Matematica storia e fondamenti

 


 

Matematica storia e fondamenti

 

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Storia e fondamenti della matematica

 

Riporto i temi da me sviluppati in occasione del corso “Storia e fondamenti della matematica 1” presso l’Università di Bari.
Si tratta di un lungo lavoro che spero possa risultare utile a chi intenda affrontare gli stessi studi o di supporto all’attività dei docenti che volessero introdurre cenni di “Storia della Matematica” nelle loro programmazioni didattiche.
In quanto elaborati da me, non posso garantire la completezza degli argomenti trattati e la correttezza delle esposizioni.
Parti di questi temi sono dovuti ad operazioni di taglia/incolla e quindi possono riportare integralmente parti delle fonti di seguito citate e possono aver originato ripetizioni e ridondanze.

 

Mi sono avvalso delle seguenti fonti:

  • Prof. Borzacchini, Dispense della lezione del corso di “Storia e fondamenti della matematica 1” della SSIS, Università di Bari
  • C. B. Boyer, Storia della Matematica, Oscar Mondatori
  • Appunti della collega Claudia Bellomo
  • A. Sini, I filosofi e le loro opere, Principato Editore
  • Cartesio, Discorso sul metodo, Editrice la Scuola
  • Italo Ghersi, Matematica dilettevole e curiosa, Hoepli Editore
  • Roberto Vacca, Anche tu matematico, Garzanti editore
  • www.matmedia.it sezione biografie
  • www.resonline.it sezione matematica

Un particolare ringraziamento agli autori.

Indice dei temi

  • Il metodo storico e quello matematico-scientifico
  • Il pensiero formale
  • I Numeri
  • L’Infinito
  • Il continuo
  • Matematica babilonese, egiziana e cinese
  • La questione pitagorica
  • Teorema di Pitagora
  • L’età di Platone ed Aristotele
  • La Logica di Aristotele
  • La scoperta degli irrazionali
  • Eudosso di Cnido
  • Archimede di Siracusa
  • Apollonio di Perga
  • Eratostene
  • Gli “Elementi” di Euclide
  • La storia della dimostrazione
  • L’algebra di Diofanto
  • Gli arabi – trasmissione del pensiero greco
  • Il metodo di esaustione
  • Il metodo dell’equilibrio di Archimede
  • Il Medio Evo
  • Il numero reale
  • Cartesio, il metodo e le regole cartesiane
  • La geometria analitica di Fermat
  • Leibniz
  • La Logica
  • L’aritmetizzazione dell’analisi
  • L’infinito ed il continuo in Cantor
  • I Paradossi
  • Frege e la logica matematica
  • Il problema dei fondamenti
  • Il programma di Hilbert
  • La lista di Hilbert
  • Dall'analisi infinitesimale agli insiemi infiniti
  • Dalle nuove algebre astratte alla teoria di Galois
  • Il teorema di Godel - Il Novecento, secolo della crisi
  • Insiemi e incompletezza
  • Topologia e ultimi sviluppi
  • La nascita della computer science
  • L’ipotesi del continuo e l’assioma della scelta – paradossi della misura
  • Breve vocabolario

 

Temi

Il metodo storico e quello matematico-scientifico
Occuparsi della storia della matematica è cosa assai impegnativa perché non passa, come per la storia di una popolazione, attraverso testi, mappe, ma attraverso trattazioni matematiche che rarissime volte pervengono a noi nella versione originale. E’ fondamentale innanzitutto occuparsi dell’individuazione delle fonti e poi dello studio filologico delle stesse, ovvero cercare di ricostruire il testo, nella sua forma più vicina all’originale. Cosa non assolutamente facile perché è solo dal rinascimento che incominciano a pervenirci testi autentici, dell’antica matematica greca nulla ci è pervenuto, se non in traduzioni che nella maggior parte dei casi sono arabe. Il traduttore poche volte trascriveva fedelmente l’originale, spesso lo condiva di altre informazioni, altre volte si appropriava dei contenuti dell’antico testo. Oggi è stato possibile ricostruire alcuni libri proprio grazie al confronto di più traduzioni, il che consentiva di sgrossare delle parti non originali del testo, questo è accaduto ad esempio agli “Elementi” di Euclide le cui traduzioni più antiche risalgono al VI-VII secolo d.C.. Paradossalmente migliori sono i testi pervenutiti da popolazioni più antiche quali ad esempio gli egiziani ed i babilonesi. Loro non trascrivevano le regole dei loro calcoli, ma molto spesso trascrivevano misure, soluzioni a problemi di natura pratica. Straordinario al esempio il papiro dello scriba Ahmes risalente al 1650 a.C. tratto, per ammissione dello stesso scriba da un papiro risalente al 2000-1800 a.C. forse del leggendario Imhotep,architetto e medico del faraone Zoser, primo ad essersi fatto costruire una piramide. Per la matematica babilonese disponiamo di decine di migliaia di tavolette in argilla dove i babilonesi trascrivevano i loro calcoli.
Gravissimi sono stati inoltre le perdite derivate dagli incendi che più volte hanno interessato la biblioteca di Alessandria d’Egitto, la più ricca in quel tempo. Quindi un lavoro che si presenta molto impegnativo, ma forse anche per questo molto affascinante.
Da non dimenticare in fine che la notazione algebrica che noi spontaneamente applichiamo anche a testi antichi, non era conosciuta nemmeno da Galileo.


Il pensiero formale
Il pensiero formale, la rappresentazione sintattica l’infinito e l’opposizione discreto/continuo sono le idee che più nettamente evidenziano la separazione della matematica antica e quella moderna.
La rappresentazione sintattica connette due mondi, quello dell’essere, ovvero il mondo reale (la semantica) ed il mondo dei segni (la sintassi), ove per segno intendiamo una traccia scelta da un insieme finito di tracce. I segni e la loro funzione di rappresentazione sintattica sono la base del pensiero formale.
Una commento molto grossolano, ma al contempo molto chiarificante del concetto di pensiero formale è “accettare di ragionare senza capire”.
Alcuni studi effettuati nei primi anni della scolarizzazione nell’Unione Sovietica  stalinista in Uzbekistan mostravano la capacità dei più giovani, già avviati alla scuola, di poter rispondere senza difficoltà a domande quali “Nei boschi qui intorno tutti gli orsi sono bianchi (sono marroni in realtà), se tu vedi un orso di che colore è ?”. Domanda a cui gli adulti, dotati di pensiero reale, analfabeti, avevano grandissima difficoltà a comprendere. Quindi il pensiero formale, forse come conquista dovuta alla scuola.
Il pensiero formale nasce dalla capacità di operare una rappresentazione sintattica, ovvero capace di connettere il mondo reale al mondo dei segni. Ove per segno intendiamo una traccia scelta da un insieme, alfabeto. Che può essere una rappresentazione iconica, in cui riproduce le faccette di un oggetto reale o sintattica ovvero astratta quale può ad esempio essere la lettera “A”.
Un esempio di pensiero formale può essere quello di un astronomo rinascimentale, moderno o anche caldeo (periodo babilonese quando i caldei invasero la babilonia) che nell’osservare la luna, decide di rappresentare con segni la sua posizione (la semantica trasforma la realtà in segni “characteristica universalis” di Leibniz) e poi manipolando questi segni (regole di natura sintattica) prevedere la posizione che avrà la luna in seguito “calculus ratiocinator” e trasformare nuovamente i segni in posizione i cui si trova la luna e verificare la correttezza della posizione. Questo è pensiero formale e dimostra come questi due mondi “semantica e sintassi” seppur eterogenei appaiono del tutto compatibili, visto il gran numero di successi.
Proprio l’esempio appena citato ci introduce ad una serie di difficoltà difficilmente superabili a quei tempi, ad esempio in che maniera una rappresentazione sintattica che appare chiaramente discreta riesce a simularne una che è invece continua, come il moto dei pianeti.
Il P F è nato nel V secolo a.C. ed è probabilmente dovuto ad diffondersi dell’uso della moneta, della scuola e dell’uso di massa della scrittura alfabetica. Perché l’alfabeto stesso usa segni astratti per rappresentare oggetti reali. Questo avviene nel mondo greco e ha grande sviluppo non solo nell’astronomia, ma anche nella geografia (prime carte geografiche). E’ Parmenide il vero padre del paradigma sintattico e del pensiero formale perché in un suo scritto ne rivela tutte le difficoltà.
Platone dice “i bimbi imparavano a leggere, scrivere e far di conto, ossia manipolare segni”. I Pitagorici avevano regole molto rigide quali il non mangiare carne, come anche i fagioli (lenticchie) e dedicarsi agli studi filosofici e matematici come base morale della condotta della vita. Pare che termini come filosofia (amore della saggezza) e matematica (ciò che si impara) vennero coniati dallo stesso Pitagora. Quindi nei pitagorici lo studio della matematica era più legata all’amore per la scienza che per necessità pratiche


I Numeri
I numeri nacquero come icone degli oggetti di calcolo, quindi sassolini, bastoncini. Sono numerosi i casi in cui si trovano incisioni su ossa e pareti, spesso incisioni verticali (osso di lupo trovato in Cecoslovacchia con 55 intaccature riunite a gruppi di 5 risalente a 30.000 anni fa). Anche alcuni animali, come dimostrò Darwin posseggono la capacità di distinguere i numeri e specialmente i corvidi. Si suppone che l’uso dei numeri sia derivato da bisogni pratici, ma è avanzata anche l’ipotesi che possa essere derivato da riti religiosi in cui le persone che vi partecipavano erano chiamate secondo un preciso ordine e che quindi addirittura il senso ordinale del numero abbia preceduto quello cardinale. E’ difficile però individuare le origini della matematica e quindi dell’uso dei numeri. Erodoto sosteneva che nacque in Egitto dove i “Tenditori di corde” la usavano per misurare i terreni allagati dalle acque del Nilo, Aristotele riteneva che fosse nato nella classe agiata dei sacerdoti.
Quasi sempre però la notazione è a base dieci e questo è facilmente spiegabile con il fatto che siamo dotati di dieci dita, talvolta a base 20 con dieci + dieci dita.
Nella matematica greca il numero è sempre molteplicità composta dell’unità che non viene considerato ancora numero, mentre lo zero è praticamente assente.
Sempre tra i greci diffusa era il sistema numerico Erodianico (perché descritto in un frammento di Erodio, grammatico del II secolo d.C.) con bastoncini, soprattutto in ambito commerciale (riflette l’uso dell’abaco), e poi vi era quello ionico (VII sec a.C.) costituito con l’alfabeto greco (27 segni) ove la base semantica-computazionale è abbandonata e si operava solo sintatticamente ed è con questo sistema che il numero assume significato ordinale nella matematica greca. Platone evidenzia la netta distinzione tra matematica dei filosofi e quella dei bottegai. Il misticismo del numero non nacque con i pitagorici (in numero 7 era già ritenuto sacro), ma loro lo portarono ad un altissimo livello. In Grecia il termine numero veniva usato solo per i numeri interi.
Notevole sviluppo si ebbe con la matematica indiana, infatti gli indiani, pur non inventandone nessuno, riuscirono a coniugare queste 3 cose:
una base decimale
una notazione posizionale
un simbolo diverso per ciascuna delle 10 cifre.
Furono poi gli arabi a rielaborare il sistema assegnando la oggi nota forma ai simboli. Quindi è più corretto parlare di un sistema di numerazione indo-araba.
Il più antico riferimento alla notazione indiana risale al 662 ad opera del Vescovo siriano Sebokt che rimproverò i matematici greci fuggiti dalla patria dopo la chiusura delle scuole filosofiche ad opera di Giustiniano, proprio descrivendo l’interessante sistema di calcolo indiano che comprendeva nove segni. Solo 2 secoli dopo a questi si aggiunse lo zero. E’ abbastanza probabile che questo fu introdotto per la prima volta dai greci ad Alessandria, quando venne consolidato l’uso del sistema posizionale, e poi trasmesso in india.
Un altro problema legato al paradosso era quello di pensare il numero zero. A tal proposito, Platone diceva che un numero poteva essere singolare (cioè l’unità), duale e plurale ma non esisteva un numero per l’assenza. Il numero era attributo solo a ciò che esisteva. Questa difficoltà perdurerà per secoli, ad esempio Fibonacci introducendo il sistema indo-arabo parlerà di 9 numeri e dello zero come simbolo, così come Leibniz asserirà che un insieme di 4 elementi genera 15 sottinsiemi (oggi 16). Solo con la matematica moderna il numero diventerà “misura relativa” dove lo zero funzionerà da spartiacque tra positivo e negativo, discreto e continuo saranno integrati nella rappresentazione decimale, così che ogni intero sarà un numero reale e ogni numero reale sarà rappresentabile come una sequenza infinita di cifre. Nella matematica greca invece i numeri interi e frazioni erano considerati due cose completamente diverse. (i greci utilizzavano la base 5 per contare e la base 12 per dividere). Differenti sia dagli interi che dalle frazioni erano le grandezze geometriche che facevano parte della geometria e non dell’aritmetica. Queste difficoltà verranno superate con la scienza rinascimentale.


L’Infinito
Anassimandro (VI secolo a.c) poneva l’infinito come il principio di tutte le cose.
Fu quando la matematica divenne argomento di discussione filosofica, e quindi con i greci, che si incominciarono ad affrontare questioni che fino ad allora erano, al pari del continuo, dell’incommensurabilità, dello zero, trascurate perché non rilevanti al fine delle cose pratiche di tutti i giorni.
Euclide parla della retta prolungabile all’infinito, e non lo stesso per superfici e solidi..
Nel V secolo a.C. il concetto di infinito assume un significato più quantitativo , ovvero per addizione, “C’è sempre qualcos’altro”, significativa è la dimostrazione per assurdo di Archita dell’illimitatezza dell’universo. Compare anche un’altra interpretazione dell’infinito, con Anassagora ed Eudosso “per divisione” ma in entrambe i casi si parla di infinito “potenziale”, ovvero legato all’idea di numero ordinale, e questo pare contribuì a rifiutare lo zero, come appare evidente negli “Elementi” di Euclide ove viene accuratamente evitato il caso di rapporto nullo o angolo nullo.
Al contrario dei greci, nelle civiltà precedenti non si trova traccia di trattazioni dell’infinito.
E’ Pitagora e la sua scuola a parlare di continuo(grandezza) e di discreto(numero), di finito ed infinito.
I Pitagorici introducono l’infinito nella loro filosofia, ma la loro matematica rimane finita.
“I pitagorici considerano quantità e grandezza non nella loro generalità, ma solo in quanto finite. Infatti essi dicono che le scienze studiano il finito in astrazione da quantità e grandezze infinite, poiché è impossibile comprendere l’infinito in entrambi i casi.” Proclo.
Quanto ostico fosse il riuscire a manipolare concetti come l’infinito ed il continuo, lo dimostrano i paradossi di Zenone di Elea (450 a.C.), discepolo di Parmenide.
I pitagorici avevano ipotizzato che lo spazio ed il tempo fossero composti di punti ed istanti, e proprio contro queste posizioni Zenone sviluppa i suoi paradossi. Il più famoso è quello di Achille e la tartaruga in cui impegnati in una gara di velocità, Achille non riuscirà mai a superare la tartaruga in quanto, anche se dotata di minimo vantaggio, ad ogni intervallo di tempo ne conquisterà sempre uno nuovo. Quello della dicotomia sostiene che non si è mai in grado di percorrere uno spazio, altri suoi paradossi sono quello della freccia e quello dello stadio.


Il continuo
E’ Pitagora e la sua scuola a parlare di continuo(grandezza) e di discreto(numero), di finito ed infinito.
I pitagorici avevano ipotizzato che lo spazio ed il tempo fossero composti di punti ed istanti, e proprio contro queste posizioni Zenone sviluppa i suoi paradossi. Il più famoso è quello di Achille e la tartaruga in cui impegnati in una gara di velocità, Achille non riuscirà ma a superare la tartaruga in quanto, anche se dotata di minimo vantaggio, ad ogni intervallo di tempo ne conquisterà sempre uno nuovo. Quello della dicotomia sostiene che non si è mai in grado di percorrere uno spazio, altri suoi paradossi sono quello della freccia e quello dello stadio.
La difficoltà a concepire anche il continuo era strettamente connesso all’opposizione numero/grandezza che nei greci addirittura venivano trattati con sistemi rotazionali diversi: il contare con base 10 ed il misurare in base 12. Addirittura i babilonesi in base 60, così da rendere quanto più semplici i calcoli delle frazioni.


Matematica babilonese, egiziana e cinese
Stiamo parlando di popolazioni che vissero in periodi molto antichi, addirittura alcuni millenni prima di Cristo e che vivevano a stretto contatto con i fiumi che evidentemente erano fonte di ricchezza, parliamo del Nilo, del Tigri e dell’Eufrate. Pochi informazioni ci sono pervenute circa il livello di conoscenza della matematica in quanto principalmente vi era una tradizione orale, per cui le conoscenze non venivano scritte, ma trasmesse oralmente. Sui papiri, per gli egizi, e su tavolette in argilla per i babilonesi, spesso venivano solo indicati i calcoli, i risultati, problemi di carattere pratico, indovinelli che i maestri sottoponevano ai loro studenti.
Maggior fortuna ebbe l’interpretazione dei papiri, visto che Champollion riuscì grazie alla stele di Rosetta a tradurre i geroglifici nel 1799, Sono nel XX secolo fu possibile fare altrettanto con la scrittura cuneiforme babilonese. Così si scoprì che gli egiziani già 5000 anni fa possedevano una numerazione geroglifica, su una mazza reale erano infatti registrati 120.000 prigionieri e 1.422.000 capre confiscate. Erano ottimi astronomi ed infatti osservando Sirio compresero la periodicità delle inondazioni e ciò li portò a costruire un calendario di 365 giorni di cui 12 medi da 30 e 5 giorni di festa. L’errore di ¼ di giorno permette di datare tale scoperta tra 4000 e 2000 anni  a.c.
Nel Papiro di Ahmes scritto nel 1650 a.C. compare una notazione matematica ancor più efficiente di quello geroglifica e pare che sia stata creata da Imhotep, architetto e medico del faraone Zoser (prima piramide).
Gli egiziani incominciarono a realizzare le frazioni con numeratore 1 (ponevano un tondino sopra) e realizzarono tabelle delle frazioni per facilitarne il calcolo. Tutto questo, oltre ad 84 problemi era contenuto nel papiro di Ahmes. Alcuni problemi riguardavano problemi tipo la spartizione di 1,2,6,7,8,9 pagnotte tra 10 uomini, altri erano più propriamente algebrici come x+ax+bx=c con a,b,c noti e per questi Ahmes usava il metodo della falsa posizione in cui si attribuisce all’incognita (mucchio) un valore che probabilmente è falso e fatte le operazioni si confronta il risultato ottenuto con quello che dovrebbe essere il risultato e con proporzioni tra i due si arriva alla soluzione.
Taluni affermano che fossero a conoscenza del teorema di Pitagora. Sempre nel papiro si trovano i primi rudimenti di trigonometria (misuravano, al contrario di noi, la pendenza come rapporto tra la profondità e l’altezza. Tutta la matematica egizia è legata al solo calcolo, non vi sono approfondimenti teorici.
Per la matematica babilonese abbiamo molte più informazioni visto il loro uso di tavolette d’argilla. Pare che la scrittura cuneiforme risalga al 4 millennio a.C., come anche la scoperta dei metalli e della ruota, a quel tempo i sumeri abitavano quella terra, poi i babilonesi dal 2000 al 600 a.C. e dopo i Caldei (guidati da Ciro, re di Persia). Usavano preferibilmente la notazione in base 60 perché questa semplificava enormemente il calcolo di frazioni e forse per questo è ancora oggi utilizzata per il tempo e gli angoli. Non usavano lo zero che talvolta era sostituito da uno spazio vuoto ed avevano una notazione posizionale anche per le cifre decimali.
Su una tavoletta conservata a Yale calcolano con un piccolissimo errore radice di 2. Inventano anche algoritmi e tra questi forse quello noto come di Newton per estrarre la radice e che la tradizione vuole inventato da Archita o Erone. L’algebra raggiunse quindi un livello molto più alto di quello egiziano. Incuriosiscono anche problemi tipo “trovare il lato del quadrato se il quadrato meno il lato=870 (equazione di 2 grado che non aveva interpretazione pratica). Lavoravano anche con equazioni di 3 grado. Notevoli furono anche i risultati ottenuti anche in campo geometrico dove calcolavano ad esempio i rapporti tra le aree ed i quadrati dei lati tra poligoni regolari di 3,4,5,6,7 lati. Sicuramente maggior sviluppo ebbe l calcolo delle aree anche se purtroppo con troppa disinvoltura usavo valori approssimati al pari di quelli esatti. Non si sa in che misura si influenzarono rispettivamente le due culture, comunque è certo che tra i babilonesi fosse noto il teorema di Pitagora, e non solo al caso di triangoli rettangoli isoscele. Erano anche a conoscenza del risultato del teorema di Talete, ovvero che angoli iscritti in un semicerchio sono rettangoli e questo mostra l’influsso ricevuto dai greci dalle civiltà precedenti.
In conclusioni le matematiche preelleniche contengono solo risultati, e mai teoremi o regole di carattere generale, anche se non se ne può avere la certezza visto il poco materiale pervenutoci. Serio è comunque il problema legato alla mancanza di precisione .
Non è infrequente il caso in cui il calcolo fosse verificato, una divisione con una moltiplicazione o attraverso una sostituzione.
Molte poche informazioni abbiamo circa la matematica cinese. Questi avevano una predilezione per gli schemi e per il calcolo attraverso bastoncini. Questa abilità era tale che l’abaco fu introdotto molto più tardi che altrove.
Nel 213 a.c. l’imperatore cinese ordinò di distruggere tutti i libri, questo a testimoniare il travaglio della cultura.
I cinesi erano ossessionati dal riuscire a calcolare con buona approssimazione il valore di pigrego, dati rimasti immutati fino a XV secolo. Ai cinesi più che per la matematica, va riconosciuto il merito di aver introdotto importanti scoperte quali la carta, la polvere da sparo e la bussola.


La questione pitagorica
Mentre il sapere va declinando nelle valli del Nilo, del Tigri e dell’Eufrate, altre civiltà sbocciano lungo le coste del mediterraneo. Si parla di era talassica quella che va dell800 a.C al 800 d.C.. Al primo periodo dell’era talassica si da il nome di Età ellenica e di conseguenza quelle precedenti preellenche.
La storia greca risale al 2° millennio a.C. quando popolazioni incolte del nord Europa scendono verso le coste del mediterraneo e subito assimilavano le culture presidenti, compreso l’alfabeto (pare nato sulla penisola del sinai) allora composto da sole consonanti a cui loro aggiunsero le vocali. Non passò molto tempo che subito si avviarono scambi commerciali con l’Egitto e la babilonia e costituirono nuove colonie. Nel 776 a.c. si ebbero i primi giochi olimpici. Durante il VI secolo a.c. apparvero due uomini Talete di Mileto (624-548 a.C.) e Pitagora di Samo (580-500 a.C.). Non si sa molto su di loro, nessun loro scritto ci è pervenuto e forse non ne hanno mai scritti. A loro si attribuiscono frasi come “Conosci te stesso” e “Tutto è numero”. La tradizione attribuisce a Talete la previsione dell’eclissi solare del 585 a.C. ed attraverso essa di risale al periodo in cui visse. Talete fu considerato il primo vero grande filosofo. A lui si attribuisce il Teorema di Talete, che verosimilmente ha appreso nei suoi viaggi a Babilonia, a lui si deve una prima dimostrazione del teorema. Diogene Laerzio, Plinio e Plutarco ancora attribuiscono a Talete la misura esatta dell’altezza delle piramidi di Cheope (misura l’ombra delle piramidi attraverso l‘ombra del suo bastoncino). Qualche leggenda dice che Pitagora fu discepolo di Talete, certo è che fu profeta e mistico (era contemporaneo di Buddha e Confucio) ed anche lui viaggio sia in Egitto che a Babilonia dove verosimilmente acquisì conoscenze matematiche, poi si stabilì a Crotone. Altre difficoltà era che lui apparteneva ad una setta segreta e che i risultati scoperti non venivano attribuiti ad alcun membro, ma a tutto il gruppo e quindi  è più giusto parlare di contributi pitagorici. Avevano regole molto rigide quali il non mangiare carne, come anche i fagioli (lenticchie) e dedicarsi agli studi filosofici e matematici come base morale della condotta della vita. Pare che termini come filosofia (amore della saggezza) e matematica (ciò che si impara) vennero coniati dallo stesso Pitagora. Quindi nei pitagorici lo studio della matematica era più legata all’amore per la scienza che per necessità pratiche. Si parla di teorema di Pitagora perché pare che i pitagorici fornirono una prima sua dimostrazione, ma non ci è possibile verificarlo. Il misticismo del numero non nacque con i pitagorici (in numero 7 era già ritenuto sacro), ma loro lo portarono ad un altissimo livello.
Filolao (morto nel 390 a.C.), un tardo pitagorico avanzò l’ipotesi che al centro dell’universo si fosse un fuoco attorno al quale girassero la Terra e 7 pianeti (sole e luna compresi). Furono proprio i pitagorici a cui Copernico fece riferimento per la sua dottrina. Viene spesso attribuita a Pitagora la scoperta che la terra è sferica, e forse ciò gli fu possibile grazie all’osservazione delle costellazioni durante i suoi lunghi viaggi. Proco infine ritiene che la costruzione dei solidi regolari e la teoria delle proporzioni sono da attribuire a Pitagora.
E’ proprio in questo periodo che si diffonde l’uso della numerazione “ionica”, anche se non ci pervengono strumenti di calcolo, che comunque dovevano essere o tavole, o abaci.
Il punto di vista dei pitagorici sembra aver avuto un carattere così prevalentemente filosofico ed astratto che essi avevano ben scarsi interessi per i dettagli tecnici del calcolo.
Sempre ai pitagorici si assegna la distinzione tra monade e punto, ove quest’ultimo ha posizione, come l’ha per esempio sull’abaco.

Si tratta di un periodo in cui si costituiscono stretti rapporti tra la Grecia e l’Egitto, nel 525 a.C vi è l’occupazione dell’Egitto da parte di Cambrise e soprattutto i commercianti incominciano ad avere rapporti con le caste sacerdotali. E’ il momento in cui la cultura passa dall’essere un patrimonio esclusivo dei sacerdoti e degli scribi ad essere al contrario in Grecia “schema di libera educazione”. Alcuni aspetti della geometria greca continuano ad essere nettamente eterogenei rispetto a quella egiziana e babilonese. Nell’astronomia, la meccanica, l’acustica e l’ottica si utilizza la funzione modellistica della rappresentazione geometrica e questa è una nascita dovuta alla filosofia ionica e più in particolare pitagorica ovvero connesso alla coerenza “fisica” del modello del cosmo.
Altro importante traguardo è l’autonomia della geometria, ovvero si abbandona il suo uso per la misurazione delle aree o per la dimostrazione di formula aritmetiche e si parla di “continuo geometrico” come regno dell’essere e discreto aritmetico come regno dei segni .
Per i pitagorici tutto è numero.
Concetto di quadrivio (quantità e grandezza) a sua volta la quantità (in relazione ad un’altra quantità o per il suo proprio carattere) e grandezze (stazionarie o in moto).
E’ Pitagora e la sua scuola a parlare di continuo(grandezza) e di discreto(numero), non però trattandoli come coppia di opposti come invece accade per finito ed infinito.


Teorema di Pitagora
Una delle tante “scoperte” attribuite a Pitagora è, come ben noto, il famosissimo teorema di Pitagora. Infatti scrive Proco: “Se ricorriamo agli storici dell’antichità [Eudemo] troveremo che essi attribuiscono questo teorema a Pitagora e asseriscono avere egli sacrificato un bue per tale invenzione”.
Come Pitagora sia arrivato a “scoprire” tale teorema sembra abbastanza certo: generalizzando una proprietà del triangolo avente lati di lunghezza 3, 4, 5, triangolo che sembra essere noto anche ai popoli che precorsero i Greci sulla via della civiltà. Resto invece ignoto come il filosofo di Samo lo abbia dimostrato: alcuni studiosi sostengono tramite triangoli simili (tracciando le perpendicolari dal vertice dell’angolo retto all’ipotenusa), altri mediante equivalenze di triangoli, ecc. Insomma è una questione “aperta” alla quale forse non potremmo mai rispondere per la mancanza di notizie certe e copiose.

(Da Italo Ghersi, Matematica dilettevole e curiosa, Hoepli Editore, ristampa 1988).
Si riportano le seguenti dimostrazioni tratte dal testo sopra indicato.
Di Bhaskara.
 
Dai triangoli simili DAC, DBA si ha:

e:

Addizionando membro a membro tali uguaglianze si ha la tesi.

Di Tempelhoff  (Berlino, 1769).
Siano costruiti i quadrati sui tre lati del triangolo rettangolo ABC, ed il triangolo IJL uguale ad ABC, nel modo indicato nella figura.

Conduciamo le rette EG, DF, AL.
I quadrilateri DBCF, DEGF,  ABJL, ACIL sono uguali come è facile vedere.
Quindi l’esagono EGFCBD è equivalente all’esagono BJLICA.
Ma questi due poligoni hanno una parte comune ABC ed AEG=ILJ, quindi i resti sono equivalenti, cioè:CIJB=ABDE+ACFG


L’età di Platone ed Aristotele
Dopo Pitagora, Aristotele accetterà il concetto di incommensurabilità come qualcosa di assolutamente vero, qualcosa di non immediatamente percepibile ma che può essere dedotto dal ragionamento. Per questo Aristotele rigetterà i paradossi di Zenone, intesi come pura sofisticheria (la sofistica fu un indirizzo filosofico che si sviluppò in grecia nei secoli V e VI a.C. I sofisti usavano ragionamenti apparentemente logici, ma in realtà falsi e capziosi). Aristotele risolverà il problema del paradosso sull’infinito con una risoluzione che durerà incontrastata per 2000 anni.
Alla base del pensiero aristotelico vi è il concetto di anima che con le sue idee (idee in senso platonico) riusciva a creare un collegamento tra il mondo reale ed il mondo dei segni evitando, in tal maniera, di cadere nei paradossi.

 

Critica la teoria delle idee

Nega la separazione tra le idee universali ed il mondo degli oggetti individuali

Nega che la forma possegga una precisa esistenza entro un mondo separato come il mondo delle idee platoniche

Ogni esistente è un esistente completo e la sua “sostanza” (il suo essere reale) è composto da materia e forma (materia e forme sono distinte).

Struttura del movimento:
Ogni movimento è passaggio dalla potenza all’atto.

In questa concezione punti essenziali sono:
il dinamismo – ogni oggetto è una sostanza che diviene
l’atto – l’atto è preminente rispetto alla potenza

Esiste una pura forma priva di materia, è dio (motore di tutto il mondo – immobile egli stesso (essendo interamente atto non possiede alcuna potenza che abbia da trasformarsi).

Fattori costituenti la realtà sono la materia e la forma e quindi formiscono 2 “cause” di ogni essere individuale: causa materiale e causa formale.
Oltre a queste A. introduce anche la causa efficiente e la causa finale. Le prime due agiscono fuori dal tempo, le altre entro il tempo.

La nozione di causa sta alla base della distinzione tra conoscenza scientifica e quella comune.
La conoscenza comune si limita alla semplice intuizione del dato empirico
La conoscenza scientifica cerca la spiegazione degli esseri.

La logica di Aristotele
Se la nascita del “metodo assiomatico-deduttvo” è da far risalire ad Euclide, la nascita della “logica formale” è attribuita ad Aristotele.
Due erano i settori in cui interveniva la logica, dalle origini fino a frege: il processo della dimostrazione matematica ed l’argomentazione in linguaggio naturale.
Tracce del metodo logico sono rintracciabili anche in Parmenide, Zenone e Platone ma opera soprattutto nel linguaggio matematico, mentre quella aristotelica si impegna maggiormente nella dimostrazione.
La L. aristotelica è una logica dei termini centrata sul sillogismo. Nel sillogismo da due premesse si ricava necessariamente una conclusione. In termini moderni il sillogismo può riflettere la proprietà transitiva dell’inclusione nella teoria degli insiemi o di implicazione tra proposizioni.
Assumono inoltre forma moderna i principi con i quali si organizza la gestione formale della negazione, dell’essere e della verità, ovvero il principio di non contraddizione, il terzo escluso, il sillogismo, la verità per corrispondenza.
La logica delle proposizioni moderna considera una proposizione un’asserzione a cui si può associare un valore di verità: vero o falso. Poi si considerano i proposizioni composte costituite da proposizioni semplici unite da connettivi e se ne analizza il valore di verità. E’ possibile costruire “tavole di verità” per congiunzioni, disgiunzioni e negazioni e queste non sono da in alcun modo problematiche.
Qualche problema invece può essere causato dall’implicazione materiale “se A allora B”, perché nell’uso che possiamo farne comunemente ci aspettiamo un nesso argomentativo tra A e B, mentre questo può venir meno se ci occupiamo solo dei valori di verità.
La proposizione “ se due è pari allora la luna è un satellite” seppur priva di nesso argomentativi, risulta comunque vera. Una maniera più corretta per trattare il “se .. allora…” è l dimostrazione ovvero l’implicazione formale  A I----- B.
Ciò detto in logica la dimostrazione è una sequenza di formule e frasi che si conclude con la tesi e ciascuna delle asserzioni fatte o è una premessa A1,A2,,, o si può ottenere da una tecnica inferenziale lecita (che trasforma verità in verità) dalle premesse (Modus Ponens) Se A è vera e A implica B è vera, allora B è vera. Il Modus Tollens parte invece da una negazione di B e se A implica B allora non A è vera.
Vediamo quali sono le differenze sostanziali tra la matematica antica e quella moderna.
Nella logica antica coincideva il dimostrare che la somma degli angoli interni del triangolo è 180 (va fatta una volta sola) e dire che tutti i triangoli hanno angoli interni la cui somma è 180 (va fatta infinite volte).
La correttezza vuol dire che “tutto ciò che è dimostrato è vero” e questo, attraverso il MP non ci crea alcuna difficoltà.
La completezza dice invece che “ tutto ciò che è vero è dimostrabile” e questo invece ci causa diversi problemi.
Gli antichi non si ponevano questo tipo di problema, ecco perché si ostinavano a ricercare una dimostrazione al V postulato di Euclide che oggettivo, soprattutto per le conclusioni oggettive che ne derivavano, ma non era del tutto evidente o empirico.
Quindi verità e dimostrabilità potevano risultare coincidenti nel momento in cui si utilizzavano dimostrazioni costruttive, ma non quando invece si usavano quelle di tipo non costruttivo. Bisognava pertanto associare alla correttezza della dimostrazione costruttiva, la completezza della deduzione logica per la quale ciò che non era dimostrabile, o meglio la cui costruzione portava a contraddizioni, doveva essere falso.
Altra diversità è collegata all’interpretazione semantica che della logica che la logica moderna vede nella teoria degli insiemi.

Nella logica moderna è possibile creare una corrispondenza tra le proprietà e la teoria degli insiemi attraverso l’intensione e l’estensione. (x soddisfa una proprietà p è intensione – x appartime all’insieme delle x che soddisfano p è estensione).
In tal maniera può operare la tassonomia zoologica.
L’albero può essere costituito da insiemi di animali e sottoinsiemi di tali animali che sono le razze, con le relative relazioni di inclusione. Lo stesso albero può essere caratterizzato dalle “proprietà” che caratterizzano le razze e la relazione di inclusione è sostituita dall’ereditarietà di tali proprietà.
Questo schema tassonomico appare in Aristotele, nella relazione tra genere e specie, ma la differenza tra la sua logica e quella matematica è che la prima è solo intenzionale, ed anche che non esitono definizioni equivalenti, in quanto la definizione è unica e coincide con l’essere.

 

Il primo oggetto della ragione è il concetto, che è ricavabile direttamente dall’esperienza. Il metodo per ricavarlo è l’astrazione. Analogo procedimento di astrazione potrà poi venire applicato ai concetti stessi portandoci a concetti più generali e così via.
Nella classe gerarchica che ne risulta, la definizione di una specie avverrà con l’indicazione del genere e l’aggiunta della differenza specifica.
Per esempio “l’uomo è un animale razionale”, “animale è il genere e razionale è la specie.
L’aggiunta di sempre nuove caratteristiche ci fa passare a specie sempre più ristrette.
Sulla teoria dei concetti si basano le 2 parti + celebri della logica aristotelica: teoria dei giudizi e dei sillogismi.
Il giudizio viene studiato dalla logica in quanto proposizione. Essa può risultare semplice o composta, secondo che sia scomponibile o non in altre proposizioni. Le parti di una proposizione semplice, cioè i termini, sono di due tipi: nomi e verbi.

  • ha sviluppato a fondo l’analisi delle proposizioni classificandole da tre punti di vista: qualitativo (negative affermative), quantitativo (universali particolari) emodale (assertorie – problematiche – apodittiche).

La teoria delle proposizione funge da premessa per la teoria dei sillogismi.
Va detto che la sillogistica aristotelica fu una creazione logica destinata a rimanere l’unica formula di logica conosciuta fino alla seconda metà del XIX secolo.
Il sillogismo non porta alla conquista di alcuna nuova verità, perché esso sia corretto la conclusione non deve contenere nulla che non sia già contenuto nelle premesse. Ciò malgrado, secondo A. esso risulta uno strumento linguistico imprescindibile per la scienza.
E’ certo che A. deve aver meditato attentamente sui processi dimostrativi della matematica nell’elaborare le regole della logica. Pur non essendo un cultore specialistico ne di geometria ne di aritmetica, ha tuttavia saputo tracciare, a proposito del concetto di infinito, una via cui si atterranno per millenni tutti i matematici amanti del rigore. Questa consiste nel respingere il concetto di infinito in “atto” per ammettere solo quello di infinito in “potenza”.
Secondo A. nemmeno il continuo geometrico risulta concepibile come una somma di infiniti “elementi ultimi” o “punti monadi”, la sua infinità consiste solo nell’essere “divisibile in parti sempre ulteriormente divisibili”. Questa concezione aristotelica verrà abbandonata soltanto alla fine del XIX secolo con Cantor.


La scoperta degli irrazionali
E’ difficile far risalire la scoperta dell’incommensurabilità ed il contesto in cui questa accadde. E’ immaginabile che questa avvenne quando furono messi in relazione diagonale e lato di un quadrato, anche se nessun testo lo dimostra fino a Platone e Aristotele. Altre ipotesi riguardano la sezione aurea, il pentagono ecc. L’ipotesi più certa fa riferimento agli ultimi pitagorici quali Ippaso o Archita. Ci volle tanto tempo perché gli irrazionali erano trattati più come una stranezza che un caso geometrico specifico ed anche perché per poterli analizzare e riconoscere serviva una dimostrazione per assurdo e non una dimostrazione di tipo costruttivo visuale (positiva) quali si usarono a quel tempo (prima di Euclide non vi erano libri che trattavano la dimostrazione per assurdo).
Da notare inoltre che la dimostrazione esplicita di incommensurabilità (relativa a diagonale e lato del quadrato) fu probabilmente aggiunta in seguito agli elementi di Euclide.
Altre possibili cause che portarono alla scoperta furono la ricerca del massimo comune divisore tra due numeri con la tecnica delle sottrazioni successive.
A quel tempo molti ritenevano gli incommensurabili uno scanalo logico e la causa di una crisi di fondamenti che avrebbe portato alla teoria delle proporzioni di Eudosso, all’assiomatizzazione euclidea ed alla logica aristotelica. Da tener però presente che operare un’assiomatizzazione per superare i paradossi è un modo di agire che risale a questi ultimi secoli e non a quei tempi.
Tuttavia è opportuno citare un’altra ipotesi che fa risalire la scoperta ad un problema musicale. Il canone era un’asta divisa in 12 tasti su cui era posta una corda tesa. A seconda del tasto premuto si ottenevano consonanze diverse e la ricerca di alcune consonanze risultava difficoltosa se non impossibile. sul canone i tasti erano uguali mentre avrebbero dovuto rispettare una scala logaritmica.Questo problema si ascrive ai pitagorici, ma potrebbe essere stato importato dall’oriente dove strumenti a corda di questo tipo erano più comuni che non in Grecia. Bisognerà aspettare Eudosso, forse allievo di Archita, per riuscire ad operare con le proporzioni superando il problema del’incomm., che poi saranno contenuti nel V libro degli elementi di Euclide.
Mentre Euclide operava ingegnosamente per evitare  quanto più possibile di trattare gli incomm., per Aristotele questi erano un esempio canonico delle nuove forme del sapere teoretico, un essere non immediato, ma vero, dedotto dal ragionamento.
Fu proprio Aristotele, che riteneva pura sofisticheria i paradossi di Zenone a ridefinire il pensiero formale e quindi rimuovere tali paradossi, almeno per 2000 anni, oltre i quali i paradossi torneranno di piena attualità.
Aristotele introduceva l’anima attraverso cui commettere il mondo dei segni a quello reale.
Lo zero continua però a non essere ritenuto un numero, ancora Fibonacci nel Liber Abaci introducendo il sistema indo-arabo parla di 9 simboli + 1 e Leibniz parla di 15 complessioni (sottoinsiemi) possibili da 4 elementi. Solo con la nascita della matematica moderna lo zero diventerà numero e spartiacque tra il positivo ed il negativo, mentre la rappresentazione decimale integrerà continuo e discreto. Nella matematica numeri interi e parti si contrappongono al punto da usare due basi differenti, 5 per contare e 12 per il dividere. Rimangono invece fuori dall’aritmetica le “grandezze geometriche” perché eterogenee all’aritmetica.
Indubbiamente legata al teorema di Pitagora è la scoperta delle quantità irrazionali perché il più classico esempio di numero irrazionale è proprio il rapporto tra la diagonale ed il lato di un quadrato.
Non si conosce esattamente quando e come sia stata fatta tale scoperta, ma l’ipotesi più plausibile è quella secondo cui essa risalga a pitagorici posteriori e si collochi su una data imprecisata anteriore al 410 a.C.; altri studiosi la attribuiscono a Ipparco di Metaponto (circa ultimo quarto del V sec. a.C.), mentre altri la posticipano di mezzo secolo.
La dimostrazione pervenutaci è quella di Aristotele e fa riferimento alla distinzione tra numeri pari e numeri dispari. Siano d ed l la diagonale ed il lato di un quadrato e supponiamo che siano commensurabili, ossia che il loro rapporto d/l sia un numero razionale m/n, con m ed n numeri reali privi di fattori comuni. Per il teorema di Pitagora  si ha che     d2 = l2+l2    ossia  (d/l)2 = 2, ma d/l = m/n, per cui (m/n)2= 2, cioè   m2= 2n2. Pertanto m2 è pari e quindi m è pari. Se poniamo m = 2p si ha che  4p2 = 2n2  da cui otteniamo che anche n dovrebbe essere pari contro l’ipotesi che m ed n non avessero fattori in comune. Ne segue che l’ipotesi della commensurabilità tra diagonale e lato di un quadrato è falsa.
La stessa dimostrazione si può riportare per dimostrare l’irrazionalità di Ö3, Ö5, ecc. e sembra che di essa se ne servì, più tardi, un maestro di Platone, Teodoro di Cirene, per dimostrare l’assurdità di supporre razionali tutte le quantità del suddetto tipo fino a Ö17, ovviamente escludendo Ö4, Ö9, Ö16.


Eudosso di Cnido
 (408 - 355 a.C approssimativamente).

Nacque a Cnido, e giunse ad Atene circa all'epoca in cui l'Accademia veniva fondata; egli frequentò le lezioni di Platone ; anche se la sua povertà lo costringeva a vivere al Pireo, nei sobborghi di Atene, e a spostarsi avanti e indietro ogni giorno ( facendone così uno dei primi pendolari della storia). Più tardi viaggiò in Egitto e tornò alla nativa Cnido, sempre attento però alle scoperte della scienza e teso ad allargarne i confini. Particolarmente  interessato all'astronomia, egli formulò complesse spiegazioni dei moti lunari e planetari che conservarono la loro importanza fino  alla rivoluzione copernicana del sedicesimo secolo. Per nulla disposto ad accettare spiegazioni metafisiche, cercò sempre di sottoporre i fenomeni naturali all'osservazione e all'analisi della ragione.
I principali contributi di Eudosso alla scienza matematica sono due : la sua teoria delle proporzioni e il cosiddetto metodo di esaustione. La prima teoria permise di superare, in modo logicamente rigoroso, la difficoltà creata dalla scoperta pitagorica delle grandezze incommensurabili. Difficoltà che si manifestava particolarmente nei teoremi sui triangoli simili, inizialmente dimostrati in base all'assunto che due grandezze qualsiasi fossero sempre commensurabili. La scoperta delle grandezze incommensurabili aveva demolito, infatti, insieme a questo assunto le dimostrazioni di alcuni dei più importanti teoremi geometrici. Ebbe così origine ciò che talvolta viene chiamato lo " scandalo logico" della geometria greca: i matematici continuavano a essere convinti della verità di quei teoremi, ma non disponevano più di dimostrazioni valide a sostegno della loro convinzione. Fu Eudosso a trovare una via d'uscita. Con il presumibile sollievo di tutta la comunità scientifica dell'epoca, egli riuscì a sviluppare una corretta teoria delle proporzioni, che per l'essenziale è esposta nel Libro V degli Elementi di Euclide.
Il secondo importante contributo di Eudosso, il metodo di esaustione, trovò immediata applicazione nel calcolo di aree e volumi delle più complesse figure geometriche. La strategia generale di questo metodo consisteva nell'avvicinarsi a una figura irregolare con una successione di figure elementari note, ognuna delle quali forniva un'approssimazione migliore di quella precedente


Archimede di Siracusa
Alessandria per tutta l’età ellenistica rimase al centro degli studi matematici, ma il più grande matematico di quei tempi non era nato ad Alessandria, ma forse vi studiò sotto la guida dei discepoli di Euclide. Anche per lui sono scarse le informazioni, le uniche pervenuteci sono di Plutarco mentre descrive la vita del generale romano Marcello. Archimede morì a 75 anni durante la seconda guerra punica in cui inventò ingegnose macchine per contrastare la conquista romana. Studiò molto le macchine, ma attribuiva scarso valore ad esse, molto più alle teorie. Si ricordano in particolare le leve, che tratto nel trattato “Sull’equilibrio dei piani”. Come anche importante fu il celebre trattato “Sui galleggiamenti”. Archimede visse il periodo di transizione tra la numerazione erodianica e quella ionica. Nell’arenario Archimede affermava di essere in grado di scrivere per esteso un numero maggiore del numero dei granelli di sabbia richiesti per riempire l’universo.. nel far ciò fece riferimento alla possibilità enunciata da Aristarco nel 3 secolo a.c. che la terra si muovesse attorno al sole. La sua abilità di calcolo fu dimostrata quando riuscì a misurare, a partire da un esagono il perimetro di un poligono di 96 lati. Ottenne anche un’approssimazione di Õ migliore di quella degli egiziani e dei babilonesi. Il trattato che ebbe più a cuore fu “Sulla sfera e sul cilindro” dove dimostrava che il rapporto tra i volumi del cilindro e della sfera in esso contenuta = rapporto tra le rispettive aree, ovvero un rapporto di 3 a 2. fece incidere questo disegno sulla sua tomba. I matematici arabi dimostrarono che la formula per calcolare l’area di un triangolo qualsiasi era già nota ad Archimede prima che vivesse Erone, a cui fu attribuita.
“Il metodo” di Archimede risulta particolarmente importante perché qui descrive come sia riuscito a attenere importanti considerazioni meccaniche operando un sistema in cui metteva in equilibrio dei segmenti allo stesso modo di come si mettono dei pesi. Così facendo misurò l’area di un segmento di parabola. Allo stesso modo, attraverso sezioni circolari intorno ad un vertice misurò i volumi dei tre solidi di rotazione, ellissoide, paraboloide ed iperboloide. Questa meravigliosa opera fu recuperata solo nel 1906 attraverso un pergamena dove era stata cancellato il contenuto per riutilizzarla. Conteneva tutto il trattato sulla sfera e sul cilindro, sulle spirali, sui galleggiamenti e l’unica copia de il metodo


Apollonio di Perga
Apollonio insieme ad Euclide ed Archimede contibuì a quel periodo definito per la ricchezza dei risultati raggiunti (300-200) l’età aurea della matematica greca. Nacque a Perga (Asia minore) ma sembra che compì alcuni studi ad Alessandria e vi insegnò. Della numerosa produzione scientifica, solo due opere ci sono pervenute complete e tra queste la più importante è sicuramente le Coniche. Prima di Apollonio le coniche erano costruite sezionando tre tipi di coni circolari retti, e dimostrò che bastava prenderne solo uno e dava di tale cono la stessa definizione tutt’ora usata. I metodi che egli uso erano così moderni da essere considerati come una sorta di geometria analitica che anticipa di circa 1800 anni quella di Cartesio.
Eratostene
Aristotele enunciò un risultato probabilmente di Eudosso secondo cui la terra avesse un raggio di 40.000 miglia. Un calcolo migliore e più celebre fu quello di Eratostene che osservò l’effetto del solstizio il 23 giugno in un pozzo di Syene ed allo stesso tempo ad Alessandria che si trova allo stesso meridiano. Così calcolo la misura in circa 25.000 miglia.
Altro importante risultato di Eratostene fu il suo noto crivello, usato per isolare i numeri primi.

L’astronomo Ipparco di Nicea nella seconda metà del II secolo a.C. compilò una tavola trigonometrica che gli valse il titolo di padre della trigonometria. Sempre ad Ipparco si attribuì l’introduzione della misurazione degli angoli partendo dal cerchio di 360 gradi.


Gli “Elementi” di Euclide
Tolomeo I realizzò ad Alessandria d’Egitto (300 a.C) una scuola di nome “Museo”. Ad insegnare in questa scuola chiamò eminenti studiosi e tra questi Euclide (di Alessandria). Scarse sono le informazioni sulla sua vita, tranne che visse a lungo ed era di temperamento gentile. Oltre agli Elementi scrisse una dozzina di altri trattati su vari argomenti, ottica, astronomia, musica meccanica e un libro sulle sezioni di coniche. Alcuni di questi furono i più antichi trattati a noi pervenuti. Nell’ottica Euclide parla della teoria emissiva dell’occhio, e si oppone alla dottrina di Aristotele che sostiene che il raggio veniva ricevuto dall’oggetto.
Ad Euclide non viene attribuita alcuna scoperta, la sua capacità è stata quella di saper esporre argomenti molto complessi, e si comprende il grande successo degli “Elementi”.
Gli “Elementi “ erano un manuale introduttivo che abbracciava tutta la matematica elementare, ossia l’aritmetica, la geometria e l’algebra (in termini geometrici). Euclide attinse a piene mani dalle opere dei predecessori. Sono suddivisi in 13 capitoli di cui i primi 6 la geometria piana elementare, 3 la teoria dei numeri, 1 gli incommensurabili, 3 la geometria solida.
Il primo incomincia con un’elencazione di 23 definizioni, ove alcune non definiscono nulla, tranne altri termini che andrebbero anch’essi definiti, ovvero non vi è alcun elenco di termini indefiniti sui quali di possano definire gli altri elementi.
Dopo le definizioni vi sono 5 postulati e 5 nozioni comuni (assiomi). La distinzione che Euclide faceva tra assiomi e postulati ed era che i primi dovevano essere convincenti di per se stessi e sono verità comuni a tutte le scienze, mentre i secondi sono meno evidenti e non presuppongono l’assenso dell’alunno e riguardano solo la disciplina in questione. La maggior parte delle proposizione del I libro sono tutt’ora usate a scuola e attengono alla congruenza tra figure piane. Si conclude con la dimostrazione del teorema di Pitagora ed il suo reciproco (47 e 48). Tali dimostrazioni evitano di usare proporzioni al fine di evitare casi di incommensurabilità. Le proporzioni vengono trattate solo nel 5 libro e comunque grazie alla definizione data da Eudosso si evitavano magistralmente i casi irrazionali. Nel V libro notevole è l’importanza in relazione all’assiomatizzazione, si apre con proprietà equivalenti alle proprietà distributive, associative, <>.
Il libro IX la proposizione 20 dimostra  che i numeri primi sono infiniti.
Il libro X contiene 115 proposizioni che trattano i numeri irrazionali.
Gli elementi di Euclide furono tradotti più volte. Le copie pervenute a noi erano prima state tradotte in arabo e poi in latino. Solo attraverso il confronto di più traduzioni è stato possibile farsi un’idea del trattato originale. Nel 1482 fu stampata a Venezia la prima edizione.

Per la prima volta si usa il metodo Assiomatico-deduttivo anche se presenta talvolta degli squilibri dovuti all’eredità della filosofia pitagorica e platonica.
In generale non esistono distanze e questo sottolinea la natura non metrica degli elementi. Per euclide distanza significaa intervallo, spazio tra due punti. Non v’è traccia delle procedure di calcolo di aree che erano alla base degli studi dei babilonesi ed egiziani ed in vitruvio.
Il compasso in E. non è usato a scopo metrico. Non v’è distinzione tra area e superficie, tra volume e corpo. Infatti tratta come uguali o doppie figure che hanno uguale o doppia la superficie o il volume. Superfici e volumi non vengono mai misurati da formule, ma messi sempre in forma di rapporto.
Fondamentale negli E. è il passaggio da una geometria basata su costruzioni visuali e risultati evidenti verso una geometria basata su dimostrazioni a partire da postulati e procedure sintattiche.
Anche se però si notano i segni della tradizione perché ogni dimostrazione si basa su una figura, anche se questa non è indispensabile.
La storia della dimostrazione
Nelle culture preelleniche non ci sono testimonianze scritte della loro volontà di dimostrare un principio matematico, i babilonesi talvolta verificavano la correttezza di una divisione sostituendo il risultato, ma mai possiamo parlare di vere e proprie dimostrazioni.
Le prime dimostrazioni sono di tipo visuale e costruttivo, ovvero si ricorre spesso alla dissezione di aree che rende evidente ad esempio il teorema di Pitagora. Questo emerge anche dai primi tre postulati e teoremi di Eculide che sono puramente costruzioni. Si tratta di tracciamento di linee, ostensioni.
Ancora Aristotele nel parlare di queste costruzioni le fa discendere dal fatto che “l’esercizio del pensiero è un portare qualcosa dal potenziale all’attuale”.
Ma il limite di simili dimostrazioni è che funzionano solo nel caso di una matematica positiva e finita. Euclide per primo incomincia la trasformazione, dapprima descrivendo a parole la costruzione e poi scoprendo che la riduzione sintattica della costruzione aiutava ad evitare di trovare risultati falsi. Bisognerà però ricorrere alla dimostrazione per assurdo per trattare questioni riguardanti il concetto puramente negativo di infinito,perché non si può costruttivamente mostrare la negazione dell’esistenza, mentre si può mostrare la non esistenza di qualche costruzione.
Il teorema sull’incommensurabilità di lato e diagonale di un quadrato per poter essere dimostrato aveva bisogno di una riduzione ad assurdo e non attraverso una costruzione geometrica positiva, e quindi doveva essere accettato questo metodo dimostrativo. Questo potrebbe spiegare perché ci volle tanto tempo per giungere alla dimostrazione di tale teorema.
Una bella dimostrazione visuale del teorema di Pitagora fu trovata in un antico classico della matematica cinese, però questa dimostrazione visuale del teorema di Pitagora pecca del dover richiedere necessariamente la costruzione di quadrati  e non è affatto detto che, anche partendo dal postulare un quadrato al pari di come Euclide postulava il cerchio,  partendo da un punto , nello stesso spunto si chiuda il quadrato. C’è però da dire che se tale dimostrazione fosse stata accettata, non vi sarebbe stata la necessità di ricorrere ad altre dimostrazioni più complesse. Quindi l’accettare la costruzione del quadrato, sebbene evidente dal punto di vista intuitivo, era equivalente ad accettare il V postulato di Euclide. In geometrie non-euclidee infatti la costruzione del quadrato risulta impossibile. Questa scelta del V postulato dalla matematica grecia ci fa capire l’evoluzione del concetto di dimostrazione che andava emergendo.
Eppure la prima dimostrazione per assurdo, è antecedente ad Euclide, infatti può essere attribuita ad Archita che così dimostra l’infinità dello spazio. “chi trovasse l’estremità dello spazio potrebbe tendere la mano fuori dal confine individuato”.
Altro elemento di transizione del concetto di dimostrazione dalla matematica antica a quella euclidea è l’algebra geometrica collegata alla risoluzione di equazioni quadratiche. Già i babilonesi avevano mostrato la capacità di trattare simili equazioni anche se non disponendo dell’algebra di cui disponiamo noi, dovevano ricorrere ad un’algebra di tipo geometrico , ovvero capace di consentire di maneggiare aree attraverso costruzioni geometriche. Analoga può essere considerata la pratica pitagorica di maneggiare sassolini su tavole e rappresentare geometricamente i numeri.
Con la geometria algebrica Euclide dimostra nel II libro degli Elementi le relazioni algebriche del quadrato di binomio e la differenza di quadrati.
In maniera analoga sempre Euclide trova (o meglio descrive il metodo con cui trovare) la risolvente di equazioni di II grado nel caso in cui sia data la somma ed il prodotto delle incognite.
In logica formale è una sequenza ordinata di formule derivate dalla precedente tramite regole di inferenza. Al fine dimettere in relazione l’assioma con il teorema, che è la tesi da dimostrare.


L’algebra di Diofanto
A del terzo secolo a.c. in cui si parlò di età aurea, vi fu un declino e solo dal 250 al 350 d.C. vi fu un risveglio definito “l’età argentea”.
La matematica romana fu poco significativa e solo Vitruvio si occupo in maniera comunque elementare di calcolare aree. I grandi matematici di quel tempo furono il grande algebrista Diofanto e Pappo.
Poco si sa della vita di Diofanto, tranne l’età di 84 anni descritta da una leggenda di tipo matematico. La sua più importante opera fu l’”Arithmetica” (raccolta di problemi di algebra applicata) che a quel tempo voleva dire teoria dei numeri e non calcolo numerico. Sembra ispirarsi all’algebra dei babilonesi, a differenza che questi trattano le soluzioni di equazioni fino al terzo grado in maniera approssimata, mentre Diofanto tratta solo soluzioni esatte, sia determinate che indeterminate. In generale si ritiene che l’algebra possa essersi evoluta attraversando 3 stadi, quello retorico o primitivo in cui tutto viene scritto a parole, quello sincopato o intermedio, in cui vengono adottate alcune abbreviazioni e quello simbolico che usa le notazioni attuali. Allora Diofanto possiamo inserirlo nel secondo stadio. Egli era in grado di scrivere polinomi ad una incognita in maniera molto efficiente. Per quanto riguarda la notazione, possiamo dire che Diofanto può essere ritenuto il padre dell’algebra, non altrettanto se lo consideriamo dal punto di vista dei concetti. Qualcuno ha considerato l’Arithmetica di Diofanto il fiore più bello dell’algebra babilonese e questo anche perché non si capisce quanti dei problemi contenuti nella sua opera provengano dai babilonesi. Persino Fermat partì per formulare il suo grande teorema dal voler generalizzare un problema di Diofanto.

 

Aritmetica di Diofanto
 Diofanto di Alessandria, vissuto probabilmente tra il 150 ed il 250 d.C., viene spesso indicato come il “padre” dell’algebra, per via della sua opera più importante l' ”Arithmetica”, opera composta di tredici libri, di cui solo sei ci sono pervenuti. Il nesso tra aritmetica e algebra sembra non esserci dal nostro punto di vista, ma ricordiamoci che nell’antica Grecia il termine “aritmetica” indicava la teoria dei numeri e non il calcolo numerico e che , nell’opera citata, viene introdotto un metodo diverso da quelli allora precedentemente usati, metodo in cui non compaiono assolutamente procedimenti geometrici  mentre si adottano alcune abbreviazioni.
L’Arithmetica è in gran misura dedicata alla soluzione esatta di equazioni sia determinate che indeterminate; in essa si fa uso sistematico di abbreviazioni  per indicare potenze di numeri e per esprimere relazioni ed operazioni. Un’incognita viene indicata con un simbolo (che deriva dalla parola arithmos), il quadrato di tale incognita come Dg, il cubo come Kg, la quarta potenza (detta quadrato-quadrato) come DDg, la quinta potenza come DKg, la sesta potenza (cubo-cubo) come KgK.
Diofanto conosceva sicuramente le nostre “proprietà delle potenze” ed usava termini specifici per indicare i reciproci delle prime sei potenze dell’incognita; i coefficienti numerici veniva scritti dopo i simboli indicanti le potenze alle quali erano associati, l’addizione veniva rappresentata da una giustapposizione dei simboli indicanti i termini, mentre la sottrazione da una lettera posta davanti ai termini da sottrarre. Con queste semplici regole Diofanto riusciva a scrivere polinomi in una forma molto coincisa, simile alla nostra. Ad esempio l’espressione  2x4 + 5x3 – 3x2 –1 poteva essere scritta come  QQ2 C5 M Q3 u1, dove si è indicato con Q il quadrato, con C il cubo, con M il meno e con u l’unità.
La differenza sostanziale tra la notazione diofantea e la notazione algebrica moderna sta nella mancanza di simboli specifici per esprimere relazioni ed operazioni, oltre che nell’assenza della notazione esponenziale. Tali elementi saranno introdotti durante il periodo compreso tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVII secolo.

 

Altro matematico importante durante il regno di Diocleziano fu Pappo d’Alessandria che verso il 320 compose la “Collezione” che contiene un’importante documentazione storica sulla matematica greca. Originariamente comprendeva 8 libri, ma il 1 e parte del secondo sono andati perduti.

Alessandria fu la patria di un altro matematico Proclo (410-485), anche se poi si trasferì ad Atene per condurre la scuola neoplatonica. Era più filosofo che matematico, ed importante è il suo “Commento al primo libro degli elementi di Euclide”, poiché costruito su testi di Eudemo e Pappo, purtroppo perduti. Nel 476 finisce l’impero romano e si trovò in difficoltà Boezio (480-476) poiché discendeva da famiglia patrizia. Compose molti manuali: il manuale di Aritmetica, Geometria, Astronomia, Musica. Fu imprigionato e condannato e qui scrisse la sua opera più importante “De consolatione philosophiae”. Con Boiezio e Semplicio termina la matematica in Europa.


Gli arabi – trasmissoine del pensiero greco
Per incominciare a parlare di cultura araba dobbiamo attendere il profeta Maometto  attorno al 600 ed alle successive conquiste che interessarono tutto il medio oriente, fino al 750 quando lo spirito bellicoso si calmò e il mondo arabo si spaccò tra quello occidentale del Marocco e quello orientale con capitale a Bagdad, che sarebbe diventata la capitale degli studi matematici. In tale periodo fu portata dall’india un’opera di contenuto astronomico e matematico la Sindhind. A partire da questo momento notevole fu lo stimolo con cui gli arabi assorbirono il sapere dei popoli vicini, ma nessuna nuova conquista matematica fu fatta.
Bisognerà attendere quasi un secolo per assistere al risveglio culturale arabo, grazie a grandi protettori che furono fatti venire dalla mesopotamia, dalla Siria, dall’Iran molti scienziati, a fondare “la casa del sapere”, ovvero una nuova Alessandria d’Egitto.
. Si racconta che ad Al-mamud fosse venuto in sogno Aristotele e che in conseguenza di questo abbia ordinato di tradurre tutti i testi greci , e tra questi l’Almagesto, gli elementi di Euclide. Fra i membri della casa del sapere vi era il matematico e astronomo Al-khuwarizmi. Fu proprio lui a esporre in maniera completa il sistema di numerazione indiano. La lui derivano i termini algoritmi e algebra (al-jabr). A questo matematico spetta più che a Diofanto il titolo di padre dell’algebra, diede un’esposizione dettagliata di tutte le possibili equazioni di 2° grado. Si pensa che lo studio dell’algebra fu stimolato dalla complessa natura dei calcoli delle eredità. Nel IX secolo vi fu un altro importante matematico Thabit che fondò una scuola di traduttori specialmente dal greco. Ad egli dobbiamo la sopravvivenza di opere di Euclide, Archimede, Apollonio e Tolomeo.
Gli arabi erano notevolmente attratti dall’algebra e la trigonometria piuttosto che dalla geometria, anche se profondo fascino emanava la dimostrazione del V postulato di Euclide. Dal 1100 la matematica araba incominciò il suo declino.


Il metodo di esaustione
Seppur Eudosso avesse abilmente aggirato il problema di trattare gli incommensurabili attraverso le proporzioni, rimaneva quello di confrontare configurazioni rettilinee e curvilinee e forse fu Eudosso e cimentarsi in questo. L’idea parte dal cercare di iscrivere e circoscrivere figure rettilinee attorno alla curva e moltiplicare indefinitamente il numero dei lati riducendo quanto di vuole l’errore. Non riuscivano però a terminare il ragionamento perché non conoscevano i limiti, ma potevano ipotizzare delle soluzioni e dimostrarle per assurdo.
Bisogna incominciare dall’assioma di Eudosso, meglio noto come di Archimede secondo cui date due grandezze aventi rapporto (cioè nessuno dei quali sia zero) è possibile trovare un multiplo dell’una che superi l’altra grandezza. Da questo deriva,mediante una riductio ad absurdum la proposizione secondo cui se da una qualsiasi grandezza si sottrae non meno della metà e poi lo stesso dal resto e così di seguito, il resto rimarrà più piccolo di una grandezza dello stesso tipo precedentemente assegnata.
Con questa proposizione si può dimostrare che il rapporto tra l’area di due cerchi è uguale al rapporto dei quadrati dei diametri. Il termine di esaustione è decisamente moderno.


Il metodo dell’equilibrio di Archimede.
Della breve opera Il Metodo di Archimede  (287-212 a.C.) si erano perdute le tracce a partire dai primi secoli dell’Era cristiana, fino alla sua riscoperta avvenuta nel 1906. Dall’insieme dell’opera e in particolare dall’Introduzione si ricava il metodo meccanico: esso risulta dalla felice combinazione di ragionamenti meccanici  e di ragionamenti infinitesimali, ed è utile tanto per la determinazione di centri di gravità che per quadrature e le cubature delle figure piane.
Nei suoi tratti essenziali lo schema del nuovo metodo è il seguente: ogni figura si considera composta di elementi infinitesimali, che sono linee rette nel caso di figure piane e superfici nel caso di solidi. In ogni figura il numero degli elementi è infinito, ma Archimede dice soltanto che ogni figura è composta o riempita da tutti i suoi elementi. Il risultato di ciò che appariva riducibile, nel linguaggio moderno, ad una integrazione, e cioè il calcolo di un’area o di un volume, veniva ricondotto all’esistenza di un punto di equilibrio della massa geometrica. Se si ripensa, ad esempio, al calcolo archimedeo dell’area di un segmento parabolico, tutto qui viene ricondotto all’esistenza di un centro di equilibrio tra un triangolo e detto segmento trasferito in una regione opportuna del piano. Questo centro di gravità, capace di annullare, se sostenuto, gli sbilanciamenti provocati dal peso, esercita il suo potere di equilibrio sulla infinità dei segmenti rettilinei di cui si può immaginare “composto” rispettivamente il triangolo ed il segmento parabolico. Per questa funzione equilibratrice procede, da un punto, il bilanciamento di due aree, e, in ultima istanza, la scoperta di una perfetta armonia di rapporto tra l’area del segmento parabolico e l’area del triangolo inscritto: l’uno è i 4/3 dell’altro.
Infatti Archimede immaginava le aree del segmento parabolico ABC e del triangolo AFC, con FC tangente alla parabola in C, composte da una infinità di parallele al diametro QB della parabola.

        Essendo KC = HK, un segmento rettilineo uguale a OP posto in H farebbe equilibrio al segmento OM , essendo K il fulcro, da cui l’area della parabola, posta in H, farà equilibrio al triangolo il cui centro di gravità è posto sulla linea KC ad un terzo della distanza da K a C. Pertanto l’area del segmento parabolico è 1/3 dell’area del triangolo AFC o 4/3 dell’area del triangolo ABC.


Il Medio Evo
Un mondo di segni più ricco comparirà nel Medio Evo, introducendo la notazione indo-araba. Su questa base si diffonderà la nuova matematica che possiamo dire “cartesiana” il cui baricentro sarà quella straordinaria costruzione che chiamiamo numero reale e la connessa centralità del continuo.
La filosofia platonica e ancor più quella aristotelica erano rimaste infatti la base del sapere umano per circa 2000 anni e questo ci deve far riflettere su quanto è stato poderoso il suo superamento, una catastrofe culturale.
Nei greci il divenire era una contraddizione e quindi la fisica, che studiava il mutamento, restava così bloccata sulle coppie aristoteliche atto/potenza.
Due temi erano caratterizzanti del pensiero aristotelico: la necessità di una sostanza che caratterizzasse il “permanere” e la necessità di una serie di coppie polari di “contrari”sulla cui trama si disegnasse il divenire. L’opposizione tra divenire ed essere diventa opposizione tra moto e stasi. Per poter arrivare a concepire la stasi come una forma particolare di moto era necessaria una  matematica che fosse padrona dello zero, in cui lo zero fosse un numero come tutti gli altri e quindi una filosofia che coniugasse il non essere se non come un modo dell’essere.
Ricordiamo che la matematica contemplava solo il rapporto tra grandezze omogenee, e quindi mai tra distanza e tempo. Il moto non era definito una grandezza, in quanto non poteva essere confrontata in caso di moto rettilineo e circolare, quindi il problema era il trattamento “sintattico” di uguaglianza.
Per poter trattare il moto la monade doveva essere unità di misura divisibile ed ogni grandezza fisica soggetta al “più” ed al “meno”. Quindi bisognava intendere la grandezza connessa alla misura e quindi un numero e non una sostanza, una qualità, una categoria.
La coppiamoto/stasi in Aristotele era un’opposizione inconciliabile. Bisognava spostare i concetti fisici dalle categorie e opposizioni aristoteliche alle progressive caratterizzazioni come grandezza e quantità.
Nel medio evo confluiscono tradizioni e culture diverse, quindi cambia l’approccio alla conoscenza. Una frase dei primi secoli cita “tutto Tu disponesti in misura, numero e peso” da l’idea del progressivo sviluppo delle scienze.
I grandi risultati a cui si era pervenuti con la matematica greca erano stati dimenticati e tutto viveva in una specie di letargo, forse dovuto all’inapplicabilità pratica di quella matematica.
Per molti secoli, dopo la caduta dell’impero romano, dei resti della grande matematica greca rimane molto poco. Qualcosa riprodotto grossolanamente da Boezio, MA SOLO VERSO LA FINE DEL Medio Evo, soprattutto sotto l’influenza dei matematici arabi, incomincia a ricomparire qualche frammento della matematica greca, la cui comprensione dovrà attendere ancora alcuni secoli.
Il cambiamento radicale a cui si assistette verso la fine del ME fu dovuto sia all’influenza araba, grandi invenzioni quali la bussola, la carta, la notazione numerica indo-araba contenete anche lo zero e algoritmi numerici al posto dell’abaco e la nascita dell’algebra.
Nal punto di vista matematico i risultati più evidenti dell’influeza araba sono:
1 – passaggio alla notazione indo-araba e quindi cambio dell’idea di frazione intese prima come numero di parti, scritte come numeratore e denominatore separati da una linea che gli algoritmi trasformavano come singolo numero,il risultato della divisione. Gli stessi interi diventeranno particolari frazioni. Inoltre il passare dall’abaco agli algoritmi favorisce il calcolo mnemonico.
2 – introduzione, sempre con al-khwarizmi di tecniche algebriche e l’uso di simboli speciali per denotare i diversi fattori delle equazioni da risolvere. Le risoluzioni, però rimangono affidate all’interpretazione geometrica e quindi subiscono le conseguenti limitazioni di generalità, da cui discende che l’equazione di II grado richiede procedure differenti a seconda del segno dei coefficienti.

I cambiamenti economici provocano la nascita di nuovi ceti intellettuali e tra questi i mercanti italiani che decretano il trionfo degli algoritmi numerici sull’abaco.
Anche l’uso del volgare piuttosto che quello latino favoriva una maggior diffusione delle informazioni e preludeva alla fine della Scolastica. In questo contesto emerge la necessità di un linguaggio algebrico come fondamento linguistico delle scienze.
La storia culturale del ME è dominato dal cristianesimo e questo provoca nella matematica un regresso di 3000 anni, ma crea l’ambienti ideale per il suo sviluppo. Proprio nel cristianesimo è insito la necessità di un infinito “attuale” e quindi una profonda frattura con l’impianto aristotelico “finitista”.
Anche nel cristianesimo emerge il concetto di verità intesa come cammino, progresso e continua ricerca che sarà il tema di fondo della cultura moderna.
Anche la finitezza dell’universo viene messa in discussione e Nicola Cusano  lo definisce Indeterminato mentre per Giordano Bruno infinito ed illimitato. In tale contesto emerge sempre più netta la distinzione tra infinito attuale “tutto massimo” in analizzabile ed inconfrontabile con quello transfinito, che cioè eccede ogni finito all’interno del quale si possono realizzare confronti tra infiniti.
Il Cristianesimo apre una nuova strada quando rivendica l’assurdità dei suoi dogmi come segno di una profonda verità, mettendo quindi in crisi i principi della contraddittorietà, come anche delle opposizioni aristoteliche (credibile, irreale e certo impossibile?).
E’ con Sant’Anselmo che l’infinito attuale e potenziale si riunisconoin Dio.
In termini aristotelici coincidono l’infinito attuale e la negazione dell’infinito potenziale “c’è sempre qualcosa di più grande e non c’è niente di più grande”.
Da considerazioni di questo tipo nasce la prova ontologica dell’esistenza di dio. Si parte dall’assunto che Dio è “ciò di cui non può pensarsi alcuna cosa maggiore” e questa asserzione è presente nell’intelletto anche di chi non è credente, che nega l’esistenza di dio. Ma ciò che esiste solo nell’intelletto è certamente inferiore di ciò che esiste anche realmente e quindi la non esistenza di Dio sarebbe contraddittoria con la stessa idea di Dio.
Questo argomento verrà precisato da Cartesio e leibniz dirà che questo garantisce la sola “possibilità”di dio. L’argomento uscirà di scena con Kant. E’ il preludio ad una natta separazione tra esistenza ed essenza, ovvero tra oggettività, verità e decidibilità, certezza.
Non è casuale che gli stimoli per la nascita della scienza moderna appaiono nel rifiorire del platonismo nel XV secolo, come reazione all’aristotelismo scolastico: in Cusano l’idea della contraddittorietà dall’infinito non è una ragione per rifiutarlo. Rimane però il rifiuto dell’infinito attuale da cui discende che se il punto non ha grandezza, la retta non può essere ridotta a punti.
L’infinito attuale diventa necessità nel rapporto tra fede e ragione, in tal senso può essere vista l’analogia tra poligono e cerchi, tra conoscenza umana e assoluta. La dove il pensiero graco si era fermati davanti al limite infinito, il pensiero cristiano ne fa la sua ragion d’essere e nella riflessione sull’infinito ne fa la traccia della natura divina dell’anima.
Il nuovo ruolo della grandezza continua appare nella sostituzione del >< all’opposizione essere/non-essere tipica delle coppie aristoteliche.
Interessante è anche l’evoluzione del concetto di spazio. La tradizione aristotelica era basata su un cosmo finito ed in cui non esisteva il vuoto ed il luogo di un oggetto era la superficie interna del corpo contenente.. Tale luogo non aveva caratteri quantitativi.
Nella tradizione ebraica ed islamica invece il luogo era attributo divino, questa concezione presuppone alla nascita del concetto di spazio.
Nel XIII e XIV secolo si incomincerà ad identificare il luogo attraverso la distanza da particolari punti fissi (Tommaso d’aquino e Guglielmo di Ockham).
La tesi dell’onnipotenza divina, nei limiti del principio di non contraddizione, portava ad un’accresciuta libertà dell’immaginazione che si tradurrà nella fisica moderna di stevin e Galileo, fino alla meccanica quantistica.
Ovvero realizzare modelli geometrici e meccanici con gli occhi della mente nei soli limiti del principio di non contraddittorietà. Un brillante esempio è quello dovuto a Stevin del teorema dell’accelerazione lungo un piano inclinato. (poiché la massa dei due lati di catena è proporzionale alla lunghezza dei lati e quindi inversamente proporzionale al seno dell’angolo alla base, la parte del peso effettiva sarà proporzionale al seno dell’angolo alla base. E se vogliamo anche il metodo di Archimede può essere un mirabile esempio, anche se in quel tempo non esisteva l’artificialità dell’esperimento scientifico e la struttura quasi fisica del mondo mentale.
La fine del ME apre così una nuova fase di riflessione sull’infinito, anche se l’impianto resta aristotelico con il rifiuto dell’infinito attuale. Il punto, le linee e le superfici rimangono solo “terminale” e quindi non grandezze e quindi non si considerava il continuo come composto di punti.
Se lo fosse stato si sarebbero avuti molti paradossi, e tra questi la rota Aristotelis in cui due punti allineati di una ruota, nel rotolare descrivono due segmenti uguali anche le circonferenze su cui si muovono sono di lunghezza diversa.
A questi paradossi è strettamente legato il discorso che una collezione potesse essere contenuta propriamente in un’altra e nello stesso tempo in corrispondenza biunivoca. La compatibilità tra tutto/parte faceva dissolvere i paradossi.
Il problema del continuo appare nel ME sotto le insegne della nascente fisica moderna, in quanto nessuno negava la natura continua della materia. Un passo in avanti sarà fatto dagli studiosi della Merton College, che introdurranno la velocità istantanea capace di mutare per aggiunta o sottrazione di “gradi”. Appare quindi ancora una concezione tipicamente discreta.
In Aristolele qualità e quantità erano radicalmente separate e le quantità erano riferite al solo spazio o tempo. Questo ancora in San Tommaso. Se due corpi si scambiavano calore ciò era dovuto al perdere di precenti attributi e l’acquisto di nuovi.
Nel XIV secolo cominciò a presentarsi una possibilità alternativa secondo cui in tali processi ci fosse perdita e guadagno di calore, quasi fosse una grandezza.
Faceva lla sua comparsa il teorema Mertoniano in cui lo spazio percorso da un moto uniformemente accelerato era uguale a quello percorso con una velocità media.
Queste variazione furono persino rappresentate su diagrammi similia quelli successivamente introdotti dalla geometria analitica (Nicola Oresme XIV).
A testimoniare la diffidenza verso lo zero dei fisici, per indicare un oggetto fermo si dice “non gradus”, mentre già nel XIII secolo gli algebristi avevano affermato l’uso dello zero.

Ancora sul Medio Evo
Un mondo di segni più ricco comparirà nel Medio Evo, introducendo la notazione indo-araba. Su questa base si diffonderà la nuova matematica che possiamo dire “cartesiana” il cui baricentro sarà quella straordinaria costruzione che chiamiamo numero reale e la connessa centralità del continuo.
La filosofia platonica e ancor più quella aristotelica erano rimaste infatti la base del sapere umano per circa 2000 anni e questo ci deve far riflettere su quanto è stato poderoso il suo superamento, una catastrofe culturale.
Nei greci il divenire era una contraddizione e quindi la fisica, che studiava il mutamento, restava così bloccata sulle coppie aristoteliche atto/potenza.
Due temi erano caratterizzanti del pensiero aristotelico: la necessità di una sostanza che caratterizzasse il “permanere” e la necessità di una serie di coppie polari di “contrari”sulla cui trama si disegnasse il divenire. L’opposizione tra divenire ed essere diventa opposizione tra moto e stasi. Per poter arrivare a concepire la stasi come una forma particolare di moto era necessaria una  matematica che fosse padrona dello zero, in cui lo zero fosse un numero come tutti gli altri e quindi una filosofia che coniugasse il non essere se non come un modo dell’essere.
Ricordiamo che la matematica contemplava solo il rapporto tra grandezze omogenee, e quindi mai tra distanza e tempo. Il moto non era definito una grandezza, in quanto non poteva essere confrontata in caso di moto rettilineo e circolare, quindi il problema era il trattamento “sintattico” di uguaglianza.
Per poter trattare il moto la monade doveva essere unità di misura divisibile ed ogni grandezza fisica soggetta al “più” ed al “meno”. Quindi bisognava intendere la grandezza connessa alla misura e quindi un numero e non una sostanza, una qualità, una categoria.
La coppiamoto/stasi in Aristotele era un’opposizione inconciliabile. Bisognava spostare i concetti fisici dalle categorie e opposizioni aristoteliche alle progressive caratterizzazioni come grandezza e quantità.
Nel medio evo confluiscono tradizioni e culture diverse, quindi cambia l’approccio alla conoscenza. Una frase dei primi secoli cita “tutto Tu disponesti in misura, numero e peso” da l’idea del progressivo sviluppo delle scienze.
I grandi risultati a cui si era pervenuti con la matematica greca erano stati dimenticati e tutto viveva in una specie di letargo, forse dovuto all’inapplicabilità pratica di quella matematica.
Per molti secoli, dopo la caduta dell’impero romano, dei resti della grande matematica greca rimane molto poco. Qualcosa riprodotto grossolanamente da Boezio, MA SOLO VERSO LA FINE DEL Medio Evo, soprattutto sotto l’influenza dei matematici arabi, incomincia a ricomparire qualche frammento della matematica greca, la cui comprensione dovrà attendere ancora alcuni secoli.
Il cambiamento radicale a cui si assistette verso la fine del ME fu dovuto sia all’influenza araba, grandi invenzioni quali la bussola, la carta, la notazione numerica indo-araba contenete anche lo zero e algoritmi numerici al posto dell’abaco e la nascita dell’algebra.
Nal punto di vista matematico i risultati più evidenti dell’influeza araba sono:
1 – passaggio alla notazione indo-araba e quindi cambio dell’idea di frazione intese prima come numero di parti, scritte come numeratore e denominatore separati da una linea che gli algoritmi trasformavano come singolo numero,il risultato della divisione. Gli stessi interi diventeranno particolari frazioni. Inoltre il passare dall’abaco agli algoritmi favorisce il calcolo mnemonico.
2 – introduzione, sempre con al-khwarizmi di tecniche algebriche e l’uso di simboli speciali per denotare i diversi fattori delle equazioni da risolvere. Le risoluzioni, però rimangono affidate all’interpretazione geometrica e quindi subiscono le conseguenti limitazioni di generalità, da cui discende che l’equazione di II grado richiede procedure differenti a seconda del segno dei coefficienti.

I cambiamenti economici provocano la nascita di nuovi ceti intellettuali e tra questi i mercanti italiani che decretano il trionfo degli algoritmi numerici sull’abaco.
Anche l’uso del volgare piuttosto che quello latino favoriva una maggior diffusione delle informazioni e preludeva alla fine della Scolastica. In questo contesto emerge la necessità di un linguaggio algebrico come fondamento linguistico delle scienze.
La storia culturale del ME è dominato dal cristianesimo e questo provoca nella matematica un regresso di 3000 anni, ma crea l’ambienti ideale per il suo sviluppo. Proprio nel cristianesimo è insito la necessità di un infinito “attuale” e quindi una profonda frattura con l’impianto aristotelico “finitista”.
Anche nel cristianesimo emerge il concetto di verità intesa come cammino, progresso e continua ricerca che sarà il tema di fondo della cultura moderna.
Anche la finitezza dell’universo viene messa in discussione e Nicola Cusano  lo definisce Indeterminato mentre per Giordano Bruno infinito ed illimitato. In tale contesto emerge sempre più netta la distinzione tra infinito attuale “tutto massimo” in analizzabile ed inconfrontabile con quello transfinito, che cioè eccede ogni finito all’interno del quale si possono realizzare confronti tra infiniti.
Il Cristianesimo apre una nuova strada quando rivendica l’assurdità dei suoi dogmi come segno di una profonda verità, mettendo quindi in crisi i principi della contraddittorietà, come anche delle opposizioni aristoteliche (credibile, irreale e certo impossibile?).
E’ con Sant’Anselmo che l’infinito attuale e potenziale si riuniscono in Dio.
In termini aristotelici coincidono l’infinito attuale e la negazione dell’infinito potenziale “c’è sempre qualcosa di più grande e non c’è niente di più grande”.
Da considerazioni di questo tipo nasce la prova ontologica dell’esistenza di dio. Si parte dall’assunto che Dio è “ciò di cui non può pensarsi alcuna cosa maggiore” e questa asserzione è presente nell’intelletto anche di chi non è credente, che nega l’esistenza di dio. Ma ciò che esiste solo nell’intelletto è certamente inferiore di ciò che esiste anche realmente e quindi la non esistenza di Dio sarebbe contraddittoria con la stessa idea di Dio.
Questo argomento verrà precisato da Cartesio e leibniz dirà che questo garantisce la sola “possibilità”di dio. L’argomento uscirà di scena con Kant. E’ il preludio ad una natta separazione tra esistenza ed essenza, ovvero tra oggettività, verità e decidibilità, certezza.
Non è casuale che gli stimoli per la nascita della scienza moderna appaiono nel rifiorire del platonismo nel XV secolo, come reazione all’aristotelismo scolastico: in Cusano l’idea della contraddittorietà dall’infinito non è una ragione per rifiutarlo. Rimane però il rifiuto dell’infinito attuale da cui discende che se il punto non ha grandezza, la retta non può essere ridotta a punti.
L’infinito attuale diventa necessità nel rapporto tra fede e ragione, in tal senso può essere vista l’analogia tra poligono e cerchi, tra conoscenza umana e assoluta. La dove il pensiero graco si era fermati davanti al limite infinito, il pensiero cristiano ne fa la sua ragion d’essere e nella riflessione sull’infinito ne fa la traccia della natura divina dell’anima.
Il nuovo ruolo della grandezza continua appare nella sostituzione del >< all’opposizione essere/non-essere tipica delle coppie aristoteliche.
Interessante è anche l’evoluzione del concetto di spazio. La tradizione aristotelica era basata su un cosmo finito ed in cui non esisteva il vuoto ed il luogo di un oggetto era la superficie interna del corpo contenente.. Tale luogo non aveva caratteri quantitativi.
Nella tradizione ebraica ed islamica invece il luogo era attributo divino, questa concezione presuppone alla nascita del concetto di spazio.
Nel XIII e XIV secolo si incomincerà ad identificare il luogo attraverso la distanza da particolari punti fissi (Tommaso d’aquino e Guglielmo di Ockham).
La tesi dell’onnipotenza divina, nei limiti del principio di non contraddizione, portava ad un’accresciuta libertà dell’immaginazione che si tradurrà nella fisica moderna di stevin e Galileo, fino alla meccanica quantistica.
Ovvero realizzare modelli geometrici e meccanici con gli occhi della mente nei soli limiti del principio di non contraddittorietà. Un brillante esempio è quello dovuto a Stevin del teorema dell’accelerazione lungo un piano inclinato. (poiché la massa dei due lati di catena è proporzionale alla lunghezza dei lati e quindi inversamente proporzionale al seno dell’angolo alla base, la parte del peso effettiva sarà proporzionale al seno dell’angolo alla base. E se vogliamo anche il metodo di Archimede può essere un mirabile esempio, anche se in quel tempo non esisteva l’artificialità dell’esperimento scientifico e la struttura quasi fisica del mondo mentale.
La fine del ME apre così una nuova fase di riflessione sull’infinito, anche se l’impianto resta aristotelico con il rifiuto dell’infinito attuale. Il punto, le linee e le superfici rimangono solo “terminale” e quindi non grandezze e quindi non si considerava il continuo come composto di punti.
Se lo fosse stato si sarebbero avuti molti paradossi, e tra questi la rota Aristotelis in cui due punti allineati di una ruota, nel rotolare descrivono due segmenti uguali anche le circonferenze su cui si muovono sono di lunghezza diversa.
A questi paradossi è strettamente legato il discorso che una collezione potesse essere contenuta propriamente in un’altra e nello stesso tempo in corrispondenza biunivoca. La compatibilità tra tutto/parte faceva dissolvere i paradossi.
Il problema del continuo appare nel ME sotto le insegne della nascente fisica moderna, in quanto nessuno negava la natura continua della materia. Un passo in avanti sarà fatto dagli studiosi della Merton College, che introdurranno la velocità istantanea capace di mutare per aggiunta o sottrazione di “gradi”. Appare quindi ancora una concezione tipicamente discreta.
In Aristolele qualità e quantità erano radicalmente separate e le quantità erano riferite al solo spazio o tempo. Questo ancora in San Tommaso. Se due corpi si scambiavano calore ciò era dovuto al perdere di precedenti attributi e l’acquisto di nuovi.
Nel XIV secolo cominciò a presentarsi una possibilità alternativa secondo cui in tali processi ci fosse perdita e guadagno di calore, quasi fosse una grandezza.
Faceva la sua comparsa il teorema Mertoniano in cui lo spazio percorso da un moto uniformemente accelerato era uguale a quello percorso con una velocità media.
Queste variazione furono persino rappresentate su diagrammi simili a quelli successivamente introdotti dalla geometria analitica (Nicola Oresme XIV).
A testimoniare la diffidenza verso lo zero dei fisici, per indicare un oggetto fermo si dice “non gradus”, mentre già nel XIII secolo gli algebristi avevano affermato l’uso dello zero.


Il numero reale

Rispetto alla matematica greca, soprattutto diofantea, il numero diventa da un lato linguaggio di rappresentazione della realtà fisica nella forma della misura, dall’altro nella sua forma algebrica e simbolica diventa ente autonomo manipolabile attraverso regole sintattiche. Tende a svanire la frattura tra le diverse forme di grandezze tipiche della matematica greca (numeri, rapporti, grandezze geometriche). Ancora con Stevin si distinguono numeri aritmetici e geometrici..
Fu Jhon Napier ad introdurre la moderna notazione decimale con il punto separatore ed inventa i logaritmi. La trigonometria viene invece sviluppata da Mueller Regiomontanus. Nella metà del XVII la notazione decimale e le tecniche computazionali potevano dirsi ormai complete.
L’unità diventa un numero in quanto la parte è dello stesso materiale del tutto e lo zero diventa il “vero e naturale principio”,è l’analogo del punto geometrico. L’unità per gli antichi era principio del numero ed indivisibile, per i moderni era grandezza continua.


Cartesio, il metodo e le regole cartesiane
Le figure più eminenti della prima metà del ‘600 sono state senza dubbio René Descartes (Cartesio, 1596-1650) e Pierre de Fermat (1601-1665).
Nel celebre trattato “Discorso sul metodo per ragionare bene e cercare la verità nelle scienze” (1637), Cartesio annunciava il suo “programma” di ricerca filosofica: attraverso il dubbio sistematico si possono raggiungere le idee chiare e distinte da cui è possibile dedurre moltissime conclusioni valide. Applicando detto metodo alla scienza, si ottiene un universo costituito da materia in continuo movimento, e tale che ogni fenomeno può essere spiegato tramite le leggi della meccanica in termini di forze esercitate da parti in contatto di materia. Cose poi sconfessate da Newton.

Le quattro regole del metodo cartesiano, inaugurano un nuovo modo di intendere l’ufficio della filosofia e delle scienze.
Alle deduzioni sillogistiche che partivano da concetti astratti e ne ricavano conclusioni altrettanto astratte (che è il metodo privilegiato dalla scolastica) Cartesio oppone la concretezza dell’intuizione chiara e distinta e il principio dell’evidenza. Tutto l’impianto metodico acquista un andamento costruttivistico e non puramente logico-formale e verbalistico.
Le quattro regole del metodo le possiamo così riassumere:

  • Non accogliere mai nulla per vero che non conoscessi essere tale con evidenza
  • Dividere ogni problema per poter risolvere tante parti minori
  • Cominciare lo studio degli oggetti più semplici fino ad arrivare a quelli più complessi
  • Fare sempre enumerazioni complete e revisioni generali tanto da essere sicuri di non aver mai dimenticato nulla.

Dal punto di vista matematico, fondamentale fu per Cartesio il lungo e freddo inverno del 1619 trascorso a seguito dell’esercito bavarese: il matematico era solito rimanere a letto fino a metà mattinata per risolvere o formulare problemi matematici. Proprio in questo lasso di tempo Cartesio scopre la formula per i poliedri (oggi detta formula di Eulero), secondo cui la somma dei vertici e delle facce di un poliedro convesso è uguale al numero degli spigoli aumentato di 2. E, in una lettera del 1628 indirizzata ad un amico, vi è la regola per la costruzione delle radici di una qualsiasi equazione di terzo o quarto grado tramite l’equazione della parabola.        
Non è noto se nel 1628 Cartesio avesse già elaborato in modo completo la sua geometria analitica, ma sicuramente lo fece poco più tardi. Pare che la scrittura della GEOMETRIA fu dovuta all’aver verificato con quale facilità si potesse risolvere il problema di Pappo delle 3 o più rette. Infatti nel trattato La géométrie (una delle tre appendici al Discorso) sono contenuti tutti i principi della geometria analitica, anche se, è da precisare, la geometria cartesiana aveva come intento una “costruzione geometrica” (le prime righe del La géométrie sono: “Tutti i problemi della geometria si possono facilmente ridurre a tali termini, che in seguito per costruirli basta conoscere la lunghezza di alcune rette”) e non il ricondurre la geometria all’algebra.
Comunque Cartesio usava sistematicamente l’algebra simbolica e sviluppava la sua interpretazione geometrica dell’algebra, cosicché possiamo dire che egli da un lato voleva “liberare” la geometria dal ricorso a figure (tramite i procedimenti dell’algebra), e dall’altro dare un significato alle operazioni algebriche mediante un’interpretazione geometrica. Allora il procedimento seguito da Cartesio lo possiamo così sintetizzare: si parte da un problema geometrico, lo si traduce in linguaggio algebrico (equazione) e, dopo avere opportunamente semplificato l’equazione ad esso associata, si risolve tale equazione geometricamente. Questo è il metodo che Cartesio seguì nello studio del problema di Pappo del luogo geometrico relativo a tre o più rette, studio da cui nacque la classificazione dei problemi geometrici determinati.
Il formalismo algebrico raggiunse il suo massimo sviluppo con Cartesio. (usava correntemente =,+, - solo l’uguale era simile al simbolo di infinito). Usava le prime lettere dell’alfabeto per i parametri e le ultime per le incognite. Questi erano tutti concepiti come segmenti, anche x2 o x3. Questo gli permetteva di abbandonare il principio di omogeneità.
Descrive la maniera di risolvere un problema in tali termini:
si deve innanzitutto considerare il problema risolto, si devono dare nomi a tutte le linee coinvolte, note e non note. Poi senza fare alcuna differenza tra queste manipolarle fino ad ottenere una medesima quantità espressa in due modi (equazione)
Inoltre è da sottolineare che nell’opera più volte citata non si fa uso sistematico di coordinate ortogonali, ma si usano, indifferentemente, anche coordinate oblique; non troviamo alcuna formula per la distanza o per l’angolo formato da due rette, come non troviamo il grafico di alcuna curva “nuova” tracciato a partire dall’equazione. Delle coordinate negative Cartesio conosceva soltanto che erano orientate in senso inverso rispetto a quelle positive e il principio fondamentale della geometria analitica (quello secondo cui le equazioni indeterminate in due incognite corrispondono a luoghi geometrici – ovvero il luogo in cui si trova il punto è una superficie) compare soltanto nel secondo libro.
Risulta quindi chiaro quanto fosse lontana la concezione di considerazioni pratiche, che oggi noi abitualmente usiamo. La GEOMETRIA rappresentava ai suoi tempi il trionfo di una teoria priva di un’utilità pratica, come le Coniche di Apollonio.

Ciò nulla toglie all’importanza ed alla grandezza di questo meraviglioso trattato, ma serve a far comprendere la diversità “storica” dei modi di ragionare e di intendere la matematica.

* La geometria analitica di Cartesio segna un nuovo rapporto tra algebra e geometria, tra nuova notazione e la tecnica delle coordinate geometriche, che solo in rare precedenti occasioni avevano trovato momenti di comunione, ma che con Cartesio troveranno quella sintesi, incentrata sull’idea di variabile ed equazione algebrica di una curva destinate a segnare la storia della scienza moderna.
Sarebbe semplicistico dire che la geometria analitica segna l’applicazione dell’algebra alla geometria, perché tale tendenza era già rilevata nell’aritmetica di Diofanto e Viete.
Algebra e geometria provenivano da due anime diverse della matematica greca, l’algebra dalla matematica di origine babilonese, in seguito sviluppata dagli algebristi italiani nel Medio Evo con la teoria della risoluzione di equazioni di grado superiore al secondo da un lato con un approccio puramente numerico e poi algebrico, dall’altro con le antiche regole dell’algebra geometrica.
La geometria si era sviluppata con le pubblicazioni di Euclide, Archimede, Apollonio e Pappo ed essi trattavano il calcolo delle aree e dei volumi.
L’incognita, precedentemente trattato come numero ignoto, diventerà la variabile e punto che genera la linea. La proprietà legata allo studio dei luoghi geometrici diventa l’equazione algebrica, il punto della curva diventa coppie di coordinate. L’idea di incognita era di origine aristotelica e diofantea, mentre quella di variabile di lontana origine platonica.
Con l’introduzione, da parte di Cartesio, della rappresentazione dei punti tramite coordinate, il formalismo algebrico diventa funzionale ai problemi geometrici e quindi anche la geometria assume per la prima volta una veste simbolica.
L’introduzione del segmento unitario consentirà a Cartesio di superare i vincoli posti dalla legge di omogeneità.
La geometria di Cartesio ha una struttura del tutto non euclidea, con un’elencazione di problemi e tecniche, nessun assioma e dimostrazione, perché vi è la sostituzione della semplice deduzione con un metodo.
In Cartesio la mente acquista un’autonomia inedita, cessando di avere quel ruolo derivato dai sensi che aveva avuto nella scolastica, questo deriva dalla sua celebre frase “cogito ergo sum” da cui traspare che l’estensione e la mente sono indissolubili. Ove per estensione intendiamo sostanza del reale e forma simbolica che permette la riducibilità matematica della alla natura. L’unione tra materiale e spirituale si incontra nella ghiandola pineale, nella sua filosofia questo ruolo viene svolto dal segno algebrico in quanto oggetto ideale perché perfettamente riproducibile, in istanze identiche e perfettamente distinguibile e reale in quanto manipolabile e reperibile.
E’ l’inizio del processo che culminerà nel XIX secolo e XX nell’aritmetizzazione dell’analisi, la logica matematica e la computer science.
In Cartesio il dubbio ed il cogito pongono il mondo mentale alla radice della scienza.
L’esperimento comincia ad assumere connotazione moderna di laboratorio, in cui è possibile isolare il fenomeno e ridurlo in problemi più elementari.

PARADIGMA = INSIEME DI REGOLE, MODELLI DI PROBLEMI E CRITERI RISOLUTIVI CHE CARATTERIZZANO UNA COMUNITà SCIENTIFICA.
La grande idea del paradigma di Cartesio consiste nell’identificare l’algebra a base simbolica e legare l’algebra alla geometria e quindi matematica e realtà, proponendo quindi un nuovo programma complessivo della conoscenza matematica della natura, il primo dopo Pitagora.
Per realizzare questo occorreva una riorganizzazione del mondo delle “qualità” che nell’aristolelismo era il centro della fisica e si opponeva al mondo reale delle “quantità”.
Le quantità come noto, quiete, numero, figura, diventeranno gli attributi primari e oggettivi della fisica rinascimentale, relegando fuori della fisica gli altri secondari e soggettivi come il colore, l’odore, il sapore.
La possibilità di rappresentare geometricamente figure anche non geometriche ma aritmetiche (il punto diventa figurato), “permette di formare idee di tutte le cose”.
All’inizio della Geometria Cartesio introduce l’unità di misura e la procedura con cui definire un segmento la cui misura è il prodotto della misura di due segmenti, segnando così la fine della legge di omogeneità. Nella misura abbiamo quindi un numero adimensionale di unità di misura dimensionali.
Tutta la scienza moderna nasce sotto l’insegna del rifiuto della logica, considerata sterile di fronte al nuovo metodo scientifico basato sull’esperimento e la rappresentazione matematica delle leggi di natura.
L’aspetto metodologico del cartesianismo rimanda all’abbandono della descrizione della conoscenza come fatto statico a vantaggio della descrizione del processo, guidato da regole, da un metodo che ne garantisce la verità.
La prima regola dice “il fine degli studi deve essere guidare la mente a giudizi sicuri e veri” e questo sposta l’attenzione dal teorema al problema, dalla sintesi all’analisi, dalla completezza dell’esposizione al piacere della scoperta, e quindi l’abbandono dello stile euclideo.


 La geometria analitica di Fermat

Fermat, le cui ricerche sul calcolo infinitesimale aprono la strada Leibnitz, costruì una geometria analitica che ha molti punti di contatto con quella cartesiana, ma ne rifiuta l’impianto metodico basato sul principio dell’evidenza.

 

Nel 1636, possiamo dire contemporaneamente alla pubblicazione del “Discorso” di Cartesio, Fermat, ricostruendo i “Luoghi piani” di Apollonio alla luce di quanto contenuto nella “Collezione matematica” di Pappo, scopre il già citato principio fondamentale della geometria analitica. Anche in questo caso il principio non nasceva da considerazioni pratiche, ma dall’applicazione dell’algebra a problemi della geometria antica.
Però per Fermat, a differenza di Cartesio, era importante abbozzare soluzioni di equazioni indeterminate invece che di equazioni determinate ed inoltre nel suo breve trattato “Ad locos planos et solidos isagoge” , invece di partire come il suo contemporaneo da tre o più rette una delle quali scelta come asse delle ascisse , Fermat parte dall’equazione lineare e sceglie un sistema di coordinate arbitrario nel quale rappresentarla.
Fermat inizia con il rappresentare graficamente l’equazione “D in A aequetur B in E” (Dx=By) che, naturalmente, rappresenta una semiretta uscente dall’origine (non si usano coordinate negative), per poi passare, successivamente, all’equazione  ax+by=c2  , all’equazione  xy=k2 (che mostra essere una iperbole), all’equazione  a2 x2 = by   (che mostra esser una parabola), all’equazione   x2+y2+2ax+2by = c2 (che mostra essere una circonferenza), all’equazione  a2+x2=ky2 (che mostra essere un’iperbole) e all’equazione  a2-x2=ky2 (che mostra essere un’ellisse).
Notiamo che la geometria analitica di Fermat è  più vicina alla nostra perché le coordinate usate erano ortogonali.


Leibniz

Ars combinatoria = tecnica per derivare concetti complessi dalla combinazione di altri semplici, considerati come primitivi al fine di costruire un linguaggio unificato per la scienza e la filosofia. Costituisce il presupposto delle ricerche tendenti alla formalizzazione del linguaggio.

Con L. viene riconsiderata la logica ma anche in lui, come per Cartesio, prevale il ruolo delle “idee chiare e distinte”
La logica di L. però, contrariamente a quella della scolastica di ispirazione aristotelica è l’arte di usare l’intelletto per derivare concetti complessi dalla combinazione di altri più semplici rappresentabili tramite numeri (ars combinatoria) e non soltanto per dimostrare ciò che è stabilito (ars dimostrandi) ma anche per trovare ciò che è nascosto (ars inveniendi).
L. non rigetta l’idea di infinito attuale, anzi lo ritiene presente in ogni manifestazione della natura a mostrare la perfezione del suo autore. E lo stesso per il continuo ritenendo la materia attualmente divisa.
Un aspetto della funzione dell’infinito in L. è il ruolo che ha nella riduzione dei concetti complessi in concetti elementari. La risoluzione di tutte le verità, anche empiriche può essere ottenuta tramite l’analisi dei concetti che nell’uomo richiede un regresso infinito, paragonabili alla rappresentazione di un numero irrazionale mediante la somma di razionali. Mentre in dio è realizzata compiutamente e finitamente come per noi le verità ottenute con la ragione.
Ciò di cui è possibile farsi un’idea non contraddittoria è anche possibile.
I segni assumono per la prima volta un carattere costitutivo della conoscenza umana, non hanno una carattere convenzionale perché la loro sintassi deve riflettere la reale connessione tra idee. Si intuisce che fa riferimento al segno matematico. I segni sono la via per giungere alla conoscenza, essendoci preclusa l’intuizione unitaria delle cose, e tali segni dovrebbero essere simili alle cose da rappresentare, come per i geroglifici ed i caratteri cinesi.
Anche per quanto riguarda la definizione, fa notare che un’analisi puramente logica, la definizione nominale, ne può garantire la sola possibilità, per l’esistenza invece serve una dimostrazione di tipo generativo (definizione reale). Da questo consegue il fatto che per L. ogni fenomeno deve essere effetto di una particolare causa “principio di ragion sufficiente”. Ad esempio il metodo di Archimede in cui la simmetria geometrica della configurazione reale asserisce l’equilibrio statico della configurazione.
Il razionalismo di L. conduce ad una nuova connotazione del rapporto tra identità e uguaglianza.
Se appare indiscutibile “l’indiscernibilità degli identici”, appare più difficoltosa l’”identità degli indiscernibili”, perché significa ridurre l’individuo alla somma delle sue proprietà.
Per L. enuncia il famoso principio di indiscernibilità in cui x=y sse ogni predicato che vale per x deve valere anche per y.
Un altro aspetto cruciale del superamento della scolastica è la legge di continuità che asserisce la natura continua delle grandezze fisiche, anche degli opposti di Aristotele. Questa è la base per teorizzare una rappresentabilità numerica di tutte le qualità, anche quelle non primarie definite dai cartesiani.

Leibniz, in contrasto con Cartesio, nega che l’estensione (la natura) sia una sostanza. I fenomeni naturali sono caratterizzati dalla forza viva che continuamente si espande. Ciò che noi chiamiamo materia o corporeità non è altro che l’espressione esteriore della forza. La natura perciò è costituita da una molteplicità di centri di forza che trovano un limite preciso nella loro espansione e quindi metteva in crisi una concezione troppo ingenuamente meccanicistica e materialistica della realtà. Leibniz chiama monadi questi centri di forza e alcune monadi più perfette costituiscono l’anima, in questo modo risolve il dualismo cartesiano tra corpo ed anima. In genere le monadi si aggregano attorno alle monadi più chiare dalle quali dipendono, così a costruire l’organismo umano.
Anche in Leibniz, come in Galieleo e Cartesio,l’infinito attuale entra a buon diritto nella prassi conoscitiva, e così anche il continuo: sono tanto a favore dell’infinito attuale, che ritengo che la natura lo presenti ovunque per meglio mostrare la perfezione del suo autore. Così credo che ogni parte della materia è, non dico divisibile, ma attualmente divisa.

Per Leibniz, per poter parlare di identità- uguaglianza bisogna ridurre l’individuo alla somma delle sue caratteristiche, ovvero la forma diventa somma di proprietà e l’individuo la somma di tutte le sue proprietà.

La Logica
La ripresa della logica appare nella forma dell’ars combinatoria , dalla possibilità di individuare un insieme di idee elementari, rappresentabili tramite numeri, indefinibili o comprensibili per analogia o intuitivamente, con cui costruire idee complesse. Questa characteristica universalis permette una perfetta corrispondenza tra oggetti, idee e segni, ed ad essa si deve affiancare un calculus ratiocinator per tradurre ogni ragionamento in calcolo. Metodi di questo calcolo sono la scomposizione dei concetti nei loro componenti elementari, i sillogismi ed i principi di identità e di non contraddizione.
Altro aspetto cruciale del superamento della scolastica è la legge di continuità che asserisce la natura continua delle grandezze fisiche, anche quelle che Aristotele riteneva opposti (quiete-movimento, disuguaglianza-ugualianza, curva-retta).
Questa sarà la base per teorizzare una rappresentabilità sostanzialmente numerica di tutte le qualità, anche quelle non primarie (secondo i cartesiani).

Dalla legge di continuità e l’accettazione di infinito attuale fa parte il nascente calcolo infinitesimale grazie a Leibniz e Newton.
Il calcolo infinitesimale derivava da problemi già affrontati dai greci quali la tangente ad una curva ed il calcolo delle aree, volumi e centri di massa.
Ad esempio le aree venivano calcolate con il metodo di esaustione, ma che rifiutò sempre il concetto di limite perché legato alla presenza dell’infinito attuale ed i conseguenti paradossi ad esso legati.

Nell’analisi matematica del XVII e XVIII secolo emergono due linee di pensiero aspramente in conflitto:
una anglosassone che fa riferimento ad Isaac Barrow e Newton che fa riferimento al carattere dinamico delle grandezze al limite, ovvero a grandezze fluenti nel tempo, con i momenti a caratterizzare gli incrementi ed i decrementi di tali lunghezze ( il punto è il momento della linea).
La seconda tradizione fa riferimento a Leibniz ed intende il continuo come una somma di infiniti infinitesimi, anche se lo stesso Leibniz non crede alla realtà sostanziale degli infinitesimi, ma ritiene che sia una verità necessaria. E’ L che introduce una quantità non nulla ed in nessun modo variabile chiamata differenziale, che è poi quello che noi oggi usiamo.
Il concetto di limite di Newton è del tutto ignorato da L.
Quella di N. è una matematica del moto, quella di L è una aritmetica dell’infinito. Una diversità di approcci aveva portato sia N. che L. a definire il calcolo infinitesimo e quindi ad una grande disputa.


Il numero reale
Connesso allo sviluppo del calcolo infinitesimale vi è il concetto di numero reale. Dapprima intuitivo come parte intera e sequenza infinita di decimali ma senza travare una sistemazione definitiva fino al XIX. Ma comunque sempre più presente nell’algebra e nel calcolo.
Già in Cartesio la radice reale appare contrapposta alla grandezza immaginaria anche se ancora permane qualche difficoltà nel trattare come segni numerici le grandezze geometriche e proprio per superare questo ostacolo che Cartesio introduce il segmento unitario.
C’è da dire che a favorire lo sviluppo dei numeri reali contribuisce l’uso che ne viene fatto da ingegneri, artigiani e commercianti. Il numero diventa da un lato linguaggio di rappresentazione della realtà fisica attraverso la misura, dall’altro attraverso l’algebra diventa ente autonomo manipolabile attraverso le regole sintattiche. In conseguenza di questo tende a svanire la frattura la differenza nel trattare le varie grandezze, tipica della matematica greca, quali ad esempio i numeri, i rapporti, le grandezze geometriche. Cade anche il principio di omogeneità con cantesio grazie all’introduzione dell’unità.
Soprattutto in Stevin si vede la facilità computazionale di questo sistema numerico, tratta senza timore le trazioni decimali. Fu invece Napier Jhon ad introdurre la notazione decimale con il punto separatore. Un sistema superiore a tutti quelli introdotti precedentemente. La trigonometria è inventata da Regiomontano, mentre i logaritmi dallo stesso Napier. Già nel XVII secolo la notazione decimale e le relative tecniche computazionali erano complete. Sempre in questo periodo (1620) l’unità, inq quanto “la parte è dello stesso materiale del tutto” diventa anch’esso numero e lo zero diventa principio ed analogo del punto geometrico. Nella metà del seicento si assiste allo sviluppo delle tecniche di calcolo e delle loro applicazioni ai problemi fisici.


L’aritmetizzazione dell’analisi

All’indomani del sistemazione operata da Newton e Leibniz nell’ambito dello studio dei processi infiniti e quindi dell’analisi, si sentì l’esigenza di abbandonare gli approcci intuitivi tradizionali ed imporre un maggior rigore logico, che potesse condurre anche ad una più netta separazione dalla geometria.
Questo processo definito di aritmetizzazione dell’analisi sarà incentrato sul fondare il concetto di numero in maniera rigorosa e logica in cui la sua interpretazione geometrica venga sostituita definitivamente da quella aritmetica.
Ancora nell’800 permaneva il concetto di matrice euclidea che il numero dovesse essere legato all’idea di grandezza, quindi da interpretarsi geometricamente.
C’è però da dire che fino al XIX secolo ci fu in generale disinteresse verso la logica formale sia in ambienti scientifici che filosofici, per cui si poneva la necessità di rifondare la logica stessa.
Questa tendenza culminerà nella teoria degli insiemi, nella logica matematica e nel formalismo moderno.
Uno dei primi ambiti in cui si impegnarono i matematici furono quelli di evitare i numerosi paradossi che emergevano dall’uso dell’infinito, ad esempio nelle somme infinite. A tal proposito Diriclet notava che la proprietà commutativa nelle serie convergenti, ma non assolutamente convergenti, non valeva, poiché il risultato di tali somme poteva variare a seconda di come si distribuivano gli elementi.
Cauchy nel 1821 rende più rigoroso il concetto di limite di una variabile e sulla scorta di questo definisce il numero irrazionale come limite di una sequenza convergente di razionali. Ma se è vero che da una sequenza infinita di razionali arriviamo ad un’entità che noi chiamiamo irrazionale, come possiamo verificare che un irrazionale è una sequenza infinita e convergente di razionali senza ancora aver definito che cos’è un numero reale ?

Altro concetto essenziale dell’analisi è la funzione ed attraverso i tentativi di chiarificare questo concetto si affermò la tendenza all’aritmetizzazione.
Nello studio delle serie un ruolo rilevante lo ebbe Fourier (1768-1830), che con lo sviluppo in serie consentì di studiare funzioni più generali di quelle trattabili attraverso lo sviluppo di Taylor.
Fu Diriclet ad generalizzare ulteriormente questo concetto definendo la funzione come corrispondenza tra dati domini, senza limitarsi a quelle rappresentabili in forma analitica. Introdusse la funzione di D. molto irregolare che associa y=c se x è razionale e y=d se x è irrazionale. Non ha nemmeno un valore x per la quale f è continua. Nasceva così l’idea puramente insiemistica di funzione.
A Weierstrass ed a Bolzano si deve l’idea di punto di accumulazione ed i conseguenti teoremi sull’esistenza di tali punti.
Notevoli passi in avanti si ebbero quando i matematici si resero conto che i reali dovevano essere concepiti con “strutture concettuali” invece che come grandezze intuitive ereditate dalla geometria euclidea.
Sempre W. definisce il numero reale come aggregato infinito di multipli di parti aliquote. La radice di 2 diventa quindi l’insieme infinito (1 unità, 4 parti decimali, ,,,,,).
Anche se la definizione più rigorosa ed ancora accettata è quella di Dedekind (1872).
La definizione di D. è basata sul concetto di sezione dei razionali.
Supp. di bipartire i razionali in due classi A e B dove ogni elemento di A e < di ogni elemento di B. Se A non ammette massimo e B non ammette minimo, tale sezione viene definita un “numero reale”, nel caso in cui esiste min o max allora questo elemento è un reale identico ad un razionale. Bertrand Russel dimostro che per definire il num. relale bastava una sola classe.

Anche altri matematici contribuirono notevolmente all’aritmetizzazione dell’analisi.
Il successore di Diriclet alla cattedra di Gottinga 1855fu Bernhard Riemann. A lui si deve il perfezionamento della definizione di integrale di R., di equazioni di Cauchy-R. e per le superfici di R.
Liouville 1844 riuscì a dimostrare che ne e ne e^2 possono essere radice di un’equazione di 2° grado a coefficienti interi. Trent’anni più tardi Hermite dimostrò che e non poteva essere radice di alcuna equazione algebrica a coefficienti razionali e quindi e è trascendente. (teorema di Hermite).
Lambert nel 1770 e Legendre nel 1774 dimostrarono che Pi e Pi^2 sono irrazionali ma fu Lindemann nel 1882 a dimostrare che Pi è trascendente in quanto e^ix + 1 =0 non può essere risolta da x algebrici e siccome Pi soddisfa tale equazione, allora è trascendente. Quindi trovava fine il problema della quadratura del cerchio.

 

L’aritmetizzazione dell’analisi sarà realizzata compiutamente solo con un nuovo approccio, quello insiemistico. Tale approccio è strettamente legato all’affermazione dello studio dell’infinito attuale e quindi della continuità e il concetto cruciale che spinge in questa direzione è il numero reale.
Si ritiene che la svolta che abbia messo in condizioni Bolzano, Dedekind e Cantor di pensare la teoria degli insiemi sia dovuta alla geometria analitica cartesiana che riporta concetti geometrici a concetti aritmetici.
A questa svolta matematica si accompagna l’uso dell’idea di funzione continua in fisica, per cui da una rappresentazione geometrica della velocità, si passa a tecniche puramente algoritmiche (velocità istantanea come derivata o limite).

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CANTOR


L’infinito ed il continuo in Cantor
La vita di Cantor fu tragicamente diversa da quella di Dedekind (Dedekind superò gli 80 anni ed conseguì il dottorando a gottinga dove anche insegnò, e poi insegnò nelle superiori).
Nacque a Pietroburgo ma si trasferì giovane a Francoforte. Conseguì il dottorando a Berlino nel 1867 con una tesi sulla teoria dei numeri, ma i maggiori contributi sono sullo studio degli infiniti.
Fu Dedekind che vide nei paradossi non un’anomalia, ma una proprietà universale degli insiemi infiniti e quindi definì “un sistema S si dice infinito se è simile ad una propria parte, in caso contrario S si dice finito” – idea aritmetica (1872) (esatto contrario del IV assioma euclideo tutto è più grande di ogni sua parte – percezione geometrica
Nel 1874 Cantor si sposò e durante il suo viaggio di nozze incontrò Dedekind e lo stesso anno pubblicò i suoi articoli più rivoluzionari.

Per Cantor l’insieme è “una totalità di elementi definiti che possono essere riuniti in un tutto tramite una legge”.
In C. l’idea di partenza è molto semplice (detta in termini attuali): si definisce numero cardinale una classe di equivalenza rispetto alla relazione di uguale numerosità. Ovvero due insiemi hanno la stessa cardinalità o numero cardinale se esiste una corrispondenza biunivoca tra i loro elementi. Questa definizione per insiemi finiti non pone alcuna difficoltà interpretativa, tutt’altro per insiemi infiniti. Lo stesso Galileo aveva intuito che vi era una 1-1 tra i numeri interi positivi ed i quadrati dei numeri positivi, quindi per C. questi avevano uguale cardinalità. Gli insiemi posti in corrispondenza 1-1 con N sono numerabili ed il loro numero cardinale è À0.

Cantor si rese conto, a differenza di D., che non tutti gli insiemi infiniti sono simili e quindi si apprestò a costruire una gerarchia di infiniti. Prima mostrò che i numeri relativi possono essere messi in corrispondenza biunivoca con l’insieme dei numeri interi positivi, poi che solo apparentemente i razionali potevano sembrare più numerosi dei naturali.
Poi che l’insieme di n (numero finito) infiniti numerabili è codificabile in N. Poi che Q= N^2 (disposti come tabelle di infinite riproduzioni di N) è codificabile in N. N^3 è~ N e più in generale n^p (insieme delle p-ple di numeri naturali) per qualsiasi p finito.
Tale ordinamento consente inoltre di rendere Q ben ordinato, ovvero tale che ogni sottoinsieme limitato inferiormente ammette minimo.
Anche N*=NuN^2uN^3uN^4u,,, è codificabile in N in quanto ogni numero naturale (teorema fondamentale dell’aritmetica) può essere scomposto in fattori primi e quindi genera n-ple grandi quanto si vuole.
Se S è un alfabeto finito di simboli (0,1,2,.., x0,x1, ,, a, b,c, sin, cos, log, ,,) n-ple finite costituiscono delle espressioni e quindi anche l’insieme delle espressioni S* è numerabile ovvero ad ogni num naturale può corrispondere un’espressione e viceversa. Anche l’insieme delle espressioni algebriche.
Stesso per le formule del calcolo dei predicati, per un linguaggio di programmazione, quindi N rappresenta tutto ciò che è discreto.
(o,1)* è codificabile in N. Tutti questi casi fanno però riferimento ad un infinito potenziale, ma a C. interessava quello attuale.
A questo punto C. si chiede se R è numerabile e dimostra che non lo è.
DIM “metodo diagonale” (la k-ma cifra decimale di rk è patologica perché dovrebbe essere kr e kr+1 (mod 10) quindi R non è numerabile.
Dalla definizione di Dedekind e dallo stesso metodo diagonale emerge che se l’insieme di tutti gli insiemi finiti di numeri naturali è numerabile, l’insieme di tutti gli insiemi anche infiniti di numeri naturali non lo è. E quindi se l’insieme di tutte le funzioni sui naturali definite da un’espressione è numerabile, l’insieme di tutte le funzioni definite in N a valori in N non è numerabile e questo si prova con il metodo diagonale.
Si dimostra quindi che la cardinalità di un insieme è >= a quella di ogni suo sottinsieme proprio,  = quando è insieme finito.
Sempre con il metodo diagonale allora la cardinalità di un insieme è sempre < della cardinalità dell’insieme delle sue parti. DIM
Quindi l’insieme dei transfiniti non ha massimo.
Ma se applichiamo tale risultato ad S=”insieme di tutti gli insiemi” otteniamo il paradosso di Cantor.
Cantor si pose il problema di verificare se i numeri reali potevano essere ben ordinati o se la cardinalità del continuo venisse subito dopo quella dei naturali.
E se così non fosse in che maniera si inseriva nella gerarchia dei numeri cardinali ?
Se fosse stato ben ordinato allora era sicuramente un elemento della gerarchia, altrimenti potevano esserci transfiniti non appartenenti alla gerarchia.
Il problema del continuo doveva essere ricondotto ad una caratterizzazione sintattica e ed aritmetica rifiutando gli apriori ed ogni intuizione.
Ma qual’era la cardinalità di R ? Cantor riteneva À1, ma ne lui ne nessun’altro riuscirono a dimostrarlo, se non attraverso l’assioma della scelta.
I numeri razionali non erano a prima vista ben ordinati, ma Cantor vi era riuscito, questo era possibile per ogni insieme infinito ben definito?
Fu Zermelo 1904 a dimostrare tale tesi, anzi andò oltre “ogni insieme può essere ben ordinato” usando l’”assioma della scelta” (per un arbitrario insieme di insiemi, una scelta simultanea di un elemento per ogni insieme è di principio sempre possibile).
La teoria di C. poteva ancora essere considerata una struttura con concetti chiari ed evidenti, caratterizzata da proprietà altrettanto evidenti. Ma non ancora per molto.
Alcuni studi di C. portavano a conseguenze così paradossali che lo stesso C. scrivendo a Dedekind gli diceva “lo vedo ma non ci credo” e chiedeva all’amico di verificarne i risultati.
Dedekind e Cantor furono grandi matematici, ma nessuno raggiunse una posizione degna della loro intelligenza, infatti Dedekind insegnò tutta la vita nelle scuole secondarie e Cantor non ottenne mai la cattedra a Berlino a causa dell’ostruzionismo di Kronecker, che seppur approvava il programma di aritmetizzare l’analisi, esigeva che l’aritmetica fosse finita.
Cantor stremato dalle polemiche ebbe una lunga serie di esaurimenti e morì in un manicomio di Halle.
Hilbert più tardi dirà ” nessuno ci scaccerà mai dal paradiso che Cantor ha creato per noi”.


I Paradossi
Il paradosso dell’insieme di tutti gli insiemi ponevano problemi di contraddittorietà all’insieme dei numeri transfiniti.
Era il cosiddetto infinito assoluto, appartenente solo a Dio, che Leibniz aveva rifiutato come anche Cantor.
Allora si incominciò (con Zermelo) a porre una limitazione all’idea intuitiva di insieme.
Altri celebri paradossi furono scoperti in quel periodo e tra questi il Paradosso di Russel (1902) che fu fatale all’intenzione di Frege di ridurre anche l’aritmetica alla logica.
Si S=l’insieme di tutti gli insiemi che non sono membri di se stessi. Allora S appartiene ad S?
Analogo è il paradosso linguistico di Grelling (eterologico).


Frege e la logica matematica
F. dichiara l’esigenza di una lingua “ideale”, il più possibile formalizzata, che cancelli le oscillazioni del senso e consenta al logico di poter disporre di uno strumento linguistico perfettamente scientifico.
Frege tentò di dimostrare l’esigenza di un valore logico delle verità matematiche fondamentali, prescindendo da qualsiasi valore intuitivo o fisico. In seguito ad un lungo dibattito con Russel, la sua teoria mirante ad una totale logicizzazione della matematica risultò contraddittoria, ma i suoi strumenti furono fondamentali per lo sviluppo della logica formale.
Frege deve superare la coincidenza tra logica e calcolo (boole) ed un approccio puramente espressivo alla notazione matematica (peano) e sviluppare la sua natura di calcolo-linguaggio. Come linguaggio deve sostituire la coppia soggetto/predicato con la coppia argomento/funzione e l’introduzione di quantificatori. Come calcolo la dimostrazione deve essere basata su regole di inferenza estranee alla struttura statica del linguaggio. Allora volendo dimostrare una formula A da un sistema di assiomi T, si definisce una sequenza finita di formule in cui ogni formula o è un assioma di T o si ricava da formule precedenti attraverso regole di inferenza, la cui ultima formula è A. Allora è possibile dimostrare che una sequenza di formule è una dimostrazione con un semplice algoritmo. Frege desidera quindi riportare l’aritmetica, e non la geometria, nel primitivo universo della ragione.


Il problema dei fondamenti
All’origine della matematica del XIX secolo ci fu una svolta che possiamo ricollegare a Kant riguardo il senso dell’assiomatizzazione. Mentre al tempo dei greci l’assioma riuniva “evidenza concettuale” e “verità oggettiva”, con Kant mira alla chiarificazione dei concetti, si pone poi attenzione sulla struttura assiomatica più che i suoi singoli assiomi. La struttura dovrà essere governata dalla coerenza, L’indipendenza degli assiomi e la categoricità. L’assiomatizzazione categorica  consiste in un sistema di assiomi che caratterizzi la teoria, cioè ammetta un modello unico a meno di isomorfismi e ovviamente privo di assiomi inutili (deducibili da altri assiomi).
Viene meno inoltre la necessità di una connessione tra evidenza concettuale e realtà, il problema non è più matematico, ma solo fisico, cosa estranea al pensiero precedente.
Ma se questa tradizionale connessione tra matematica e realtà viene meno si aprono problemi che domineranno il tema dei “fondamenti” della matematica. I problemi che si pongono sono: qual è la natura degli enti matematici ?, che legame c’è tra tali enti e la realtà?,  ed anche un tema del tutto nuovo: fino a che punto si può spingere la creatività matematica ?. Questo problema si pone ad esempio con la definizione di funzione, ad esempio in Riemann. Nel rinascimento la funzione era sostanzialmente un’”espressione analitica” scritta con le consuete operazioni, magari con la possibilità di usare anche le funzioni logaritmiche e trigonometriche. Lo studio delle serie invece aveva portato a funzioni sempre più strane e si è quindi giunti alla definizione di una funzione come legge che associa ad un elemento del dominio un elemento del condominio, ma ci si pose allora il problema se tale legge dovesse essere deterministica (rapporto causa effetto – il ripetersi della stessa causa provoca lo stesso effetto) o meno. Ad esempio la funzione f(n) che associaad n il risultato dell’n-mo lancio di un dado (non è possibile determinare algoritmicamente i suoi valori), come anche f(n) che da la prima occorrenza di n nella sequenza dei decimali di Pi. Non sappiano se f(777) è definita o meno.
L’esigenza più naturale sarebbe di non porre limiti alla creatività matematica, ma questo condurrà a paradossi e contraddizioni, quindi il dibattito sui fondamenti porterà al problema di bilanciare l’esigenza di non porre vincoli al pensiero matematico con l’esigenza di creare sistemi non contraddittori.


Il programma di Hilbert

 

HILBERT 1862-1943

 

Al congresso di Parigi del 1900, H. Era già professore famoso a Gottinga e tentò di prevedere le direzioni dei progressi futuri proponendo 23 problemi che a suo dire avrebbero impegnato i matematici nel XX secolo.

Il primo problema si poneva la questione se esiste un numero transfinito tra quello di N e quello di R e se l’insieme dei reali è ben ordinato.
Fu Zermelo a dimostrale la seconda parte del problema, ricorrendo al teorema della scelta o di Zermelo. Godel nel 1940 dimostrò che l’assioma della scelta è consistente o compatibile con gli altri assiomi della teoria degli insiemi. Nel 63 Cohen mostro che tale assioma è indipendente dagli altri e quindi non può venir dimostrato all’interno di questo sistema. Ciò sembra precludere una soluzione definitiva del primo problema.

 

Nel secondo problema H chiedeva se fosse possibile dimostrare che gli assiomi dell’aritmetica sono compatibili, ossia che partendo da essi e procedendo attraverso un numero finito di passaggi logici non si può mai giungere a risultati contraddittori.
Furono Russel e Whitehead dieci anni più tardi nei Principia Mathematica tentarono di sviluppare le nozioni fondamentali dell’aritmetica a partire da un insieme ben definito di assiomi (nella tradizione di Frege, Boole e Peano) volta a dimostrare che tutta la matematica pura potesse essere dedotta da un numero ristretto di principi logici fondamentali. Questo avrebbe dovuto portare al fatto che la matematica non era distinguibile dalla logica (Russel). I Principia non dimostravano però il secondo problema di H. Nel 1931 Godel dimostrò che all’interno di un sistema rigidamente logico, come quello di Russel, è possibile formulare proposizioni che sono indecidibili o indimostrabili nell’ambito degli assiomi del sistema. Ovvero ci sono asserzioni che non possono essere ne dimostrate ne invalidate, pertanto non si può essere certi che gli assiomi dell’aritmetica non portino a contraddizioni. Il teorema di Godel sembra risolvere negativamente il secondo problema.
Attraverso l’aritmetizzazione dell’analisi e gli assiomi di Peano gran parte della matematica aveva ottenuto una fondazione rigorosamente assiomatica, ma non la geometria.
H. si impegnò in tale sforzo, ponendo alla base del suo ragionamento tre oggetti indefiniti: punto, linea e piano e sei relazioni indefinite. H formulò la sua geometria con 21 assunzioni note come assiomi di H.


Il programma di Hilbert
Da un lato ridurre l’antico problema filosofico dalla verità al problema della provabilità, dall’altro dimostrare finitisticamente, e quindi sostanzialmente con gli strumenti dell’aritmetica, la consistenza dell’aritmetica stessa.
Il problema di trovare un metodo finitista per decidere se una formula è provabile è il cosiddetto “problema della decisione”.
Più sullo sfondo c’è l’obiettivo di mostrare che è possibile caratterizzare univocamente le teorie matematiche tramite assiomi (categoricità) e che quindi tale riduzione sintattica “cattura” completamente la semantica della teoria: questi obiettivi, insieme alla soluzione del problema della decisione, garantirebbero che “ogni problema matematico può essere risolto”. I teoremi di Godel avrebbero dimostrato che questi obiettivi erano insostenibili.
Fino al teorema di incompletezza di Godel, Hilbert considerava il suo “programma” come una fondazione definitiva.
Attorno al 1930 il programma aveva accumulato indubbi successi: oltre alle assiomatizzazioni delle principali teorie matematiche (l’aritmetica con Dedekind e la geometria con Hilbert sembravano essere assiomatizzazioni categoriche), ed anche della logica e della teoria degli insiemi (Zermelo), occorre ricordale che Godel aveva dimostrato la completezza del calcolo dei predicati e che nessuno dubitava della coerenza dell’aritmetica e delle teorie matematiche tradizionali.
Furono i teoremi limitativi, quelli di incompletezza di Godel soprattutto, a incidere sul programma di Hilbert.

 

L’idea base del programma era che l’assenza di un significato intrinseco negli assiomi delle teorie matematiche formali implicava l’uso del criterio di non-contraddittorietà per determinare la loro accettabilità. Gli assiomi divenivano così implicite definizioni di proprietà geometriche, non già proposizioni solamente intuitive.


La lista di Hilbert

 

(dalla conferenza tenuta al Congresso Internazionale dei Matematici.  Parigi, la mattina dell’8 agosto 1900)

L’ipotesi del continuo

La non contraddittorietà degli enunciati dell’Aritmetica

L’uguaglianza in volume di due tetraedri aventi superficie di base ed altezza uguali

Il problema della retta come curva di minima distanza tra due punti

Il concetto di Lie dei gruppi continui di trasformazioni, senza l’ipotesi della differenziabilità delle funzioni che definiscono i gruppi

Trattazione matematica degli assiomi della fisica

Irrazionalità e trascendenza di alcuni numeri

Problemi sui numeri primi

Dimostrazione della più generale legge di reciprocità in un qualsiasi corpo  numerico

Decisione della risolubilità di una equazione diofantea

Forme quadratiche con coefficienti algebrici numerici arbitrari

Estensione del teorema di Kronecker sui corpi abeliani, ad un qualsiasi dominio algebrico di razionalità

Impossibilità della risoluzione dell’equazione generale di 7° grado mediante funzioni di due soli argomenti

Dimostrazione della finitezza di certi sistemi completi di funzioni

Fondamenti rigorosi del calcolo enumerativo di Schubert

Problema della topologia delle curve e superfici algebriche

Espressione di forme definite mediante quadrati

Generazione dello spazio a partire da poliedri congruenti

Le soluzioni di problemi regolari sul calcolo delle variazioni sono sempre necessariamente analitiche ?

Il problema generale dei valori al contorno

Dimostrazione dell’esistenza di equazioni differenziali lineari aventi un prescritto gruppo di monodromia

Uniformizzazione di relazioni analitiche mediante funzioni automorfe

Ulteriori sviluppi dei metodi del calcolo delle variazioni

 


Dall'analisi infinitesimale agli insiemi infiniti

 

L'analisi dell'"infinitamente grande" e dell'"infinitamente piccolo" deve molti dei suoi risultati al francese Augustin Louis Cauchy e al tedesco Karl Weierstrass. Cauchy fondò fin dal 1814 la teoria delle funzioni di una variabile complessa, soddisfacendo la comprensibile necessità di rigore sentita dai matematici nell'affrontare un campo fortemente astratto, in cui la rappresentazione visiva di una funzione non è più possibile (ci vorrebbero infatti quattro dimensioni per "disegnare" una relazione tra due variabili complesse). Cauchy inoltre sganciò il concetto di integrale da quello di derivata, definendo il primo come limite di una somma e aprendo così la strada alle fertili generalizzazioni dell'analisi moderna. Oggi ricordiamo Cauchy quasi ogni volta che usiamo un teorema sulle serie infinite; fu nel 1831 infatti che il matematico usò per la prima volta le serie infinite come parte essenziale della teoria delle funzioni. Un'idea fondamentale in questo ambito la dobbiamo a Joseph Fourier, che nel 1822 rese pubblica un'espressione per rappresentare qualsiasi funzione con una particolare serie infinita, nota oggi appunto come "serie di Fourier".

Una delle difficoltà principali persistenti nell'analisi infinitesimale era trovare una definizione soddisfacente dei concetti di "numero reale" e di "limite". Al problema ovviò Weierstrass. Nello sforzo di basare l'analisi sul solo concetto di numero, Weierstrass cercò una definizione di numero reale indipendente dal concetto di limite (da allora, un numero reale è definito come la successione associata a una serie specifica). Anche la definizione di limite data dallo scienziato tedesco si compone solo di numeri reali, operazioni additive e relazioni di disuguaglianza.

Fu nel 1874 che una nuova possente idea scosse la comunità scientifica, per opera di un matematico nato a Pietroburgo da genitori danesi: Georg Cantor. Prima ancora di aver compiuto trent'anni, Cantor aprì nuove porte su un mondo che i suoi contemporanei fecero molta fatica ad accettare: quello dell'infinito. Fin dai tempi di Zenone sia i filosofi che i matematici ragionavano sul concetto di infinito, ma prima del 1872 nessuno sapeva esattamente di cosa si stesse parlando. In quell'anno infatti Richard Dedekind diede la prima rigorosa definizione di insieme infinito ("Un sistema S si dice infinito quando è simile a una propria parte"). Cantor fece un enorme passo in più: si rese conto che l'infinito non è uno solo; o meglio, che non tutti gli insiemi infiniti sono simili. Si mise dunque a costruire una "gerarchia" degli infiniti (per esempio, i numeri naturali sono infiniti, e anche i numeri reali sono infiniti, ma i reali sono "di più" dei naturali. I due infiniti non "valgono" allo stesso modo). Alcuni risultati trovati dallo scienziato erano così paradossali da far dire allo stesso Cantor: "lo vedo ma non ci credo". Per esempio, Cantor trovò che una retta infinita e un piccolo segmento su di essa hanno lo stesso numero di punti, così come un francobollo e tutto lo spazio tridimensionale. Tra i matematici del tempo, Kronecker più di tutti si accanì contro questa teoria e il suo fautore. Cantor cadde prede di una serie di esaurimenti nervosi che lo portarono alla morte in un manicomio di Halle, nel 1918, mentre la sua opera veniva finalmente riconosciuta. Uno dei più importanti matematici del Novecento, David Hilbert, dirà: "nessuno ci scaccerà mai dal paradiso che Cantor ha creato per noi".


Dalle nuove algebre astratte alla teoria di Galois
Nel 1843 una nuova algebra fu creata dall'irlandese William Rowan Hamilton: l'algebra dei quaternioni. Lavorando con una coppia di complessi, e abbandonando la legge commutativa della moltiplicazione, Hamilton costruì una nuova algebra coerente in se stessa. L'algebra dei quaternioni liberò la matematica dalle costrizioni imposte dalle cosiddette "leggi fondamentali" e diede il via alla costruzione di altre algebre, così come era successo nel mondo della geometria, una volta scoperto che si poteva abbandonare il postulato delle parallele. Poco dopo, Hermann Grassmann studiò l'algebra dei vettori, di grande utilità nelle scienze fisiche. A Cambridge, Arthur Cayley e James Sylvester inventarono un tipo di algebra basato sul concetto di matrice (una tabella di valori con proprietà e metodi di calcolo specifici). Un'algebra completamente diversa fu inventata da George Boole, inglese autodidatta, che nel 1854 pubblicò Le Leggi del pensiero, un trattato di algebra sulla logica fondamentale. L'algebra booleana fa uso di un linguaggio artificiale in cui parole e simboli hanno funzioni semantiche rigidamente definite. La logica di Boole procede in maniera inversa a quella greca: prima costruisce un sistema puramente formale, e dopo ne cerca un'interpretazione nel linguaggio comune. Boole riflettè sulla concezione stessa della matematica ed enunciò per la prima volta l'idea secondo cui la caratteristica essenziale della matematica è non il suo contenuto, ma la sua forma. Ogni argomento che possa essere tradotto in un insieme di simboli e operazioni dotati di coerenza interna è, secondo Boole, un oggetto della matematica. Per trovare un'applicazione pratica all'algebra booleana si dovette invece attendere quasi un secolo: nel 1938 Claude Shannon vi riconobbe la logica dei circuiti elettronici digitali, mentre tutti i calcoli complessi che un computer è in grado di fare oggi hanno origine dalle tre operazioni fondamentali dell'algebra del matematico inglese. Lo sviluppo di tante nuove algebre diverse, parallelo alla nascita delle nuove geometrie, avrebbe potuto far perdere alla matematica un centro unificatore. A ridare una struttura bilanciata a questa scienza contribuì la nozione di gruppo, un concetto fondamentale sviluppato da un geniale matematico francese, morto tragicamente all'età di vent'anni: Evariste Galois. Galois arrivò alla teoria dei gruppi cercando nuove tecniche per studiare la solubilità delle equazioni. Una ricaduta fondamentale del suo lavoro fu proprio la trattazione assiomatica accurata che fece delle strutture algebriche in termini di campi numerici diversi. Dopo gli eccezionali risultati raggiunti e i nuovi mondi scoperti dalla matematica del XIX secolo, il Novecento iniziò nel segno dell'ottimismo. Ma una crisi profonda dei fondamenti stessi di questa scienza attendeva i matematici, già dai primi anni del nuovo secolo.

 


Il teorema di Godel
Il Novecento, secolo della crisi
di Michela Bertolani

IL NOVECENTO, anche nel mondo matematico, si è aperto all'insegna dell'ottimismo. Dopo le scoperte - o invenzioni - rivoluzionarie del secolo che si era appena chiuso, dopo la creazione di spazi fino ad allora impensabili e la nascita di nuovi emozionanti campi di indagine scientifica, la matematica sembrava ormai giunta a un grado di maturità tale per cui niente più che una manciata di problemi restava da risolvere. Ventitrè problemi, enunciati da David Hilbert al celebre congresso di Parigi del 1900, nel tentativo di prevedere la direzione dei progressi del nuovo secolo. Il secondo quesito in lista riguardava una questione tanto importante quanto delicata: scoprire la natura stessa della matematica.

Dopo aver trascorso millenni a porre domande al mondo della natura e agli altri spazi creati dal pensiero umano, infatti, all'alba del XX secolo la matematica ha rivolto il suo occhio curioso e indagatore su se stessa, ponendosi la domanda delle domande. Chi sono? Esisto? La matematica pura ha cioè iniziato a interrogarsi seriamente sui suoi stessi fondamenti, cercando di dimostrare la sua completa e totale autoconsistenza.
Quel che i matematici non sapevano è che di lì a poco due violenti terremoti avrebbero schiantato l'ottimismo della scienza classica, lasciando gli studiosi disorientati e la matematica senza fondamenta: il paradosso di Russel e il teorema di Gödel. Oggi, dei problemi enunciati da Hilbert circa la metà restano ancora insoluti. Ma la matematica si è sviluppata secondo strade che il noto scienziato tedesco non poteva prevedere: risultati di grande valore sono stati raggiunti nel campo della matematica pura e forse ancor più di quella applicata (ai campi più diversi della scienza e persino all'umanesimo). Ma il XX secolo verrà ricordato anche per i nuovi volti assunti dalla matematica: quello dell'informatica, dell'intelligenza artificiale e della realtà virtuale. E, a distanza di cento anni dall'annuncio di Hilbert, i problemi che la matematica ha lasciato in eredità al nostro secolo sono aumentati.
Insiemi e incompletezza
Nell'impegnativa ricerca dei fondamenti della loro disciplina, le principali correnti di pensiero in cui si riconoscevano molti matematici di inizio secolo erano tre: il logicismo di Bertrand Russell, secondo cui la matematica trova le sue basi nella logica ed è una forma di pensiero assiomatico in cui, a partire da premesse arbitrarie, si traggono conclusioni valide; l'intuizionismo di Sylvester e Poincaré, secondo cui la matematica ha lo scopo di manifestare le leggi dell'intelligenza umana, per cui è l'intuizione che rende evidenti i concetti e le deduzioni; e infine il formalismo di Hilbert, secondo cui la matematica è un'attività autonoma del pensiero. La posizione formalista venne poi estremizzata da alcuni seguaci di Hilbert, fino all'affermazione che la matematica non è altro che un gioco privo di significato in cui si gioca con contrassegni privi di significato secondo certe regole formali concordate in partenza.

Fu proprio Bertrand Russell a dare il primo colpo alla logica, basata sulla teoria degli insiemi, che lui stesso percepiva come essenza della matematica. Nel 1902 infatti il matematico e filosofo inglese scoprì una "crepa" nella teoria degli insiemi, scoprì cioè che questa teoria, così come era stata formulata, permetteva dei paradossi, venendo meno alla caratteristica di coerenza interna indispensabile a ogni teoria matematica. È famoso il paradosso del barbiere: in un villaggio in cui vive un unico barbiere è emanata un'ordinanza che vieta agli uomini di farsi crescere la barba e precisa che il barbiere, e soltanto lui, è autorizzato e obbligato a fare la barba solo a coloro che non si radono da soli. Chi fa la barba al barbiere? Quest'uomo in particolare appartiene all'insieme di quelli che si fanno radere dal barbiere, e contemporaneamente non vi appartiene, dal momento che si rade personalmente. Quest'unico esempio bastò a gettare nella confusione più totale i matematici del tempo, e fece crollare a un passo dal compimento dell'opera monumentale di Frege, che rielaborava tutta la matematica partendo dagli insiemi e utilizzandoli come fondamento. Qualche anno più tardi la teoria degli insiemi venne in parte riformulata in modo da eliminare la possibilità di paradossi.

Il secondo quesito di Hilbert trovò una scioccante soluzione nel 1931, per opera di un giovane matematico austriaco emigrato negli Stati Uniti, Kurt Gödel: creare un sistema matematico completo e coerente è impossibile. Gödel dimostrò che, all'interno di un sistema rigidamente logico come quello sviluppato da Russell per l'aritmetica, esistono proposizioni indecidibili, è possibile cioè formulare asserzioni che non possono essere né dimostrate né invalidate. In altre parole, non si può esser certi che gli assiomi dell'aritmetica non portino a contraddizioni. Con il teorema di Gödel crollò la certezza che la natura della matematica fosse di tipo logico-formale. La "caccia" ai fondamenti di questa scienza è tuttora in corso, tanto che la ricerca matematica viene spesso visualizzata con la forma di un albero: da un lato espande i suoi rami nello spazio aperto, e dall'altro allunga le sue radici sotto terra, alla ricerca di solidità.

Topologia e ultimi sviluppi
Uno degli indirizzi di ricerca pura più fecondi del XX secolo fu una vasta branca della matematica nata sul finire del vecchio secolo per opera di Henry Poincaré: la topologia, ovvero la "geometria delle figure elastiche". Oggetto degli studi della topologia sono gli aspetti qualitativi propri di quelle "figure" che rimangono invarianti rispetto a particolari trasformazioni. Per esempio, le deformazioni impresse a un pallone di gomma, senza forarlo o romperlo, sono trasformazioni topologiche; un cerchio e un'ellisse sono topologicamente equivalenti, rappresentano cioè nello spazio topologico la stessa "figura". Da Brouwer, a Weyl, a Hausdorff, la topologia si è andata sempre più affermando nel corso del secolo come quella disciplina che unifica quasi tutti i campi della matematica, fornendo la base a gran parte di questa scienza e dandole una nuova, forte coesione. Il seme per la nascita di campi nuovi di ricerca in seno all'analisi fu gettato nei primi anni del Novecento da Henry Lebesgue. Il matematico francese, riflettendo sul lavoro dei suoi predecessori in materia di teoria della misura, si rese conto che l'integrale definito da Riemann valeva solo in casi particolari. Procedette quindi a dare una definizione diversa, più ampia, di misura di un insieme e di integrale, che potesse essere applicata a casi più generali. Il concetto di integrale è stato in seguito modificato e generalizzato al punto da indurre a pensare che, se l'idea di integrazione risale al tempo di Archimede, la teoria dell'integrazione è una creazione del XX secolo.
Il campo della teoria dei numeri ha invece registrato un successo notevole non molto tempo fa: nel 1995 il matematico inglese Andrew Wiles è riuscito a dimostrare l'ultimo teorema di Fermat, impresa che lo ha tenuto impegnato diversi decenni ma che infine gli è valso il riconoscimento della comunità scientifica internazionale, oltre ai cinquantamila Euro circa del premio Wolfshehl, bandito dalla Regia società delle scienze di Gottinga nel primo decennio del secolo.

 


La nascita della computer science

Il formalismo segna la nascita della computer science, infatti i primi matematici e logici che operarono in questo campo erano seguaci di Hilbert.
Nasce dal formalismo perché Hilbert tenta di fare delle verità un fatto sintattico, riducendo la semantica a semplice interpretazione dei segni. Poi Turing riesce a ridurre ogni trattamento sintattico a puro calcolo.


L’ipotesi del continuo e l’assioma della scelta – paradossi della misura

Teoria degli insiemi ed assioma della scelta

E’ da sottolineare l’irresistibile ascesa della teoria degli insiemi che ancora all’inizio del XIX secolo non esisteva ed anzi, sulla base dell’eredità filosofica classica, era assurda.
L’impianto aristotelico era fatto di forme, e quale forma poteva avere un mucchio di oggetti.
La T.I. appare nella seconda metà del XIX secolo con Bolzano e Cantor, commessa al problema dell’infinito attuale e fieramente avversata da molti matematici, anche se poi posta a fondamento ideale della matematica.
“Oggi è possibile, logicamente parlando, derivare praticamente tutta la matematica conosciuta da una singola fonte. La T.I.” 1966 Bourbaki.

Ma che cosa comporta un così radicale cambiamento ?
Non solo la necessità di analizzare l’infinito attuale, ma anche quella di ricondurre in un’unica categoria sia gli enti che studia, sia le relazioni tra essi.
La fase moderna del dibattito sul continuo e sull’infinito è quindi tutta interna ad una caratterizzazione insiemistica e logica.
La più celebre formalizzazione della teoria degli insiemi è dovuta a Zermelo e perfezionata da Fraenkel ove un sistema di assiomi definisce geneticamente gli enti detti insiemi.
I due insiemi contenenti gli stessi elementi coincidono.
2° 3° e 4° permettono di costruire semplici insiemi (vuoto, coppia non ordinata e unione). Il 5° garantisce l’esistenza di un insieme infinito. Il 6° permette di costruire un condominio partendo da un dominio e da una funzione e poi consente si selezionare gli oggetti dell’insieme che soddisfano una particolare proprietà.
Il 7° da un insieme permette di costruire l’insieme potenza. L’8° è l’assioma della scelta ed il 9° garantisce che tutti gli insiemi siano costituiti a partire dall’ins. vuoto.

L’assioma della scelta deve garantire la possibilità, data una famiglia di insiemi, di selezionare “simultaneamente” un elemento da ciascuno di tali insiemi.
Questo assioma svolge un grande ruolo nella matematica e nella logica ed appare nel teorema di completezza di Godel e quindi appare legato agli aspetti di non costruttività.
Nel finito l’assioma diventa facilmente dimostrabile, mentre diventa problematico negli insiemi finiti, soprattutto se non numerabili.
Zermelo dimostrò, proprio a partire da questo assioma che ogni insieme può essere ben ordinato, anche quello dei reali, risultato che in molti ritenevano poco credibile.

L’ipotesi del continuo sostiene che non esistono altri numeri cardinali tra No e 2^No, ovvero che N1=No

L’ipotesi generalizzata del continuo sostiene che Ni=2^Ni-1.
Anche la teoria della misura di Lebesgue usa l’assioma della scelta.
Qualcuno ha avanzato l’ipotesi della necessità di introdurre assiomi che, indipendentemente dalla loro veridicità, aiutano a far tornare i conti.

L'ipotesi del continuo
E’ il primo della lista di Hilbert. Insieme al 7° e al 10° è il più famoso dei problemi enunciati dal grande matematico un secolo fa, nel 1900, la mattina del 8 agosto.
Esistono gli insiemi infiniti.
Sono insiemi infiniti: 
N(=insieme dei numeri naturali) 
R( =insieme dei numeri reali) 
N ed R non hanno la stessa cardinalità. E fu proprio questa la prima grande scoperta  di Cantor nella teoria degli insiemi : con una dimostrazione basata sul suo famoso metodo diagonale egli riuscì a dimostrare che l'insieme dei numeri naturali non è equipotente all'insieme dei numeri reali. Esistono quindi almeno due tipi di infinità. Il primo tipo, l'infinità dei numeri naturali e di ogni insieme infinito con esso equipotente, viene detta  aleph con zero À0 e gli insiemi di cardinalità À0 sono detti  numerabili. Il secondo tipo di infinità è quello rappresentato da tutti i punti di un segmento e la sua cardinalità è indicata con una c gotica minuscola, che sta per «continuo». Ogni segmento, di qualunque lunghezza, ha la cardinalità c. La stessa cardinalità di ogni rettangolo nel piano, ogni cubo nello spazio e in generale ogni spazio illimitato a n dimensioni, comunque grande sia n. Consideriamo ora il concetto di  insieme di tutti i sottoinsiemi di un insieme dato.
Se indichiamo con A  l'insieme di partenza, questo nuovo insieme viene detto insieme potenza di A e indicato con 2A .
Cantor dimostrò che tanto per A finito quanto per A infinito, 2A non è mai equipotente ad A, sicché l'operazione di formare l'insieme di tutti i sottoinsiemi genera una catena senza fine di insiemi infiniti crescenti e non equipotenti. In particolare, se A è l'insieme dei numeri naturali è facile dimostrare che  2A (l'insieme di tutti gli insiemi di numeri naturali) è equipotente col continuo (l'insieme di tutti i punti di un segmento).
A questo punto ci si può chiedere : 
Esiste un insieme infinito la cui potenza è compresa tra À0 e c? “La questione si presentò a Cantor, il quale però non riuscì a trovare un insieme con tali caratteristiche: ne concluse, o meglio suppose, che un insieme di tale tipo non esistesse. A questa ipotesi di Cantor fu dato il nome di «ipotesi del continuo»”  .... (Paul J. Cohen, Reuben Hersch, La teoria non cantoriana degli insiemi, Quaderno n. 92, Le Scienze, Ottobre 1996, pag. 54-55).
Se non esistesse, questa è l'ipotesi formulata da Cantor, allora varrebbe il teorema che Hilbert presentò nella forma seguente: " ogni insieme infinito di numeri o di  punti,  è equivalente o all'insieme dei  numeri  interi naturali 1, 2, 3, ... oppure all'insieme di tutti i  numeri  reali e quindi al continuo (cioè, ad es., ai  punti di un segmento); perciò nel senso  dell'equivalenza, ci sono solo due insiemi di numeri, gli insiemi numerabili e il continuo".
"Da questo teorema - continua  Hilbert - discenderebbe anche che il continuo costituisce la cardinalità che viene immediatamente dopo la cardinalità degli insiemi numerabili; perciò la sua  dimostrazione getterebbe un  nuovo ponte  tra gli insiemi numerabili e il continuo"
Dopo prolungati sforzi fu scoperto  che l'ipotesi di Cantor è indipendente dagli altri assiomi della teoria  degli insiemi. Il potente metodo per  la dimostrazione dell'indipendenza,  ideato da P.Cohen (1963), condusse a stabilire l'indipendenza di tutta una serie di altre affermazioni nella teoria degli insiemi.  


Breve vocabolario
il logicismo di Bertrand Russell, secondo cui la matematica trova le sue basi nella logica ed è una forma di pensiero assiomatico in cui, a partire da premesse arbitrarie, si traggono conclusioni valide

l'intuizionismo di Sylvester e Poincaré, secondo cui la matematica ha lo scopo di manifestare le leggi dell'intelligenza umana, per cui è l'intuizione che rende evidenti i concetti e le deduzioni

il formalismo di Hilbert, secondo cui la matematica è un'attività autonoma del pensiero

Due grandi temi hanno sempre accentrato l’attenzione filosofica e fondazionale attorno alla matematica: la natura degli enti matematici e la ragione della loro universale fruttuosa applicazione alla descrizione dei fenomeni naturali (l’essere).
Tra la fine del 19 e 20 secolo si definiscono le più rilevanti filosofie della matematica, soprattutto attorno ai problemi della natura delle conoscenze matematiche e indirettamente il suo rapporto con l’essere.
E’ fondamentale ricordare che in quel periodo il centro concettuale della matematica si era trasferita dalla geometria all’aritmetica, soprattutto in conseguenza dell’aritmetizzazione dell’analisi. Quindi si tralascia l’idea di una natura empirica e puramente convenzionale della geometria e si tratta il problema del numero e del suo rapporto con la logica. La riflessione sul concetto di numero incontra il problema del concetto di insieme o classe.

L’approccio del LOGICISMO rappresentato da Cantor, Frege e Russel ricostruisce il concetto di numero come numero cardinale, legato strutturalmente al carattere primitivo del concetto di insieme e su una fondazione logica dell’aritmetica. Quindi mirano ad uno stretto legame tra teoria degli insiemi e calcolo dei predicati. Questo approccio permette di considerare insiemi definiti solo quelli selezionabili attraverso una proprietà esprimibile nel calcolo dei predicati di I ordine (Zermelo e Weyl).
Quindi il numero poteva essere definito come la classe di tutte le classi ad n membri. E normali verità aritmetiche diventavano teoremi di logica. Come diceva Russel, svaniva ogni linea di confine tra matematica e logica. Con questo approccio finivano con l’essere dotati di “essere” anche enti come l’infinito attuale.
Fatale per la piena credibilità fondazionale di questo approccio fu il Paradosso di Russel che metteva in contraddizione il programma di Frege.

Una tendenza radicalmente opporta (Helmholtz, Kroker, Peano) prende le mosse dall’idea di numero come “numero ordinale”  basato sull’esperienza intuitiva della successione dei naturali implicita nel contare. Questa sarà la base dell’INTUIZIONISMO.
Poincarè è probabilmente uno dei più celebri precursori di tale approccio e già per lui il concetto di infinito non poteva andare oltre la natura intuitiva di infinito potenziale. L’uso attuale di insiemi infiniti provocava quindi i paradossi insiemistica.
Per la scuola intuizionistica la logica non era altro che un’estrapolazione di principi generali della matematica degli insiemi finiti, verso insiemi non finiti. La teoria di Godel per certi versi sembrò una conferma delle teorie intuizionistiche. Rimasero molte riserve sul progetto intuizionista perché la matematica intuizionista appariva meno potente e di norma più complicata.

Alla radice di queste filosofie vi era un cambiamento radicale dovuto allo sgretolarsi della fondazione intuitiva della matematica.Iniziava una nuova fondazione del rapporto degli enti matematici da un lato con la realtà, dall’altro col regno dei segni, quello che sarebbe diventato il programma di Hilbert, all’interno della quale troviamo sia il logicismo, sia l’intuizionismo. Questa è la base del FORMALISMO.
Uno dei maggiori successi del formalismo fu la costruzione di teorie assiomatizzate degli insiemi che non permettevano i paradossi della teoria degli insiemi di Cantor e Frege. La prima di queste teorie fu Zermelo. Così venivano evitati quegli insiemi troppo grandi che causavano i paradossi.
L’idea più diffusa sul formalismo è quella di ridurre la matematica alla pura pratica della deduzione formale, pura automaticità dimostrativa.
Nei primi decenni del secolo si delinea così il programma di Hilbert, tendente a riassorbire l’intera matematica nell’impianto finitista e formalista.
Completezza, ogni enunciato è dimostrabile all’interno della propria teoria.
Consistente = Coerente = non contraddittorio
Per fondare l’assiomatizzazione occorreva dimostrare che il concetto sintattico di dimostrazione era sufficiente a raggiungere la totalità delle verità matematiche (problema della completezza) e di trovare un algoritmo capace di rilevare se una formula fosse dimostrabile (problema della decisione).

 

Logica = scienza che studia le condizioni di validità di un discorso in quanto costituito da un insieme di proposizioni legate da nessi inferenziali (deduttivi).
Il primo a compiere un’analisi sistematica della forma e della struttura degli enunciati fu Aristotele: con la precisazione del concetto di contraddizione e con l’introduzione, nei sillogismi, di simboli al posto dei termini, egli si svincola dal loro significato prospettando uno schema di scienza della deduzione (logica deduttiva) che rimase inalterato fino al XVI secolo.
Le prime intuizioni proprie della logica deduttiva si devono a Leibniz (1684): la sua ricerca di un linguaggio simbolico universale e di calcolo applicato posero il seme per la nascita di una logica simbolica e combinatoria.
Nel XVIII secolo la logica non è ritenuta essenziale e per Kant si preoccupa di creare una classe di giudizi di validità sintetici a priori, svincolati dalla conoscenza.
E’ solo nel XIX secolo che la Logica ritorna allo studio degli aspetti formali del linguaggio (logica formale).
Il fiorire degli studi algebrici e matematici costituisce una base fondamentale per il suo sviluppo, identificato da questo momento con il termine Logica matematica.
A Boole e De Morgan si devono la diffusione del simbolismo di Leibniz e la fondazione di un sistema di calcolo degli enunciati e sviluppo di algoritmi ad interpretazione logica, in connessione con quelli ad interpretazione numerica. All’inizio del XX secolo si assiste alla nascita di nuovi simbolismi (Peano) ed alla sistemazione logica del patrimonio matematico, ad opera di Frege (1902) considerato il vero iniziatore della logica moderna. Nella sua teoria occupa un posto centrale la sua definizione corretta del concetto di numeri tramite la teoria degli insiemi e la riconduzione delle proposizioni matematiche ai termini della logica pura. Le antinomie rilevate nella teoria di Frege da Russel portano ad una crisi della logica moderna ed il tentativo di superare tali antinomie vede la nascita degli indirizzi contemporanei:

IL FORMALISMO che sulla scia dell’opera di Hilbert ricerca una dimostrazione di coerenza assoluta all’interno del sistema formale matematico, messo in crisi da Godel e dalla dimostrazione del suo Teorema di Completezza (1931).

IL LOGICISMO (russel whitehead) che prosegue l’opera di Frege di logicizzazione della matematica.
La matematica è un’applicazione della logica, unica forma valida di linguaggio scientifico, e quindi riconducibile ad un numero ristretto di proposizioni logiche fondamentali, dalle quali dedurre i teoremi necessari

L’INTUIZIONISMO che vuole riportare la matematica nella sfera dell’intuibile, rifiutando la logica come suo fondamento.
Queste ultime due correnti, rifiutando l’approccio assiomatico della  costruzione logica, sono strettamente legate al costruttivismo matematico contemporaneo.

gli assiomi dell’aritmetica sono compatibili, ossia che partendo da essi e procedendo attraverso un numero finito di passaggi logici non si può mai giungere a risultati contraddittori

proposizioni indecidibili o indimostrabili nell’ambito degli assiomi del sistema. Ovvero ci sono asserzioni che non possono essere ne dimostrate ne invalidate

Categoricità = caratterizzare univocamente le teorie matematiche tramite assiomi

Problema della decisione = trovare un algoritmo in grado di rilevare se una formula è dimostrabile

Problema della completezza = il concetto sintattico di dimostrazione è sufficiente a raggiungere la totalità delle verità = ogni enunciato è dimostrabile all’interno della propria teoria

Consistente = Coerente = non contraddittorio

Filosofia = amore della sapienza

Matematica = ciò che si impara = scienza che si avvale di metodi ipotetico-deduttivi all’interno di un sistema derivato da un insieme coerente di assiomi per lo studio di enti specialmente di natura geometrica o numerica.

Gödel ha prima dimostrato la completezza semantica (proprietà di un formalismo  tale che ogni formula derivabile al suo interno sia in esso dimostrabile sintatticamente) della logica dei predicati
Poi ha dimostrato 1931 il teorema di godel secondo cui creare un sistema matematico completo e coerente è impossibile
Gödel dimostrò che, all'interno di un sistema rigidamente logico come quello sviluppato da Russell per l'aritmetica, esistono proposizioni indecidibili, è possibile cioè formulare asserzioni che non possono essere né dimostrate né invalidate.

Sintassi = insieme di regole che consentono la composizione di una formula in logica matematica o di un’istruzione informatica

Semantica = parte di un sistema formale che, occupandosi dell’aspetto interpretativo, associa a ogni enunciato di un calcolo logico, no dei segni appartenenti all’universo dei significati.

 

autore: Antonio Dembech

Fonte: http://xoomer.virgilio.it/adembech/download/Storia%20e%20fondamenti.doc

link sito web: http://xoomer.virgilio.it/adembech/

 

 

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