul campo di battaglia, ma attanagliato da un “misterioso spavento” che lo accompagnerà sino alla morte.
Uscendo dal palazzotto per andare verso casa di Lucia, il frate incontra il vecchio servitore che l’aveva accolto al suo ingresso. Quest’ultimo dice a fra Cristoforo di avere delle rivelazioni da fargli e gli dà appuntamento per l’indomani al convento.
Intanto a casa, Agnese propone ai due promessi di effettuare il matrimonio di sorpresa, di presentarsi cioè davanti al parroco con due testimoni e di pronunciare la formula del matrimonio. Sebbene celebrato contro la volontà del parroco, questo matrimonio avrebbe valore a tuffi gli effetti. Renzo si mostra entusiasta, ma Lucia è contraria al progetto poiché esso prevede dei sotterfugi.
Renzo, si mette dunque in cerca dei testimoni per il matrimonio di sorpresa, e si reca a casa di un suo amico, Tonio. Quando vi giunge, l’intera famiglia (Tonio, il fratello, l’anziana madre, la moglie e i figli) è riunita in attesa di una scarsa polenta di grano saraceno. Renzo, rifiutando l’invito delle donne a trattenersi, conduce l’uomo all’osteria e li gli chiede di far da testimone al matrimonio. In cambio del favore, Renzo gli offre del denaro per pagare un debito contratto con don Abbondio. Tonio accetta e propone suo fratello Gervaso come secondo testimone.
Renzo torna da Lucia e tenta nuovamente di convincerla ad accettare il “piano” della madre. Nel frattempo si avvertono i passi di fra Cristoforo, giunto per riferire gli esiti del colloquio con don Rodrigo.

 

7° CAPITOLO

Tornato dal palazzotto di don Rodrigo, Fra Cristoforo giunge di nuovo a casa di Lucia e comunica ad Agnese e ai due promessi che, malgrado il suo intervento, don Rodrigo non intende cambiare atteggiamento. Renzo reagisce con rabbia. Uscendo, il frate raccomanda di inviare qualcuno al convento il giorno successivo, per avere nuove informazioni.
Renzo, irritato dalle notizie appena ricevute e dall’opposizione di Lucia al progetto di matrimonio di sorpresa, dà in escandescenze. Alla fine Lucia cede e accondiscende (a malincuore) al piano della madre.
Renzo torna infine a casa. Agnese e Renzo stabiliscono insieme i dettagli del piano di matrimonio di sorpresa, mentre Lucia resta in disparte. Seguendo le indicazioni di fra Cristoforo, Agnese invia poi al convento Menico, un ragazzino suo parente.
Per tutta la mattinata, dei loschi figuri vestiti da viandanti e da pellegrini si aggirano nelle vicinanze della casa di Lucia, curiosando anche all’interno dell’abitazione. Dopo lo scontro con padre Cristoforo, don Rodrigo, furibondo per non esser riuscito ad intimorire il frate e turbato per quel “Verrà un giorno...”, cammina per il palazzo al cospetto dei ritratti dei suoi avi, che sembrano rimproverarlo per la sua debolezza. Per dimenticare l’episodio il nobile esce, scortato dai bravi, per una passeggiata trionfale, durante la quale egli viene ossequiato da tutti.
Tornato al palazzotto, egli viene però deriso dal conte Attilio; risentito, raddoppia allora la posta dell’infame scommessa. Dopo una notte di sonno tranquillo, don Rodrigo, dimenticati i timori suscitati in lui da fra Cristoforo, predispone con il capo dei suoi bravi, il Griso, un piano per rapire Lucia. I bravi, guidati dal Griso, cominciano le loro ricognizioni in casa di Lucia (gli strani figuri visti nella casa sono i bravi travestiti). Tornati al palazzotto, il Griso dà le ultime istruzioni ai suoi compagni.
Il vecchio servitore si avvia alla volta del convento per riferire al frate circa il previsto rapimento di Lucia. Nel frattempo alcuni bravi hanno già occupato le posizioni concordate ed altri si avviano a farlo. Dopo aver preso con Agnese e Lucia gli ultimi accordi per il matrimonio di sorpresa, Renzo, assieme a Tonio e a Gervaso, si reca all’osteria e qui incontra tre individui (sono tre bravi di don Rodrigo) dal comportamento minaccioso. Renzo, durante la cena, chiede all’oste informazioni sui tre, ma l’oste finge di non conoscerli; al contrario, egli fornisce ai bravi diverse notizie su Renzo e i suoi amici.
Usciti dall’osteria, Renzo, Tonio e Gervaso, vengono seguiti da due bravi, che si arrestano però, vedendo arrivare gente di ritorno dai campi. I tre passano poi a chiamare Agnese e Lucia per dare il via al matrimonio a sorpresa, e insieme si recano alla canonica, dove Tonio bussa alla porta dicendo a Perpetua di voler saldare un debito. Ancora una volta, il capitolo si conclude sul momento culminante della scena, e invita a proseguire la lettura.

 

8° CAPITOLO

In seguito all’arrivo di Tonio e suo fratello (e segretamente anche di Renzo e Lucia) Don Abbondio abbandona le letture in cui era immerso e autorizza Perpetua a far salire Tonio.
Scesa in strada, Perpetua incontra Agnese che, fingendo di passare di lì per caso, la coinvolge in una conversazione a proposito di alcune maldicenze sul suo conto, creando un efficace diversivo.
Tonio e Gervaso accedono allo studio del curato, mentre Renzo e Lucia, approfittando della distrazione di Perpetua, raggiungono il pianerottolo della canonica. Tonio salda il suo debito. Il curato esamina le monete, restituisce il pegno e inizia a compilare una ricevuta.
A un segnale convenuto entrano anche i due promessi. Renzo riesce a pronunciare l’intera formula, mentre Lucia viene interrotta violentemente dal curato, che si rifugia poi in una stanza attigua. Don Abbondio chiede aiuto dalla finestra. Ambrogio, il sacrestano, per non essere coinvolto nella mischia, suona allora le campane per richiamare gente. I rintocchi del campanile in piena notte svegliano l’intero paese e la gente scende in strada.
Intanto i tre bravi che erano all’osteria escono per una ricognizione; poi chiamano i compagni appostati al casolare per il rapimento di Lucia. Agli ordini del Griso, il gruppo dei bravi penetra in casa della ragazza, ma non trova la vittima predestinata. Menico, di ritorno dal convento, entra in casa di Lucia. Appena entrato il ragazzo viene afferrato dai bravi. Tuttavia questi, spaventati dal suono delle campane, lasciano andare Menico e fuggono disordinatamente. Il Griso riprende in mano la situazione e li richiama all’ordine e la fuga prosegue a ranghi compatti.
Agnese continua intanto a distrarre Perpetua, ma, sentite le grida di don Abbondio e i rintocchi, le due donne corrono verso la canonica. Renzo e Lucia si ricongiungono con Agnese e vengono raggiunti da Menico, che dice loro di fuggire verso il convento e li segue per un tratto.
Intanto la gente si raduna in piazza e si reca da don Abbondio. Visto che quest’ultimo non è più in pericolo, la folla si sposta alla casa di Lucia e scopre che le due donne sono sparite. Dopo qualche vano progetto di inseguimento dei presunti rapitori, corre la voce (interessata) che le donne siano salve e tutti si ritirano.
Il giorno dopo, console del paese di Renzo e Lucia viene minacciato da due bravi di don Rodrigo che gli intimano di non riferire al podestà i fatti della notte precedente, quella dell’incursione in casa di Lucia.
Renzo, Lucia e Agnese si sono intanto allontanati attraverso i campi, accompagnati da Menico che, raccontata la sua avventura, viene poi rimandato a casa. I tre fuggitivi giungono al convento di Pescarenico.
Qui ritrovano fra Cristoforo che, dopo aver vinto le resistenze di fra Fazio, il sacrestano, li fa entrare nella chiesa del convento ed illustra i piani di fuga che ha predisposto per loro. Dopo aver pregato anche per l’anima di don Rodrigo, i tre lasciano il convento e si dirigono verso il lago.
Raggiunto il lago, i tre salgono sulla barca predisposta da fra Cristoforo. Segue la descrizione del paesaggio. Lucia piange segretamente e il suo addio ai monti e ai luoghi natii costituisce un po’ il “coro” del capitolo.

 

9° CAPITOLO

In seguito alla loro brusca partenza dal paesino natale, Renzo, Agnese e Lucia, grazie all’appoggio di fra Cristoforo, riescono a fuggire e, dopo aver navigato nottetempo sulle acque del lago di Como, approdano sull’altra riva del lago, opposta a Pescarenico, e si accomiatano dal barcaiolo che li aveva trasportati. Grazie all’aiuto di un barrocciaio di passaggio, i tre giungono fino a Monza su di un carro.
Arrivati in città, possono finalmente riposarsi e rifocillarsi in una locanda. Dopo un breve pasto, Renzo dà l'addio alle due donne. Sempre sotto la guida del barrocciaio, le due donne si recano prima al convento dei cappuccini (portando la lettera di fra Cristoforo) e poi, accompagnate dal padre guardiano, al monastero di monache nel quale sperano di trovare ospitalità.
Il frate decide quindi di chiedere per loro la protezione di Gertrude, una suora di nobile e potente famiglia. L’Autore dà ora inizio ad una sua profonda descrizione fisica e psicologica, caratterizzata da quelle “pennellate descrittive”, da quello stile sintetico ma estremamente espressivo, quasi compendiario che è proprio del Manzoni. La giovane monaca ha circa venticinque anni e il suo viso mostra una bellezza sfiorita. Il suo atteggiamento e il suo modo di indossare il saio hanno qualcosa di strano. L’Autore riesce qui, nella descrizione, ad anticipare qualcosa di quello che narrerà poi più esplicitamente, a proposito della storia e della vocazione di Gertrude. Egli predispone in qualche modo il lettore alle rivelazioni successive, che così appariranno poi più convincenti.
La narrazione riprende, e Gertrude interroga le due donne e il padre guardiano a proposito delle vicende di Lucia. Al termine del colloquio, concede ospitalità ad Agnese e Lucia.
Inizia da ora quello che sarà un lungo flash-back sulla vita di Gertrude e una digressione sulle usanze della nobiltà dell’epoca in ambito familiare. Viene infatti descritta la famiglia di Gertrude e la regola in essa vigente, secondo la quale, tutti i figli, ad esclusione del primogenito, dovevano entrare in convento, per non frammentare il patrimonio della casata.
Fin dalla prima infanzia, i genitori e i parenti di Gertrude cercano, anche con subdoli espedienti, di inculcarle l'idea della vita consacrata. L'infanzia e l'adolescenza di Gertrude trascorrono nel convento di Monza, dove viene educata in vista di una sua futura scelta monacale. Nei suoi rapporti con le compagne la bambina manifesta la sua innata superbia (alla quale, peraltro, è stata educata), ma anche i primi cenni di rifiuto della vita religiosa.
Prima di prendere definitivamente i voti, Gertrude è ricondotta, secondo la regola, per un mese nella casa paterna. Qui viene trattata con indifferenza ed isolata al fine di metterla a disagio e di farle desiderare il convento. In seguito, scoperto il suo innamoramento per un paggio, Gertrude viene imprigionata in una stanza e sottoposta ad un ignobile ricatto: per uscire da quella segregazione, ella dovrà dichiararsi disposta a scegliere la vita consacrata. Dopo cinque giorni di vita in isolamento, spinta dal bisogno impellente di uscire dalla solitudine e fiaccata dalla resistenza che aveva opposto alla famiglia, il pentimento prende in lei il sopravvento e, con una lettera al genitore, conferma la sua scelta di prendere i voti.

 

 

10° CAPITOLO

Questo capitolo racconta la storia di Gertrude, che fin da piccola era indirizzata verso la strada del monastero.
In questo capitolo, Gertrude è costretta dal padre a mandare una lettera per essere ammessa al monastero, ma immediatamente né invia un’altra per ritirare l’iscrizione.
Il servo se ne accorge e dice al padre ciò che ha fatto Gertrude, la quale, dopo essersi pentita, disse a tutti i familiari che non voleva essere esclusa dalla famiglia per ciò che aveva fatto. Il padre continuò a convincere la figlia a diventare monaca. Così l’intera famiglia decise di organizzare una festa per la decisione presa dalla ragazza.
Arrivata al monastero, si presentò un vicario, il quale aveva il compito di capire se la giovane Gertrude era stata condizionata da qualcuno o la sua scelta veniva dal cuore.
Dopo un po’ di tempo Gertrude divenne finalmente monaca, ma era sempre contraria e ribelle alla decisione presa dal padre.

 

11° CAPITOLO

Mentre don Rodrigo attende impazientemente l’arrivo del Griso, si abbandona a delle oziose considerazioni intorno a Lucia e a delle possibili conseguenze del suo rapimento. Poi,quando finalmente il Griso gli si presenta con aspetto dimesso, e lo informa del fallimento della spedizione, don Rodrigo, non abituato alle sconfitte, prova una grande delusione. All’uno e all’altro però nasce il sospetto che qualcuno abbia fatto la spia riguardo i loro piani. Anche l’ironico cugino conte Attilio, che non perde occasione per schernirlo, è di questo avviso: anzi si dimostra sospettoso nei confronti padre Cristoforo, e si rammarica con don Rodrigo, per non aver saputo dargli una lezione, quando è venuto ad importunarlo.


Al riguardo il conte Attilio comunica al cugino che penserà lui a punire quel frate impiccione, chiedendo l’intervento del conte zio del Consiglio segreto, e annuncia la sua prossima partenza per Milano.
Intanto l’autore, con profondo spirito d’osservazione, con ragionamenti sottili e con la ben nota impareggiabile maestria, descrive come il Griso, incaricato dal suo padrone di svolgere indagini, sia venuto a conoscenza di quanto è avvenuto la notte precedente. E quando a don Rodrigo viene riferito che Lucia e Renzo si sono separati andando rispettivamente al convento di Monza e a  Milano, nel suo intimo prova una grande felicità. Due pensieri balenano nella sua mente: mandare il Griso a Monza, alla ricerca di notizie più precise intorno a Lucia, e impedire a Renzo che torni da lei.
Nel frattempo Renzo, con l’animo amareggiato per il distacco da Lucia, con il desiderio di vendetta e la rabbia contro don Rodrigo, colpevole di tante disavventure, è alle porte di Milano. Egli, purtroppo, vi giunge in un giorno di sommossa. La strada che percorre è cosparsa di farina e di pani. Ne prende qualcuno e prosegue. E vede gente carica di farina e di pane, e più avanti una confusione di persone. Tutto ciò lo incuriosisce e gli dà una sensazione di piacere. Ma non si immischia nel tumulto, si reca invece al convento dei cappuccini, indicato da padre Cristoforo. Qui chiede di padre Bonaventura, e poiché è momentaneamente assente, il frate portinaio, che gli aveva aperto, consiglia Renzo di aspettarlo in chiesa. Ma questi, piuttosto che seguire il consiglio del frate, si avvia verso il luogo della sommossa, e per poco non ne è travolto.

 

 

12° CAPITOLO

 

Il capitolo si apre con un ‘ampia digressione storica nella quale si analizzano le ragioni della carestia: raccolti scarsi, sprechi, pressione fiscale.
Il cancelliere Antonio Ferrer adotta un provvedimento molto criticato da Manzoni poiché stabilisce per il pane un prezzo troppo basso, il quale quasi non consente l‘acquisto delle materie prime.
Il prezzo del pane viene aumentato e comincia a farsi sentire il malumore del popolo.
La folla blocca il garzone di un panettiere e lo deruba della cesta del pane: prende così avvio il tumulto di San Martino. La massa si dirige poi verso il forno “delle grucce” e, malgrado l’intervento degli alabardieri e del capitano di giustizia, dopo un breve assedio, dà l‘assalto al forno stesso rubando pane, farina, denaro e distruggendo ogni cosa. Renzo, incuriosito da tutto quel movimento, si muove inconsapevolmente verso il cuore del tumulto ascoltando i pareri contrastanti dei presenti. Mentre il giovane assiste alla distruzione del forno e critica, dentro di sé, tutta quella furia, giunge la notizia di nuovi disordini al Cordusio. La folla si dirige là, passando sotto la statua di Filippo II, la quale offre all’autore lo spunto per alcune riflessioni sui simboli del potere.La voce si rivela però falsa e la massa, inferocita e delusa, decide di dar l’assalto alla casa del vicario di provvisione, ritenuto responsabile della scarsità di cibo. Renzo, pur non volendo farsi coinvolgere nella rivolta, viene vinto dalla curiosità e si lascia trasportare dalle altre persone.

 

13° CAPITOLO

La folla si dirige verso il palazzo del vicario. Quest’ultimo, aiutato dai servi, riesce a barricarsi in casa e a nascondersi in uno stanzino. Alcuni manifestanti tentano di scardinare e sfondare la porta del vicario per catturarlo e ucciderlo e, tutto ciò, sotto gli occhi dei soldati spagnoli, i quali tuttavia non osano intervenire. Renzo, al centro del tumulto, è tra coloro che si oppongono a una giustizia sommaria. Per questo, dopo aver reagito con sdegno alle proposte sanguinarie di un anziano, rischia il linciaggio. Dal fondo della piazza fa la sua apparizione il gran cancelliere Antonio Ferrer, il quale, forte del sostegno popolare, interviene per salvar la vita del vicario. Nella folla si creano due fazioni: I ‘una favorevole e l’altra ostile all’intervento di Ferrer; ciò offre all‘autore lo spunto per una riflessione sui meccanismi delle rivolte popolari. Il cancelliere procede in carrozza attraverso la piazza gremita di gente. Alcuni, tra cui Renzo, si adoperano affinché egli possa avanzare, ma il cocchiere, molto cortese, è costretto a continue fermate. Ferrer promette alla folla di arrestare il vicario e di abbassare nuovamente il prezzo del pane, ma si comprende subito che le sue promesse non verranno mantenute. Ferrer riesce in fine ad entrare nel palazzo del vicario e a trarre salvo quest‘ultimo. Fattolo poi salire sulla propria carrozza, si dirige verso il “castello” continuando a blandire la folla. Scampato il pericolo di un linciaggio, Ferrer comincia a temere le reazioni dei propri superiori, mentre il vicario, ancora molto spaventato, annuncia di volersi ritirare in un grotta.

 

14° CAPITOLO

La folla che assediava la casa del vicario comincia a sciamare, ma senza disperdersi del tutto: gruppetti di persone continuano a formarsi lungo le vie. Per le strade, la gente commenta i fatti della giornata e prende accordi per il giorno successivo.
Renzo si avvicina ad un crocchio e tiene un piccolo "comizio" esponendo il proprio ideale di giustizia sociale. Nel suo discorso, le vicende personali si mescolano a considerazioni di carattere generale. Il suo discorso si conclude tra complimenti e critiche dei presenti; poi il gruppetto si scioglie. Il giovane montanaro chiede che gli venga consigliata un'osteria, ed uno sconosciuto si incarica di accompagnarlo.
Malgrado le proteste dello sconosciuto accompagnatore, che vorrebbe portarlo altrove, Renzo decide di fermarsi all'Osteria della Luna Piena.
I due entrano nella locanda e l'oste, pur senza darlo a vedere, riconosce nello sconosciuto un informatore della polizia. Renzo e il suo accompagnatore siedono ad un tavolo, tra giocatori di carte e bevitori, e ordinano un fiasco di vino che viene rapidamente svuotato. Il giovane esibisce uno dei pani rinvenuti per terra durante la mattinata e per questo egli viene ritenuto dai presenti uno degli assalitori del forno.
Renzo, alterato dal vino, si rifiuta di fornire all'oste le proprie generalità per la registrazione degli ospiti della locanda. Il giovane, parlando ad alta voce, inizia una nuova arringa contro la scrittura e contro l'amministrazione della giustizia. Alla fine, sostenuto dal consenso degli avventori, riesce ad evitare la registrazione.
L'informatore della polizia, che si spaccia per uno spadaio dalle idee egalitarie, riesce, con un espediente, a far dire a Renzo il proprio nome.

 

15° CAPITOLO

Renzo, ormai completamente ubriaco, abbandona la sala dell'osteria, tra saluti e risa. Accompagnato e sorretto dall'oste raggiunge poi la camera che gli è stata destinata
Giunto in camera, l'oste tenta nuovamente di far declinare a Renzo le proprie generalità, ma alle nuove proteste di quest'ultimo rinuncia. Fattosi poi pagare il conto, l'albergatore lascia la stanza del giovane, il quale, intanto, si è addormentato.
L'oste decide di andare al palazzo di giustizia per denunciare Renzo e, dopo molte raccomandazioni, affida la cura dell'osteria alla moglie. Camminando lungo le strade di Milano, si imbatte in personaggi dall'aria fosca e in drappelli di soldati. Inizia così un lungo soliloquio, durante il quale, alle espressioni di disappunto per quella uscita fuori programma, si mischiano considerazioni di tipo politico.
Arrivato al palazzo di giustizia, l'oste denuncia al notaio criminale la presenza, nella sua osteria di un giovane che non ha voluto rivelare le generalità. Il funzionario, che ha già ricevuto il rapporto del delatore e che conosce già il nome di Renzo, mostra però di non accontentarsi delle informazioni fornite dal padrone dell'osteria e sottopone l'uomo ad un serrato interrogatorio.
Il notaio criminale e due birri penetrano nella camera di Renzo e gli ingiungono di seguirli. Intimorito dal rumore che viene dalla strada e che sembra annunciare nuovi tumulti, il notaio abbandona subito l'atteggiamento autoritario e, con le buone, cerca di indurre Renzo a seguirli. Il funzionario si mostra eccessivamente gentile ed afferma che si tratta di una pura formalità, ma il giovane non gli presta fede e comincia ad elaborare un piano per far intervenire la folla a suo favore.
Scesi in strada, i due birri danno una stretta alle manette di Renzo, il quale, con un grido di dolore, richiama l'attenzione dei passanti.
Approfittando della piccola folla che si è formata attorno al gruppetto, il giovane chiede aiuto. Per sfuggire al linciaggio, i birri e il notaio, abbandonano il prigioniero e si confondono tra la folla.

 

16° CAPITOLO

Renzo sfugge ai birri e, rifiutando l'ipotesi di chiedere asilo in un convento, corre via cercando di uscire dalla città e dallo stato.
Non sapendo orientarsi, Renzo, dopo aver esaminato attentamente alcuni passanti, chiede informazioni ad uno di essi che gli ispira fiducia. Il giovane attraversa Milano e, superando con indifferenza un presidio di soldati, esce dalle mura diretto al paese nel Bergamasco dove vive Bortolo. Renzo si allontana da Milano, ma, per il timore di percorrere le strade principali, e per il desiderio di non attirare su di sé sospetti chiedendo informazioni, sbaglia più volte direzione. Durante il suo cammino egli ripensa ai fatti del giorno precedente ed esamina la sua situazione. Giunto ad un'osteria isolata, il giovane pranza. Con uno stratagemma, egli riesce poi a farsi indicare, dalla vecchia ostessa, la strada per il confine.
Verso sera, Renzo arriva nel paese di Gorgonzola, vicino al confine, e qui cena in un'osteria. Cerca, senza esito, di ottenere dall'oste delle indicazioni sul percorso da seguire per attraversare l'Adda e passare nella Repubblica veneta. Viene poi avvicinato da un cliente che gli chiede se egli venga da Milano e se abbia informazioni sulla rivolta: Renzo fornisce risposte evasive.
Al gruppo degli avventori, si aggiunge poi un mercante milanese. Si tratta di un conservatore, metodico e nemico di ogni disordine, che dà una propria personale versione degli avvenimenti. In particolare, egli dice che i capi della rivolta sono stati tutti arrestati, tranne uno che, fermato in un'osteria, è riuscito a fuggire.
Temendo di cadere nuovamente nelle mani della giustizia, Renzo lascia l'osteria di Gorgonzola e va, quasi istintivamente, verso l'Adda.

 

17° CAPITOLO

Uscito dall'osteria di Gorgonzola, Renzo prosegue il suo cammino nell'oscurità, lungo le strade che, secondo il suo senso dell'orientamento, dovrebbero condurlo all'Adda. Durante il tragitto, i suoi pensieri vanno al mercante e al suo resoconto distorto e calunnioso.
Dopo aver oltrepassato alcuni paesi ed aver scartato l'ipotesi di chiedere ospitalità, Renzo si inoltra in una zona non coltivata e poi in un bosco. Qui viene colto da un oscuro timore, ma, proprio quando sta per tornare sui suoi passi, sente il rumore dell'Adda e si precipita verso il fiume.
Non potendo attraversare il fiume, né potendo passare la notte all'aperto, a causa del freddo, Renzo si rifugia in una capanna abbandonata. Dopo aver recitato le preghiere della sera, il giovane  tenta di addormentarsi, ma alla sua mente si affacciano ricordi dolorosi.
Verso le sei del mattino successivo, Renzo, sullo sfondo di una magnifica aurora, riprende il cammino verso l'Adda.
Traghettato da un pescatore passa sulla sponda bergamasca del fiume; di qui, il giovane procede a piedi verso il paese del cugino.
Renzo pranza all'osteria. Terminato il pasto, dona le ultime monete che gli sono rimaste a una famiglia ridotta, dalla fame, a mendicare; l'episodio gli offre lo spunto per alcune riflessioni sulla Provvidenza.
Giunto nel paese di Bortolo, Renzo individua immediatamente il filatoio e lì trova il cugino, il quale lo accoglie festosamente, dichiarandosi disposto ad aiutarlo, sebbene i tempi non siano dei più propizi. I due cugini si informano reciprocamente sulla rispettiva situazione e sulle vicende politiche dei propri paesi. Dopo essere stato avvertito dell'uso bergamasco di chiamare baggiani i milanesi, Renzo viene presentato al padrone del filatoio e assunto come lavorante.

 

 

18° CAPITOLO

La giustizia compie una perquisizione in casa di Renzo e interroga i suoi compaesani.
Don Rodrigo intanto, si compiace dei provvedimenti contro Renzo e dal conte Attilio riceve nuovi incoraggiamenti e stimoli a proseguire nel suo proposito. Ma il suo compiacimento è turbato dalle notizie su Agnese e Lucia, riferitegli dal Griso. Egli è dunque sul punto di abbandonare l'impresa, poiché il monastero e la presenza in esso della potente Gertrude costituiscono per lui un ostacolo insormontabile. Prevale però il timore dell'onta per la sconfitta, e don Rodrigo decide così di tentare nuovamente il rapimento di Lucia, avvalendosi dell'aiuto di un nobile tristemente noto per le sue imprese criminali: l'Innominato.
Lucia e Agnese vengono informate dalla fattoressa del convento che Renzo è ricercato per i fatti del tumulto, mentre un pescatore, incaricato da fra Cristoforo, nel confermare la relazione, aggiunge che il giovane ha trovato riparo nel Bergamasco.
Le due donne continuano la loro vita al monastero di Monza, confortate dalle notizie rassicuranti su Renzo, che il frate invia loro tramite i suoi messaggeri. Lucia, intanto, è entrata in maggior confidenza con Gertrude e passa con lei molto del suo tempo.
Non avendo più ricevuto notizie da fra Cristoforo, Agnese decide di abbandonare il convento e di passare da Pescarenico prima di tornare a casa. Nel suo viaggio è aiutata dal pescatore che aveva portato le prime notizie certe di Renzo.
Giunta a Pescarenico, Agnese apprende da fra Galdino che padre Cristoforo è stato trasferito a Rimini. La donna torna così al proprio paese in preda allo sconforto.

 

19° CAPITOLO

Posto al centro del capitolo, il grande dialogo fra il conte zio e il padre provinciale ricorda il dialogo fra padre Cristoforo e don Rodrigo (cap. VI); sia per il fatto che i contendenti attuali sono i sostituti di quelli di allora; sia per metodo diverso con il quale è condotta la nuova contesa.
Se, infatti, anche questo incontro, come quello ricordato, fa pensare ad un duello, in realtà si traduce solo in un seguito di schermaglie. Mentre nel primo si affrontano apertamente la verità è la carità di padre Cristoforo con la violenza e la falsità di don Rodrigo, in questo caso l'ostilità fra i due contendenti è celata dall'ipocrisia. Ma dal modo col quale Io scrittore rappresenta il comportamento dei due protagonisti emerge chiaramente che entrambi si avvalgono dell'astuzia coperta dall'ipocrisia.
Fra i due personaggi il conte zio è rappresentato con una connotazione più comica, il padre provinciale con un taglio più drammatico. Tutto è vuoto e falso in lui, fuorché l'orgoglio, sul quale sa far leva la cinica astuzia del nipote Attilio: allora la scatola vuota diventa un meccanismo caricato e pericoloso contro il pade provinciale.Con questo dialogo si fronteggiano due poteri: quello laico e quello ecclesiastico,come era accaduto nel capitolo VI con Lodovico e Don Rodrigo.Durante il dialogo il conte zio usa un tono amichevole,confidenziale,mentre il padre provinciale capisce e commenta dentro di se il senso delle parole dell'interlocutore.La sua preoccupazione è tutta rivolta all'onor dell'abito. Il provinciale, rinunciando a difendere apertamente il “vero morale” rinuncia anche al suo ruolo e si lascia sconfiggere da un avversario che gli sarebbe decisamente inferiore.
Amaro certo risulta il senso profondo dell'episodio, in quanto la cristiana virtù della prudenza, che si propone il controllo delle passioni per il trionfo del “vero morale”, è contaminata dall'ipocrisia, che controlla a sua volta l'orgoglio.

 

20° CAPITOLO

Don Rodrigo si reca al castello dell'Innominato con alcuni bravi al suo seguito. Il castello, essendo situato sulla cima di un poggio, domina tutto lo spazio sottostante, senza che nulla potesse sovrastarlo, come d'altra parte il suo padrone. Quando Don Rodrigo giunge alla taverna della Malanotte, situata nel mezzo della valle ai piedi del poggio, scende da cavallo e paga alcuni suoi bravi per attenderlo lì, mentre egli sarebbe andato col Griso presso l' Innominato. A questo punto il Manzoni ci fornisce una descrizione alquanto generale, sia del suo aspetto fisico che morale che mette in evidenza il contrasto tra il fisico di una certa età e l'animo ancora giovane.
Don Rodrigo espone il suo imbroglio, ingrandendo enormemente le difficoltà, trovandosi di fronte ad un uomo molto potente;l'Innominato non lo lascia terminare che subito accetta l'impresa su di sè, poiché era amico dello sciagurato Egidio, che abitava vicino al monastero dove Lucia era stata ricoverata. Ma , uscito Don Rodrigo, questo inizia a provare rimorso per la parola data e per tutte le scelleratezze fatte, e sente quel Dio di cui non si era mai interessato, gridare dentro di sè, ma maschera tutto questo con una cupa ferocia. Chiama il Nibbio, al suo servizio, e gli ordina di andare a Monza per richiedere l'aiuto di Egidio. Quest'ultimo, accolta la richiesta, impone a Gertrude il sacrificio della giovane e nonostante lei tenti di opporsi, vi era un segreto che non poteva essere rivelato. Con il pretesto di dover parlare al frate cappuccino in gran segreto, la monaca manda Lucia, alquanto perplessa della richiesta, al convento; la ragazza dapprima è impaurita, ma vedendo una carrozza di da viaggio si tranquillizza, senza sapere che con quella carrozza, su cui vi è il Nibbio, verrà rapita e portata presso dell'Innominato e nonostante lei tenti di liberarsi, la carrozza è sulla strada del castello. Intanto il mandante è molto nervoso e manda una vecchia del castello a prendere la giovane, condurla nella sua stanza e farle coraggio.

 

21° CAPITOLO

La vecchia si reca subito alla Malanotte e riferisce al Nibbio gli ordini del padrone e invita Lucia a seguirla per farle coraggio. Giunto alla presenza dell'Innominato il Nibbio dice che tutto si era svolto secondo gli ordini, ma che Lucia gli aveva fatto una grande compassione e, appena sentito ciò, l?innominato manda il servitore a dormire e si reca dalla ragazza. Arrivato nella sua stanza la vede rannicchiata per terra con vicino la vecchia; Lucia inizia a supplicarlo di lasciarla libera, con la famosa frase"Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia", ma l'Innominato la esorta ad avere coraggio e le dice che l'avrebbe rivista il giorno seguente e la lascia con la vecchia. La giovane si rifiuta di mangiare e di dormire e allora ne approfitta la donna per mettersi lei stessa nel letto. Poco dopo, mentre Lucia prega, le viene in mente che sarebbe stata esaudita più efficacemente se avesse fatto un sacrificio, così promette di rinunciare a Renzo per essere solo della Vergine e, più tranquilla, si mette a dormire. Anche l'Innominato vorrebbe fare lo stesso, ma ha una notte molto agitata: pensa a Lucia, che è stata l'unica ad averlo commosso con le sue preghiere, e per scacciare quella idea, pensa alla sua vita, ma è ancora peggio, perché si sente sempre più responsabile dei crimini comMessi e decide di spararsi, ma il dubbio di un'altra vita di cui aveva sentito parlare da bambino lo fa rinunciare e proprio in quel momento gli vengono in mente le parole di Lucia che gli infondono un po' di speranza e decide di liberare la ragazza, anzi ne è entusiasta. All'alba sente uno scampanio e molta gente allegra per le strade e manda un bravo che dormiva nella stanza accanto a sapere la causa di tanta contentezza.

 

22° CAPITOLO

Il bravo mandato dall’Innominato tornò da quest’ultimo e gli riferì che il giorno seguente sarebbe arrivato in paese il cardinal Federigo Borromeo, l’arcivescovo di Milano e che questi si sarebbe intrattenuto per tutto il giorno. L’Innominato si mise a riflettere perché non capiva perché quella sola persona suscitasse l’interesse di tanta gente e decide di andarlo immediatamente a trovare. Si vestì e impugnò il suo fucile, ma prima passò dalla stanza di Lucia per rassicurarla ancora una volta: lasciò fuori l’arma per non spaventarla e, alla visione della giovane donna rannicchiata in un angolo della stanza a dormire, rimproverò la vecchia per non averla confortata a sufficienza. Lasciò quindi un messaggio per Lucia alla vecchia per confortarla, dicendo tra l’altro che sarebbe tornato presto. Quando arrivò nella casa del curato, chiese al cappellano crocifero che lo conducesse dal cardinale.Questi era contemporaneamente terrorizzato e sbalordito e tentennava, ma alla fine si decise e “finalmente a malIncorpo si recò a fare l’ambasciata”. Poi Manzoni fa una lunga digressione sul passato di Federigo Borromeo: fin da giovane era cultore di Dio e non si preoccupava di quello che succedeva intorno a lui. Suo cugino, S.Carlo gli diede l’abito e da quel momento inizia a vestirsi e mangiare in modo umile e povero. E’ preso in simpatia per il suo buon carattere dai superiori e il Papa lo nomina arcivescovo di Milano. Lui rifiutò ma il Papa lo costrinse ad accettare. Con la sua carica diede, tra l’ingratitudine generale, buona parte del suo patrimonio alla Biblioteca Ambrosiana.

 

23° CAPITOLO

La pessima reputazione dell’Innominato induce il cappellano crocifero a consigliare al cardinale di non riceverlo. Ma questo invito fu ignorato e Federigo accolse il suo ospite come una persona attesa. L’Innominato era tormentato da due sentimenti forti e ricorrenti:da una parte il desiderio avere conforto dal Federigo,dall’altra la vergogna di essere lì come un povero pentito giunto alla fine,qualcuno che non sa più cosa fare. Il cardinale continuò a parlargli e l’iniziale sentimento di stupore si trasformò presto in profonda commozione e l’Innominato non resistette più e scoppiò in lacrime. Federigo aveva già capito le intenzioni dell’Innominato e capì che ormai si sarebbe pentito per quel che aveva fatto durante la sua vita;quindi stese la sua mano verso l’altro personaggio,che in primo momento si ritirò,ma poi,preso dalla disperazione,la strinse con la sua. L’Innominato raccontò la storia di Lucia e il cardinale,capendo la situazione,preparò tutto per fare liberare Lucia dalla sua prigionia. Così fece chiamare il pavido don Abbondio,insieme al curato del luogo. Don Abbondio,ricevuta la chiamata,pensò ad un errore ma si recò lo stesso dal cardinale. Quando furono tutti riuniti ordinò al primo dei due curati di mandare una donna esperta,”con un po’ di testa e di cuore” al castello a prendere Lucia e a don Abbondio che la accompagnasse per rassicurarla ulteriormente. Anche questo pensiero spaventò don Abbondi che fu turbato dal pensiero di viaggiare con l’Innominato. Durante il viaggio il curato di Pescarenico è immerso nei suoi pensieri e finalmente arrivano nella valle del castello.

 

 

24° CAPITOLO

Quando i tre entrarono nella stanza di Lucia,appena risentita dal torpore,la prima impressione che questa ebbe,riconoscendo don Abbondio,fu di sbalordimento. Le pareva di vedere un fantasma e stava a guardarlo come se lo stesse sognando. Questo la rassicurò,dicendo che l’avrebbe portata via da lì. Nel viaggio di ritorno;don Abbondio,non fu abbandonato dai suoi soliti pensieri tormentosi che,tolte le antiche preoccupazioni,altre di diversa natura ne arrivarono. Ora era la mula che gli dava più da pensare,perché si manteneva costantemente sul ciglio della strada:”Anche tu hai quel maledetto viziosi andare a cercare i pericoli,quando c’è tanto sentiero”,diceva fra sé. Appena usciti dalla famosa valle don Abbondio si rassicurò e così,con la mente più riposata,si mise a pensare ad altri e più lontani pericoli immaginando quale sarebbe stata la reazione di Don Rodrigo davanti al suo apparente tradimento. Quando arrivarono  le funzioni in chiesa non erano ancora terminate;don Abondio,dopo aver abbondantemente ossequiato l’Innominato,prese il bastone e si mise in viaggio per la sua strada. Lucia intanto era stata condotta in casa dalla donna la quale si diede subito da fare per prepararle qualcosa. Tornato il padrone di casa,il sarto del villaggio,si recò a tavola. Questi fu quello che parlò più a lungo durante il pranzo perché era convinto di essere molto colto,avendo letto un paio di libri,cominciò a esporre con molta accuratezza la predica del cardinale. Arrivò Agnese e Lucia,alla sua vista,provò grande gioia ma pensò che prima di confidarle del voto,pensò fosse meglio parlarne con frate Cristoforo. Però rimase molto sorpresa scoprendo che questo era partito. Verso sera ricevettero la visita del cardinale. Agnese,molto tranquillamente,vuotò il sacco e raccontò tutto quello che don Abbondio le aveva pregato di tenere per sé. Intanto l’Innominato,tornato al castello,radunò tutti i suoi bravi e parlò loro della sua situazione e diede loro una notte d tempo per decidere se cambiare vita insieme a lui o andarsene. Prima di coricarsi a letto si inginocchiò e trovo in un cantuccio profondo della sua mente le preghiere che da bambino.

 

25° CAPITOLO

Il giorno seguente, nel paesello di Lucia, non si parlava che di lei, dell’Innominato, del cardinale e di Don Rodrigo. Quest’ultimo, colpito da una notizia così impensata, temendo che Federigo, venendo da quelle parti, potesse richiederlo di qualche cosa, un giorno si levò prima del sole e partì in carrozza per Milano. Infatti, il cardinale non tardò a giungere. Entrato con qualche difficoltà in chiesa, con un piccolo discorsetto, preparò i presenti alle funzioni dell’indomani. Poi si ritirò nella cosa del curato e, per quella sera, si limitò a chiedergli informazioni su Renzo, convincendosi ancora di più della sua innocenza, e ordinare perché si prevalessero le due con una lettiga dalla casa ospitale del sarto. Poco distante da quel paesetto villeggiava una coppia d’alta classe: don Ferrante e donna Prassede. Era costei piena di zelo cristiano e desiderosa di far bene, ma un bene a modo suo, poiché era solita scambiare il volere del cielo con quello del suo cervello. Purtroppo nel suo cervello le idee erano poche ed erano quasi tutte distorte. Nel caso di Lucia, oltre alla voglia di far bene c’era da parte sua la curiosità di conoscerla, dato il gran parlare popolare su di lei, e purtroppo anche l’intenzione di farla ravvedere nei confronti di Renzo e anche di se stessa, perché era convinta che, una giovane promessa ad un poco di buono, doveva avere per forza una grave pecca nascosta da qualche parte. Avendo saputo che il cardinale s’era incaricato di trovare un posto per Lucia, espresse il desiderio di ospitarla in casa sua. Dopo aver incontrato Lucia con la madre, donna Prassede fece scriver dal marito una lettera che poi lei avrebbe ricopiato e successivamente fatta recapitare al cardinale. Dopo le funzioni in chiesa don Abbondio fu convocato da Federigo Borromeo, il quale, con una domanda direttissima, i chiese perché il 6 novembre non aveva maritato Lucia con Renzo. Dopo aver esitato molto don Abbondio cedette e raccontò al cardinale che fu minacciato di morte e fu riempito da questo di rimproveri. Quindi chiese perché era diventato prete, dove era il coraggio, se amava i suoi figliuoli e cosa aveva fatto per loro. Tacque solennemente aspettando la risposta di don Abbondio.

 

26° CAPITOLO

In questo capitolo continua il colloquio tra Don Abbondio e il cardinale, il quale rimprovera il curato a proposito della faccenda di Renzo e Lucia;Don Abbondio chiede spiegazioni su ciò che avrebbe dovuto fare e Federigo gli risponde che avrebbe dovuto avvertire il vescovo degli impedimenti;a queste parole il povero curato pensa ai pareri di Perpetua e si lascia scappare che bisogna trovarsi nei panni di un povero prete ed essere arrivato al punto. Il cardinale lo invita a rimproverargli le sue debolezze, ma viene elogiato e raccomanda a Don Abbondio di trovare l'occasione per far del bene ai due giovanI; il curato promette e segue Federigo all'uscita. La mattina seguente venne Donna Prassede a prendere Lucia che si divide ancora una volta dalla madre. Il cardinale riceve degli scudi da parte dell'Innominato da consegnare ad Agnese e questa, come li ha, va a casa e li mette nel suo saccone, per poi raggiungere la mattina seguente la figlia, che le racconta del voto fatto  e la prega di farle avere notizie su Renzo.
A questo punto del capitolo Manzoni riassume le vicende successe a Renzo:il governatore di Milano aveva fatto un gran fracasso perché Renzo Tramaglino era stato accolto nel territorio bergamasco e appena Bortolo seppe di ciò avvisò subito il cugino e lo condusse ad un altro filatoio cambiandogli il nome in Antonio Rivolta. Poco dopo venne un ordine da Venezia al capitano di Bergamo che prendesse informazione se nella sua giurisdizione vi fosse il ricercato e questi trasmise la risposta negativa. Vi erano poi molti curiosi che chiedevano notizie di Renzo al cugino, ma questi rispondeva che era sparito e che anche lui aveva notizie incerte; ma quando la domanda gli fu fatta per commissione del cardinale Bortolo si insospettì e diede in una volta le notizie che aveva dato ad una ad una in quelle diverse occorrenze.

 

27° CAPITOLO

In questo capitolo continua il colloquio tra Don Abbondio e il cardinale, il quale rimprovera il curato a proposito della faccenda di Renzo e Lucia;Don Abbondio chiede spiegazioni su ciò che avrebbe dovuto fare e Federigo gli risponde che avrebbe dovuto avvertire il vescovo degli impedimenti;a queste parole il povero curato pensa ai pareri di Perpetua e si lascia scappare che bisogna trovarsi nei panni di un povero prete ed essere arrivato al punto. Il cardinale lo invita a rimproverargli le sue debolezze, ma viene elogiato e raccomanda a Don Abbondio di trovare l'occasione per far del bene ai due giovanI; il curato promette e segue Federigo all'uscita. La mattina seguente venne Donna Prassede a prendere Lucia che si divide ancora una volta dalla madre. Il cardinale riceve degli scudi da parte dell'Innominato da consegnare ad Agnese e questa, come li ha, va a casa e li mette nel suo saccone, per poi raggiungere la mattina seguente la figlia, che le racconta del voto fatto  e la prega di farle avere notizie su Renzo.
A questo punto del capitolo il Manzoni riassume le vicende successe a Renzo:il governatore di Milano aveva fatto un gran fracasso perché Renzo Tramaglino era stato accolto nel territorio bergamasco e appena Bortolo seppe di ciò avvisò subito il cugino e lo condusse ad un altro filatoio cambiandogli il nome in Antonio Rivolta. Poco dopo venne un ordine da Venezia al capitano di Bergamo che prendesse informazione se nella sua giurisdizione vi fosse il ricercato e questi trasmise la risposta negativa. Vi erano poi molti curiosi che chiedevano notizie di Renzo al cugino, ma questi rispondeva che era sparito e che anche lui aveva notizie incerte; ma quando la domanda gli fu fatta per commissione del cardinale Bortolo si insospettì e diede in una volta le notizie che aveva dato ad una ad una in quelle diverse occorrenze.

 

28° CAPITOLO

Le conseguenze della sommossa di Milano furono principalmente due:guasto di viveri e consumo che portarono a una grave carestia, a uno spettacolo di miseria e povertà in tutta Milano. Tuttavia cardinal Federigo si dava da fare per alleviare il dolore , comprando granaglie e spedendole alla chiesa per distribuirne ai più bisognosi, come d'altra parte facevano i preti nella città sotto suo ordine. Passato l'inverno e la primavera, il Tribunale di Provvisione decise di raccogliere tutti gli accattoni nel lazzaretto, per essere curati ed accuditi a spese pubbliche. Molti vi accorsero volontariamente, altri trascinati e altri costretti dalle ronde dei birri. Dormivano gli uni sugli altri, mangiando pane alterato con sostanze pesanti e l'acqua era scarsa e inquinata;oltre all'immaginabile mortalità si abbatté sulla città un caldo violento, aggravando la situazione. Il Tribunale decise di licenziare i poveri non ammalati dal lazzaretto  e fece trasportare gli infermi a Santa Maria della Stella. Nel frattempo i campi iniziavano a dare frutti e con la messe cessò la carestia, ma la mortalità si prolungò fino in autunno. Era sul finire, ma si abbatté su Milano un nuovo flagello:l'Imperatore Ferdinando, dopo aver pacificamente esortato il duca di Nevers ad abbandonare i suoi stati, inviò un esercito che portava con se la peste.
Don Gonzale scappò da Milano perché incolpato dal popolo della carestia e al suo posto fu mandato il marchese Ambrogio.
L'esercito alemanno era formato da soldati di ventura e fecero ritirare gran parte degli abitanti sui monti, diedero fuoco a molte case e maltrattarono le persone rimaste, dirigendosi dopo 21 giorni verso Lecco.

 

29° CAPITOLO

Intanto Don Abbondio, ricevuta notizia dell'arrivo dell'armata, risoluto di andarsene prima di tutti, seguiva Perpetua, in quanto incapace di ragionare per la paura. Egli implorava aiuto dalla finestra ai suoi parrocchiani, ma quelli indaffarati nella fuga non ci badarono minimamente. Poi entrò Agnese che propose ai due di recarsi con lei presso l'Innominato, così tutti e tre presero per i campi, seppur Don Abbondio brontolasse. Si ritrovarono nel paese del sarto e si recarono a fargli visita; questo fece cogliere fichi, pesche, fece cuocere castagne  e si mise a parlare del buon ricovero che avevano scelto presso l'Innominato. Don Abbondio faceva fretta, così il sarto trovò un baroccio per la seconda metà del viaggio.
L'Innominato dal giorno della conversione era sempre intento a far del bene e in questi momenti aveva fatto spargere la notizia che la sua casa è sempre aperta ai bisognosi, mettendo alcuni contadini di guardia al castello, facendo giungere inoltre provvisioni per tutti i suoi ospiti.

 

30° CAPITOLO

Arrivati alla Malanotte incontrarono l'Innominato che li accolse lietamente, chiedendo notizie di Lucia e portandoli al castello. I tre visi trattengono circa un mese, poiché Don Abbondio aveva paura a tornare al paese, ma poi si ebbe notizia che anche i reggimenti di Galasso passarono  e decisero di partire. Il giorno stabilito per lasciare il castello, l'Innominato gli fornì una carrozza e gli dono alcuni scudi per riparare il guasto che avrebbero trovato al paese. Durante il tragitto fecero una fermatina dal sarto, dove sentirono raccontare molte cose circa il paesaggio che avrebbero trovato. Arrivati a destinazione Agnese fece posare i fagotti e contando i nuovi ruspi diceva di essere caduta in piedi.
Don Abbondio e Perpetua entrarono in casa senza chiavi e man mano che entravano aumentava il tanfo; poi si recarono nell'orto e videro che i denari nascosti erano scomparsi, e vennero a sapere che li avevano rubati alcune persone del paese.

 

31° CAPITOLO

Manzoni inizia il capitolo spiegando i motivi che lo inducono ad aprire una lunga parentesi storica sulla peste. Il suo scopo e di ricostruire l'evento, ovviando alla mancanza di sistematicità tipica dei cronisti secenteschi. Racconta cosi che dai paesi vicini giungono le notizie dei primi morti. Inizialmente la causa delle morti non viene attribuita al contagio, ma dopo una visita sui luoghi della malattia il Tadino conclude che si tratta di peste Le autorità e in particolare il governatore Ambrogio Spinola rimangono piuttosto indifferenti al problema; ma anche la popolazione rifiuta l'idea del contagio. Finalmente il 29 novembre 1629 viene pubblicata una grida che vieta l'ingresso in città di coloro che provengono da paesi ove si e verificato il contagio: ma ormai la peste e gia entrata in Milano Vengono prese misure per evitare il contagio, ma la gente per avidità e paura, riesce ad eluderle. n contagio si diffonde, ma in modo non rapido la gente rimane scettica e si scaglia contro i medici che la mette in guardia, giungendo ad aggredire il medico Lodovico Settala. Si moltiplicano le morti e diviene impossibile negare l’esistenza del morbo. Invece di dichiarare la presenza della peste, si parla però di"febbri pestilenti", ciò induce a trascurare i pericoli del contagio. I malati trasportati al lazzaretto si fanno sempre più numerosi tanto che il lazzaretto stesso diviene ingovernabile: solo l'intervento e il sacrificio di alcuni frati riuscirà a riportarvi l'ordine. Si parla finalmente di peste, ma si diffonde al tempo stesso l'idea che all'origine del male non vi sia il contatto con gli ammalati, bensì quello con Unguenti velenosi. A rafforzare la psicosi dell'untore concorrono due episodi di presunta unzione: uno verificatosi in duomo, l'altro lungo le strade cittadine. Malgrado il tribunale di Sanità non creda allo spargimento di veleni, le autorità non smentiscono pubblicamente l'esistenza delle unzioni; mentre vi e chi addirittura continua a negare la pestilenza: l’esposizione di alcuni cadaveri durante una processione convincerà tuffi del contrario. In conclusione, M. chiude il capitolo riflettendo sui fatti e sulle parole che hanno condotto ad uno sviluppo così ampio del contagio.

 

32° CAPITOLO

Le autorità politiche si svegliano e chiedono l'intervento del governatore: almeno le spese per i provvedimenti sanitari le sostenga lo Stato spagnolo. Il governatore risponde che non ci può fare nulla: lui è impegnato nella guerra in modi esclusivi. Ci pensi il vice governatore Ferrer. E questi con tutte le altre autorità non sa altro proporre che il ricorso al soprannaturale: si aspetta il miracolo. E perciò si fanno pressioni sul cardinale perché autorizzi e guidi una solenne processione. Il cardinale non vorrebbe, ma poi cede. La processione si svolge ampia e solenne per le strade principali della città: vi partecipano tutti i cittadini che ancora si reggono in piedi: i malati si attendono soluzione improvvisa e positiva del morbo. Ma il contagio favorito dall'ammassamento scatena in forme ancora più drammatiche la forza della peste: i malati aumentano in modo impressionante. Alla fine, di peste morranno i due terzi della popolazione. Più esposti alla morte furono i bambini, i vecchi, le donne. Nel lazzaretto è un via vai di malati che vi sono fatti affluire e di morti che vengono avviati alle fosse comuni. La città è attraversata da carri guidati dai monatti, incaricati della raccolta dei malati: si tratta di gente che ha avuto la peste e ne è immunizzata. Si abbandonano a ruberie, a violenze, a scene orgiastiche. La popolazione superstite vive nello stato d'animo di chi si vede costantemente e misteriosamente minacciato da un nemico subdolo e potentissimo. Tutti vivono nella paura: dappertutto si crede di vedere degli untori. E il livello intellettuale si abbassa a tal punto che perfino persone di alto sentire come il cardinale o il Tadino vi credono.

 

33° CAPITOLO

La peste la prende anche don Rodrigo: se la scopre addosso una sera tornando da un festino dove aveva celebrato ironicamente il morto conte Attilio. Chiede aiuto al Griso perché chiami un medico: il Griso chiama invece i monatti. Che lo portano al lazza retto. Ma prima del padrone muore fulminato dalla peste anche il Griso. Di peste s'ammala anche Renzo, ma la forte, contadinesca fibra lo salva: superata la convalescenza decide di far ritorno al suo paese in cerca di Lucia. Nessuno in tanta confusione si curerà di lui e dei suoi conti con la Giustizia. Salutato il cugino Bortolo, riattraversa l'Adda e si affaccia al suo paese. Dovunque imperano i segni della morte, dell'abbandono, della sofferenza. Incontra Tonio in camicia che dice cose senza senso: la malattia lo aveva reso idiota e fatto somigliare stranamente al fratello folle. Da una cantonata vede avanzare una cosa nera; è don Abbondio che ha perduto Perpetua: è mal messo ma si preoccupa della presenza di Renzo. per lui sorgente di guai. Di Agnese sa che si rifugiata a Pasturo, di Lucia dice che è a Milano in casa di don Ferrante. Altro non sa; una sola cosa vorrebbe: che Renzo torni al più presto dond'è venuto. Renzo passa anche accanto alla sua vigna: ormai ridotta a una marmaglia di piante, di vilupponi arrampicati, di rovi, di un guazzabuglio di steli. Pare anch'essa investita e disgregata dalla peste. A sera trova rifugio in casa di un amico. L'indomani decide di recarsi a Milano in cerca di Lucia.

 

34° CAPITOLO

Per entrare a Milano Renzo non incontra particolari difficoltà: basta una moneta per ottenere il rapido consenso della guardia. Se fuori di città ciò che intristisce la campagna, parte incolta e tutta arida, dentro la città impressionano il silenzio e i segni desolanti della peste, che come potenza distruttiva travolge ogni cosa lasciando dietro di sé cadaveri e cenci. Proposito principale di Renzo di pervenire alla casa di don Ferrante alla ricerca della sua Lucia. Non ha con sé che indicazioni generiche. Un passante, a cui con buona educazione chiede informazioni, lo allontana con mal garbo con gli occhi stralunati e imbracciando e minacciando con un nodoso bastone: lo aveva ritenuto un unto re. L'attenzione di Renzo è poi richiamata dalle invocazioni di una donna circondata dai suoi bambini e chiusa e sequestrata in casa dall'esterno: ritenendola portatrice di peste, gli amministratori l'avevano chiusa, come si fa per la quarantena e l'avevano dimenticata. Rischiava di morire di fame. Renzo le porge il poco pane di cui dispone: si incarica di avvertire qualcuno. Poco dopo incontra un prete che finisce di confessare un malato. A lui affida la donna e gli chiede informazioni sull'ubicazione della casa di don Ferrante. Ma via via che scorre lungo i quartieri della città, da quelli periferici a quelli del centro, Renzo si imbatte in scene raccapriccianti di dolore e di morte: dovunque fetore di cadaveri, visioni di solitudine e di abbandono, serrati tutti gli usci di strada, per tutto cenci, e segni di un progressivo imbarbarimento delle menti e dei costumi. quando Renzo arriva in città, questa aveva per la peste perduto i due terzi della popolazione. Le strade erano deserte: i pochi che per necessità le percorrevano prendevano tutte le cautele per evitare il contagio e per scansare incontri con i favoleggiati untori. Carri guidati da monatti erano adibiti alla raccolta dei malati o dei cadaveri. Ad un monatto una povera madre consegna il corpo esanime di una sua figliola: l'adagia lei stessa nel carro raccomandando che la si lasci così. Poco dopo si affaccia ad un balcone con in braccio un 'altra bambina, anche lei segnata dalla peste. Vincendo la commozione Renzo si avvia verso la casa cercata: alla finestra si affaccia una donna che gli annuncia che Lucia non c'è, che è stata portata al lazzaretto. E nulla altro risponde a Renzo, che voleva notizie più precise e teneva indeciso la mano sul martello della porta: lo stringeva e lo storceva. Il gesto non sfugge ad una donna che passava, una sorta di strega che lo addita alla folla come untore. Preso in mezzo dalla piccola folla Renzo prima minaccia col coltello, poi salta su un carro di monatti che stava passando. I monatti lo prendono sotto la loro protezione: la folla si dissolve scaricando la propria rabbia impotente in gesti che minacciano ancora il presunto untore. Renzo su quel carro si trova ora dentro le forme più sconvolgenti e turpi della peste: e non sono solo i cadaveri buttati sui carri a dare l'impressione di qualcosa di infernale, ma anche i monatti che si abbandonano ad una sorta di sadico compiacimento per la molta gente che muore e cantano canzonacce e bevono e si danno a forme di diabolica orgia. Ad uno di loro Renzo appare un povero untorello, uno che certamente non può essere un unto re. Non ne possiede secondo il monatto i fieri requisiti. Ormai sono al lazzaretto: Renzo ringrazia e si congeda. Dentro il lazzaretto ciò che colpiva era la folla dei malati, sui quali la peste, anche se sopravvivevano, lasciava a volte segni spaventosi di degradazione. Il gruppo che più impressiona è quello degli alienati mentali, degli istupiditi. Una scena improvvisa è quella di un cavallo non domo con sulla groppa un cavaliere, un appestato impazzito: dietro corrono i monatti: tutto poi si ravvolge in un nuvolo di polvere.

 

35° CAPITOLO

Don Rodrigo, come è stato più volte detto dai vari critici , non è un cattivo vero e proprio. La sua malvagità è dettata più che altro dallo sfondo storico in cui si muove e dalla sua condizione sociale. Egli, infatti, è soltanto uno dei tanti  nobilotti del seicento , i quali fanno della propria condizione sociale motivo di supremazia  e controllo su tutto ciò che gli sta intorno. Proprio per questo modo di concepire la loro realtà sociale  Don Rodrigo è “costretto” ad essere ciò che è , per evitare di essere da meno dei suoi pari.
In ogni modo Don Rodrigo resta per noi lettori colui che in nome di una scommessa impedisce a due onesti giovani, quali Renzo e Lucia, il matrimonio e  sappiamo bene quali azioni malvagie compierà per raggiungere il proprio scopo. E’ appunto questo che ci fa quasi provare un’ attimo di sollievo quando scopriamo che anche Don Rodrigo è un malato di peste e come tale prossimo alla morte.
La scoperta della malattia è per il lettore lenta, graduale. E così è anche per lo stesso Don Rodrigo il quale non si aspetta e né accetta di morire come una persona qualunque.
Scaccia il pensiero della peste e tenta di illudere sé e il Griso che egli sta bene. Ma  in cuor suo intuisce già che non è così . Allora tenta di dormire ma è ancora peggio. Le coperte gli paRvero una montagna dice il Manzoni e aggiunge che dopo un lungo rivoltarsi , finalmente si addormentò, e cominciò a fare i più brutti e arruffati sogni del mondo.  E tra i tanti sogni di morte   uno fu il peggiore. Si trovava in una chiesa tra un’immensa folla  di malati di peste e cercava invano di farsi largo tra la calca  di gente stando attento a non toccare niente . Sente un dolore tra l’ascella e il cuore , a sinistra. Dapprima pensa che è qualcuno di quegli uomini, poi pensa che è la spada,  ma allorquando cerca con la mano di spostarla ,non trova niente  anzi sente un dolore tanto forte che gli viene quasi da urlare ma vede che tutti stanno guardando da una parte e guarda anche lui .Vede un pulpito e sul parapetto di questo si erge maestosamente  la figura di Fra Cristoforo con lo stesso dito alzato in segno di minaccia di quando al palazzotto lo aveva impaurito con il celebre Verrà un giorno …Ma la differenza è che stavolta Don Rodrigo non riesce con la mano a fermare il frate. A questo punto si sveglia e ,scorto il bubbone della peste ,chiama il fido Griso. Inizia allora a parlargli in modo insolito chiedendogli di andare a chiamare un medico e ricordandogli i tanti favori che gli aveva concesso. Ma il Griso tradisce il padrone  : lo deruba di tutto  e lo consegna ai monatti . Viene portato al lazzaretto. Qui è affidato alle cure del Padre Cristoforo suo acerrimo nemico in vita, con l’intenzione di salvare un’anima, suoi più fido compagno sul letto di morte.
Ed è qui che lo rincontra Renzo.
Stava l’infelice ,immoto;spalancati gli occhi,ma senza sguardo;pallido il viso e sparso di macchie nere ;nere ed enfiate le labbra; l’avreste detto il viso di un cadavere se una contrazione violenta non avesse reso testimonio di una vita tenace. Il petto si sollevava di quando in quando ,con un respiro affannoso ; la destra fuor dalla cappa , lo premeva vicino al cuore ,con uno stringere adunco delle dita ,livide tutte e sulle punte nere.
Questa è l’immagine che il Manzoni ci dà di Don Rodrigo sul letto di morte . Un’immagine squallida ,orribile , resa ancor più cupa dalla forte  presenza di colori scuri (macchie nere, dita nere…).
E’ una scena tanto orribile da lasciarci sconvolti,col fiato sospeso. Avremmo senza dubbio preferito vederlo morire subito , di una morte veloce:trafitto da una spada,avvelenato ,sparato.  E siamo forse tentati a pensare che Dio è   crudele ed ingiusto a far morire tanta gente mentre  lui resiste ancora. Ma è a questo punto che appare Fra Cristoforo ,quasi messaggero di Dio.
Con voce sommessa ma grave dice :  Può essere castigo,può esser misericordia.
Ecco il mistero che si apre ma che sicuramente  non ci fa più pensare a un Dio  non equo.
Ovvio castigo per una vita piena di azioni turpi e disonorevoli  può essere una morte lenta e squallida qual è quella di Don Rodrigo. Squallida ancora di più nella misura in cui toglie ogni differenza sociale tra lui e le altre persone colpite dalla peste; squallida perché agevolata da un tradimento .Potentissimo uomo  qual è infatti  , viene subito sopraffatto dal “fedele” Griso non appena ha un’ attimo di debolezza . Castigo di Dio è senza dubbio il fatto che muore  da uomo comune al lazzaretto in mezzo a milioni e milioni di persone di qualunque ceto sociale.
E se invece fosse  un tentativo di far ravvedere un’anima? Il tentativo estremo per un uomo che non ha mai detto di credere in Dio  ma neppure il contrario? E quale miglior modo di ottenere ciò se non attraverso la sofferenza e un chiaro segno di uguaglianza dinanzi alla morte?
Castigo o estremo tentativo di riportare un’anima nella retta via?Questo  la domanda che anche Fra Cristoforo si fa  sperando nella salvezza  e nella pace eterna per questo uomo abbandonato da tutti.

 

CAPITOLO 36°

Allontanandosi dal letto di morte di don Rodrigo, con animo molto commosso, con la commozione che ci prende quando pressati dall’impressione dei morti o dei moribondi e ci ripieghiamo a pensare a noi e al senso di tutta la vita, Renzo riprende lungo il lazzaretto la sua ricerca di Lucia: come cercare un ago nel pagliaio. Al centro, quasi punto di riferimento e di convergenza, la cappella a pianta centrale, con un portico che girando intorno lascia la vista dell’altare da qualunque posizione ci si volga verso di esso. Intanto la precessione dei guariti o avviati a guarigione comincia a riunirsi intorno, guidata dal padre Felice, che si volge ai malati e ai convalescenti e li saluta prima che essi ritornino alle loro case, alle solite occupazioni.  Sono i sopravvissuti di un’epidemia terribilmente devastatrice: con quali sentimenti i guariti guarderanno ora alla vita?
Con la coscienza, dice padre Felice, che essi la vita ottenuta come dono dalla divinità l’impieghino in opere che siano alle stesse accette.
Si aiutino tutti e si avvertano fratelli: la sofferenza conceda a tutti i salvati il senso della fugacità dell’esistenza con la congiunta consapevolezza che la legge del mondo dovrebbe essere quella dell’amore.
Finita la processione, Renzo si avvia nei reparti riservati alle donne: quando sembra avviato a disperazione, postosi accanto ad una capanna ne sente venire una voce inconfondibile, quella di Lucia.
Là ritrovata e con la solita generosa impetuosità vorrebbe che le cose tornassero come prima.
Il voto, che ancora Lucia insiste a voler rispettare, a lui sembra il frutto di una mente turbata, quindi una cosa sconclusionata. Contro la recisa, fermissima opposizione di Lucia, non c’è nessuno che possa sciogliere la difficoltà, tranne padre Cristoforo che, chiamato, ascolta da Lucia tutta la storia del voto, comprende che si tratta di un gesto nobile ma viziato all’origine: era stato fatto senza tener conto che lei s’era promessa a Renzo e in momenti di grand’agitazione. Padre Cristoforo dice a Lucia che se lei lo consente, dal voto può essere sciolta. Così padre Cristoforo pronuncia la formula di scioglimento, ed insieme dà ad ambedue un avvertimento e un consiglio: possono tornare come promessi sposi ai pensieri di una volta ma si ricordino che la vita deve essere spesa nella ricerca del bene e che le sofferenze patite devono disporli ad un’allegrezza raccolta e tranquilla. Così si congeda il frate, ormai con nel volto i segni della morte imminente. Lucia resta nella capanna ad assistere la mercantessa che le si è affezionata. Renzo decide di partire subito e andare alla ricerca d’Agnese. Il tempo che era prima afoso e nebbioso è percorso da rumor di tuoni, ora sembra voler precipitare in forma di burrasca.

 

CAPITOLO 37°

Renzo ha da poco varcato l'ingresso del lazzaretto, che il tempo quasi sciogliendosi dalla gravezza da tempo imperante sulla città si risolve in un forte temporale. L'acqua veniva a secchie. Ma Renzo non si lascia frenare o distogliere: una nuova, fervida, alacre vita sembra essersi ridestata in lui e lo spinge infaticabile verso il proprio paese. Deve ordinare parecchie cose e deve ormai preparare tutto per l'arrivo di Lucia: allora si penserà al matrimonio. Cammina tutta notte e al mattino si trova in casa dell'amico che, quasi avvertendo anche lui la liberazione da un incubo, sorride al vedere Renzo ridotto così malamente. Lo fa mangiare e si fa raccontare per filo e per segno tutte le avventure degli ultimi giorni. Asciugato e riposato il giorno dopo Renzo si reca a Pasturo: vi trova Agnese e anche a lei racconta di Lucia e dello scioglimento del voto. Poi sempre a piedi ed incontenibile va a Bergamo per Bortolo e per cercare casa: sposato intende trasferirvisi. Infine torna al paese e vi trascorre alcuni giorni ora chiacchierando con Agnese ora lavorando il poderetto di lei. Renzo manifesta il proposito di vendere la sua vigna e la sua casa. Lucia, intanto, con la mercantessa ormai guarita, si trasferisce nella casa di questa. Da lei Lucia viene a sapere di Gertrude e della turpe vita che conduceva al monastero. Sa anche della morte dei suoi ospiti, donna Prassede e don Ferrante. Questi era morto come un eroe della scienza: si era convinto che la peste era dovuta ad un influsso, avverso, delle stelle e quindi non prese alcuna precauzione: un giorno si mise a letto e vi morì con un ultimo sguardo alle stelle, della cui dottrina aveva creduto di nutrirsi.

 

CAPITOLO 38°

 

È la stagione dei ritorni: primo a giungere in paese è stato Renzo; da Pasturo torna Agnese, ora torna anche Lucia accompagnata dalla mercantessa, compagna di capanna dentro il lazzaretto. Grande è la gioia generale. La famiglia Tramaglino ora può costituirsi. E per prendere accordi Renzo si reca da don Abbondio: ritiene di dover trovare porte spalancate ma non ha fatto i conti con la paura del curato che, finché ritiene o induce che don Rodrigo è ancora vivo, sente incombere la minaccia di cui si erano fatti messaggeri i due bravi da lui incontrati durante la passeggiata pomeridiana. Don Abbondio ha ancora delle obiezioni da fare, delle difficoltà da frapporre. Dice che esita per il bene di Renzo. A sciogliere il nodo giunge al castello-palazzotto di don Rodrigo il marchese che ne è l'erede. Il signorotto è morto. Don Abbondio è come liberato; diventa cordiale, generoso, scherza: un grosso peso gli si è tolto dal petto. Il nuovo proprietario dei beni che furono di don Rodrigo è persona dolce, umana, vuol compensare in qualche misura i due promessi acquistando ad un prezzo da lui maggiorato i loro pochi beni. Finalmente si celebra il matrimonio e il marchese invita gli sposi a pranzo nel suo palazzo: lui si pone in una stanza con don Abbondio, in un'altra gli sposi. Buono sì, ma sempre marchese! Segue poi il viaggio nel nuovo paese, nel bergamasco, dove Renzo si trasforma in piccolo imprenditore. Ma il suo piacere è attenuato dall'amarezza che gli danno i nuovi compaesani che non trovano di loro gusto Lucia, fatta centro di tante avventure. L'avevano ritenuta una creatura magicamente bella: ed invece è una giovane donna come tante altre. A liberare Renzo dai disgusti c'è un secondo trasferimento in altro paese: dove insieme con Bortolo acquista una piccola filanda. Qui le cose migliorano sotto ogni aspetto. La famiglia è più unita e Renzo più sereno. I bambini che nascono sono la gioia di Agnese. Di tutta questa a volte tumultuosa vicenda quale il sugo? I due coniugi d'accordo conchiudono che i guai ci sono e non si possono evitare: solo la fiducia in Dio li addolcisce e li rende utili per una vita migliore.

 

    

 

- FINE –

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Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

RIASSUNTI


Capitolo I. Una sera del mese di novembre 1628, su una stradina lungo la sponda del lago di Como, cammina un frate, don Abbondio. Mentre cammina ha alcuni pensieri che vengono improvvisamente interrotti dall’apparizione di due bravi, due brutti tipi al servizio di un signorotto spagnolo molto potente.
Dopo avere descritto le caratteristiche dei bravi, Manzoni comincia a raccontare il colloquio tra i bravi e don Abbondio: i bravi dicono al curato che, in nome del loro potente padrone, don Rodrigo, il matrimonio fra Renzo e Lucia “non s’ha da fare!”. Don Abbondio, impaurito, assicura la propria fedeltà al potente signore spagnolo promettendo che non celebrerà il matrimonio, già fissato.
Questo atteggiamento debole viene visto alla luce della giustizia del seicento, dove le minacce sono frequenti e non sono mai punite, e viene sottolineata la natura debole e paurosa del curato.
Conclusa questa riflessione del poeta, si torna alla narrazione con il ritorno a casa del curato, che racconta il suo incontro alla sua serva, Perpetua.


Capitolo II. Al mattino successivo, quando Renzo si reca alla chiesa, apprende che per alcune formalità il matrimonio deve rinviarsi. Poco convinto, sul punto di allontanarsi, incontra Perpetua che non può fare a meno di fargli intendere che le ragioni sono ben altre. Nuovo colloquio tempestoso con don Abbondio, costretto da Renzo a rivelare che l'impedimento è don Rodrigo, il signorotto del paese. Renzo, disperato, corre alla casa di Lucia.

Capitolo III. Lucia, rimasta sola con la madre e con Renzo, racconta di avere suscitato l’interesse di don Rodrigo, e allora i tre decidono di rivolgersi ad un avvocato, l’Azzecca-garbugli.
L’avvocato, durante l’incontro con Renzo, pensa, sbagliando, che invece di avere subito un torto, è Renzo un bravo che ha fatto qualcosa di brutto e che cerca di evitare la punizione andando da un avvocato. Perciò pensa di aiutarlo, ma quando scopre che invece Renzo è la vittima di don Rodrigo, allora rifiuta l’incarico e non gli da neanche spiegazioni, perchè si spaventa della potenza di don Rodrigo.
Intanto Lucia insiste con la madre per parlare con fra Cristoforo, un frate cappuccino in cui ha molta fiducia. Mentre le due donne pensano come fare a parlare con fra Cristoforo, arriva fra Galdino, che chiede delle noci per il suo convento e che racconta alle donne una fiaba. Lucia decide di dare a fra Galdino un messaggio per fra Cristoforo.
Ritorna Renzo, deluso per l’incontro con l’avvocato, e le due donne cercano di calmarlo e gli dicono che hanno chiesto l’intervento di fra Cristoforo. Intanto è già sera e i tre devono separarsi.

Capitolo IV. Padre Cristoforo, avvertito da Lucia, esce dal suo convento di Pescarenico e si reca alla casa delle due donne. Il capitolo è in gran parte occupato dalla narrazione della giovinezza del frate: figlio di un facoltoso mercante, aveva ricevuto una raffinata educazione. Venuto un giorno a diverbio con un nobile, l'aveva ucciso in duello; quindi, per espiazione, s'era fatto frate, mutando il nome di Lodovico in quello di Cristoforo.

Capitolo V. Padre Cristoforo, dopo aver parlato con le due donne, decide di recarsi da don Rodrigo per convincerlo a desistere dal suo proposito. Si reca al palazzo del signorotto, dove è ricevuto nella sala da pranzo: è in corso infatti un banchetto, cui il padrone di casa ha invitato un suo cugino, il conte Attilio, e alcuni personaggi importanti del paese. Si discute della guerra in corso per la successione del ducato di Mantova, si brinda all'abbondanza (mentre nelle campagne infuria la fame) e si disserta su futili questioni d'onore. Padre Cristoforo è chiamato a dir la sua.

Capitolo VI.
Finalmente don Rodrigo riceve il frate in disparte. Padre Cristoforo accusa il signore di perseguitare Lucia e gli minaccia la vendetta di Dio. Don Rodrigo scaccia il frate che prima di lasciare il palazzo ha la promessa di un vecchio e buon servitore che sarà avvertito degli eventuali progetti infami del suo padrone. Intanto, in casa di Lucia, Agnese espone ai due giovani un suo progetto: quello di strappare il matrimonio a don Abbondio, presentandosi a lui con due testimoni e dichiarando l'intenzione di sposarsi. Sembra che secondo l'uso il matrimonio sarà così ugualmente valido. Lucia è riluttante; Renzo, entusiasta, esce in cerca dei due testimoni e li trova in Tonio, cui promette di pagare un debito che costui ha col curato, e nel fratello di lui, Gervaso.

Capitolo VII. Padre Cristoforo annuncia desolato alle due donne il fallimento della sua missione. Furore di Renzo, Lucia acconsente all'idea della madre. Intanto nel paese si vede gente strana, e un mendicante va alla casetta di Lucia a chiedere l'elemosina con l'aria di esplorare il luogo. Sono gli uomini di don Rodrigo che studiano il modo di rapire Lucia, agli ordini del capo dei bravi, il Griso. A sera, i due giovani, Agnese e i testimoni s'avviano in silenzio verso la casa di don Abbondio.

Capitolo VIII. È il capitolo della «notte degli imbrogli», che comincia col fallimento del tentativo di matrimonio «a sorpresa»; don Abbondio, con furia inusitata, si libera degli intrusi e dà l'allarme: il campanaro Ambrogio, credendo la canonica invasa dai ladri, suona la campana a martello. Mentre il gruppo di Renzo cerca scampo per la campagna, altrettanto sorpresi dall'allarme sono i bravi in azione per rapire Lucia e che hanno trovato vuota la sua casa. E così anche un ragazzetto, Menico, che padre Cristoforo, avvertito dal vecchio servitore, ha mandato alla casa delle due donne a scongiurarle di correre da lui. Il ragazzo è bloccato dai bravi, che tuttavia, spaventati dalla campana, lo lasciano libero. Così Menico riesce a incontrare il gruppo di Renzo e ad avvertire i fuggitivi di recarsi al convento.

Tra i due gruppi in fuga, s'inserisce l'agitazione del paese che, svegliato, non riesce a capire che cosa stia succedendo. Renzo e le due donne giungono al convento dove trovano già organizzata da padre Cristoforo la loro fuga dal paese, per sottrarsi alle minacce di don Rodrigo. Le due donne andranno a Monza, Renzo a Milano, muniti di lettere di presentazione per cappuccini, amici del padre. I fuggiaschi s'imbarcano e in piena notte attraversano il lago.

Capitolo IX.Renzo, Lucia e Agnese raggiungono la parte orientale del lago di Como, poi Monza, e lì si separano. Renzo va a Milano, le donne al convento dei cappuccini, dove incontrano il padre guardiano, al quale fra Cristoforo le ha raccomandate. Si dirigono quindi al monastero di Santa Margherita, dove vive una monaca di nobile famiglia che ha molti privilegi. L’aspetto fisico della monaca non è proprio quello di una religiosa e cosi Manzoni racconta la sua storia, che continua anche nel capitolo X.
Geltrude, figlia di un nobile spagnolo, è destinata fin da piccola a vita religiosa. Da piccola non si oppone, ma poi prova a ribellarsi. Ma la reazione dei parenti è dura, con una specie di guerra psicologica basata soprattutto sul silenzio. Allora Geltrude dichiara di accettare il volere dei suoi genitori.

Capitolo X. Geltrude viene ricevuta dal padre, che ritiene che la ribellione della figlia sia gravissima, e le impone di farsi monaca. Da questo momento la sua vita cambia: prima era rifiutata dai parenti, ora è circondata di affetto; prima era sola e prigioniera, adesso può fare tutto in libertà. Comincia la sua vita religiosa, e ogni volta che potrebbe ritirarsi non ha il coraggio di farlo. Diventa così monaca. Ma non è contenta e si dispera. Ha una relazione con un vicino, Egidio, e per nasconderla arrivano a commettere un omicidio.
Conclusa la storia della monaca di Monza, tornano in scena Lucia e Agnese, che vengono accolte da Geltrude con molta generosità. Ma don Rodrigo prepara già una vendetta.

Capitolo XI. Don Rodrigo, attendendo con inquietudine il ritorno dei bravi, pensa alle possibili conseguenze del rapimento di Lucia, ma sa di non correre grossi rischi. Al suo ritorno, Griso annuncia il fallimento della spedizione e riceve severi rimproveri da Don Rodrigo. Dopo aver discusso dei fatti della nottata, i due concordano una strategia per scoprire se vi siano state fughe di notizie sul progetto di rapimento. Il conte Attilio viene informato dal cugino del fallito rapimento di Lucia e attribuisce la responsabilità a fra Cristoforo. I due cugini stabiliscono poi di intimorire il console del villaggio, di convincere il podestà a non intervenire, e di far pressioni sul Conte zio, affinché faccia trasferire il frate.

Il Griso si reca in paese per cercare di comprendere ciò che è successo la notte precedente. Nel villaggio c'è un fitto intrecciarsi di voci: tutti i protagonisti di quei fatti turbolenti commentano l'accaduto. Il bravo riferisce al padrone quelle voci e insieme escludono l'ipotesi di una spia interna al palazzotto. Al termine del colloquio, don Rodrigo incarica il proprio uomo di fiducia di scoprire dove si sono rifugiati Renzo e Lucia. Grazie alle chiacchiere del barocciaio, passate di bocca in bocca, il bravo è in grado di informare il suo signore che Lucia si trova a Monza. Il nobile incarica allora il sicario di proseguire là le ricerche: il Griso, che proprio in Monza è maggiormente ricercato dalla giustizia, cerca di sottrarsi, ma alla fine obbedisce agli ordini. Renzo, colmo di tristezza per la separazione da Lucia e per la partenza dal paese, procede verso Milano. Giunto alle porte della città chiede ad un passante indicazioni per raggiungere il convento cui è destinato.Entrato in città, il giovane scopre con sorpresa della farina e del pane gettati a terra. Pur con timore raccoglie tre pani. Proseguendo poi verso il centro della città, incontra parecchia gente che trasporta affannosamente pane e farina. Viene colpito dalla vista di una famigliola particolarmente impegnata nel trasporto. Il giovane comprende finalmente che è in atto una rivolta e che la gente sta dando l'assalto ai forni: la sua prima sensazione è di piacere. Renzo decide di star fuori dal tumulto e si reca al convento, ma il frate portinaio gli nega l'ingresso. Il giovane va così a curiosare tra la folla e si lascia attrarre dal tumulto.

Capitolo XII. La vicenda romanzata, a questo punto, a dar sempre più l'impressione di una «storia vera», s'innesta in un fatto storico realmente accaduto: la rivolta milanese di San Martino, dell'11 novembre 1628, quando, esasperato dalla fame e dalla politica inetta del vicegovernatore Ferrer, il popolo dette l'assalto ai forni. Renzo s'inserisce così nell'avvenimento e assiste al saccheggio del «forno delle grucce».

Capitolo XIII. Saccheggiato il forno, la folla si rivolta contro il vicario di provvisione, cioè il funzionario addetto al vettovagliamento della città. Inferocita si getta contro il suo palazzo e soltanto l'intervento del Ferrer giova a salvare il vicario dal linciaggio.

Capitolo XIV. Eccitato da questi fatti, Renzo, trovatosi in mezzo a un crocchio di gente, fa un discorsetto sulle ingiustizie dei potenti, a sfogo delle proprie pene. Uno sbirro in borghese lo porta all'osteria, lo fa bere e riesce anche a carpirgli le sue generalità. Del tutto ubriaco, Renzo va a dormire.

Capitolo XV. Renzo, essendo ubriaco, abbandona la sala dell'osteria, tra saluti e risa. Con l’aiuto dell'oste raggiunge poi la sua camera .L'oste tenta nuovamente di far declinare a Renzo le proprie generalità, ma alle nuove proteste rinuncia. L'oste decide di andare al palazzo di giustizia per denunciare Renzo . Arrivato , denuncia al notaio criminale la presenza nella sua osteria di un giovane che non ha voluto rivelare le generalità. Il funzionario, che conosce già il nome di Renzo, mostra però di non accontentarsi delle informazioni fornite dal padrone dell'osteria e sottopone l'uomo ad un interrogatorio.

Il notaio criminale e due birri penetrano nella camera di Renzo e gli dicono di seguirli. Intimorito dal rumore che viene dalla strada e che sembra annunciare nuovi tumulti, il notaio abbandona subito l'atteggiamento autoritario e, con le buone, cerca di indurre Renzo a seguirli. Il funzionario si mostra eccessivamente gentile ed afferma che si tratta di una pura formalità, ma il giovane non gli presta fede e comincia ad elaborare un piano per essere liberato dalla folla.

Il giovane chiede aiuto. Per sfuggire al linciaggio, i birri e il notaio, abbandonano il prigioniero e si confondono tra la folla.

Capitolo XVI. Uscito fortunosamente da Milano, si incammina per la strada di Bergamo, dove spera di trovare aiuto dal cugino Bortolo, fuori dei confini dello Stato. A Gorgonzola, mentre sta mangiando un boccone in una osteria, apprende che quel giorno la giustizia milanese s'è lasciata sfuggire dalle mani uno dei responsabili della rivolta; e capisce che quel tale è lui. Riprende al più presto la strada, sempre più atterrito per il rischio gravissimo che ha corso.

Capitolo XVII. Uscito dall'osteria di Gorgonzola, Renzo prosegue il suo cammino nell'oscurità, lungo le strade verso l’Adda. Durante il tragitto, i suoi pensieri vanno al mercante e al suo resoconto calunnioso. Dopo alcuni paesi , Renzo si inoltra in una zona non coltivata e poi in un bosco. Qui viene colto da un oscuro timore, ma sente il rumore dell'Adda e si precipita verso il fiume. Non potendo attraversare il fiume, si rifugia in una capanna abbandonata. Tenta di addormentarsi, ma alla sua mente si affacciano ricordi dolorosi. Verso le sei del mattino riprende il cammino verso l'Adda. Traghettato da un pescatore , passa sulla sponda di Bergamo dirigendosi verso il paese del cugino.Giunto nel paese di Bortolo, Renzo individua immediatamente il filatoio e lì trova il cugino, il quale lo accoglie festosamente, dichiarandosi disposto ad aiutarlo. I due cugini si informano reciprocamente sulla rispettiva situazione e sulle vicende politiche dei propri paesi. Dopo essere stato avvertito dell'uso bergamasco di chiamare baggiani i milanesi, Renzo viene presentato al padrone del filatoio e assunto come lavorante.

Capitolo XVIII. Al paesello, gli sbirri ricercano inutilmente Renzo. Don Rodrigo apprende così le disavventure del suo rivale; e intenzionato sempre di più a rapire Lucia, pensa di ricorrere a un uomo più potente di lui per giungere al rifugio della ragazza. Agnese, preoccupata per la mancanza di notizie, cerca anch'essa Renzo al paese, dove apprende che padre Cristoforo è stato trasferito a Rimini.

Capitolo XIX. Responsabile della sua partenza è il conte Attilio, che a Milano è riuscito a convincere il conte zio, importante personaggio, a chiedere al padre provinciale dei cappuccini l'allontanamento del frate per una missione di parecchi mesi. Don Rodrigo agisce a sua volta recandosi dal potente signore che lo aiuterà a rapire Lucia, l'Innominato.

Capitolo XX. Don Rodrigo convince all'impresa l'Innominato che manda il capo dei suoi bravi, il Nibbio, da quell'Egidio, che sa in relazione con la monaca di Monza. Gertrude, sollecitata dall'amante, fa uscire con una scusa Lucia dal convento, sicché i bravi, guidati dal Nibbio, possono rapirla e portarla al castello del loro signore.

Capitolo XXI. Il racconto che il Nibbio fa al padrone sul rapimento di Lucia scuote l'Innominato già da tempo scontento della sua vita; le lacrime di Lucia lo turbano. Durante la notte, mentre la ragazza fa voto di consacrarsi alla Madonna se verrà liberata, egli è assalito da una profonda crisi che lo spinge a meditare il suicidio. Ma all'alba sente suonare le campane nella valle e si alza con propositi nuovi. È questo il capitolo della giustamente famosa «conversione dell'Innominato».

Capitolo XXII. L’innominato, viene informato da un bravo che tutta quella gente, così festosa, va verso un paese vicino, per vedere il cardinale Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano. La popolarità, il rispetto e la venerazione che il popolo dimostra verso il cardinale, fa nascere nell’innominato la speranza, parlandogli " a quattr’occhi, " che egli possa curare il suo spirito tanto in crisi, che possa pronunciare parole rasserenatrici. Presa, quindi, la decisione di parlare con il cardinale, si reca prima nella camera di Lucia, che intanto sta dormendo in un cantuccio; rimprovera la vecchia, per non aver saputo convincere Lucia a dormire sul letto, le raccomanda di lasciarla riposare in pace, e di riferirle, quando si sarà svegliata " che il padrone è partito per poco tempo, che tornerà e che... farò tutto quello che lei vorrà. ". E’ superfluo dire che la donna resta sbalordita per lo strano e insolito comportamento del suo padrone, che intanto mette di guardia un bravo, davanti alla porta della camera di Lucia, perché nessuno la disturbi; quindi, risoluto, si dirige verso il paese, dove si trova il cardinale; e giuntovi, avuta indicazione che egli si trova in casa del curato, va là, entra in un cortiletto, dove sono riuniti molti preti che lo guardano con aria di meraviglia e di sospetto, e chiede di voler parlare al cardinale. Prima che si svolga il colloquio tra l’innominato e l’arcivescovo, l’autore traccia un profilo di Federigo Borromeo; la descrizione, fatta con calore in tutta la sua splendida grandezza, risulta veramente efficace. Ancora giovinetto, manifestata la vocazione di dedicarsi al ministero ecclesiastico, oltre a dedicarsi alle occupazioni prescritte, decide di sua spontanea volontà " di insegnare la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere gl’in fermi. ". Quantunque discenda da nobile famiglia, tutto il suo comportamento è improntato alla più servile umiltà; teme le dignità, anzi cerca di evitarle, non per sottrarsi al servizio altrui, ma perché non si stima " abbastanza degno, né capace di così alto e pericoloso servizio". Poco più che trentenne, infatti, ricusa l’arcivescovado di Milano, successivamente costretto ad accettare su ordine del papa. Riduce al minimo le sue esigenze, ed offre tutto ai poveri; per lui, infatti, " le rendite ecclesiastiche sono patrimonio dei poveri". E’ merito suo la fondazione della biblioteca ambrosiana. Ma quel che più spicca in lui è la bontà, la giovialità, la cortesia verso gli umili. Quanto scrive il Manzoni, per magnificare questo uomo di virtù predare, non è un parto di fantasia, ma realtà evidente, tanto è vero che riuscirà a convertire, come per grazia divina, chi si era macchiato di tanti infami crimini: l’innominato.

Capitolo XXIII. Incontro tra l'Innominato e Federigo e abbraccio di riconciliazione. Il cardinale, conosciuta la vicenda di Lucia, fa chiamare don Abbondio, presente con gli altri parroci della zona. e gli dà l'incarico di provvedere al recupero della ragazza. Viaggio di don Abbondio, terrorizzato, in compagnia del terribile signore, fino al castello.

Capitolo XXIV. Lucia è liberata e condotta provvisoriamente in paese, nella casa di un buon sarto, dove subito giunge Agnese e poco dopo il cardinale, cui Agnese racconta le loro vicende. L'Innominato, al castello, avverte i suoi uomini che potranno restare al suo servizio solo se intenzionati come lui a mutar vita.

Capitolo XXV. Don Rodrigo pensa bene di lasciare il paese e tornarsene a Milano, prima d'essere costretto a incontrare il cardinale. Il prelato viene accolto da don Abbondio al quale chiede informazioni su Renzo. Lucia viene ospitata da una ricca signora, donna Prassede, col beneplacito del cardinale, il quale finalmente chiede a don Abbondio perché non abbia celebrato le nozze dei due giovani.

Capitolo XXVI. Celebre dialogo tra Federigo e don Abbondio, che sembra ravvedersi, anche se non nasconde le sue buone ragioni. L'Innominato regala a Lucia una dote di cento scudi d'oro; ma ad Agnese che porta alla figlia la buona notizia, Lucia rivela il voto fatto la notte del rapimento. Decidono così di mandare metà della somma a Renzo e di pregarlo di non pensar più al matrimonio. Ma non riescono a mettersi in comunicazione con lui: il giovane ha mutato il proprio nome in quello di Antonio Rivolta e ha cambiato filanda.

Capitolo XXVII. La guerra per la successione del ducato di Mantova, che aveva visto di giorno in giorno l'Italia settentrionale coinvolta nella guerra europea che prende il nome di guerra dei trent'anni, impegnava del tutto l'attenzione del governatore don Gonzalo. Temeva questi che anche Venezia volesse scendere in campo contro la Spagna: bisognava cercare di distoglierla facendo la voce forte contro la Repubblica veneta. E l'occasione fu fornita a don Gonzalo dalla notizia che Renzo si era rifugiato nel territorio bergamasco. Di qui la finzione delle ricerche condotte per accertare se Renzo era veramente a Bergamo. Era una formalità: Renzo diventò una pratica burocratica. Il potere, di lui non s'accorse, perché era sola un pretesto. Ma Renzo, pur cambiando residenza e nome, continuava a nascondersi: sapeva per esperienza che del potere politico non ci si poteva fidare. Una sola cosa lo tormenta: quella di mettersi in contatto con Agnese e Lucia. Riesce a trovare una fidata trafila e un giorno riceve insieme con una lettera di Agnese cinquanta scudi: Lucia, era detto nella lettera, non poteva sposarlo più perché aveva fatto voto di castità. Si mettesse il cuore in pace e attendesse agli affari suoi. Cosa che Renzo si dichiarò non disposto a fare. Il suo unico proposito ora sarebbe stato di indurre Lucia al matrimonio. Lucia, intanto, aveva trovato ospitalità in casa di donna Prassede, una donna che poco poteva sul marito, don Ferrante, un intellettuale che da lei si difendeva chiudendosi tra i suoi libri. Così donna Prassede sfogava la sua volontà di strafare e la sua voglia di fare del bene ad ogni costo (ma il bene coincideva stranamente col suo concetto piuttosto storto di bene) alle persone come Lucia che si erano lasciate traviare. Non altrimenti si poteva e doveva spiegare l'innamoramento della giovane per uno come Renzo che per poco era sfuggito alla forca e che sicuramente doveva essere un poco di buono, se era ricercato dalla polizia. Pensiero dominante di donna Prassede era di liberare la mente di Lucia dall'immagine di Renzo e perciò a lei parlava spesso e in termini duri ed ingiusti: Lucia per forza di cose doveva difenderlo da tanta aggressività e così il suo Renzo se lo confermava sempre più dentro. E sempre più intensamente l'immagine di lui l'assediava, sempre come risultato dei metodi educativi di donna Prassede. Nulla c'era da temere dal marito di lei, don Ferrante, un letterato di grande classe: aveva tanti libri e la sua attenzione si fermava su scienze come l'astrologia e la duellistica, dove era diventato un'autorità. Era il tipo di letterato astratto, inutile, formalistica, che non sa legare scienza e realtà, cultura e società.

Capitolo XXVIII. Questo è un capitolo, in cui il Manzoni abbandona di nuovo i suoi personaggi, per tracciare un quadro storico degli avvenimenti successivi alla sedizione di San Martino, che ebbe come conseguenza un ribasso del prezzo del pane; un ribasso che risultò fatale, in quanto la plebe, affamata, si abbandonò ad uno sfrenato consumo, e troppo tardi se ne avvide delle conseguenze disastrose, perché così facendo, non solo rendeva impossibile una lunga durata " a goder del buon mercato presente", ma addirittura ne impediva "una continuazione momentanea. ". Anche i contadini abbandonavano la campagna e si riversavano in città; la situazione era destinata a precipitare; i tentativi di porvi rimedio non ottenevano alcun risultato efficace. Consumate le scorte, la fame divenne un male disastroso, pericoloso e inevitabile.

In città, chiusi negozi e fabbriche, la disoccupazione imperversa e la miseria si spande a macchia d’olio. Accattoni di mestiere e mendicanti formano una lugubre e grossa schiera. Il cardinale Federigo in questa circostanza organizza i suoi soccorsi; forma tre coppie di preti che, seguiti da facchini carichi di cibi e di vesti, girano per la città, per ristorare chi è più bisognevole. Ma l’interessamento caritatevole del cardinale, unito alla generosità dei privati e ai provvedimenti dell’autorità della città, si dimostra inadeguato rispetto alla vastità del male.

Per tutto il giorno nelle strade si ode " un ronzio confuso di voci supplichevoli, la notte, un sussurro di gemiti," ma non si ode " mai un grido di sommossa. ". Eppure, osserva il Manzoni, tra coloro che soffrivano " c’era un buon numero di uomini educati a tutt’altro che a tollerare, " per cui conclude che spesso " ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi". Se qualcuno era in grado di fare qualche elemosina, la scelta era ardua; all’ avvicinarsi di una mano pietosa, all’intorno era una gara d’infelici, che stendevano la loro mano. Poiché le strade diventano ogni giorno di più un ammasso di cadaveri, trascorso l’inverno e la primavera, il tribunale di provvisione decide " di radunare tutti gli accattoni, sani ed infermi, in un sol luogo, nel lazzaretto, " dove potranno essere aiutati a spese del pubblico. In pochi giorni gli infelici ospitati divengono tremila; ma i più, o per godere l’elemosine della città o per la ripugnanza di star chiusi nel lazzaretto, restano fuori. Per cacciare dunque gli accattoni al lazzaretto, si deve ricorrere alla forza, e così, in pochi giorni, il numero dei ricoverati sale a circa diecimila.

Ma tale iniziativa, sia pur lodevole nelle intenzioni, per l’ammassarsi di tanti infelici in un sol luogo, per l’organizzazione carente e per l’inadeguatezza dei mezzi, è insufficiente. La gente dorme per terra o su paglia putrida; il pane è alterato " con sostanze pesanti e non nutrienti"; manca persino l’acqua potabile; perciò la mortalità cresce a tal punto che si comincia a parlare di pestilenza. Per porre rimedio a questa grave e pericolosa situazione, si mandano via dal lazzaretto tutti i poveri non ammalati, mentre gli infermi vengono ricoverati nell’ospizio dei poveri di Santa Maria della Stella. Finalmente, con il nuovo raccolto il popolo ha di che sfamarsi, ma la mortalità, per epidemia o contagio, anche se con minore intensità, si protrae fino all’autunno, quand’ecco, implacabile, un nuovo flagello si abbatte sulla popolazione: la guerra. Infatti il cardinale Richelieu con il re, alla testa di un esercito, scende in Italia e occupa Casale, tenuto prima da don Gonzalo. Nel frattempo si dispone " a calar nel milanese" anche l’esercito di Ferdinando, nel quale pare che covasse la peste, tanto che si fa divieto a chiunque, quando l’esercito muove all’assalto di Mantova, " di comprar roba di nessuna sorte dai soldati". Ma tale divieto non è preso in alcuna considerazione. L’esercito di Ferdinando, era per lo più composto da bande mercenarie che mettevano a soqquadro tutti i paesi, asportando dalle case tutti gli oggetti di valore.

Capitolo XXIX. Nel paese di Lucia, per sfuggire ai saccheggi, don Abbondio, Perpetua e Agnese pensano di rifugiarsi nel castello dell'Innominato, dove confluisce, ben protetta, la gente della zona.

Capitolo XXX. La peste la prende anche don Rodrigo: se la scopre addosso una sera tornando da un festino dove aveva celebrato ironicamente il morto conte Attilio. Chiede aiuto al Griso perché chiami un medico: il Griso chiama invece i monatti. Che lo portano al lazza retto. Ma prima del padrone muore fulminato dalla peste anche il Griso. Di peste s'ammala anche Renzo, ma la forte, contadinesca fibra lo salva: superata la convalescenza decide di far ritorno al suo paese in cerca di Lucia. Nessuno in tanta confusione si curerà di lui e dei suoi conti con la Giustizia. Salutato il cugino Bortolo, riattraversa l'Adda e si affaccia al suo paese. Dovunque imperano i segni della morte, dell'abbandono, della sofferenza. Incontra Tonio in camicia che dice cose senza senso: la malattia lo aveva reso idiota e fatto somigliare stranamente al fratello folle. Da una cantonata vede avanzare una cosa nera; è don Abbondio che ha perduto Perpetua: è mal messo ma si preoccupa della presenza di Renzo. per lui sorgente di guai. Di Agnese sa che si rifugiata a Pasturo, di Lucia dice che è a Milano in casa di don Ferrante. Altro non sa; una sola cosa vorrebbe: che Renzo torni al più presto dond'è venuto. Renzo passa anche accanto alla sua vigna: ormai ridotta a una marmaglia di piante, di vilupponi arrampicati, di rovi, di un guazzabuglio di steli. Pare anch'essa investita e disgregata dalla peste. A sera trova rifugio in casa di un amico. L'indomani decide di recarsi a Milano in cerca di Lucia.



Capitoli XXXI e XXXII. Il passaggio delle milizie straniere ha lasciato la peste che comincia a imperversare a Milano e nel contado. In città la confusione è grande. Il cardinale ordina una processione espiatoria che non fa che accrescere il contagio. Dovunque si parla di untori, cioè di agenti del nemico incaricati di spargere la peste ungendo le porte e i muri delle case. Si istituiscono anche «infami» processi contro innocenti, accusati dall'isterismo popolare.

Capitolo XXXIII. Tra i colpiti dalla peste è don Rodrigo, tradito dal Griso e consegnato ai monatti, i raccoglitori dei morti e dei contagiati. Renzo, che ha superato la malattia, ora che nessuno si cura più di lui, si mette in cerca di Lucia, e si reca al paese, dove trova la desolazione; da don Abbondio apprende che Perpetua è morta insieme con molti altri, che Agnese è presso parenti a Pasturo e che Lucia è a Milano, presso la famiglia di don Ferrante.

Capitolo XXXIV. Renzo riesce a entrare in Milano; scorge dovunque i segni terribili del morbo e della desolazione. Assiste all'episodio patetico della madre di Cecilia, la bambina morta di peste. Trovata finalmente la casa di don Ferrante, apprende che Lucia è al lazzaretto, l'ospedale degli appestati. Scambiato per un untore, riesce a stento a sottrarsi a un gruppetto di gente imbestialita, saltando su di un carro di monatti.

Capitolo XXXV. L'aria si fa sempre più afosa, il cielo si copre di una coltre di umidità greve, quando Renzo entra nel lazzaretto: un insieme di capanne e di fabbricati posticci, alzati per la circostanza, accanto ad altri in muratura. L'impressione è quella del covile segnato da un vasto brulichio prodotto da sani e malati, da serventi e da folli, impazziti per la peste, da gente variamente indaffarata. Su tutto domina l'organizzazione imposta dai cappuccini ed è, il loro, un ordine esemplare sempre tenendo conto che bisogna amministrare, confortare, curare o avviare al cimitero ben sedicimila appestati. La visione generale è quella che insorge da un luogo che è un condensato, un contenitore di grandi sofferenze su cui incombe l'aria ed il cielo nebbioso. Il primo gruppo di malati, collocati a parte, dentro un recinto, è quello dei bambini allevato da nutrici e da capre: alcuni sono neonati ed hanno bisogno di costante cura ed attenzione. Molte donne guarite dalla peste provvedono alla cura dei bambini: ma anche le capre, quasi consapevoli della grande sofferenza, offrono mansuete il proprio latte ai bambini. È uno spicchio di umanità che intende sopravvivere e resistere nonostante tutto sembri avviare a morte o a disperazione. E proprio in un atteggiamento di padre che si cura dei propri piccoli Renzo intravede dopo tanto tempo la cara immagine di padre Cristoforo. Affettuoso l'incontro tra i due. Il padre dopo essere stato per anni a Rimini, per pressioni esercitate sui superiori ha ottenuto di essere richiamato a Milano e di essere adibito al servizio dei malati. Renzo gli fa un succinto riassunto delle sue avventure e dice di essere nel lazzaretto in cerca di Lucia. Potrebbe essere, se è ancora viva, nel recinto assegnato alle donne: è proibito entrarvi. Ma il padre lo autorizza date le buone intenzioni che lo animano. Ma Lucia sarà viva? Se non dovesse essere viva, Renzo si dice pronto a fare vendetta su don Rodrigo, che è all'origine di tutte le disavventure sue e di Lucia. E a questo punto padre Cristoforo lo redarguisce e alla legge di vendetta contrappone la legge cristiana del perdono e della carità. Lui, che ha fatto l'esperienza dell'assassinio di un uomo, sa quanto arida sia la strada della vendetta e quanto allontani da Dio e quindi dall'umanità la ricerca di una giustizia che impone morte per morte. La vera giustizia è la carità che compensa la morte di un uomo con la crescita ideale di nuova umanità. Renzo convinto si dice disposto al perdono del suo avversario. E il frate lo conduce in una capanna dove gli mostra don Rodrigo moribondo: ecco come si è ridotto colui che voleva farsi padrone dell'altrui vita! E il padre non sa decidere se in quelle condizioni il signorotto sia per un castigo o per un atto di misericordia della divinità.

Capitolo XXXVI. Dopo affannosa ricerca, incontra finalmente Lucia. L'amarezza per la riconferma del voto fatto alla Madonna, è risolta dall'intervento di padre Cristoforo, che scioglie Lucia dal voto. Lucia resta con una ricca signora che ha perduto i suoi e l'ha presa a ben volere, mentre Renzo torna ad avvertire Agnese del prossimo ritorno della figliola.

Capitolo XXXVII. Uscito dal lazzaretto Renzo è sorpreso da un temporale, quello che porterà via la peste. Vede Agnese, ritorna a Bergamo dal cugino per cercarsi una casa, è di nuovo al paesello ad attendervi Lucia che, trascorsa la quarantena, si accinge a ritornare. Prima della partenza, apprende la morte di padre Cristoforo, il processo contro la monaca di Monza, e la morte anche di donna Prassede e don Ferrante.

Capitolo XXXVIII. Lucia ritorna al paese. Don Abbondio si decide finalmente a sposare i due giovani, ma soltanto quando viene a sapere che il palazzo di don Rodrigo è ora occupato dall'erede di lui, un marchese, «bravissim'uomo» che ha saputo della storia di Lucia e di Renzo, e è disposto ad acquistare ad alto prezzo le loro casette e a liberare Renzo dall'imbroglio di Milano. I due sposi, con Agnese, si trasferiscono a Bergamo, dove la famiglia e gli affari prosperano. Il romanzo termina con la celebre morale messa in bocca a Lucia: «...lo non sono andata a cercare i guai: sono loro che sono venuti a cercar me... i guai vengono bensì spesso perché ci si è dato cagione; ma la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani...».

SCHEDE PERSONAGGI


Renzo
Giovane che, nato e cresciuto nel limitato ambiente del suo paese, conosce la vita solo nei suoi aspetti più semplici e consueti, la fatica del lavoro e la forza degli affetti. Rimasto orfano in giovane età, è abituato a badare a se stesso e si è creato un onesto lavoro, una sicurezza per sé e per la sposa prescelta, Lucia. Di indole buona, ha tuttavia un temperamento impetuoso, incline a scatti e a ribellioni improvvise, che hanno però la durata dei temporali di maggio, che presto vengono e presto si dissipano. Si tratta di esuberanza, più che di prepotenza. Renzo non è privo di una naturale intelligenza e furbizia che lo aiutano nei momenti critici ma che forse non bastano quando si trova immerso nei problemi al di fuori del suo paesello, perso tra le mura della città. Renzo è incline a giudicare il prossimo con ottimismo, ma quando è sicuro di essere oggetto d'ingiustizie si ribella, mettendo in moto la sua scaltrezza. Contro il rivale, Don Rodrigo, si scaglia furiosamente, ma alla fine il suo equilibrio e la sua fede in Dio lo inducono a perdonare.

Lucia
Giovane donna, le cui caratteristiche, fisiche e morali, sono tra le meno appariscenti che ci sia dato attribuire ad un soggetto umano ed a un personaggio di romanzo. Lucia non è passiva come potrebbe sembrare, ella si oppone con tanta forza a tutto ciò che la sua coscienza nopn può approvare in modo attivo, agendo in una direzione sola, quella del bene, usando le armi della fede, della preghiera e del lavoro. Ragazza umile, del popolo, alla quale la modesta origine non impedisce di albergare nell'animo una nobiltà di sentimenti e di ideali a fare invidia a persone di più alta nascita e cultura, ella è conscia dei suoi doveri di donna e di cristiana, che una strana sorte ha portato in mezzo ad una serie di loschi intrighi, di terribili vicende. Sensibile al richiamo degli affetti e alla voce della nostalgia, preda della paura nei momenti più drammatici, non si abbandona mai alla disperazione, ma istintivamente trova dentro di sé le risorse per riacquistare l'equilibrio e la pace dello spirito.

Agnese
Tipo medio di donna in età, come è possibile trovarne nei paesi lombardi. Il suo carattere deciso e sbrigativo, unito ad un'esperienza di vita che forse ella sopravvaluta, la porta ad una sicurezza di giudizio che non sempre si rivela esatta; la sua sollecitudine e l'amore per la figlia Lucia, velati da un riserbo proprio delle persone abituate ad una vita semplice e ridotta ai valori essenziali, la sua facilità di parola e la sua spontaneità, costituiscono un marchio inconfondibile. Profilo vivo e veritiero, riesce subito simpatica per la sollecitudine con cui si dispone ad aiutare la figlia nel raggiungimento della sua felicità. Anche se, spinta da troppa sicurezza, è portata a vedere solo una faccia della realtà, il suo ottimismo la induce ad escogitare sempre nuove soluzioni per far trionfare la giustizia e il bene di Lucia.

Padre Cristoforo
Frate cappuccino del convento di Pescarenico, poco distante dal paese dei due promessi sposi, egli è la guida spirituale cui si affida Lucia. La sua indole ribelle, ma al tempo stesso generosa è già delineata fin da quando, non ancora frate, porta il nome di Lodovico. Abituato sin da giovane all'agiatezza e al lusso, cresce alimentando un'abituale fierezza che lo porta, come il padre, a scagliarsi contro l'ostilità del mondo aristocratico e vanesio, conducendo una guerra aperta contro i suoi rivali e schierandosi a fianco dei deboli che avessero subito da essi un sopruso. Questo suo atteggiamento lo porterà al famoso duello dal quale uscirà con la convinzione della sua vocazione. La figura del frate grandeggia, non come quella di un essere superiore, ma come quella di un uomo tra gli uomini, che ha vissuto le sue esperienze e ha formato il suo carattere proprio in mezzo al complicato mondo seicentesco. In lui, immagine viva e vera, si può vedere il simbolo dell'eterna lotta tra il bene e il male, tra forza materiale e forza spirituale che, sorretta da una fede senza confini, è destinata a trionfare. Quello che egli prima operava a servizio di una giustizia umana, ora opera a servizio di quella divina e proprio in questa continuità risiede la reale umanità del personaggio. L'ultima immagine che abbiamo di lui, con i segni della fine sul volto, è quella al lazzaretto, a servire i bisognosi come in tutta la sua vita.

Cardinal Federigo
All'epoca della vicenda è Arcivescovo di Milano e lo troviamo in visita al paese dell'Innominato nei giorni di Pentecoste. Uomo dotato di eccezionali risorse di volontà, intelligenza e zelo religioso, egli sa veramente applicare alla vita i principi della religione cattolica, offrendo sempre un valido esempio del bene operare. Modesto, frugale, umilissimo, deve lottare contro il suo stesso ambiente per affermare i suoi principi e dedica tutta la sua vita alla carità e allo studio, tanto da essere considerato uno degli uomini più dotti del secolo. La solennità del personaggio scaturisce dall'attesa del paese in festa, il suo valore dai colloqui, prima con l'Innominato, poi con Don Abbondio, la sua modestia e umiltà dall'incontro con Lucia, con la gente del paese e con i bambini. Lo ritroviamo, più tardi, ad aiutare la popolazione durante la carestia e la peste. A differenza degli altri "buoni" del romanzo, per i quali la bontà è una conquista, egli è libero umanamente da ogni debolezza, integro, grande, perfetto.

Innominato
L'Innominato è una delle figure psicologicamente più complesse e interessanti del romanzo. Personaggio storicamente esistito nel quale l'autore fa svolgere un dramma spirituale che affonda le sue radice nei meandri dell'animo umano. L'Innominato, figura malvagia la cui malvagità più che ripugnanza forse incute rispetto, è il potente cui Don Rodrigo si rivolge per attuare il piano di rapire Lucia. In preda a una profonda crisi spirituale, l'Innominato scorge nell'incontro con Lucia un segno, una luce che lo porta alla conversione; solo in un animo simile, incapace di vie di mezzo, una crisi interiore può portare a una trasformazione integrale. Durante la famosa notte in cui Lucia è prigioniera nel castello, la disperazione dell'Innominato giunge al culmine, tanto da farlo pensare al suicidio, ma ecco che il pensiero di Dio e le parolo di Lucia lo salvano e gli mostrano la via della misericordia e del perdono.

Don Rodrigo
Signorotto invaghitosi di Lucia che, solo per capriccio, vuole avere per sé. Egli rappresenta l'espressione umana e il simbolo del suo secolo; non riveste una carica particolare, ma è uno dei tanti nobilotti dell'epoca, uno qualsiasi. Il suo carattere, per niente deciso e fermo, riflette passivamente e fedelmente le magagne e le ingiustizie sociali dell'epoca in cui è chiamato a vivere. Di lui non viene data una descrizione vera e propria, né fisica né morale, sebbene sia lui il responsabile di tutta la vicenda; noi lo conosciamo attraverso i simboli e gli attributi della sua forza e della sua autorità, il suo palazzo, i suoi servi e le sue azioni. Cattivo genio di tutta l'azione, sicuro che la sua posizione sociale e gli appoggi di persone influenti gli garantiscono l'impunità, conosce solo una legge, quella del più forte. Pur essendo malvagio, non ha il coraggio delle sue azioni, preoccupato dalle conseguenze che esse hanno. Dopo le minacce di Padre Cristoforo, probabilmente rinuncerebbe volentieri al piano malvagio, ma persevera solo per questione di puntiglio e orgoglio vedendosi costretto a ricorrere all'aiuto di chi è più malvagio di lui, di chi veramente sa fare il male, l'Innominato. Purtroppo la conversione di quest'ultimo capovolge la vicenda e Don Rodrigo sarà cpstretto ad andarsene, a nascondersi, fino a quando la peste non lo coglierà e lo condurrà alla morte nel lazzaretto di Milano.

Don Abbondio
Curato del paese di Renzo e Lucia, dovrebbe unirli in matrimonio ma, minacciato da Don Rodrigo, cerca di evitare a tutti i costi di celebrare le nozze e lo farà solo alla fine del romanzo, quando ogni pericolo sarà svanito. La vita di Don Abbondio si svolge tutta nell'orbita di Don Rodrigo e sotto l'influsso del suo principale difetto, la paura. La sua storia non è altro che la storia della sua paura e di tutte le manifestazioni attraverso le quali essa si rivela. Gretto, meschino, egoista fino all'impossibile, non è uomo cattivo, ma nemmeno buono; egli vive come in un limbo tormentato dalla paura; vede ostacoli e insidie anche dove non ci sono e l'angoscia e la preoccupazione di riuscire ad uscirne indenne lo rende incapace di prendere posizione tra il bene e il male. Anche quando, per un breve attimo, le parole del Cardinale, sembrano risvegliare in lui una luce, questa non riesce a giungere agli strati superiori della sua coscienza. Il suo carattere, oltre a creare vari spunti di comicità, non è privo di una certa grettezza che egli rivela per la soddisfazione dello scampato pericolo.

Gertrude
La monaca di Monza, che accoglie Lucia nella sua fuga dal paese natio per sfuggire a Don Rodrigo, è un personaggio che l'autore descrive ampiamente come se nel racconto della vita della donna egli cerchi in qualche modo di trovare una giustificazione al male da lei fatto e al male che ancora farà. La vocazione imposta e non scelta rende Gertrude donna infelice e soggetta a peccare ma allo stesso tempo in ogni suo gesto si ravvisa come un senso di colpevolezza che serpeggia in mezzo ai grovigli e alle passioni che agitano il suo spirito. E' proprio questo sordo conflitto tra abiezione e senso di colpa che danno al personaggio della Monaca di Monza la sua tragicità. Ella non ha ancora superato i problemi che aveva da bambina, problemi nati dal vedersi negare la vita cui era destinata per la sua indole e dal non essere stata capace di lottare per far valere i suoi desideri. L'invidia che provava da bambina per le sue compagne più fortunate di lei la prova ancora per chi, come Lucia, conduce una vita nel mondo a lei precluso e tale invidia la porta a compiangersi e a vendicarsi come può, usando la sua autorità e compiendo il male.

VITA DI ALESSANDRO MANZONI


Alessandro Manzoni nasce a Milano nel 1785 da Pietro e Giulia Beccaria. Il matrimonio dei genitori non è felice , fu fatto per interesse in quanto il patrimonio dei Beccaria era in dissesto ; Giulia Beccaria lascia così il marito . Si separerà nel 1792, unendosi a Carlo Imbonati andando a vivere a Parigi. Alessandro vive dapprima in collegio, ma, dopo la morte del padre, raggiunge la madre. Gli anni nella capitale francese, dal 1805 al 1810, sono decisivi nella sua formazione culturale, che è sostanzialmente di stampo illuminista, razionalista e anticlericale. L'avvenimento più importante della sua vita sarà perciò la conversione al cattolicesimo, che avverrà intorno al 1810, due anni dopo il suo matrimonio con Enrichetta Blondel. Proprio Enrichetta lo porterà, in seguito, a rivedere i suoi giudizi critici verso la religione, tanto che nel 1810 il Manzoni decide di convertirsi al cattolicesimo, coinvolgendo in questa decisione anche la moglie. Lo stesso anno della sua conversione Manzoni torna a vivere a Milano, dove resterà poi fino alla morte, ad eccezione di alcuni mesi trascorsi a Parigi, tra il 1819 e il 1820, e di qualche breve viaggio a Firenze, nel 1827 e nel 1856.
L'esistenza dello scrittore trascorre quindi nel lavoro e nell'intimità familiare, lontano dalla curiosità e dagli impegni mondani, tra Milano e la sua villa di Brusuglio, nella campagna lombarda. Ecco perché, oltre alle date di pubblicazione delle sue opere, pochi sono i fatti da registrare della sua lunga vita, protrattasi fino al 1873 e attraversata da dolorosi lutti: la morte, nel 1833, della prima adorata moglie; poi, quella della madre, nel 1841; della seconda moglie Teresa Stampa, nel 1861; e infine di ben sei dei suoi otto figli. Tra i pochi avvenimenti della vita manzoniana si ricorderanno la partecipazione, nel 1861, dopo la nomina a senatore del nuovo Regno d'Italia, alla prima seduta del Parlamento; il suo intervento, nel 1864, alla votazione per il trasferimento della capitale da Torino a Firenze; l'accettazione, nel 1870, della cittadinanza romana, per dimostrare pubblicamente la propria convinzione della necessità della scomparsa del potere temporale della Chiesa.

Le opere giovanili di Manzoni nascono nel clima culturale milanese, dominato dalla presenza di Vincenzo Monti. Così è del Trionfo della libertà, composto dopo la pace di Luneville, nel 1801, e così è anche dell'epistola in versi l'Adda, del 1803. Più tardi, nei Sermoni (1804), Manzoni tenta i modi della poesia satirica, guardando al Parini come maestro. Il testo più maturo e signifìcativo dell'opera giovanile manzoniana è tuttavia il carme In morte di Carlo Imbonati (1805), che costituisce un documento assai eloquente della precoce e robusta maturità morale di Manzoni, della sua ricerca di un programma austero di vita.

La storia autentica della poesia manzoniana inizia però con gli Inni sacri, che testimoniano della conversione religiosa del loro autore. Dopo la conversione al cattolicesimo, Manzoni progetta una serie di dodici Inni sacri, dedicati ciascuno ad una festività della Chiesa: di essi ne porterà a termine solo cinque, i primi quattro fra il 1812 e il 1815 (La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione) e il quinto (La Pentecoste) tra il 1817 e il 1822. In questi Inni Manzoni non si occupa soltanto degli aspetti dogmatici e teologici del cristianesimo, ma soprattutto dei suoi aspetti morali e sociali, più direttamente vissuti dalla coscienza religiosa popolare.

Dopo la stagione degli Inni sacri, tra il 1815 e il 1822, si apre un altro lungo periodo di riflessione inferiore che porta ad un crudo pessimismo: la conquista di un " credo " religioso viene sottoposta ad un processo di discussione, mentre l'attenzione di Manzoni si apre ad una complessa visione delle ragioni dell'esistenza e si sforza di rintracciare nella storia i segni visibili di una presenza divina. In questo periodo di riflessione nascono le odi civili, e tra di esse il Marzo 1821, in cui Manzoni, celebrando l'unirsi delle forze piemontesi e lombarde contro l'oppressore austriaco (un'unione in cui egli scorge il segno della volontà di Dio), proclama il suo ideale unitario di patria, nel sogno di un'Italia " una d'arme, di lingua, d'altare ".

Più che in queste odi, tuttavia, è nelle tragedie che si può osservare l'ampliarsi della problematica manzoniana. Ciò che importa allo scrittore, nel suo teatro, è la rappresentazione di una drammatica tensione morale dei suoi personaggi: i quali, quanto più sono impegnati a combattere per un ideale generoso, tanto più appaiono poi travolti dalle leggi della forza e della violenza che dominano il mondo. È questa la situazione del Conte di Carmagnola (1820), ma soprattutto dell'Adelchi (1822), nella quale è rappresentato il momento conclusivo della guerra tra franchi e longobardi. Adelchi, figlio di Desiderio, re dei longobardi, è il personaggio-chiave della tragedia. Al fedele Anfrido confessa in un momento di smarrimento: "Il core mi comanda / alte e nobili cose; e la fortuna [il destino] / mi comanda ad inique ". Ed in ciò sta la sua personale vicenda drammatica e il problema morale che Manzoni vuoi rappresentare. La realtà si oppone al desiderio dell'uomo di operare nel giusto; ogni sua azione sfocia in una direzione opposta a quella voluta. Ed è proprio questa condizione assurda, ma tragica, in cui l'uomo viene a trovarsi, che determina quella scelta a non agire. Solo non agendo è possibile infatti non commettere il male: Adelchi, "trascinato" per una via che non ha potuto scegliere, germe " caduto in rio [cattivo] terreno / e balzato dal vento ", diviene così l'eroe romantico della non azione.

Nell'ambito di questi problemi si pone anche l'ode celebrativa scritta in occasione della morte di Napoleone Bonaparte, il Cinque maggio, del 1821. L'immagine di Napoleone pare diventare l'immagine simbolo di un uomo che, pur nell'aspirazione a portare nel mondo le idee per una vita più giusta, seminava l'Europa di stragi. Senonché, rispetto all'Adelchi, nel Cinque maggio i termini appaiono capovolti: il destino di Napoleone, svela in realtà l' "orma" di un preciso disegno provvidenziale di Dio, riassume simbolicamente il percorso stesso della storia, la quale, attraverso la sua tragica vicenda di sangue e di violenza, sfocia a giuste conquiste. E da questa concezione della storia, in cui la Provvidenza divina segna il suo cammino, nascerà il capolavoro manzoniano, I promessi sposi appunto, pubblicato una prima volta nel 1827 e, in edizione definitiva, nel 1840. La prima versione del romanzo s'intitolava Fermo e Lucia (1812) ed è molto diversa dalla seconda e definitiva edizione, pubblicata tra il 1840 e il '42. Vi è una certa differenza di contenuto (oltre che ovviamente di stile) persino tra la prima edizione del 1827 e la seconda: in quest'ultima la severità morale e religiosa è attenuata (ad es, le due figure di don Rodrigo e della monaca di Monza sono descritte con colori meno accesi).

Importanti saranno pure i suoi scritti sulla lingua. Attraverso una serie di testi (Sulla lingua italiana e Dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, ambedue del 1845; Lettera al marchese Casanova, del 1871), Manzoni elabora infatti una sua organica teoria linguistica, la quale trova il suo punto di riferimento costante nel principio che la lingua scritta deve accostarsi a quella parlata. La norma di ogni scelta linguistica non sta quindi in una conferma che venga da un uso letterario, ma semplicemente nella conferma del parlato. Su questa base teorica Manzoni discute il problema dell'unità linguistica italiana: essa, vista la diversificazione notevole della lingua parlata nelle varie regioni, non può essere raggiunta che attraverso l'uniformarsi delle singole parlate a quella di maggior prestigio, cioè alla fiorentina. Nel parlato fiorentino delle persone colte, Manzoni indica perciò la norma da seguire per l'unificazione linguistica italiana.

 

fonte: http://geniv.forumcommunity.net/?t=6580760

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

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