Giacomo Puccini vita e opere

 

 

 

Giacomo Puccini vita e opere

 

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Giacomo Puccini vita e opere

 

GIACOMO PUCCINI

BIOGRAFIA

 

Giacomo Puccini, il più importante compositore italiano della generazione post-verdiana, nacque a Lucca il 22 dicembre 1858 da una famiglia di musicisti: da molte generazioni i Puccini erano Maestri di cappella del Duomo di Lucca. 

 

Dopo la morte del padre, quando aveva solo cinque anni, fu mandato a studiare presso lo zio Fortunato Magi, che lo considerava un allievo non troppo dotato e scarsamente disciplinato. 

 

Dal 1880 al 1883 studiò al conservatorio di Milano, dove fu allievo di Amilcare Ponchielli e Antonio Bazzini. Tra le composizioni di questi anni spiccano un Preludio Sinfonico e un Capriccio Sinfonico scritto come saggio di diploma nel 1883.

 

Durante questo periodo milanese fu assiduo frequentatore di teatri e tramite la mediazione di Catalani entrò in contatto con Arrigo Boito, Franco Faccio, Marco Praga e gli ambienti della scapigliatura. 

 

Puccini partecipò al concorso per opere in un atto indetto dall'editore Sonzogno  nel 1883 con "Le Villi", su libretto di Ferdinando Fontana. L'opera non vinse il concorso, ma nel 1884 fu rappresentata con il titolo originale "Le Willis" al Teatro dal Verme di Milano sotto il patrocinio dell'editore Giulio Ricordi, concorrente di Sonzogno. 

 

Rincuorato dal successo di "Le Villi", Ricordi commissionò una nuova opera al duo Puccini-Fontana, destinata questa volta al Teatro alla Scala, ma "Edgar" (1889) non ebbe successo, e nei decenni successivi sarà radicalmente rimaneggiata da Puccini.

 

Nel 1891 Puccini si trasferì a Torre del Lago: ne amava il mondo rustico e lo considerava il posto ideale per coltivare la sua passione per la caccia e per le baldorie tra artisti. Di Torre del Lago il maestro fece il suo rifugio, facendosi costruire la villa che andò ad abitare nel 1900 e qui furono composte le sue opere di maggior successo. 

 

Il primo grande successo internazionale giunse a Torino nel 1903 con "Manon Lescaut" (libretto di D. Oliva), la terza opera di Puccini che segnò l'inizio della collaborazione con i librettisti Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, i quali  scriveranno poi i libretti delle successive opere più famose e rappresentate del teatro pucciniano.

 

" La Bohème" (Torino 1896, basata su una trama di Henry Murger), è forse l' opera più celebre di Puccini e tra le migliori del panorama operistico romantico. 

 

Con "Tosca" (1900) Puccini sfocia nel melodramma storico a forti tinte che venne accolto con favore dal pubblico romano, mentre la successiva "Madama Butterfly" (Milano 1904, basata su un dramma di David Belasco) fu un solenne fiasco alla Scala che solo dopo alcuni rimaneggiamenti diventa, in seguito, un nuovo grande successo al Teatro Grande di Brescia.

 

Seguirono 6 anni di pausa durante la quale Puccini lavora ad un'enorme quantità di progetti abortiti, talvolta abbandonati ad uno stadio di composizione avanzato, infine, dopo viaggi e riflessioni, ricominciò a concludere le sue composizioni nel 1910.

 

La passione per l'esotismo da cui era nata "Madama Butterfly" spinge sempre più il musicista a confrontarsi con il linguaggio e gli stili musicali internazionali dell'epoca, nasce così "La fanciulla del West", un western ante-litteram, rappresentata per la prima volta al Metropolitan Opera di New York nel 1910 e nel 1917 "La Rondine", concepita come operetta e nata come curioso ibrido tra operetta e melodramma. 

 

L'eclettismo di Puccini si manifesta pienamente nel Trittico, rappresentato in prima assoluta a New York nel 1918. I tre pannelli, ciascuno della durata di un atto, presentano caratteri completamente diversi l'uno dall'altro: tragico e verista "Il tabarro", elegiaca e lirica "Suor Angelica" e comico "Gianni Schicchi". 

 

Delle tre "Gianni Schicchi" fu subito la più popolare, mentre "Il Tabarro" inizialmente giudicata inferiore, guadagnò col tempo il favore della critica. "Suor Angelica" fu invece la preferita dell'autore. Concepite per essere rappresentate insieme, le tre opere che compongono il Trittico sono oggi il più delle volte rappresentate singolarmente, abbinate a opere di altri compositori.

 

Puccini compose 12 Opere, molte pagine corali,  tra cui una Messa e un Requiem, liriche per canto e pianoforte e varie composizioni strumentali.

 

L'ultima opera, "Turandot", iniziata nel 1920 rimase incompiuta, interrotta dalla morte di Puccini quando mancava soltanto il finale dell'ultimo atto: il compositore morì a Bruxelles il il 24 novembre 1924, per sopraggiunte complicazioni durante la cura di un tumore all'esofago. 

 

La morte di Puccini fu un lutto per l'Italia intera e per tutti i suoi sostenitori sparsi nel mondo. Inizialmente il compositore venne seppellito a Milano, ma nel 1926 il figlio Antonio fece trasferire le sue reliquie a Torre del Lago in una piccola cappella privata della villa sul lago dove Puccini aveva composto i suoi capolavori.

 

Le ultime due scene della "Turandot" furono terminate da Franco Alfano, ma la sera della prima rappresentazione il maestro Toscanini interruppe l'esecuzione là dove il maestro l'aveva interrotta, con la morte di Liù. 

 

Nel 2001 Luciano Berio compose un nuovo finale basato sul medesimo libretto e sugli appunti di Puccini.

 

Fonte: http://www.icfederico.it/InformaScuola/SpazioDocen/musica/PUCCINI/GPucciniBiografia.doc

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Giacomo Puccini vita e opere

GIACOMO PUCCINI

LA BOHEME

Trama dell’opera


QUADRO PRIMO

In una misera soffitta.
Quattro giovani amici - il poeta Rodolfo, il pittore Marcello, il musicista Schaunard ed il filosofo Colline - conducono una gaia vita di bohème. I soldi mancano quasi sempre, spesso si digiuna, ma la gioventù e la spensieratezza aiutano a superare molti ostacoli. La vigilia di Natale vede Rodolfo e Marcello che, infreddoliti ed impossibilitati a lavorare per il gelo che ha invaso la soffitta, sono costretti a bruciare nel caminetto il grosso manoscritto di un dramma di Rodolfo. Rientra Colline, desolato perché ha trovato chiuso il Monte dei Pegni; ma Schaunard, invece, arriva tutto esultante portando del denaro, frutto di un'insolita sua prestazione musicale. I quattro amici decidono di festeggiare la vigilia di Natale con una cena al Quartiere Latino, quando giunge, non gradito, il padrone di casa Benoh a reclamare la pigione dell'ultimo trimestre. Costretto a bere dai turbolenti inquilini, il vecchio si lascia andare ad imprudenti confidenze sulle sue infedeltà coniugali e viene perciò cacciato con alte grida di riprovazione dagli improvvisati moralisti. Marcello, Colline e Schaunard escono; Rodolfo deve attardarsi per finire un articolo di giornale. Mentre il poeta sta scrivendo, fa la sua apparizione Mimì, una dolce e bella grisette che abita in una soffitta dello stesso casamento. Le si è spenta la candela, chiede aiuto a Rodolfo: ma, appena entrata, si sente male e le cadono di mano il candeliere e la chiave di casa. Rodolfo è colpito dal pallore e dalla bellezza della fanciulla. l'aiuta a rimettersi ma, trovata nel buio la chiave, si guarda bene dal restituirla a Mimì: chiamato a gran voce dagli amici impazienti di far baldoria, convince la ragazza ad unirsi a loro. Mimì dolcemente cede. Già innamorati, i due giovani si baciano, poi a braccetto, si avviano giù per la scala.

QUADRO SECONDO
Al Quartiere Latino.
Colline ha comprato un vecchio, sdrucito pastrano; anche Schaunard fa acquisti, mentre Rodolfo e Mimì si aggirano fra la folla, felici del loro amore. Il solo Marcello è triste e pensieroso: la bella Musetta, infatti, lo ha abbandonato da qualche tempo per correre dietro a nuovi amori. Rodolfo compra una cuffietta rosa a Mimì e presenta la ragazza agli amici; tutti insieme si siedono ad un tavolo del Caffè Momus ed ordinano una ricca cena. Appare ad un tratto sulla piazza Musetta, elegantemente vestita: le vien dietro Alcindoro, un vecchio pomposo e ridicolo che è il suo amante attuale. Scorto Marcello, la ragazza si siede al tavolo vicino a quello degli amici e dal suo posto lancia frasi maliziose e occhiate eloquenti. Marcello finisce per cedere, una volta ancora, al fascino di Musetta, la quale civetta con lui dopo aver allontanato con un pretesto Alcindoro. Passa la banda militare seguita da una gran folla; i due amici si allontanano unendosi alla baraonda generale. Quando Alcindoro torna al suo tavolino, non trova più Musetta ma, in cambio, i due conti da pagare, e cade sopra una sedia allibito.

QUADRO TERZO
La Barriera d'Enfer.
In un cabaret vicino, lavora Marcello, ivi alloggiato insieme con Musetta, che dà lezioni di canto agli ospiti. E' l'alba: gli spazzini si recano al lavoro, passano carrettieri e lattivendole. Mimì, pallida e sofferente, ha un colloquio con Marcello: la vita con Rodolfo è diventata impossibile, le liti e le incomprensioni sono all'ordine del giorno e la fanciulla non sa più che fare. Nascosta dietro agli alberi, Mimì assiste al colloquio tra Rodolfo - appena sopraggiunto - e Marcello: il poeta accusa Mimì di leggerezza e infedeltà ma poi - dietro insistenza di Marcello - confessa la vera ragione del suo modo d'agire. Mimì è gravemente ammalata e la vita nella fredda ed umida soffitta finirebbe per abbreviarle l'esistenza: è necessaria quindi una separazione. Mimì, dal suo nascondiglio, si lascia sfuggire un singhiozzo, e Rodolfo la scopre. Un appassionato colloquio s'intreccia tra i due amanti, che ricordano con struggente nostalgia tutte le gioie del periodo trascorso insieme. Alle tristi e dolorose parole di Mimì e di Rodolfo si uniscono, ad un certo punto, le frasi pungenti e velenose di Musetta e Marcello: il pittore ha scoperto l'amica mentre civettava con un avventore e le fa una violenta scenata di gelosia, alla quale la ragazza reagisce infuriata. Anch'essi si lasceranno: la vita in comune è diventata un inferno. Mentre Mimì e Rodolfo si avviano verso i loro ultimi giorni di felicità, Musetta continua a lanciare atroci insulti contro Marcello, che rientra nel cabaret furibondo.

QUADRO QUARTO
Nella Soffitta.
Rodolfo e Marcello, da qualche tempo lontani da Mimì e Musetta, ostentano indifferenza e perfetta felicità, ma in realtà pensano e continuamente rimpiangono le amiche perdute. Giungono Colline e Schaunard che recano una magra cena: pane e un'aringa. Simulando un gaio e ricco festino, i quattro buontemponi inscenano una buffa pantomima, ballando e cantando con umoristico brio. Ma l'animata scena è interrotta dall'arrivo improvviso di Musetta, che accompagna Mimì sofferente e semisvenuta. La ragazza è infatti gravissima: sentendo prossima la fine ha voluto rivedere il suo Rodolfo e, per strada, ha incontrato Musetta che da tempo la cercava. Rodolfo adagia Mimì sul letto e gli amici si prodigano per recarle qualche conforto: Musetta venderà i suoi orecchini, Colline impegnerà il suo vecchio pastrano. Rimasta sola con Rodolfo Mimì rievoca i dolci momenti del loro amore e si stringe ancora, con infinita passione, all'unico uomo che ha veramente amato.
Rientrati gli amici, Mimì prende con gioia dalle mani di Musetta un manicotto che ella crede dono di Rodolfo e si assopisce quietamente. Musetta prega per la salvezza dell'amica; Rodolfo continua ad illudersi finché il contegno degli astanti gli rivela che Mimì si è spenta. Piangendo, si getta allora sul corpo della fanciulla invocandola disperatamente.

 

 

Fonte: http://www.icfederico.it/InformaScuola/SpazioDocen/musica/PUCCINI/LABOHEME-trama.doc

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Giacomo Puccini vita e opere

 

Nessun dorma - "Turandot" (Giacomo Puccini)

 


Nessun dorma!
Nessun dorma!
Tu pure, o principessa,
nella tua fredda stanza
guardi le stelle che tremano
d'amore e di speranza!
Ma il mio mistero
è chiuso in me,
il nome mio nessun saprà!
No, no, sulla tua bocca lo dirò,
quando la luce splenderà!
Ed il mio bacio scioglierà
il silenzio che ti fa mia!

Il nome suo nessun saprà...
E noi dovrem, ahimè, morir! Morir!

Dilegua, oh notte!
Tramontane, stelle!
Tramontane, stelle!
All'alba vincerò!
Vincerò!
Vincerò!

 

Fonte: http://quarta-e.wikispaces.com/file/view/Nessun+dorma.doc

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Giacomo Puccini vita e opere

Giacomo Puccini

Appunti biografici nel 150 o anniversario della nascita

 

  

 

Nato il 22 dicembre del 1858 a Lucca, città importante per il patrimonio artistico e per aver dato i natali a grandi musicisti quali Geminiani, Boccherini e Catalani, Giacomo Antonio Domenico Secondo Maria Puccini intraprese fin da giovanissimo gli studi musicali sotto la guida dello zio materno, dopo aver perso il padre a soli cinque anni. Da molte generazioni i Puccini rivestivano l’incarico di Maestro di Cappella presso il Duomo della Città.

È del 1875 la prima composizione conosciuta: una lirica intitolata A te, opera di Puccini studente, a cui ne seguirono subito altre, quali Preludio a Orchestra, Plaudite populi, che iniziarono ad attirare l’attenzione dei critici del tempo fino a farlo approdare al Conservatorio di Milano con una borsa di studio ed al Teatro alla Scala. Cambiò spesso abitazione a causa dei pochi soldi che aveva a disposizione, mentre sua madre faceva di tutto per cercare di non fargli mancare nulla. Nel frattempo, nel 1884 Puccini aveva messo su famiglia, iniziando una convivenza destinata a durare tra varie vicissitudini tutta la vita con Elvira Bonturi, moglie del droghiere lucchese Narciso Gemignani. Elvira portò con sé la figlia Fosca e tra il 1886 e il 1887 la famiglia visse a Monza, dove nacque l'unico figlio del compositore, Antonio detto Tonio.

Sotto la guida del Maestro Ponchielli, come compositore Puccini non amava scrivere finché non era del tutto convinto del brano e anche per questo sono poche le sue composizioni nell’ultimo anno degli studi accademici. La migliore è datata 8 giugno 1883, Storiella d’amore, primo lavoro ad essere pubblicato: racconta, riprendendola da Dante, la storia di Paolo e Francesca. Fra le opere di maggior valore sono da ricordare anche due composizioni sinfoniche presentate come saggi di Conservatorio, il Preludio Sinfonico del 1882 e Capriccio Sinfonico del 1883, che contengono diversi richiami tematici e stilistici ad alcune opere di Wagner.

Le Villi, Edgar, Manon Lescaut, La Bohème, La Tosca, Madama Butterfly, sono le prime opere di respiro internazionale dell’artista che rappresentarono tra il 1892 ed il 1904 i primi successi ed anche fallimenti e che ancora oggi apprezziamo.

Amante delle auto e dei motori, della buona cucina e della vita bohèmienne, il periodo successivo fu dedicato ai viaggi tra l’Italia, l’Europa e New York ed alla composizione di altre opere melodrammatiche quali La fanciulla del West, La Rondine, Il Trittico. Puccini compose 12 Opere, molte pagine corali, tra cui  una Messa e un Requiem, liriche per canto e pianoforte e varie composizioni strumentali, indimenticabili per qualità melodica, intensità drammatica, originalità e preziosismo sonoro.

Con la sua morte per un tumore alla gola, il 29 novembre del 1924 in Belgio, Giacomo Puccini lasciò purtroppo incompiute alcune delle sue composizioni non soltanto teatrali oggi definite tra le più riuscite e complesse della sua carriera, come La Turandot, di ambientazione fantastica, la cui azione -come si legge in partitura- si svolge «al tempo delle favole». In questa opera “l'esotismo perde ogni carattere ornamentale o realistico per diventare forma stessa del dramma: la Cina diviene così una sorta di regno del sogno e dell'eros e l'opera abbonda di rimandi alla dimensione del sonno, nonché di apparizioni, fantasmi, voci e suoni provenienti dalla dimensione ''altra'' del fuori scena”.

Oggi, grazie alla Fondazione ed altre Associazioni che dedicano all’Artista concerti e mostre, ed al Festival Pucciniano a Torre del Lago in Toscana, città legata alla vita di Puccini, per i turisti e per gli appassionati di musica lirica e strumentale possono rivivere ogni anno le stupende sinfonie del grande compositore italiano.

 

FONTI BIBLIOGRAFICHE E LINKS:

 

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http://it.wikipedia.org/wiki/Giacomo Puccini

www.festivalpuccini.it

www.giacomopuccini.it

 

Fonte: http://www.bandafilottrano.it/PUCCINI.doc

Autore del testo: http://www.bandafilottrano.it

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Giacomo Puccini vita e opere

Solo per il teatro: Giacomo Puccini

Verso la fine della sua vita Giacomo Antonio Domenico Michele Secondo Maria Puccini scrisse a un amico: « Dio onnipotente mi toccò con il mignolo e mi disse: " Scrivi per il teatro. Ricordatene, solo per il teatro E io ho obbedito a quel supremo comandamento ». Si sottomise all'inevitabile con tanta prontezza e tanto talento che compose tre delle opere più popolari mai scritte, mori ricco di un paio di miliardi, ebbe tutte le possibilità di giocare a poker, di decimare la popolazione di anitre intorno alla villa di Torre del Lago e di soddisfare la sua passione per le barche veloci, le macchine potenti e le donne facili.
Questa, in sintesi, è la storia della vita di Puccini. (Compose anche altre cose, oltre alle opere, ma sono poche e pochissimo importanti.) Una volta si definí « un potente cacciatore di uccelli selvatici, libretti d'opera e belle donne ». Pare che abbia detto anche: « Pensate un po'! Se non fossi capitato per caso a occuparmi di musica non sarei mai riuscito a far niente al mondo! ». Non si interessava molto alla politica e al mondo che lo circondava. Non lo interessavano particolarmente la scena musicale o i giovani compositori. Del resto, non lo interessavano neanche quelli vecchi. Non era né conservatore né rivoluzionario. Non apparteneva a nessuna conventicola musicale. Non fu un rappresentante di quel verismo che affascinava i compositori italiani della fine del secolo scorso, anche se nelle sue opere appaiono elementi veristici. Politonalità, neoclassicismo, futurismo, impressionismo, dodeca¬fonia: fu indifferente a tutti questi appelli alla lotta, pur non ignorando certi classici moderni come il Pelléas et Mélisande di Debussy e il Pierrot lunaire di Schönberg, e pur essendo disposto a incorporare nella sua musica quelle cose, della nuova scuola, che gli piacevano. Se certi apetti del verismo lo interessavano, se ne serviva, come fece nella Tosca e nel Tabarro. Se lo colpiva il modo in cui Debussy aveva usato la scala a toni interi, lo imitava, come nella Fanciulla del West. Di norma, un saccheggio sistematico come questo porterebbe all'eclettismo, ma Puccini non fu un eclettico. Il suo stile era troppo preciso, troppo personale. Indipendentemente da ogni definizione, fu completamente estraneo alle tendenze intellettuali del tempo. Musicalmente parlando, dovette ben poco a chiunque, e questo è uno dei miracoli del compositore della Bohème, della Tosca e di Madama Butterfly.
Nato a Lucca il 22 dicembre 1858, ultimo (si vide poi) di una serie di cinque generazioni di rispettati musicisti, crebbe naturalmente all'ombra di Verdi, forza predominante della musica italiana della seconda metà del diciannovesimo secolo. Non che non ci fossero altri compositori: ma sono poche le colline ai piedi della montagna verdiana. Dal 1870 in poi poche opere nuove entrarono a far parte del repertorio. Stupisce vedere quanti compositori fossero per una sola opera fuori dei confini del paese natale, e perfino dentro. Ci furono Boito, con la versione riveduta del Mefistofele, del 1875; Amilcare Ponchielli (1854-1906) che nel 1876 dette La Gioconda, e questa fu la sola, delle sue nuove opere, che resistesse; Alfredo Catalani (1854-1893), di cui si parlò molto allora ma le cui due opere piú importanti, la Loreley (1880) e La Wally (1892), furono spazzate via da Puccini e dai veristi, e vengono messe in scena di rado fuori d'Italia.
La nuova scuola dei compositori veristi apparve nell'ultimo decennio del secolo scorso, e dette almeno due opere di una certa levatura. I veristi si proponevano di ottenere effetti realistici, spesso vestendo i personaggi di abiti contemporanei, utilizzando trame d'ambiente popolare invece che aristocratico, compiacendosi di scene di violenza e descrivendo l'azione e gli stati d'animo con una musica di forte emotività. Il primo fu Pietro Mascagni (1863-1945) con la Cavalleria rusticana, del 1890. Poi venne Ruggero Leoncavallo (1858-1945) con I pagliacci, del 1892. Nel 1896 venne l'Andrea Chénier di Umberto Giordano (1867-1948), ambientato al tempo della Rivoluzione francese ma caratterizzato da tanti elementi veristi che lo si può senz'altro assegnare a questa scuola.
Il verismo durò poco piú di dieci anni e quasi tutti i suoi esponenti sono in effetti ricordati per una sola opera. Mascagni non scrisse mai niente che eguagliasse la popolarità della Cavalleria, anche se L'amico Fritz (1891) ha delle cose belle e il « duetto delle ciliegie » è un gioiello dalla prima all'ultima nota. Analogamente, Leoncavallo non riuscí mai a rinnovare il successo dei Pagliacci, anche se Zazà fu replicata per qualche anno. Ricordato per una sola opera è anche Francesco Cilea (1866-1950), la cui Adriana Lecouvreur fu rappresentata per la prima volta nel 1902. Al gusto moderno l'opera verista risulta troppo isterica e melodrammatica, benché sia doveroso riconoscere che la Cavalleria e i Pagliacci non rivelano segni di scemata popolarità.
Puccini maturò in questo periodo ma non ne fu toccato. Nella sua musica non ci sono le esuberanze e le magniloquenze del verismo Non c'è neanche Verdi (salvo che in Gianni Schicchi derivato dal Falstaff) e non c'è minimamente Wagner. In qualche modo egli mise a punto uno stile personale, inimitabile, che fa distinguere le sue opere dalle altre italiane del tempo, come si distingue il canto di un usignolo nel cinguettio di uno stuolo di passeri. Il solo compositore di allora la cui musica si potrebbe paragonare alla lontana a quella di Puccini fu Massenet; in un certo senso Puccini è il Massenet italiano, ma dotato di un maggior senso teatrale e di una superiore ispirazione melodica. Le sue opere hanno generalmente libretti che funzionano, giacché il compositore si preoccupò puntigliosamente della legittimità della situazione drammatica. Ma non è questo che le rende importanti: è il canto, tenero e sensuale, che Puccini offre. La melodia gli sgorgava spontanea, e in questo lo si potrebbe dire un compositore istintivo, perché tutto si può insegnare, della composizione, ma non a creare una melodia immortale. Magari Puccini fu mediocre nella fuga, ma fu ricco di melodia espressiva, e questo è basilare in un compositore d'opera. Rosa Raisa, il grande soprano drammatico che interpretò per prima la parte di Turandot, disse che dopo decine e decine d'anni che cantava e ascoltava le opere di Puccini, ne era invariabilmente e profondamente commossa: « Alla Bohème comincio a piangere al terzo atto ».
Le opere pucciniane sono forse ingenue; e i musicisti, inoltre, fanno loro carico di sollecitare gli istinti piú elementari degli spettatori. Non si può negare che molte sono veramente strappalacrime, e chi considera la musica come un mezzo di elevazione spirituale le rifiuta. Quest'ultimo punto di vista è bene espresso dal giudizio di Arnold Schönberg: « Ci sono mezzi superiori e inferiori, artistici e non artistici ... Gli episodi realistici, violenti - come la scena della tortura della Tosca - che hanno un immancabile effetto non dovrebbero mai essere utilizzati da un artista, perché sono troppo a buon mercato, troppo alla portata di tutti ». Se si vuole, è facilissimo trovare difetti in tutte le opere pucciniane, salvo, forse, la Bohème o Gianni Schicchi che sono perfettamente strutturate (eppure, la graziosa aria « O mio babbino caro » del Gianni Schicchi è per alcuni una pecca nella costruzione, altrimenti ben salda, dell'opera). Quasi sempre gli ultimi atti delle opere pucciniane sono deboli, pieni di melodie ricorrenti; e tutte hanno motivi così facili e svenevoli da invitare alla « beccata ». C'è chi le detesta, e cita ogni sorta di valide ragioni. Ma tutto ciò non conta. Puccini tocca corde che emozionano profondamente, resta uno dei compositori piú popolari. Raggiunse il successo con la melodia, con l'aggiunta di una tecnica compositiva piú complessa e raffinata di quanto non si riconosca comunemente.
Oltre che alla melodia, il pubblico risponde anche ai personaggi, specialmente le eroine. Puccini è sempre molto piú convincente nei personaggi femminili. Si riconosceva bene nelle donne. Mosco Carner, un suo biografo, chiarisce perfettamente questo punto quando dice che « mentre il basso fondamentale delle opere di Verdi è un grido di battaglia, quello di Puccini è un invito all'amplesso ». E ancora, il pubblico risponde bene anche ai libretti, che hanno trame lineari e trattano di passioni ed eventi elementari: odio, amore, separazione, morte. Si potrebbe dire altrettanto dei libretti di Verdi, ma quelli di Puccini aspirano a un certo livello letterario, e nel complesso lo raggiungono (ma fanno sempre eccezione, tra i libretti verdiani, l'Otello e il Falstaff). Puccini non avrebbe mai accettato le tormentate complicazioni di un libretto come il Don Carlos o il Simon Boccanegra. I suoi sono semplici e chiari, si seguono bene e sono popolati di personaggi con problemi che trovano eco immediata in qualunque pubblico. Sarà anche facile sentimentalismo, ma è bello: un mondo di sogno che non è mai esistito, in cui le emozioni sono manipolate con mano esperta da compositore e librettista. I quattro giovani della Bohème sono gli archetipi di tutti i giovani artisti che hanno diviso una soffitta e fatto grandi sogni. (In tutto questo c'era dell'autobiografia. Studente a Milano, Puccini aveva diviso la stanza con Mascagni. Avevano vissuto la vie de bohème, mangiando a credito al ristorante Aida e proteggendosi reciprocamente dai creditori. Puccini arrivò addirittura a impegnarsi il cappotto, come Colline nella Bohème; solo che a lui i soldi servivano per uscire con una ballerina.) Cio-Cio-San rappresenta tutte le donne che hanno amato generosamente. Mimi, la dolce ma non troppo brillante ragazza coinvolta in un amore che non può non concludersi infelicemente, è profondamente umana. E l'impetuosa Tosca, misto di temperamento, passione e gelosia (neanche lei, come Cio-Cio-San e Mimi, è troppo brillante) resta eternamente interessante e provocante. Puccini, che conosceva benissimo le donne, non creò mai dei manichini. Le sue eroine sono anche troppo umane.
Nonostante la cura dei particolari, nonostante l'abilità musicale e il senso del teatro, Puccíni fu uno dei compositori meno intellettuali che sia mai vissuto. Non stupisce perciò che tanti dotti musicisti disapprovino il favore del pubblico pit, sprovveduto per tanto ciarpame sentimentale. Uno dei piú accaniti avversari della musica pucciniana fu Fausto Torrefranca, che nel 1912 azzardò la profezia che Puccini sarebbe stato dimenticato nello spazio di qualche decennio. Puccini, scrisse, era « decadente, manipolatore », piuttosto che compositore. E cosí via, fino a Joseph Kerman che nel 1956 definí la Tosca « un romanzetto d'appendice » e giudicò la Turandot ancora piú guasta della Tosca e tutte le opere pucciniane in genere « false dalla prima all'ultima nota ». Quanto piú intellettuale è il critico, tanto piú tende a disprezzare Puccini.
Eppure, le opere hanno, semmai, visto aumentare la loro popolarità negli anni. È fatto eccezionalissimo che una stagione di un teatro importante non abbia in cartellone almeno una delle tre piú grandi, Bohème, Tosca, Butterfly. La Turandot e la Manon Lescaut hanno il successo che si meritano e perfino la Fanciulla del West, un tempo disprezzata, torna ad attirare l'attenzione. Gianni Schicchi, una delle opere piú divertenti mai scritte - peccato che Puccíni sfruttasse tosi raramente il suo talento comico! - è un'opera di repertorio, e il malinconico Tabarro, che con le altre due opere in un atto, Gianni Schicchi e la relativamente debole Suor Angelica, forma il Trittico, ha grande presa con la sua cupa atmosfera. È la sola incursione di Puccini nel verismo a oltranza. Le altre opere, Le Villi e Edgar appartengono al periodo di apprendistato, mentre La Rondine viene rappresentata di rado. Commissionata da Vienna, La Rondine è un'operetta dolce-amara e probabilmente sarà riscoperta. La Turandot è l'ultima opera, la piú massiccia e ambiziosa, e fa invariabilmente un grande effetto, se il soprano e il tenore hanno abbastanza voce.
Quando Puccini nacque, era già scontato che sarebbe diventato compositore. I Puccini erano musicisti e organisti di chiesa a Lucca sin dal 1712. Ma il ragazzo era tutt'altro che un prodigio. Gli insegnanti del seminario erano esasperati dalla sua pigrizia. « Viene a scuola a scaldare i banchi » disse uno di loro. In ogni modo, dimostrò sufficiente talento per essere mandato con una borsa di studio al Conservatorio di Milano, dove ebbe come principale maestro Ponchielli. Il suo primo successo, Le Villi (1884) gli attirò l'attenzione di Giulio Ricordi. Il capo della famosa casa editrice fondata nel 1808 puntò tutto su di lui, e non fece mai investimento migliore. Dopo l'insuccesso dell'Edgar, nel 1889, e il moderato successo di Manon
Lescaut nel 1893, venne la Bohème, nel 1896: Puccini diventò ricco, e Ricordi ricchissimo. Se lo meritò, perché aveva sovvenzionato il compositore negli anni difficili e aveva dovuto lottare per vincere la sua pigrizia. Quando Puccini lavorava a un'opera Giulio Ricordi (e, dopo la sua morte, il figlio Tito) gli scriveva lettere disperate: « È cominciata la stagione della caccia. Avanti, Puccini! Non permettere che la passione per gli uccelli ti allontani dalla musica! ».
Nel 1904 Puccini sposò Elvira Gemignani, con la quale viveva già da molti anni.
La Gemignani, già sposata, era fuggita con lui da Lucca a Milano: quando il marito mori Puccini la sposò. Il loro fu un amore dapprima violento e appassionato. Poi litigarono con altrettanta violenza e restarono divisi per un certo periodo. Questo accadde al tempo dell'episodio di Doria Manfredi. Doria era cameriera alla villa di Torre del Lago, vicino a Firenze; Elvira si mise in testa che ci fosse una relazione tra lei e Puccini. Ne fece una piazzata, lanciò accuse di ogni genere contro la povera ragazza e la perseguitò inesorabilmente. Alla fine, Doria si avvelenò. L'autopsia rivelò che era vergine. Puccini fuggi a Roma, si chiuse in albergo e pianse per giorni e giorni. Elvira fu condannata a cinque mesi per avere indotto Doria al suicidio. « Che soggetto per un'opera! » disse tutta Italia. Alla fine Puccini ritornò da Elvira, ma probabilmente non le fu mai piú vicino come una volta.
Secondo tutte le testimonianze Elvira non era una donna interessante. Il baritono Titta Rufio disse che la sua gelosia « rasentava la follia ». I musicisti che lavoravano con Puccini e che erano suoi amici sono sempre stati singolarmente restii a parlarne. Uno disse soltanto che non era « molto colta ». Un altro la ricordava « corpulenta, piuttosto severa, un tipo piú teutonico che latino ». Era da ogni punto di vista diversa da Puccini. Invecchiando, Giacomo diventò piú bello e raffinato, piú interessante agli occhi delle donne: di raffinata eleganza, alto, d'aspetto aristocratico, aveva volto ovale, baffi ben curati, palpebre spesse e labbra sensuali. Era un figurino, e la prima volta che si recò in America, nel 1907, fece grande impressione ai giornalisti, abituati alle capigliature leonine di un Paderewski o di un Gabrilowic. Un musicista con i capelli corti! Lo stesso Puccini aveva parlato di musicisti « che si credono geni solo perché hanno la forfora ». Elvira, invece, era trasandata, non aveva successo mondano e non aiutò mai il marito a svilupparsi intellettualmente o sentimentalmente. Se Puccini avesse sposato la donna giusta - molti ne sono convinti - sarebbe maturato meglio e forse sarebbe vissuto piú a lungo (mori a Bruxelles il 29 novembre 1924 mentre era in cura per un cancro alla gola, indubbiamente provocato dal suo fumare eccessivo). Certo, se avesse avuto la donna adatta, non avrebbe sentito il bisogno di passare dalle braccia dell'una alle braccia dell'altra.
Molti, per di piú, ritengono che fu colpa di Elvira, se Puccini ebbe cosí pochi amici intimi, forse addirittura nessuno. Puccini non si legò sul serio a nessuno. I suoi amori erano affari di sesso piú che di sentimento. Per un certo periodo di tempo fu in buoni rapporti con Arturo Toscanini, che aveva diretto la prima della Bohème nel 1896. Ma fu un'amicizia piena di alti e bassi. Il direttore Giorgio Polacco amava raccontare la storiella di un panettone che Puccini mandò a Toscanini a Natale in un periodo di guerra fredda. Improvvisamente gli venne in mente che in quel momento non si parlavano e telegrafò a Toscanini: PANETTONE MANDATO PER ERRORE. PUCCINI. Il giorno dopo arrivò la risposta: PANETTONE MANGIATO PER ERRORE. TOSCANINI.
Nel complesso, la vita di Puccini non ebbe avvenimenti di rilievo. Produsse opere a intervalli regolari, fu piuttosto riservato sulla sua vita privata (a parte l'episodio della Manfredi non fu mai protagonista di scandali) e parlò di rado ai giornalisti. Anche negli Stati Uniti, dove i rappresentanti della stampa lo assediavano, parlò poco, e i cronisti, disperati, potevano dare solo spoglie notizie, senza riferire episodi piccanti, sul popolare compositore. Si divertirono un po' con lui nel 1910, quando parti per l'Italia con il Lusitania. Lo accompagnarono al porto Giulio Gatti-Casazza, direttore del Metropolitan, e molti cantanti. Era presente anche un nugolo di giornalisti. Ecco come l'inviato del " Telegraph " descrisse il commiato (l'emotività degli italiani ha sempre ispirato molto la stampa americana):
... Il gruppo del Met ha caricato in massa Puccini, che da coraggioso li ha affrontati a braccia spalancate e labbra protese.
Si è sentito un rumore simile a quello che si sente quando ci si sfila un paio di galosce bagnate. Era il doppio bacio di Gatti-Casazza a Puccini, uno per guancia.
Poi si è sentito un risucchio quale potrebbe fare lo zoccolo di una mucca tirato su dal fango. Era il caloroso saluto di Amato.
Rumore di rasoio affilato rapidamente sulla coramella.
Era Scotti, il basso, che schioccava sette o otto bacini per guancia ...

E via di questo passo.
Se c'era poco da scrivere su Puccini uomo, non c'era gran che su cui diffondersi per quanto riguardava il compositore. Le sue opere non provocavano accese polemiche, come quelle di Wagner, come la Salomè nel 1905. Ebbero quasi tutte un successo sicuro e immediato: il solo fiasco si registrò alla prima della Madama Butterfly, a Milano. Puccini la riscrisse alla svelta, e trionfò. Sorprende vedere come siano poche le differenze tra la Bohème del 1896 e la Turandot del 1924, anche se questa ultima è piú ampia e un po' piú complessa dal punto di vista armonico. Le opere altamente sentimentali e di trasparente drammaticità scritte da Puccini per il palcoscenico non sono, sia pure in modo diverso, meno ciniche di quelle di Massenet. Puccini sapeva benissimo come commuovere il pubblico. Per lo meno fu tanto abile da applicare le stesse formule senza cadere nell'autoparodia. Le opere che si differenziarono furono Il Tabarro, dalla sonorità fluida, le emozioni primitive e gli effetti veristici che ricordano la Cavalleria rusticana, e soprattutto il brillante e frizzante Gianni Schicchi, che è per il resto della produzione di Puccini ciò che il Falstaff è rispetto a quella di Verdi: un'opera comica con pochissime frasi fatte, senza sentimentalismi; un'opera nella quale l'orchestra commenta l'azione; un'opera dalla gaiezza spumeggiante che si diverte affettuosamente alle spalle dell'uomo e delle sue imprese. È opera italiana quanto I Maestri Cantori sono opera tedesca, e realizza il suo intento in un quinto del tempo dell'opera wagneriana. È davvero mirabile, ma
Puccini non tentò mai di farne un'altra simile. Si rivolse invece al grand opéra. In Turandot avrebbe evocato gli orientalismi della Madama Butterfly, ma molto piú in grande.
Mori prima di finirne l'ultimo atto. Era scoraggiato. Gli sembrava che la Turandot avesse preso una piega sbagliata e non pensava di riuscire a correggerla. « Ormai il pubblico per la musica nuova non ha piú il palato a posto », scriveva nel 1922. « Ama o subisce musiche illogiche, senza buon senso. La melodia non si fa piú, o se si fa è volgare. Si crede che il sinfonismo debba regnare e invece io credo che è la fine dell'opera di teatro. » Forse aveva ragione. Turandot era l'ultima opera in grado di diventare un pezzo fisso del repertorio. Le opere di Berg e di Janaček sono ammirate, ma non dal grosso pubblico; le opere composte da Strauss dopo Rosenkavalier (Il Cavaliere della Rosa) nel 1911 hanno solo un piccolo seguito; quelle di Benjamin Britten - di ogni compositore venuto dopo Puccini, anzi - non si sono affermate. La Turandot è stata l'ultima opera amata senza riserve dal pubblico.
Solo le ultime pagine rimasero incompiute, e fu Franco Alfano che provvide a finire l'opera. Alla prima mondiale, data alla Scala il 25 aprile 1926, a un certo punto del terzo atto Toscanini si girò verso il pubblico e disse: « Qui finisce l'opera perché a questo punto il Maestro è morto ». Per un certo tempo non si è saputo bene se Toscanini avesse continuato o no la rappresentazione. Nel 1959 Rosa Raisa ha messo fine alla controversia dichiarando che Toscaniní non andò avanti. Solo alla seconda replica diresse la fine scritta da Alfano.
Compositore non veloce e neppure prolifico, Puccini dedicava molto tempo a ogni opera. Se avesse trovato libretti adatti ne avrebbe scritte altre. Lesse molti libretti e cominciò a musicarne qualcuno prima di scartarlo. Ricordava sempre agli amici di segnalargli il materiale adatto, dicendo che non sapeva lavorare se il libretto non lo ispirava. Prima di comporre, studiava l'ambientazione della vicenda. Il senso teatrale e l'amore della precisione che lo distinguevano erano molto ammirati dai cantanti. « Con Puccini c'è dramma, dramma, dramma » diceva Rosa Ponselle. Per la Raisa, la qualità essenziale di Puccini era « il dramma, accompagnato dalla musica ». Per assicurare autenticità alle opere Puccini controllava attentamente ogni particolare storico, topografico e psicologico del libretto. Nel 1899 scriveva a Ricordi: « Sai come sono scrupoloso quando si tratta di interpretare la situazione o le parole e tutto ciò che ha importanza, prima di mettere qualcosa sulla carta ». Mentre lavorava alla Tosca scrisse a padre Pietro Panchelli perché gli procurasse, tra l'altro, la versione del canto fermo su cui si canta il Te Deum nelle chiese romane. Lo stesso Panichelli gli inviò una descrizione delle precedenze da osservare nella processione cardinalizia e dei costumi indossati dalle Guardie Svizzere. Attraverso Panichelli, Puccini riuscí inoltre a sapere la nota esatta della campana piú grande di San Pietro, che voleva riprodurre nel terzo atto dell'opera. Puccini si recò addirittura a Roma per cogliere da Castel Sant'Angelo l'impressione prodotta dai rintocchi delle molte chiese vicine al primo Angelus. Per la Butterfly studiò la musica giapponese, facendosi mandare delle registrazioni dal Giappone; poi fece del suo meglio « per far cantare B.F. Pinkerton come un americano », qualunque cosa questa frase sibillina significhi. Per La fanciulla del West studiò le vecchie canzoni popolari americane « per creare l'atmosfera ».
Niente gli sfuggiva, nella sua ricerca di realismo. Lucrezia Bori ha raccontato che una volta Ricordi l'avverti che tre signori sarebbero andati a Parigi per sentirla cantare: voleva essere tanto gentile da imparare qualche aria della Manon Lescaut? La Bori le imparò e un giorno i tre signori si fecero vedere. Erano Gatti-Casazza, Toscanini e Puccini. « Mi guardarono dalla testa ai piedi e poi dai piedi alla testa » raccontò la Bori. « Mi esaminarono ben bene ». Evidentemente furono soddisfatti di ciò che videro e sentirono, perché poco dopo la Bori cominciò a provare la Manon con Caruso. Cantò quella parte per la prima volta come « artista ospite » al Metropolitan, e poi, nel 1910, in tournée per l'Europa.
« Mi ero fatta fare i costumi nuovi a Parigi » raccontò ancora la Bori. « Mi costarono una fortuna. Dopo la prova generale tutti vennero a congratularsi con me. Poi venne Puccini, con una tazza di caffè. " Bori " disse " andava tutto alla perfezione. Solo che all'ultimo atto, quando la Manon ha fame ed è senza un soldo, il suo costume è troppo pulito. " E mi verso addosso la tazza di caffè. »
Con i cantanti Puccini era molto esigente, ma non perdeva mai la calma. Quando Edward Johnson cantò nei ruoli principali di Gianni Schicchi e del Tabarro provò in privato con il compositore. « Si preoccupava per me » raccontò. « Dopotutto ero straniero. » (Johnson era d'origine canadese; poi diventò direttore generale del Metropolitan.) « Quando provai il duetto del Tabarro con il soprano, Puccini non riuscí a ottenere il tipo di suono che voleva. Ogni tanto ci faceva cambiare tonalità; cercando di arrivare a una sempre piú grande intensità. » Alla prima romana del Trittico il pubblico chiamò con insistenza alla ribalta il compositore. Johnson ricordava benissimo l'episodio. « Venne dietro le quinte e noi ci precipitammo tutti intorno a lui. Ci fece allineare, poi mi guardò e disse: " Tira! Tira ', intendendo che voleva essere tirato fuori dalle quinte " riluttante ". »
Maria Jeritza fu la sua Tosca prediletta; la cantante, che si stava preparando alla prima viennese, si preoccupava perché era bionda. Nell'opera si dice che Tosca è bruna, e di solito l'interprete, se è bionda, ricorre alla parrucca. « Signora » disse galante Puccini « in Italia ci sono donne bionde, e sono le donne piú belle del mondo. » Fu la Jeritza, per inciso, a iniziare la tradizione di cantare « Vissi d'arte » stesa per terra. In una intervista del 1926 raccontò che il baritono, accidentalmente, l'aveva fatta cadere dal divano e che lei non aveva avuto il tempo di rialzarsi. « Falla sempre cosí! » le gridò Puccini dalla platea. « È stato Dio! »
Anche la Jeritza confermò quello che avevano detto gli altri cantanti a proposito della pazienza e della fermezza di Puccini « Non accettava mai un no. Se una frase doveva essere cantata in un sol fiato, mi faceva lavorare finché non aveva ottenuto quello che voleva. » Secondo lei Puccini sapeva sulla voce molto piú di qualsiasi insegnante specializzato, e se chiedeva cose difficili non chiedeva mai, però, l'impossibile. « Mi aiutava tecnicamente. Era anche capace di insultare con la maggiore signorilità di questo mondo. Analizzava la musica passo a passo, frase per frase. Mi modellava come voleva lui. Io ero una sua creazione. Qualche volta mi faceva arrabbiare tanto che mi veniva voglia di piangere. Allora si arrabbiava lui. " Jeritza mi diceva " se mai ti sveglio alle tre del mattino e ti chiedo di cantare un do di petto, tu devi cantare un do di petto!»
Egli, inoltre, disse alla Jeritza una cosa che la cantante non dimenticò mai. Era
una frase che agli occhi suoi riassumeva tutta la concezione cella musica di Puccini.
« Carissima mia » le disse una volta « devi camminare su nuvole di melodia. »

Harold C. Schonberg (da I GRANDI MUSICISTI, traduzione di Vittorio Di Giuro, ed. Mondadori, 1972)

 

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