Giuseppe Verdi vita e opere

 

 

 

Giuseppe Verdi vita e opere

 

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La biografia di Verdi e la sua opera

 

Come abbiamo già menzionato, per capire Verdi è importante conoscere un po’ la sua biografia e naturalmente la sua opera che ci permettiamo di descriverla nelle pagine seguenti. Abbiamo utilizzato parecchie fonti, tra l’altro le biografie di Verdi scritte da J. Válek, E. Chechi, F.T. Garibaldi oppure C. Gatti. Chi sarebbe interessato a studiare la vita e l’arte di Verdi più profondamente gli consigliamo di leggere le pubblicazioni sopra citate.
Giuseppe Verdi nacque il 10 ottobre 1813 a Roncole di Busseto in provincia  di Parma nella parte settentrionale d’Italia. Originariamente la famiglia Verdi  abitò non molto lontano da qui. Il piccolo Verdi fu battezzato  Giuseppe Portulino Francesco ed alla sua nascita c’erano guerre in corso. In quei tempi l’Italia combatteva con entusiasmo per la desiderata libertà. Per le simpatie nei confronti della rivoluzionaria Francia, che alla fine del Settecento dominava la regione parmense, la famiglia Verdi si trasferì in un ambiente più libero oltre il fiume confinante Ongina. Verdi cresceva  come un normale bambino di paese,  semplice e con una buona educazione. Grandi cambiamenti non avvennero neanche dopo il trasloco della famiglia in una piccola città - Busseto di Parma, dove Verdi cominciò a dedicarsi alla musica.   
Suo padre, Carlo Verdi, gestiva un’osteria con una bottega  e sua madre Luisa si procurava un guadagno extra come filatrice. Era figlio unico e durante la sua infanzia e adolescenza era di carattere chiuso, serio e lo sarebbe restato  ugualmente per tutto il resto della sua vita. Il suo talento musicale si manifestò molto presto, le sue impressioni  musicali si formavano nell’ambiente domestico dove un giorno ebbe modo di  incontrare un violinista ambulante nell’osteria del padre e ne restò entusiasta e poi  un giorno ebbe modo di ascoltare l’organo della chiesa durante una messa  domenicale  dimenticandosi completamente del mondo circostante lasciandosi trasportare dalla sua fantasia. Ebbe in regalo un  cembalo, uno strumento vecchio e consunto, il quale dopo, per affetto, si conservò per il resto della sua vita.
Il  maestro d’organo di Roncole gli insegnò la musica e dopo il giovane Verdi cominciò a frequentare la scuola di Busseto, dove imparò a leggere, a scrivere e a contare. Verdi anche qui si dedicò con entusiasmo alla musica. Il centro della musica in quei tempi era la chiesa e la „Società filarmonica“ . Qui Verdi entrò in casa del grossista Antonio Barezzi, che era un musicista entusiasta che alla fine diventò anche suo suocero. Verdi venne accettato in questa società e qui  ebbe modo di conoscere il maestro d’organo della chiesa, il signor Giovanni Provesi.    Dopo tre anni  iniziò a comporre, a dirigere e le domeniche e i giorni festivi suonava nel suo luogo di nascita, Roncole. Il paese di Busseto gli concesse una borsa di studio per proseguire gli studi a Milano, la quale Verdi più tardi restituì molto onestamente tramite la fondazione  „Borsa di studio per i musicisti della città“. Nel giugno del 1832 Verdi partì per il conservatorio di Milano e qui il suo esordio non fu proprio un gran successo. Al conservatorio non venne ammesso dal direttore Basili il quale diceva: „perché non promette di essere di talento“ e più tardi l’istituto si scusò dicendo che la sua fisionomia non offriva niente di speranzoso.
Cosí divenne suo maestro „il maestro di cembalo“ del teatro d’opera La Scala di Milano – Vincenzo Lavigna il quale era direttore d’orchestra al teatro la Scala ed in tal senso indirizzò  l’educazione e l’interesse del giovane Verdi verso il teatro. Cosí Verdi cambiò posto da suonatore d’organo a compositore d’opera. Compose marce musicali, ouverture e simili.
Nel 1833 Provesi morì e Verdi tornò a Busseto per prendere il posto del suo       ex maestro e divenne maestro d’organo nella chiesa e direttore d’orchestra. La gente del paese si oppose dicendo che Verdi era ancora „maestrino“ , che era troppo giovane per svolgere un compito d’arte cosí serio. Quest’altro colpo ebbe dei lati positivi per il giovane artista, infatti per tre anni rimase a fare il direttore d’orchestra della città di Busseto, scrisse composizioni per la  banda  musicale e con questa organizzava dei concerti sulla piazza approfondendo in tal modo le proprie capacità musicali.
Dopo tre anni partì nuovamente per Milano e non fu più solo; Margherita Barezzi figlia del suo mecenate e protettore Antonio Barezzi, andò insieme a lui come  sua legittima moglie. L’anno 1835 fu molto felice per lui. A Busseto iniziò a scrivere la sua prima opera Oberto, conte di San Bonifacio e nel 1839 si svolse la sua prima rappresentazione dandogli un atteso successo. Lavorò sulla sua opera per tre anni e trasmise nell’opera tutte le sue esperienze e forze. Il suo librettista fu Solera, giovane musicista anche lui. Scrisse per Verdi il libretto Oberto, conte di Bonifacio e la prima rappresentazione dell’opera ebbe luogo  il 17 novembre  1839. Oberto, conte di Bonifacio naturalmente non portò niente di nuovo e niente di straordinario nell’evoluzione dell’opera del suo tempo, anche se ogni tanto ci si specchiava lo stile della personalità del Verdi postero. Non aveva per esempio neanche un’ouverture, a cui Verdi non ci teneva  molto neanche più tardi.
Nel 1840 il compositore scrisse un’opera comica, Un Giorno di Regno ossia Il finto Stanislao, per il teatro la Scala, l’unica opera che abbia mai scritto su ordine, ma di nuovo senza successo. Fu un fiasco completo. È evidente che la tradizione creativa non era affatto il mondo di Verdi, in più, in questi anni visse  momenti tra i  più difficili della sua vita.
Nel tempo in cui iniziò a comporre Il finto Stanislao,  in aprile,  si ammalò suo figlio e morì, poco dopo morì anche  sua figlia e sua moglie. Cosí  perse in due mesi i suoi più cari e rimase solo, chiuso all’interno della sua infelicità. Divenne apatico e si chiuse in se stesso. Il fiasco della sua opera comica, lo considerò un destino, un invito a distogliersi da questo brutto mondo, si chiuse in se stesso allontanandosi da tutto e da tutti. In quei tempi non aveva amici, non leggeva letteratura d’arte e l’unica cosa che gli faceva piacere furono alcuni crudeli romanzi francesi dell’epoca che gli  permisero di scappare via, dimenticando tutto. La cultura per lui sembrò  essere morta. Si rese conto di aver avuto sempre tendenze verso il naturalismo, verso qualcosa di molto emotivo. L’autore di Rigoletto, vivendo la sua forte crisi personale, trovò nella lettura di questi romanzi popolari la sua natura creativa, se stesso, non appesantito dalle convenzioni di quei tempi, dalla  tradizione, dagli schemi, dalla simulazione.
Quando ritornò dal suo inferno interiore al mondo reale, Verdi non era più un compositore delle melodie insinuanti. Una lettura terribile e piena di sangue svegliò in lui un drammaturgo: ci diede tutta l’anima. Fino al gennaio 1841 rimase chiuso in questo stato d’animo, ma dopo  finalmente  vinse la sua voglia di vivere. Merelli capì Verdi perfettamente e gli presentò il libretto di Solera Nabucodonosor. Verdi in principio non voleva neanche leggerlo ma la sera tardi  lo ritrovò per caso davanti agli occhi ed occasionalmente  era aperto sulla pagina di Va pensiero, il quale lo toccò nel suo stato d´animo più profondo : „Strada facendo mi sentivo indosso una specie di malessere indefinibile, una tristezza profonda, un’apatia  che mi gonfiava il cuore! (...) Mi rincasai e con un gesto quasi violento, gettai il manoscritto sul tavolo, fermandomici ritto in piedi davanti. Il fascicolo cadendo sul tavolo stesso si era aperto: senza saper come, i miei occhi fissarono la pagina che stava a me innanzi, e mi si affacció questo verso: Va pensiero, sull’ali dorate...“ Lo lesse tutto e poi ancora per alcune volte. E cosí nacque una nuova opera, Nabucco.
Nabucco è la prima vera opera di Verdi e anche il suo primo successo mondiale. La prima rappresentazione si svolse  il 9 marzo 1842 al teatro la Scala di Milano e venne realizzata in maniera piuttosto superficiale e veloce ma lo scenario fu realizzato e preparato bene. L’opera venne cantata dai primi cantanti e tutto andò perfettamente. La seconda moglie di Verdi, Giuseppina Streponi, cantò l’Abigailla. Verdi venne chiamato il vero meastro del suo tempo.
Qui bisogna dire, che anche altre opere di Verdi I lombardi alla prima crociata (1843) e Jerusalem (1847), vennero ben accettate. La Scala accettò la nuova opera come „opera d’obbligo“, cioè come l’opera principale dell’intera stagione e Verdi chiese un onorario di 8000 fiorini e gliene vennero aggiunti altri 3000. Il testo lo scrisse di nuovo Temistocle Solera. Nacque una leggenda poetica, come venne chiamata dal librettista stesso.L’11 febbraio 1843 si svolse la prima rappresentazione dell’opera I Lombardi alla prima crociata. Il teatro era  strapieno e tante arie e scene vennero ripetute su richiesta del pubblico.
Il testo di Victor Hugo venne musicato nell’opera Ernani.  L’opera rafforzava la drammaticità del testo dello scrittore di un’enfasi rivoluzionaria. Hugo protestò e non  permise al Verdi di usare il suo libro per la composizione dell’opera, ma non essendo ancora valido il diritto d’autore, Verdi mise il testo in musica. La prima rappresentazione si svolse il 9 marzo 1844 al teatro La Fenice di Venezia. Il successo fu trionfale.
Il 30 novembre 1844 vennero rappresentati con minor successo I due foscari e il 15 febbraio 1845 si svolse la prima rappresentazione dell’opera di Giovanna d´Arco realizzata in modo straordinario. Giovanna ama il re, ha idee buone e cattive, sul bene canta un coro degli angeli sopra il palcoscenico, sul male canta il coro dei diavoli sotto il palcoscenico. Alla realizzazione parteciparono i cantanti migliori.
Un successo piccolo ebbe la sua opera Alzira realizzata al Teatro San Carlo di Napoli nel 1845, ma il 17 marzo 1846  venne presentata l’opera  Attila con il testo di Solera. L‘aria „o cara patria perduta“ venne accompagnata dalle grida del pubblico „Italia a noi!“
Cambiamenti tra i fiaschi e la gloria non soddisfecero Verdi e lo costrinsero a riflettere sulla sua creazione tornando agli ideali, alle  immagini e ai programmi precedenti. Lunga però fu la strada per arrivare alla meta. In questo periodo nella creazione di Verdi arrivò un temporaneo riposo. Verdi partì per Firenze ed uscì dall’ambito della vita comunitaria ritirandosi a vita privata e dedicandosi allo studio. Questa volta Verdi cominciò a comporre senza rispetto in base alle sue esperienze con un tono nuovo e molto distante, e nacque così  nel 1847 Macbeth per Firenze. Si tratta di un argomento di Shakespeare con una tendenza della sua parodia, perchè il dramma di Shakespeare nella propria realtà è drammaticamente differente. Il Macbeth non ebbe successo malgrado la musica fosse nobile. Il complesso dell’opera era più debole, non era affatto il vero Verdi che tutti apprezzavano ed amavano. Il 14 marzo 1847 quest’opera venne rappresentata a Firenze. Durante le prime rappresentazioni Verdi era più ansioso che mai, voleva sempre fare le prove. La scena del sonnambulismo venne provata per tre mesi perchè il maestro Verdi desiderava, che il duetto fosse più parlato, che cantato. Questa volta riuscì ad ottenere, per la prima volta nella storia dell’opera, una prova generale nei costumi. Durante la prima rappresentazione era molto agitato, ma tutto finì bene e l’applauso fu enorme. Malgrado dimostrabili difetti Macbeth portò successo. Il pubblico fu entusiasta dell’aria La patria perduta.
Dopo arrivarono I Masnadieri, presentati a Londra nel 1847, sul testo dei Masnadieri di Schiller. Ma quest’opera era molto debole, infatti durante la prima rappresentazione nacquero vari disaccordi. Il cantante  Lablache aveva un fisico grande e grasso, uscì dal finestrino di una prigione dove, secondo il libretto, aveva sofferto di fame per tutto l’anno e ciò naturalmente fece ridere il pubblico. In più, tutta l’opera fu scritta per il pubblico di Londra che era chiaramente diverso da quelo francese o italiano. Tutto ciò influenzò l’accettazione dell’opera. Inoltre i tempi stavano cambiando e Verdi seguiva gli eventi molto attentamente, infatti si trovò nell’anno della rivoluzione 1848. In questo periodo Verdi era a Parigi e quando iniziò la rivoluzione tornò immediatamente in Italia. Durante il viaggio di ritorno in Italia gli arrivarono le notizie dello scarso successo dei   „I masnadieri“.  Per Verdi il periodo della rivoluzione  significava anche meno lavoro.
Nel 1848 nacque la sua opera più debole  Il corsaro, rappresentata a Trieste. Migliore, ma debole anche questa, fu l’opera La battaglia di Legnano. Questi fiaschi però furono solo il risultato di una momentanea concentrazione e raccolta di forze. Verdi si rialzò di nuovo per creare il periodo più straordinario dei suoi tempi. Il pubblico italiano si fece prendere dalla disperazione della infelice rivoluzione. Verdi compose l’opera tranquilla Stiffelio, presentata nel 1850 a Trieste, sulla quale verificò le proprie capacità tecniche di compositore.
Dopo il 1849 iniziarono nuove battaglie e anche dei nuovi momenti per Verdi. Carlo Alberto fu battuto e Vittorio Emanuele arrivò per diventare lo spirito dell’opera. Entusiasmo, forza e tanto altro che influenzarono Verdi, si ritrovò all’apice. Fu il maestro dell’opera italiana rivoluzionaria, le sue opere furono gli inni cantati dal  popolo. Cavour, personaggio veramente poco musicale, cantava volentieri il Trovatore. Nel 1859, nel momento critico in cui l’esercito austriaco attraversò il fiume Ticino, Cavour lo  venne a sapere e in base ad un contratto stipulato precedentemente con l’esercito francese intervenne contro l’Austria. Le truppe piemontesi avanzavano sui campi di battaglia cantando „stretta“. Verdi diventò l’eroe nazionale e il pubblico leggeva Verdi  come „Vittorio Emmanuele Re DItalia“. Al termine della battaglia fu raggiunta la vittoria, Verdi venne eletto come deputato della sua regione. Nel 1875 venne nominato senatore, un vanto dell’Italia. Le opere di Verdi si sentivano cantare da ogni italiano e  presentare oltre che nei teatri italiani anche nei teatri esteri.
Il proprio amore per  l’arte portò  Verdi ad inaugurare l’opera Rigoletto. Rigoletto è la sua opera più grande caratterizzata per la sua forza d’invenzione. Si tratta della prima opera del nuovo tempo e allo stesso tempo un’opera più personalizzata, in cui finalmente riuscì ad esprimere tutto ciò che era nato dentro di lui nei tempi della sua maturazione. L’argomento è del  Le roi s’amuse, dramma più brusco di Victor Hugo, e Verdi lo scelse da solo. Cosí realizzò pure  lo scenario. Il librettista Piave lo diversificò e su questa nuova base Verdi dimostrò, come  immaginava un’opera europea. Procedè la composizione dell’opera molto più seriamente e con più concentrazione di prima partendo per un ritiro dedicandosi alla composizione. In quaranta giorni Rigoletto era pronto e Verdi ne  fu molto soddisfatto: „Credo, di non scrivere più una cosa migliore“ disse. La procedura  rimase  la stessa, la grossezza non fu cambiata ma venne introdotta nell’opera più personalità e più il proprio carattere.
Il Trovatore nacque dopo due anni ed è l’opera più conosciuta di Verdi portando la sua popolarità e fama a livello internazionale. La trama è  difficilmente comprensibile a causa del libretto stesso, dalla trama si capisce soltanto che Azucena ha una gran paura della morte e Manrico sicuramente ama Leonora, il resto, a dirlo semplicemente, non è per niente chiaro. Il 19 gennaio 1853 si svolse la prima rappresentazione a Roma e fu subito un successo assoluto.
L’ultima opera delle più grandi di questo periodo fu  La Traviata (La Violetta)
Fu composta nel 1853 come Il Trovatore. Il testo è del dramma di Dumas: „Dama con le camelie“, che fu  rappresentata per la prima volta il 6 febbraio 1852 al  Théatre Vaudeville di Parigi. Quest’opera è interessante perché Dumas ebbe il coraggio di discutere per la prima volta della società contemporanea e non sulla storia, come aveva sempre fatto. Il modello della dama come Violetta, era per lui Madame de Plaison. Verdi conobbe quest’opera a Parigi ed insieme al librettista Piave la scrisse. Il testo di quest’opera è differente da quello precedente. La Traviatanon significa una riforma dell’opera, ne un’altra direzione dell’opera di Verdi. È un ritorno al tono di Rigoletto, anche se si tratta di un’altro compito drammatico. Verdi stesso disse, che „La Traviata è un’opera buona per i principianti, mentre per gli specialisti è Rigoletto, e che il Trovatore è sano, anche se è brusco“ .
La prima rappresentazione della  Traviata avvenne il 6 marzo 1853 a Venezia, e siccome gli interpreti non seppero  arrangiarsi  l’opera fu un fiasco completo. C’era tanta confusione, i cantanti non sapevano cosa cantare, il vestito contemporaneo rappresentava per loro abituati ai vestiari storici, un problema difficile da risolvere. Il primo atto riuscì ancora a mantenere l’interesse del pubblico, ma alla fine ci fu una risata generale. In più, „Alfred“ Graziani è rauco, „padre“ fu arrabbiatissimo per il suo ruolo piccolo e la  Donatelli, cantante molto robusta, rappresentò Violetta. Dopo un’anno venne presentata La Traviata con una nuova distribuzione ed ebbe  successo con una strada sempre in salita sui palcoscenici europei, dove si mantiene tutt’oggi. Questa era la tradizione delle principali opere verdiane ai tempi rivoluzionari della nazione italiana. Ci sono inoltre anche opere più piccole, Le vépres siciliennes per la grande opera di Parigi e Simone Boccanegra secondo il dramma di Schiller – Fiesca. Il 12 marzo 1857 si svolse la prima rappresentazione di quest’opera a Venezia. Ultima opera di Verdi di questo periodo fu il Ballo in maschera, scritta sul testo del drammaturgo francese  Scribe. Dopo Verdi si concentrò sull’opera francese.
La sua prima opera puramente francese, Don Carlos, nacque nel 1867. La trama è un ambiente completamente francese ed è un dramma patetico in cinque atti. Verdi, che ebbe di fronte una cosa completamente nuova, ebbe paura di cancellare qualcosa e questi sentimenti si sentono anche nella musica. L’opera Don Carlos venne scritta in base alle esperienze raggiunte con Il Trovatore, rendendosi conto delle esigenze dei francesi sulla logica dell’azione e l’opera fu composta cosí come la richiedeva „La grande opera francese“.  Verdi non  cancellava, non faceva modifiche e in tutto questo si sente lo sforzo del compositore per adattarsi al libretto. La prima rappresentazione si svolse il 11 marzo 1867 senza grande successo.  
Un’altra opera culminante in questo stile francese è Aida. Possiamo dire che si tratta di una delle più conosciute e famose opere di Verdi. Il suo significato e senso è rappresentato dall’idea stessa dell’opera e non soltanto nella tecnica. La nascita e la storia della grande opera Aida è molto interessante. Fu scritta come una grande opera italiana per il  Cairo . Khedif Ismail – bascia – ricco monarca, amatore dell’arte si rivolse a Verdi con la richiesta di comporre un’opera, per arricchire il programma del suo teatro. Doveva essere un’opera nazionale egiziana. Verdi si meravigliò, ma alla fine accettò la richiesta di musicare  l’opera e ricevette l’argomento. La prima idea venne proposta da  Mariette-bej, il cui realizzò i dettagli storici. In base a ciò   Du Locle scrisse il libretto in prosa e in francese e
A. Ghislanzoni poi realizzò i versi in italiano, sui quali Verdi compose la propria musica. L’opera venne realizzata in pochi mesi. Ismail – bascia invitò Verdi alla prima rappresentazione la qualle venne fermata per motivi di guerra che nel frattempo era scoppiata in Europa. Parigi era assediata e le decorazioni per le scene non vennero spedite in tempo e Verdi non partecipò alla prima rappresentazione data la sua paura per il mare.  Questi ostacoli però non bloccarono la prima rappresentazione dell’Aida che avvenne il 24 dicembre 1871 al Cairo. Dopo l’Aida iniziò il famoso giro per il mondo. La prima rappresentazione avvenuta al Cairo Verdi non la considerò una vera e prima rappresentazione. Una vera e prima rappresentazione si svolse al Teatro la Scala il  7 gennaio 1872. Aida venne cantata da Tereza Stolz. Alla prima della Scala il successo non fu abbastanza grande, il pubblico italiano non capì l’opera, perchè diceva che questo non era il vero Verdi. La Gloria dell’Aida non iniziò neanche a Parigi. Qui venne presentata dopo Vienna, San Pietroburgo e l’America. Solo nel 1876 arrivò al Théatre Italienne di Parigi. Finalmente nel 1880 l’Aida venne presentata nell’Opera Grande di Parigi, con grandi onori riservati al compositore. Motivi dei ritardi nella rappresentazione dell’Aida non furono di genere artistico, ma piuttosto socio-culturale. Giuseppe Verdi salvò la grande opera di Parigi e la scena francese dalla crisi di repertorio.
L’Aida riuscì a tenere  l’arte contemporanea in vita e persino gli diede una forza nuova e ancora più grande. Furono di moda argomenti sui paesi stranieri, esotici, tanto attraenti per il pubblico. Verdi si comportava come un artista, non divenne un’imprenditore dell’opera, smise di comporre temporaneamente e si dedicò ad altro genere.
Verdi si trasferì dai centri dell’opera alla solitudine, d’inverno viveva a Genova, d’estate nella fattoria di Sant’Agata vicino Busseto. Qui si stabilì, si occupò della fattoria e visse per 17 anni ed e venne considerato una persona chiusa. Perciò per l’intero mondo musicale fu una grande sorpresa, quando nel 1887 il 75-enne Giuseppe Verdi presentò una nuova opera – è in più un’opera molto differente: l’Otello. Fu una scoperta straordinaria per il pubblico vedere come il vecchissimo Verdi cambiò in tutto quel tempo sia dal punto di vista umano sia artistico e sia nel suo orientamento stilistico. È chiaro, che in tutto quel tempo si dedicò diligentemente agli studi.
Morì il 27 gennaio 1901. I funerali si svolsero a sua richiesta in un silenzio assoluto al buio del mattino, senza musica e senza corone. Nelle vie di Milano si fermarono senza parole duecento mila persone. La Scala organizzò in onore del compositore un concerto, in cui cantò l’allora ancora sconosciuto Enrico Caruso.

 

Che cos’è il libretto?

 

Riteniamo importante, anche se può sembrare inutile, dedicare un po’ di parole alla spiegazione di questo concetto. Il libretto d’opera costituisce un genere letterario particolare e non autonomo, perché è subordinato alla musica.
Verdi fa parte dei compositori, che intervenivano nei libretti con attività in maniera tale che la versione originale veniva modificata talmente tanto, che la forma finale  indubbiamente può essere specificata come coautorità, l’effetto artistico della quale spesso supera l’originale stesso.
Ogni compositore ha bisogno di un libretto scritto su misura, dei propri mezzi di espressione e immagini, che non sempre possono essere identici con le intenzioni degli autori della trama.
Il libretto dell’opera ha proprie esigenze specifiche e legalità, differenti dalle legalità dei drammi o composizioni di un romanzo.
La sceneggiatura nei tempi del massimo sviluppo dell’opera, è una professione speciale, altamente valutata. Molti compositori intervenivano nei libretti delle proprie opere, ma non vengono specificati da nessuna parte come loro coautori.

 

Il rapporto tra il maestro e i suoi librettisti

 

Non sarebbe giusto chiamare alla responsabilità dei libretti dei drammi musicali di Verdi soltanto i librettisti. Il maestro fu, nei riguardi di loro, molto severo per quanto riguardava il tema, la scenografia ed i dialoghi, e cosí ne portava egli stesso una grande responsabilità.
Tutti i librettisti di Verdi, con eccezzione di Boito, erano di un rilievo medio, poeti di un basso livello, o forse non erano poeti neanche, e nessuno di loro, cosí, aveva coraggio di opporsi contro di lui, di imporli il proprio gusto o convinzione, di insegnarli delle possibilità diverse da quelli che lui adoperava. Questi librettisti non avevano alcun’individualità artistica e tutti erano sottoposti al maestro. Anche quelli migliori, che lavoravano anche da poeti drammatici, oltre a fare i libretti da opera, come nel caso di Somma, furono tutti subordinati alla volontà del maestro, perché anche questi erano piuttosto dei poeti di basso rilievo. Si poteva accontentare Verdi abbastanza facilmente, fino a che più tardi non arrivò il famoso momento di Boito. In un certo tempo Verdi fu persino accusato di aver messo in musica pure dei pessimi libretti che intossicarono il dramma italiano e di non aver dato l’importanza al loro valore letterario. Lui infatti  apprezzava soltanto quello drammatico che diventò per lui un valore di base.
Giuseppe Verdi ha sempre veduta l’opera quasi fatta molto prima di mettersi a scriverla. Si sa di lui che passava spesso parecchie ore nel suo giardino sfogliando le pagine d’un libretto, leggendone ad alta voce le strofe, meditando, passeggiando. Se gli capitavano in casa amici, li salutava, poi di nuovo si metteva a leggere, e dalla lettura  passava alla fantastica contemplazione dei personaggi, chiedeva loro il segreto della passione onde erano agitati, e quelli uno dopo l’altro gli rispondevano. Cosí le linee principali erano già tirate e costruite quando il compositore, agitato dal suo fuoco interno della ispirazione, incominciava la trascrizione dei pezzi. Giuseppe Verdi fu più volte accusato di aver messo sotto i piedi la musa della poesia, musicando libretti nei quali spesso non trovava ospitalità neppure la grammatica. Astrattamente il rimprovero è giusto. Ma come nei libretti egli cercava soprattutto le situazioni ed i contrasti drammatici, cosí furono sempre nei guai i verseggiatori più forbiti del suo tempo per contentare quella sua smania di colorire con molta violenza le passioni.
Al Verdi occoreva non un poeta voglioso di seguire il proprio estro, ma uno schiavo della penna, un martire della rima e del metro, un paziente mosaicista che componesse di pezzettini ogni scena, e tornasse magari dieci volte sul proprio lavoro. Grottescamente terribili e comicamente solenni rimangono nella storia aneddotica della musica certe tirannie selvaggie del Verdi, che minaciava di feroci castighi il poeta, se non riuscisse a scrivergli quella data strofa nel modo preciso com’egli voleva.
E. Checchi scrive nel suo libro su Verdi parecchi avvenimenti con i suoi librettisti. Dedica un ricordo ad esempio al povero Piave, che per il Verdi si sarebbe, secondo lui, buttato nel fuoco. Era il solo che non protestasse mai, che desse anzi sempre ragione al maestro. Meno trattabile, Salvadore Cammarano, autore di vari libretti verdiani, e di quella selvaggia aspra e forte che è il Trovatore, prometteva di fare a modo del maestro, poi si buttava sempre dietro le spalle la commissione, e i versi promessi non venivano mai. Un giorno, bello e terribile giorno perché il maestro era acceso dal divino estro inventivo, egli aspetta all’ora indicata una lettera del librettista, che deve inviargli una scena rifatta, non piaciuta affatto al Verdi nella prima edizione. Il Cammarano, cosa insolita, fu preciso e il maestro, strappando la busta della lettera, cominciò a leggere piano, poi ad alta voce, poi declamando. Ma, cattivo segno, tornava ogni momento daccapo. Finalmente, facendo una pallottola della carta e gettandola impetuosamente per terra, gridò: „Ma no, perdio, non è questo che io voglio... Lui non capisce che ho qui nella testa il motivo, ma alle parole che mi ha scritte si adatta bene come il turbante d’un turco sulla testa di un monsignore. Azucena racconta, ma è un racconto concitato, tutto passione, tutto spasimi, tutto rimembranze dolorisissime...“ E fermatosi a un tratto in quel suo rapido passeggiar nella camera, che era segno di grande impazienza, afferò una penna e un foglio bianco, e buttò giù un paio di strofe, le lesse ad alta voce, poi le rilesse declamando, e la declamazione pigliando a poco a poco le forme ritmiche della musica, si svolse in quel canto che diventò in breve popolarissimo, e che comincia con le parole: “Stride la vampa! la folla indomita”.
Nè fu questa la sola volta in cui il Verdi diventò collaboratore di sè medesimo. Egli spesso tracciava le linee del carattere dei personaggi, voleva che una certa frase, tolta di peso al dramma che serviva di traccia al libretto, entrasse per forza nella strofa com’egli l’aveva immaginata. E se la grammatica, messa sul cavalletto della tortura, accenava a sentie dolore, il maestro con spietata filosofia diceva „ Peggio per la grammatica, purché la musica abbia il posto d’onore.“
Fu sempre generosissimo con i suoi poeti. Finita l’opera, scherzando chiedeva scusa all’umile e affezzionato collaboratore di tante prepotenze usategli, e noncurante del denaro per sè, pagava con molta larghezza i librettisti. Con Piave, che gli serviva spesso da ambasciatore con i commissari di polizia, che gli faceva da galoppino con gl’impresari, che ammansava gli sdegni del tenore, i ripicchi del baritono, il brontolio del basso profondo, e le gelosie, i rancori, le vanità senza fine della signora prima donna, tutta gente con la quale il Verdi non aveva, di solito, altri rapporti che di rabbuffi cecchi e incisivi, con Piave era generoso per tutta la vita.

 

Temistocle Solera - librettista e compositore italiano

 

Secondo noi sarebbe da dedicare almeno un po’ di righe a questo famoso librettista di Verdi. Ha collaborato con lui sui progetti più grandi e famosi e i suoi libretti sono molto conosciuti.
Solera nasce nel 1815 a Ferrara e muore nel 1878 a Milano. Esordisce giovanissimo come poeta e romanziere dopo aver effettuato studi musicali e letterari.
Tra gli anni 1840 e il 1845 scrive su libretto proprio, 4 opere, che non hanno però nessun successo. Famoso librettista diviene invece dopo la collaborazione con Giuseppe Verdi, con il quale comincia a collaboratore già quando il Maestro di Busseto compone le sue prime opere. Solera fornisce a Verdi i libretti per Oberto conte di San Bonifacio, Nabucco, Giovanna d’Arco e Attila.
Dal 1845 al 1855 vive in Spagna dove svolge l’attività di direttore d’orchestra fra le città della penisola iberica, compone una nuova opera su libretto proprio (La Hermana de Pelayo, data a Madrid nel 1845), un poema di soggetto storico intitolato La Toma de Loió (La presa di Loió), un libretto per Juan Arrieta (direttore del Conservatorio di Madrid) La conquista di Granada, dato nel 1850 e poi nel 1855 con il titolo Isabella la Cattolica. Vale la pena di ricordare la collaborazione con un giornale politico dopo di chè il suo nome appare a fianco dei migliori scrittori spagnoli. Però la sua vita non è fatta solo di poesia, musica e teatro. Nel 1856 torna a Milano e inizia a spostarsi fra Torino, Parigi e il capoluogo lombardo, mantenendo i contatti fra i cospiratori e fungendo anche da corriere segreto fra Cavour e Napoleone III. Disgustato dalla politica che Napoleone persegue con l’armistizio di Villafranca, abbandona il campo e fa ritorno a Milano, entra nell’amministrazione di pubblica sicurezza, raggiungendo gradi elevati. Lasciato il suo incarico, vive in povertà dopo aver tentato anche la carriera di antiquario. Trascorre i suoi ultimi giorni a Milano, completamente isolato, per spegnersi alle quattro di mattina del 21 aprile 1878, giorno di Pasqua.

 

I funerali si svolgono il giorno seguente presso il Cimitero Monumentale di Milano.  
Temistocle Solera e Verdi formarono una strana coppia. Taciturno, cupo e scuro in volto il primo, estroverso, rodomonte e ottimista il secondo. Solera ebbe squisito il sentimento del gusto, musicista e poeta al medesimo tempo, comprese il necessario legame fra le due arti. Lottava con le vicissitudini d’una vita avventurosa, e con un carattere irrequieto che non gli faceva trovar mai un basto gli entrasse. Sicché nei momenti frequentissimi d’impazienza mandava al diavolo il Verdi, e le sue tiranniche esigenze, rompeva ogni rapporto con lui, poi con la stessa facilità si rappattumavano.
E. Checchi, autore conosciuto della biografia di Verdi scrive nelle sue memorie che aveva conosciuto Solera negli ultimi anni della sua vita a Firenze e si ricorda d’avergli sentito raccontare di Verdi. Autore del libretto I lombardi alla prima crociata, egli non poteva ripensare senza fremere alle persecuzioni di Verdi, che l’obbligava a rifar scene intere, a posporre, ad allungare, a scorciare. “Quel maledetto Oronte”, mi diceva Solera, “e quella squaldrina di Giselda ma davano talmente ai nervi, che in certi giorni io bestemmiavo con più convinzione dei Turchi della mia opera. Una bella mattina quando credevo la seccatura dei cambiamenti fosse finita, vado a casa del Verdi per sapere a che punto s’era, e lo trovo con le mani nei capelli perché non gli piaceva più il duetto della prima donna e del tenore.” Capite bene non gli piaceva come l’avevo fatto io, e gridava che su quei versi non era possibile adattare nessuna musica.
Da ciò risulta che la collaborazione fra loro due non era davvero una cosa facile. Naturalmente non era unico dei suoi librettisti bravi.  

 

Il ruolo del libretto nell´opera di Verdi

 

Dopo aver visto come l’opera sia sempre tutta intuita dalla mente del maestro, è lecito anche domandarsi a che cosa si possa ridurre la collaborazione del librettista nella composizione di un’opera verdiana, ed è ormai evidente che questa collaborazione sarà del tutto svalutata e che la concezione musicale, se pure richiederà un testo poetico, precederà sempre quel testo e lo determinerà rigorosamente. Basteranno a dimostrarlo pochi esempi fra i molti che si potrebbero citare, cosí chiari che parlano da soli.
Basterà vedere, per esempio, come nasce la canzone di Azucena nel secondo atto del Trovatore. Il maestro, dopo la morte di Cammarano che aveva lasciato appena sbozzato il libretto, aveva accettato, tramite il De Sanctis, la collaborazione di Emanuele Bardare, poeta melodrammatico, che era stato giudicato il più adatto a quel lavoro di rifinitura. Verdi manda al De Sanctis le sue osservazioni e richieste, e fra le altre questa nel Trovatore:

Nella parte seconda desidererei una canzone caratteristica per Azucena. Invece delle due strofe – stride la vampa – ecc. sulle quali difficilimente si potrebbe fare un motivo popolare, vorei due strofe di sei versi l’una, come per esempio (ridete!!)
Stride la vampa, la folla indomita
Urli di gioia al cielo innalza.
Cinta di sgherri giunge la vittima
Bianco-vestita, discinta e scalza...
Sorride, scherza, la folla indomita
Urli di gioia innalza al ciel.
da farsi quattro versi
     ... Sorride, scherza, la folla indomita
        Urli di gioia innalza al ciel.
Questa dovrebbe essere la forma ed il metro. Il poeta aggiusterà e farà come crederà meglio.

Il passo è importantissimo per vedere quanto la concezione drammatica sia fissata con chiarezza nei suoi termini musicali. Cio’è non solo Verdi detta i caratteri, il metro, la sostanza narrativa della canzone, ma addirittura sa già che quel motivo musicale dovrà essere ripreso in altri punti precisi della narrazione drammatica.
Il finale dell’opera era stato tracciato dal Cammarano con molta abbondanza di versi. Verdi ne provava una certa insofferenza, e comunicava agli amici:

“Ho accorciato pure le ultime parole dopo la morte di Leonora, ed invece di fare dodici versi che assolutamente, in quella posizione, sarebbero stati freddissimi, ne ho fatti cinque soli di Recitativo servendomi quasi di tutte le parole di Cammarano.

CONTE:         Sia tratto al ceppo (indicando Manrico)
M                    Madre!... oh madre addio!!! (parte)
AZUCENA    (destandosi) Manrico?... (vedendo il conte) Ov’è mio figlio?
CONTE:         A morte corre!
AZUCENA:   Ah ferma!...m’odi... (Il conte trascina Azucena presso la finestra)
CONTE:         Vedi?
AZUCENA:   Cielo!
CONTE:         È spento
AZUCENA:   Egli era tuo fratello!
CONTE:         Eh! Quale orror!
AZUCENA:   Sei vendicata o madre!
CONTE:         E vivo ancor?”
E si sa quello che potè farci il poeta. Come possiamo leggere nei Carteggi verdiani di Alessandro Luzio, Il De Sanctis mandò, qualche giorno più tardi, un finale diverso,  probabilmente più vicino a quello del Cammarano, e insistò anche, ammettendo le buone ragioni che, secondo lui, dovevano far preferire quella versione. Lo si capisce dalla lettera di risposta di Verdi, che taglia risolutamente tutte le questioni:

 “L’ultimo finale m’imbroglia, perché io ho dovuto fare la musica senza attendere vostra risposta, e la disposizione musicale è tale che mi sarebbe impossibile fare i versi che accenate. In quanto a me ritengo che cinque versi di recitativo non avrebbero raffreddato, o almeno quanto sei versi rimati. Voi mi fate l’annotazione... <Queste parole deve dirle Azucena, sono una conseguenza ecc.> Oh, permettetemi di dirvi, che io capisco benissimo queste cose, ma la più gran parte del dramma (come voi dite) si racchiude nonn in quelle parole, ma in una parola...<vendetta>! Dire <sei vendicata o madre > e dire  <tarda vendetta!...ma quanto fiera avesti o madre> è la stessa cosa riguardo al dramma. Se non che quella era più breve e meglio adatta. Del resto se voi non credete stamperemo tutti i versi che fece Cammarano, facendo nel libretto una piccola nota: <i seguenti versi sono cambiati per brevità>”

Il principio di questa prevalenza del concetto musicale durerà ormai per sempre in Verdi. La stessa composizione della musica precederà ormai in moltissimi casi la stessura del testo poetico. Per esempio tutto il secondo atto della Forza del destino venne musicato, come è dimostrato nei Carteggi verdiani di Luzio, senza che il testo poetico fosse stabilito.

 

La parola “scenica” e la musica

 

Come abbiamo già detto, la composizione della  musica a volte precede il testo poetico e spesso il maestro deve spiegare al librettista quali parole gli occorrano per i brani musicali già scritti. Per esempio quando gli chiede le parole adatte per scene musicali già completamente svolte, soprattutto nei casi molto complicati. Tuttavia anche in questi casi, se pure precede il testo, la musica di Verdi richiede sempre un testo preciso. Verdi, componendo, poteva non avere le parole, però aveva nella fantasia una certa situazione complessa chiarissima e poi si trattava di trovare parole adeguate, che fossero, come le chiamava Verdi, parole sceniche.
Come succederà più tardi col Ghislanzoni per il libretto di Aida, Verdi cerca di spiegare che cosa intenda quando richiede la parola scenica, e non sempre gli riesce di essere chiaro, o non sempre gli sembra di esserlo stato. Per esempio la prima scena dell’atto terzo fra Renato e Amelia in Ballo in maschera, come scrive Palmiro Pinagli nel suo libro Romanticismo di Verdi, esce a dire in parole spicciole:

“Il primo dialogo tra Ankarstroem ed Amelia è riuscito freddo, malgrado la situazione molto viva: nel francese vi è quel <il faut mourir> che viene di tratto in tratto, che è molto scenico. So bene che <apparecchiati alla morte> <raccomandati al Signore> voglion dire lo stesso, ma sulla scena non hanno la stessa forza di quel semplice <bisogna morire>”

Il testo accettato dal musicista fu, a parole, <rea ti festi e tu morrai> e cosí è rimasto nel libretto, ma lo spartito reca un’ulteriore scelta del maestro che tornò ad una precedente lezione proposta dal librettista, <sangue vuolsi e tu morrai>, più energica e vibrata e che tanta efficacia raggiunge sulla scena nelle ripetizioni che ne fa il personaggio. Queste considerazioni, la richiesta di Verdi della parola scenica, la violenza con la quale Verdi reaggì quando la censura pretese di manipolare il libretto dell’opera pongono il problema, dibattuto nel corso dell’800, della possibilità dell’unione di parola e musica, della possibilità di un dramma scenico-musicale, cio’è della soluzione che Verdi proponeva. Bisogna ammettere che nemmeno in questa circostanza il problema è posto e risolto chiaramente. Verdi crede troppo all’opera, ne è troppo convinto. Quella sua fede di artista che crede alla propria opera nel senso di non poterla immaginare diversa, impedì a Verdi di lasciarci trattazioni sulla concezione del dramma musicale.
I documenti relativi ad Un ballo in maschera delucidano quanto ne pensasse il maestro. Si sa che la censura napoletana alterò cosí gravemente il testo poetico che Verdi fu costretto a rifiutarsi di rappresentare l’opera, per cui il maestro fu citato in giudizio dall’impresa del San Carlo, con la quale aveva un regolare contratto. Verdi naturalmente rifiuta di ammettere che la buona musica possa stare con qualunque libretto. Si impunta sostanzialmente perché sono state cambiate non le parole, ma le situazioni. Il materiale preparatorio per la difesa del suo avvocato si riduce ad un lungo elenco di situazioni alterate. Quanto ai cambiamenti di luogo, da principio, Verdi non si era formalizzato troppo. Era stato convenuto che il dramma sarebbe stato ambientato in una regione nordica, ed è noto che anche in seguito l’azione del Ballo in maschera fu successivamente spostata per mezzo mondo e finì da ultimo in America allo scopo di evitare ogni allusione possibile. Ad un certo momento, quando la censura pretese di spostare il dramma a Firenze, Verdi si oppose. Il maestro pensava che la sua opera non si adattasse bene ad una regione meridionale. Però più del cambiamento di luogo, lo irritò il cambiamento di epoca. Sull’epoca del dramma il maestro fu inflessibile.
Il libretto poneva l’azione nel secolo XVII (secolo elegante e cavalleresco), il libretto della censura spostava l’azione al 1385 (epoca di ferro e di sangue), all’epoca, alla quale non convenivano più i caratteri brillanti, la musica raffinata, e in particolare, i minuetti e i balli in genere dell’opera. Cosí pure, all’inizio dell’atto secondo, la censura aveva preteso qualche cambiamento di parole nell’aria di Amelia. Per quel che riguarda il canto, non erano i cambiamenti gravi, il censore aveva voluto eliminare i riferimenti al luogo delle impiccagioni, e aveva soppresso la frase in cui Amelia accenna alle colonne del patibolo. Verdi rifiuta queste modifiche perché alterano la situazione. Palmiro Pinagli scrive nel suo libro che quanto meno tetra è la scena, tanto meno paurosa ne risulta la situazione di Amelia.
Come dice Verdi:

 “Si è resa qui, la scena meno tetra e qusta modificazione oltre che toglie allo scenografo l’opportunità di far lavoro di maggior importanza, ha reso a me impossibile di presentare un preludio o una specie di sinfonia a tinte forti e terribili, adattate al luogo. Negli spettacoli teatrali non bisogna trascurar nulla: ciò che letto potrebbe sembrare indifferente, visto sulla scena può produrre il più grande effetto. Chi non vede qui che che quanto più la scena è tetra, alterttanto maggiore è l’effetto del soliloquio d’Amelia.”

Il maestro poi respinge un’altra correzione proposta per il duetto d’amore. Amelia, dopo le lunghe insistenze di Riccardo, dice finalmente la grande frase: <Ebben sì t’amo>, il censore, che non ammetteva che un’onesta sposa potesse confessare di amare altri che il legittimo marito, la sostituì con la frase <A che lo chiedi?>. Questa fu tra le correzioni che più esasperarono  Verdi, il quale scrisse:

“Misericordia! Se ad Amelia non isfugge la parola t’amo tutto il pezzo rimane senza vita, senza passione, senza calore, senza quell’entusiasmo e quel abbandono che è necessario nelle scene di questo genere: tolta quela parola le strofe che seguono diventano senza senso e questo duetto non ha più ragion d’essere. Così vien colpito un pezzo principale detto dai due principali attori. Non valga opporre che le due scene s’incontrino qua e colà nel senso: mentre in cosifatta situazione l’impeto è tutto, e nella scena modificata manca completamente.
Da tutto questo capiamo che la cellula essenziale del melodramma verdiano è la situazione. Alle obiezioni di parte contraria, che sostenevano come gli spostamenti di luogo e di epoca non potessero nuocere all´essenza della musica, che era estranea per sua natura a condizionamenti del genere, Verdi rispose:

“Questo cambiamento d’epoca e di luogo toglie il carattere al dramma ed alla musica. Il colorito, il fondo, dirò cosí, del quadro musicale diviene necessariamente falso. L’Avvocato dell’Impresa può ben dire <come sia vano parlare di tinte locali e di epoche più o meno remote>: alle bestemmie in arte non va risposto: tutte le epoche, è risaputo, hanno i loro caratteri particolari, gli uomini del 400 avevano costumi e sentimenti diversi da quelli del 800, né gli uomini del Nord somigliano a quelli del Mezzogiorno. Il carattere musicale di questi popoli poi è totalmente diverso. Prendete per esempio una canzone napoletana, ed una canzone svedese e vedrete la differenza. Un maestro può, deve rilevare queste distinzioni, anzi non s’alzerà mai sulla folla, non farà mai cosa più che mediocre, ove non abbia questo intendimento artistico, ed ove non lo raggiunga, benché difficilissimo sia.

Da questo risulta che spesso sono poche cose cambiate ma può succedere tante volte che una di queste poche cose altera un significato oppure un carattere. Poi non vale dire che la musica del maestro rimane, resta la stessa. Non si tratta naturalmente di una cosa senza forma che si può adattare con tutte le parole.

 

La nascita del personaggio verdiano

 

Se scorriamo le lettere di Verdi ai suoi librettisti del primo periodo, in tutte troviamo, come costante, la richiesta insistita di passioni, caratteri, sentimento, effetto. Gli importa soprattutto la verità, la schiettezza, diciamo pure la violenza del sentimento, anche a scapito di una pretesa raffinatezza.
Al Cammarano, che stava preparando per lui il libretto dell’Alzira, Verdi scrive in una lettera:“Io sono accusato di amare molto il fracasso e di trattar male il canto: non ci badi, metta pure della passione, e vedrà che scriverò passabilmente.”
Il libretto dell’Attila, che fu poi quasi interamente scritto dal Solera, in un primo tempo doveva essere composto dal Piave, e a lui Verdi scriveva:

Frattanto vi sono tre caratteri stupendi. Attila che  non soffre alterazione di sorta, Ildegonda, pure bellissimo carattere, che cerca la vendetta del genitore, fratelli e amante, Azzio è bello e mi piace nel duetto con Attila quando propone di dividersi il mondo ecc...”

Si noti: fin da questi primi abbozzi e progetti, Verdi sottolinea in maniera particolare la scena dell’incontro di Attila ed Ezio, che divenne poi quella della frase: Avrai tu l’universo, resti l’Italia a me. Da un passo cosífatto, si deduce chiaramente in qual modo Verdi concepisce l’opera. Il maestro intuisce un certo episodio, un certo momento della favola scenica che vuole raccontare. Per ora Verdi vede chiaramente le scene principali del suo melodramma, le intuisce come intreccio di voci, motivi di pura vocalità, e le illustra al librettista, il quale deve eseguire le prescrizioni del maestro, cio’è trovare parole adeguate a quei motivi, adeguate alle possibilità di canto e adeguate, possibilmente, anche a quel tanto di passionale, di energico o di eroico, che il maestro intende esprimere con la frase musicale. I suoi personaggi, che spesso egli curerà anche nell’azione dell’interprete, nell’abbigliamento, nella messinscena sono intuiti come pure voci cantanti. Interessante può essere per esempio la nascita del personaggio della Battaglia di Legnano. In una lettera Verdi scrive: “a me abbisognerebbe nel concertato dell’introduzione di avere un’altra voce, un tenore, si potrebbe mettere per esempio uno Scudiero d’Arigo? Il quale scudiero si potrebbe, parmi, mettere anche nell’ultimo Finale!... potrebbe sostenere Arrigo quando è ferito.
Qui vediamo quel che occore al maestro. Per completare quel suo quadro, quella sua scena, egli ha bisogno di un’altra voce, di un’intonazione in più.
La stessa cosa succede tanti ani più tardi quando avrà bisogno per il finale del primo quadro di Aida di un declamato energico per Amneris.
Il personaggio verdiano nasce cosí, come un sentimento che cerca una voce per esprimersi. E in particolare, per la ricchezza di toni e di affetti del suo contenuto, Verdi ha bisogno del personaggio appassionato, anzi dei molti personaggi, delle complesse risonanze dell’uno e dell’altro, delle diverse passioni e situazioni sentimentali, perché il suo mondo artistico possa realizzarsi in poesia.

 

La tematica delle opere di Verdi

 

Per quel che riguarda la sua tematica, col passare degli anni, la tematica delle opere di Verdi si è arricchita incomparabilmente, il maestro ha trovato i mezzi stilistici adeguati e le dimensioni strutturali che erano necessarie. Potremmo sottolineare le parole tematiche come “vita”, “calore”, “impeto”, “entusiasmo”, “passione”. Queste erano le parole care alla tematica di Verdi.
Si vede nella lettera al Cammarano, la quale abbiamo già citato prima. “Metta pure della passione e vedrà che scriverò passabilmente” . Oppure per Un ballo in maschera aveva scritto al Somma, che doveva trovargli il soggetto bello, originale, interessante, con bellissime situazioni ed appassionato. Come abbiamo già capito il credo di Verdi - passioni soprattutto!

 

  Conclusione

 

Lo scopo della nostro tesi era quello, come avevamo menzionato già nell’introduzione, di rileggere l’opera di Giuseppe Verdi, famoso compositore, da un punto di vista insolito: non l’abbiamo analizzato dal punto di vista musicale, ma piuttosto da quello letterario, faccendo attenzione particolare alla questione del libretto. Per una comprensione migliore abbiamo dedicato un breve capitolo allo stesso termine “libretto”. Parte inseparabile della nostra tesi è la biografia del compositore, mettendo a fuoco le sue opere ed il loro favore presso il pubblico. Nel caso delle opere principali facciamo riferimento anche agli autori di progetti letterari – a questo scopo abbiamo consultato diverse pubblicazioni che riguardano il campo di cui stiamo parlando. Per capire bene il rapporto di Verdi con i suoi librettisti ci siamo rivolti al libro “Životopis v dopisech”. Quest’epistolario ha un’importanza particolare anche perché, oltre ad essso non troviamo nessuna dichiarazione o articolo che ci illustri le intenzioni artistiche del maestro. Verdi fu sempre molto schivo nel parlare di sé e delle sue opere, un po’ per la sua ruvidezza nativa, ma soprattutto  per il convincimento che le dichiarazioni non potessero offrire utilità alcuna. Diceva che il compositore deve fare e non parlare. Lo stile epistolare di Verdi, probabilmente, non sarebbe piaciuto ai suoi tempi, ma tanto più piace oggi a noi. È uno stile secco. Possiamo dire che la lettera è per Verdi sempre soltanto un mezzo di comunicazione. Più in avanti prendiamo in considerazione il rapporto del maestro con i suoi librettisti, e quindi la loro collaborazione reciproca – essendo questo il risultato della nostra tesi; rispondiamo cosí alla domanda fatta nell’introduzione: e cioè fino a che punto il maestro poteva intromettersi nei progetti letterari. Il risultato della nostra ricerca conferma che si è – nella maggior parte dei casi – trattato di una vera collaborazione. Il maestro sempre insistiva sul fatto di preparare il progetto letterario “su misura”. Diceva la sua al riguardo, e spesso chiedeva un bel po’ dei cambiamenti; partendo dalla scelta di tema, ai dialoghi, e in molti casi fino ai versetti ed all’accentazione delle parole: cosí la gran parte di responsabilità rimaneva sulle sue spalle. Verdi ha sempre avuto una visione molto chiara della dicitura ed i librettisti facevano fattica ad esprimerla. Per quanto riguarda, però, il valore letterario delle opere di Verdi, questo fu spesso messo in dubbio. Il maestro dava la massima importanza al valore drammatico. Il libretto era significativo per lui innanzitutto in quanto trama. A questo riguardo, il temperamento drammatico del maestro si intrometteva con le esigenze, con la meticolosità e con l’infallibilità. Se ci si trovava una parola che non gli dava fastidio perché banale, lo offendeva perché debole e inefficiente. Il libretto viene criticato in quanto azione e trama, non come l’opera poetica. La legge più alta dei suoi drammi musicali è lo svolgimento rapido di azione. Ai suoi librettisti suggerisce senza posa la legge di breviloquenza. Un capitolo di tesi, lo dedichiamo ad un suo noto librettista Temistocle Solero, il quale fu il suo fedele “collaboratore” nel corso di anni.
La breviloquenza sopra menzionata era per Verdi la condizione affinché l’opera non diventi fiacca. Doveva essere piena di effetti forti, di svolgimenti drammatici rapidi, e di tutto quanto possa mantenere l’attenzione dello spettatore: gli scontri, le lesioni, gli omicidi, gli complotti, le battaglie, le bestemmie, le conversioni alla fede, l’apprezzamento, l’odio, l’amore, le preghiere, le maledizioni. Da tutto questo deve, secondo Verdi, nascere il dramma.
Nella nostra tesi ci inoltre occupiamo dei personaggi e delle trame delle opere di Verdi, e questo fatto è legato strettamente alla personalità del produttore di libretti.
Rigoletto, Azucena e Violetta vivono perché amano e soffrono. E nello stesso modo anche Amelia nel Ballo in maschera, Eleonora nella Forza del destino, Elisabetta nel Don Carlos, e continuando cosí fino all’Aida.
Per quanto riguarda i temi, quelli prendevano la sua origine dall’ordinamento, essendo questo il caso dell’Aida. Alcune opere sono state create in seguito all’interesse di Verdi per un qualche testo letterario, come per esempio la Dama con le camelie che diventò il progetto per La traviata. Molto interessante è la storia dell’origine dell’opera di Nabucco, la quale Verdi all’inizio decisamente rifiutava, ma cambiò l’idea dopo aver letto il libretto. Questo fatto sottolinea l’importanza dei libretti da opera. In altri casi il maestro ebbe già l’idea musicale, ma occorreva di trovare la giusta trama e le giuste parole. Cercava sempre di collegare la parola e la musica tra sé, creare cioè – come lui stesso diceva – la “Parola scenica”, alla quale dedico anche un capitolo della tesi. Dalla mia esposizione risulta chiaro che il libretto non è sola versificazione delle parole cantate, ma che è qualcosa di più profondo e molto più importante. Ci auguriamo di averne convinto i gentili lettori di essa.

 

 

 

  Bibliografia

 

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Alessandro Luzio, Carteggi verdiani volume I. Roma, Reale Accademia d´Italia, 1935.
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Eva Vítová, 50 slavných oper. Praha, Albatros nakladatelství, a.s., 2005.
F. T. Garibaldi, Giuseppe Verdi nella vita e nell´arte. Firenze, R. Bemporad e figlio – librai – editori 1904.
Franco Abbiati, Giuseppe Verdi. Milano, Ricordi, 1959.
Giuseppe Tarozzi, Vita di Giuseppe Verdi. Milano, SugarCo Edizioni s.r.l., 1978, 1980.
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J. Bachtík, Giuseppe Verdi Život a dílo. Praha, Státní hudební vydavatelství, 1963.
Jiří Válek, Evropská opera (Dějiny hudby – II. část). Praha, Vydavatelství Panton, 1994.
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Kolektiv autorů a konzultantů, Slovník cizích slov. Praha, Encyklopedický dům, spol. s r.o., 1998.
L. Solovcová, Giuseppe Verdi. Praha, Národní hudební vydavatelství Orbis, 1952.
Palmiro Pinagli, Romanticismo di Verdi. Firenze, Valecchi editore, 1967.
Internet www.giuseppeverdi.com.

 

Cfr. Jiří Válek, Evropská opera (Dějiny hudby – II. část). Praha, Vydavatelství Panton,1994, p. 187.

La nuova “Società filarmonica” fu istituita ufficialmente il 12 agosto 1816. In tempo breve divenne  l’oggetto delle principali cure e delle più accese ambizioni cittadine.
Cfr. Carlo Gatti, Verdi. Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 198, p. 27.

Cfr. Jiří Válek, Evropská opera (Dějiny hudby – II. část). Praha, Vydavatelství Panton,1994, p. 187.

Cfr. ivi p. 187.
Cfr. F. T. Garibaldi, Giuseppe Verdi nella vita e nell´arte. Firenze, R. Bemporad e figlio – librai – editori 1904, pp. 24, 25.

Cfr.  F. T. Garibaldi, Giuseppe Verdi nella vita e nell´arte. Firenze, R. Bemporad e figlio – librai – editori 1904, p. 51.

Cfr. Jiří Válek, Evropská opera (Dějiny hudby – II. část). Praha, Vydavatelství Panton,1994, p. 187.

Cfr. Anna Hostomská, Opera – Průvodce operní tvorbou. Praha, Státní hudební vydavatelství, 1962, p. 92.

Cfr. Jiří Válek, Evropská opera (Dějiny hudby – II. část). Praha, Vydavatelství Panton,1994, p. 188.

Cfr. ivi p. 188.

Merelli fu allora impresario della Scala e del teatro imperiale di Vienna.
Cfr.  F. T. Garibaldi, Giuseppe Verdi nella vita e nell´arte. Firenze, R. Bemporad e figlio – librai – editori 1904, p. 51.

Cfr. E. Checchi, Verdi. Firenze, G. Barbèra editore, 1926, p. 45.

Cit. Palmiro Pinagli, Romanticismo di Verdi. Firenze,Vallecchi Editore, 1967, p. 13.

Come era stato prima rifiutato e conseguentemente accettato il libretto di Nabucco di Verdi, lo possiamo leggere nel libro  di E. Checchi, Verdi. Firenze, G. Barbèra editore, 1926, p. 45.

Cfr. Anna Hostomská, Opera – Průvodce operní tvorbou. Praha, Státní hudební vydavatelství, 1962, p. 94.

Cfr. Jiří Válek, Evropská opera (Dějiny hudby – II. část). Praha, Vydavatelství Panton,1994, p. 74.

Cfr. ivi p. 187.

Cfr. Jiří Válek,  Evropská opera (Dějiny hudby – II. část). Praha, Vydavatelství Panton,1994,
p. 187.

Cfr. Jiří Válek,  Evropská opera (Dějiny hudby – II. část). Praha, Vydavatelství Panton,1994,       p. 187.
Cfr. E Checchi, Verdi. Firenze, G. Barbèra editore, 1926, pp. 87, 88.

Cfr. Jiří Válek,  Evropská opera (Dějiny hudby – II. část). Praha, Vydavatelství Panton,1994,
p. 188.

Cfr.  F. T. Garibaldi, Giuseppe Verdi nella vita e nell´arte. Firenze, R. Bemporad e figlio – librai – editori 1904, p. 145.

Cfr. Jiří Válek,  Evropská opera (Dějiny hudby – II. část). Praha, Vydavatelství Panton,1994,       p. 189

Cfr. ivi  p. 188.

Cfr. Anna Hostomská, Opera – Průvodce operní tvorbou. Praha, Státní hudební vydavatelství, 1962, p. 98.
Cfr. Jiří Válek, Evropská opera (Dějiny hudby – II. část). Praha, Vydavatelství Panton, 1994, p. 76.

Cfr. Anna Hostomská, Opera – Průvodce operní tvorbou. Praha, Státní hudební vydavatelství, 1962, p. 100.

Cfr. Jiří Válek, Evropská opera (Dějiny hudby – II. část). Praha, Vydavatelství Panton, 1994, p. 77.
Il titolo originale dell´opera fu La Violetta (secondo la protagonista principale), dopo però il nome fu cambiato e diventò La Traviata

Cfr. ivi p. 188.

Cfr. Anna Hostomská, Opera – Průvodce operní tvorbou. Praha, Státní hudební vydavatelství, 1962, pp. 104, 106.

Cfr. ivi pp. 113, 114.

Cfr. Jiří Válek, Evropská opera(Dějiny hudby – II. část) . Praha, Vydavatelství Panton,1994,       p. 77. In realtà Aida fu scritta per il Cairo e non per l´occasione dell´apertura del Canale Suez, come si diceva e come si constata finora in certe pubblicazioni per sbaglio.

Cfr. Anna Hostomská, Opera – Průvodce operní tvorbou. Praha, Státní hudební vydavatelství, 1962, pp. 115, 116.
Cfr. Jiří Válek, Evropská opera(Dějiny hudby – II. část). Praha, Vydavatelství Panton,1994, pp. 77, 188.

Cfr. Anna Hostomská, Opera – Průvodce operní tvorbou. Praha, Státní hudební vydavatelství, 1962, p. 118.

Cfr. Jiří Válek, Evropská opera (Dějiny hudby – II. část). Praha, Vydavatelství Panton,1994,      pp. 187, 188.

Cfr. Kolektiv autorů a konzultantů, Slovník cizích slov. Praha, Encyklopedický dům, spol. s r.o., 1998, p. 201.

Cfr. Giuseppe Verdi, Životopis v dopisech. Praha, Topičova edice, 1944, (Překlad z italského originálu Autobiografia dalle lettere), p. 252.

Cfr. E Checchi, Verdi. Firenze, G. Barbèra editore, 1926, pp. 135, 136.

Cfr. ivi p. 136.

Cit. E Checchi, Verdi. Firenze, G. Barbèra editore, 1926, pp. 137, 138.

Cfr. ivi p. 138.

Cit. ivi p. 138.

Cfr. ivi p. 139.

J. Bachtík, Giuseppe Verdi Život a dílo. Praha, Státní hudební vydavatelství, 1963,
pp.  72, 73.

Cfr. E. Checchi, Verdi.  Firenze, G. Barbèra editore, 1926, p. 50.

Cfr. ivi p. 50.

Cit. ivi p. 50, 51.

Ulteriori informazioni sui librettisti di Verdi troviamo sul web ufficiale www.giuseppeverdi.com.

Cit. Alessandro Luzio, Carteggi verdiani volume I. Roma, Reale Accademia d´Italia, 1935, p. 10.

Cit. Alessandro Luzio, Carteggi verdiani volume I. Roma, Reale Accademia d´Italia, 1935,
p. 10, 11.

Cit. ivi pp. 15, 16.

Cit.Alessandro Luzio, Carteggi verdiani volume I. Roma, Reale Accademia d´Italia, 1935, p. 16.

Cit. Palmiro Pinagli, Romanticismo di Verdi. Firenze, Vallecchi Editore, 1967, p. 85, 86.

Cit. Palmiro Pinagli, Romanticismo di Verdi. Firenze, Vallecchi Editore, 1967, p. 83.

Cit. ivi p. 81.

Cfr. Palmiro Pinagli, Romanticismo di Verdi. Firenze, Valecchi editore, 1967, p. 84.

Cit. Alessandro Luzio – Carteggi verdiani vollume I. Roma, Reale Accademia d´Italia, 1935,
p. 254.

Cfr. ivi p. 253.

Cit. ivi p.255.

Cit. Franco Abbiati, Giuseppe Verdi. Milano, Ricordi, 1959, p. 477.

Cit. Palmiro Pinagli – Romanticismo di Verdi. Firenze, Vallecchi Editore, 1967, p. 15.

Cit. ivi p. 15.

Cfr. ivi p. 16.

Cit. Palmiro Pinagli, Romanticismo di Verdi. Firenze, Vallecchi Editore, 1967, p. 16.

Cfr.ivi p. 17.

Cit. ivi p. 15.

Cfr. Alessandro Pascolato, Re Lear e ballo in maschera, lettere di Giuseppe Verdi ad Antonio Somma. Città di castello, Lapi tipografo-editore, 1902, p. 76.

 

Fonte: http://is.muni.cz/th/109213/ff_b/Il_libretto_verdiano.doc
http://is.muni.cz/th/109213/ff_b?info=1;zpet=%2Fvyhledavani%2F%3Fsearch%3Dlibretto%20verdiano%26start%3D1
Autore: Klára Jašková

 

Giuseppe Verdi

Il più famoso compositore italiano, ancora oggi ammirato in tutto il mondo, nacque a Le Roncole, vicino Busseto (Parma) il 10 ottobre 1813, durante gli ultimi anni di dominio napoleonico. Il suo certificato di nascita originale è stato infatti stilato in francese. Il padre Carlo era un modesto locandiere di paese e la madre Luigia Uttini era filatrice. Già in tenera età il giovane Verdi manifestò la sua forte predisposizione per la musica e ricevette la sua prima educazione musicale da Pietro Baistrocchi, l'organista di chiesa di Roncole. Per alcuni anni Verdi stesso fu organista nella chiesa locale, ma appena decenne lasciò il paesino natale per Busseto: l'ambiente culturale di questa cittadina avrebbe certo avuto un effetto più benefico sulla sua educazione. A Busseto Verdi alloggiò nella casa di Antonio Barezzi, commerciante e amante appassionato di musica, che lo ingaggiò come insegnante di musica per la figlia Margherita, di cui Verdi s'innamorò. In questo periodo Ferdinando Provesi, maestro della Società Filarmonica locale, gli diede lezioni di spinetta e di composizione. Anche se non fu ammesso al Conservatorio di Musica di Milano avendo già superato il limite d'età, Verdi maturò comunque una formazione musicale più profonda soltanto nel capoluogo lombardo, dove dal 1832 al 1835 decise di studiare contrappunto con Vincenzo Lavigna che era stato clavicembalista al Teatro La Scala. Per il primo anno di studi Verdi usufruì di un finanziamento da parte di Barezzi, mentre negli anni successivi ottenne un considerevole aiuto economico da una borsa di studio del Monte di Pietà di Busseto. A Milano Verdi fu un assiduo frequentatore di teatri: in questo modo ebbe la possibilità di conoscere il repertorio operistico del suo tempo.


Una volta tornato a Busseto, nel 1836 Verdi ebbe in sposa la figlia di Barezzi e accettò il posto di Maestro nella scuola di musica locale, un incarico a cui dovette rinunciare nel 1838 quando si trasferì nuovamente a Milano con la famiglia. L'anno seguente Verdi propose la sua prima opera al Teatro alla Scala, Oberto, Conte di San Bonifacio, (chiamata originariamente Rocester). Questa rappresentazione ebbe grande successo e rappresentò quindi un forte incoraggiamento sia per l'autore sia per la casa editrice milanese Ricordi che subito si assicurò i diritti sulla sua prossima opera: questa fu la nascita di un legame duraturo che conobbe pochi momenti di contrasto. Anche l'impresario del Teatro alla Scala, Bartolomeo Merelli, offrì a Verdi un contratto per due altre opere.


Il primo di questi due melodrammi fu Un Giorno di Regno (Il finto Stanislao), un'opera comica, eseguita un'unica volta nel 1840. Che questa rappresentazione risultò essere un vero fiasco non deve sorprenderci in quanto tra il 1838 e il 1839 gli vennero a mancare i due suoi figli e nel 1840 la moglie morì improvvisamente di encefalite. Verdi perse tutta la sua gioia di vivere. Si convinse di non poter più trovare alcuna consolazione nell'arte e decise così che non si sarebbe mai più dedicato alla composizione musicale finché Merelli non lo incoraggiò a scrivere la musica per il libretto di Nabucco, i cui versi subito commossero profondamente Verdi per il loro tono biblico. L'opera, che venne rappresentata per la prima volta due anni più tardi, finalmente rivelò il vero talento di Verdi in tutta la sua magnificenza. Il coro patriottico 'Va Pensiero' presente in quest'opera diventò presto molto conosciuto e amato dal popolo italiano.


Nel 1851 Verdi e Giuseppina Strepponi, soprano e protagonista femminile di Nabucco nel 1842, con la quale lui aveva vissuto per alcuni anni, si trasferirono dal centro di Busseto, dove gli abitanti non vedevano di buon occhio la loro unione illecita, alla villa Sant'Agata, poco lontano dalla cittadina. Qui il Maestro, all'apice del successo e del benessere economico, iniziò ad alternare il suo lavoro di compositore con l'impegnativo compito di gestione di tutti i poderi che a poco a poco aveva acquisito.


Per quanto riguarda le sue composizioni, gli anni che vanno fino al 1853 rappresentarono un periodo di attività frenetica per Verdi in cui egli scrisse e mise in scena una quindicina di opere, tra la quali ricordiamo Macbeth (Firenze, 1847), il suo primo soggetto shakespeariano, e soprattutto quelle che oggi sono conosciute come "le grandi tre", 'RigTrovTrav': Rigoletto (Venezia, 1851), Il Trovatore (Roma, 1853) e La Traviata (Venezia, 1853). Questi furono gli anni del fermento patriottico del Risorgimento, animati dalle guerre per l'indipendenza nazionale e da battaglie che Verdi appoggiò e che trovarono fervida espressione in alcune delle sue opere, come per esempio in La battaglia di Legnano (Roma, 1849).


Nel 1853 Verdi si recò con Giuseppina a Parigi per dedicarsi all'allestimento de Les Vêpres Siciliennes per l'Opéra di Parigi, dove venne rappresentata due anni più tardi con modesto successo. Verdi si trattenne nella capitale francese per un certo periodo non solo per difendere i suoi diritti di fronte ai plagi del Théâtre des Italiens, ma anche per dedicarsi alla traduzione di alcune delle sue opere.


Nel 1859 Un Ballo in Maschera fu messo in scena a Roma e divenne il più grande successo di Verdi dopo Il Trovatore, proposto sei anni prima. Un Ballo in Maschera è un'opera che narra dell'assassinio di un re svedese: proprio per questo motivo fu completamente censurata e ritirata da Napoli e fu quindi possibile rappresentarla soltanto a Roma. Il 29 agosto dello stesso anno Verdi e Giuseppina si sposarono a Collonges-sous-Salève, vicino Ginevra. Tre anni dopo lui e la moglie si recarono insieme a San Pietroburgo per curare la supervisione de La Forza del Destino: la prima di quest'opera venne rappresentata al Teatro Imperiale nel novembre del 1862.


Nel 1865 Verdi lasciò il suo posto di deputato del Parlamento Italiano che aveva occupato per ben quattro anni. Nello stesso anno una versione rivista di Macbeth fu data a Parigi, anche se l'opera più famosa del compositore nella capitale francese rimase poi il Don Carlos che fu rappresentato l'11 marzo del 1867 e che venne più volte rivisto per ulteriori edizioni italiane. Sempre nel 1865 morirono sia Antonio Barezzi che Carlo Verdi, padre di Giuseppe: quest'ultimo e Giuseppina divennero tutori di Filomena Maria Cristina, la figlia di sette anni di uno dei cugini di Verdi che sarebbe diventata sua erede.
Tre anni dopo Verdi accettò di comporre un'opera per l'inaugurazione del nuovo teatro al Cairo voluto dal viceré d'Egitto: nel dicembre del 1871 finalmente si poté qui assistere alla prima di Aida. L'8 febbraio dell'anno seguente la prima europea di Aida venne invece eseguita con grande plauso al Teatro alla Scala. Al giorno d'oggi quest'opera rappresenta indubbiamente il più grande successo di Verdi e viene allestita ogni autunno alle Piramidi di Giza a Il Cairo, così come ogni estate all'Arena di Verona.


Tra le opere scritte da Verdi negli anni seguenti è doveroso ricordare La Messa da Requiem composta nel 1873 in onore ad Alessandro Manzoni, il grande poeta e patriota italiano, morto il 22 maggio dello stesso anno. Questo grande brano musicale venne eseguito e diretto dallo stesso Verdi nella chiesa di San Marco a Milano in occasione del primo anniversario della morte di Manzoni. Nel 1879 il poeta-compositore Boito e l'editore Ricordi persuasero Verdi a scrivere un'altra opera, Otello, che venne però completata soltanto nel 1886. Questa fu la sua opera tragica più imponente. Un altro capolavoro, Falstaff, fu completato nel tardo 1892 e la prima, rappresentata al Teatro alla Scala alcuni mesi più tardi il 9 febbraio, fu un gran trionfo. Alla fine di questa sua intensa e gloriosa attività musicale Verdi compose i 'Quattro pezzi sacri' (Ave Maria, Stabat Mater, Laudi alla Vergine, Te Deum).


Giuseppina, per cinquant'anni l'amorevole compagna e instancabile sostenitrice di Verdi in tutte le sue alterne vicende, morì a Sant'Agata nel 1897 e da quel momento Verdi iniziò a prolungare sempre di più i suoi soggiorni a Milano. Fu proprio qui a Milano che Giuseppe Verdi morì di emiplegia alle 2.50 del pomeriggio del 27 gennaio 1901 nel Grand Hotel dove era solito alloggiare quando andava in visita alla città. Con lui quando morì si trovavano i parenti e gli amici più stretti.
Non appena la morte di Verdi fu annunciata, una folla si raccolse sulla strada di fronte al Grand Hotel che venne ricoperta di paglia in modo da smorzare lo scalpiccio degli zoccoli di cavallo e il frastuono delle ruote dei carri e delle automobili. Nel giro di ventiquattro ore tutti gli stendardi di Milano vennero listati a lutto, così come le edizioni speciali pubblicate dalle maggiori testate giornalistiche. In segno di cordoglio i negozi e i teatri della città rimasero chiusi per tre giorni consecutivi, mentre il Senato Italiano e la Camera dei Deputati (della quale Verdi stesso una volta era stato membro) si preoccuparono di organizzare i preparativi per dar omaggio a questo grande uomo. Non ci furono soltanto manifestazioni di sconcerto per l'enorme perdita, ma anche momenti dedicati alla celebrazione della statura di Verdi come uomo, musicista e cittadino italiano, un personaggio che non aveva semplicemente vissuto in un'epoca storica fondamentale per la nazione italiana, ma che in un certo senso l'aveva anche caratterizzata. Verdi aveva lasciato disposizioni per una sepoltura piuttosto semplice, ma l'umore nazionale impose di offrire un omaggio più conveniente a una delle figure più illustri d'Italia. Alle 6 del mattino di mercoledì 30 gennaio, il traffico milanese si fermò per far strada alla lunga processione che si snodava attraverso la città con migliaia di persone al suo seguito. Puccini e Leoncavallo erano alcuni dei rappresentanti più celebri della giovane generazione di compositori italiani che formarono il cuore del corteo in lutto. La salma di Verdi fu provvisoriamente sepolta vicino a quella di Giuseppina nel Cimitero Monumentale, ma ben presto fu deciso di trasferire entrambi nella cappella della Casa di Riposo, l'istituto di beneficenza per 100 musicisti in pensione meno fortunati di lui, fondato e finanziato da Verdi stesso.


Giuseppe Verdi: l'infanzia


All'anagrafe, l'atto di nascita di Giuseppe Verdi figura in francese. Nel 1813, infatti, l'Italia era ancora sotto Napoleone Bonaparte. Ma dopo la campagna di Russia e la sconfitta di Napoleone, l'Italia fu divisa dai vari dominatori in molti stati. Convivevano molte identità nazionali e molte lingue, e per passare da uno stato all'altro bisognava passare la frontiera e pagare un dazio.
Verdi visse a Le Roncole di Busseto, in campagna. Il padre era un oste e la madre una filatrice. Il bambino Verdi fu subito attratto dall'organo della chiesa e presto imparò a suonarlo. Il padre di Verdi comprese il talento del figlio e con molti sacrifici gli regalò una spinetta, oggi in esposizione alla Casa di Riposo per Musicisti, a Milano. Un accordatore chiamato a sistemare lo strumento, lasciò un suo biglietto dentro la spinetta, che vedendo la buona disposizione che ha il giovinetto Giuseppe Verdi di imparare a suonare questo istrumento, che questo mi basta per essere del tutto pagato.
Il piccolo Verdi prende lezioni dal maestro Trovesi di Busseto, suona l'organo, studia in biblioteca, dirige la banda e a 15 anni è considerato un ottimo pianista. Probabilmente sarebbe rimasto sempre a Busseto se non avesse conosciuto Antonio Barezzi, un ricco commerciante di Busseto, appassionato di musica, mecenate della filarmonica del posto. Giro turistico a Busseto: la chiesa di San Bartolomeo, in cui Verdi suonava l'organo, la piazza principale - piazza Verdi - col monumento in sua memoria e il Teatro Verdi. Infine, vediamo ricostruzioni di carrozze reali e virtuali, i mezzi di locomozione dei tempi di Verdi.
Giuseppe Verdi: Gli studi e la formazione
Antonio Barezzi fu una figura chiave nella vita di Verdi. Aveva una drogheria e viveva con agio. Era un appassionato di musica e in casa propria dava asilo alle prove della Filarmonica di Busseto.
Barezzi comprese subito il talento di Verdi e lo mandò a Milano a studiare, sostenendolo economicamente. A 18 anni Verdi affronta l'esame in conservatorio, ma non lo supera. La commissione ritiene che, come pianista, abbia superato di due anni il limite d'età per l'ammissione. Verdi infatti si presentò per studiare pianoforte e non composizione. Barezzi gli paga le lezioni private, lo abbona alla Scala, gli compra un pianoforte e provvede a tutto quello che occorre a Verdi per la sua formazione musicale e intellettuale. Piero Angela sottolinea l'importanza del sostegno per le persone di talento che non possono permettersi di studiare. A questo proposito cita la fondazione
Mac Arthur, statunitense, che sguinzaglia esperti in tutto il mondo per scoprire geni in ogni campo. A queste persone la fondazione Mac Arthur regala soldi che gli permettono di svilupparsi come meritano.
Barezzi concede a Verdi anche la mano di sua figlia Margherita. Verdi concorre per diventare Maestro di Cappella della chiesa di Busseto e direttore della filarmonica, ma la nomina scatena una battaglia. Il parroco sostiene un candidato che non è Verdi, e i paesani conducono un valoroso sciopero, rifiutandosi persino di andare a messa.
Interviene Maria Luigia di Parma, finché Verdi viene nominato direttore della filarmonica, incarico che gli permette di dedicarsi alla composizione.
Giuseppe Verdi: l'approdo alla Scala

La vita a Busseto è serena, ma Verdi ha la mente alla Scala, il tempio in cui si misurano i compositori di valore, approdo e passaporto per il suo futuro di artista. Già nel primo soggiorno a Milano, Verdi aveva frequentato il caffè Martini, dove erano passati Bellini, Rossini, Donizetti, e aveva conosciuto molti artisti. Ma da Busseto non gli era possibile curare le relazioni col mondo intellettuale milanese. Nascono i suoi due figli. Margherita lo spinge a trasferirsi a Milano. A Milano iniziano anni duri. Muoiono i due figli, Virginia e Ilicio, ancora molto piccoli. La morte dei neonati era un fenomeno molto comune nell'ottocento, come dimostra il professor Corsini, docente di demografia, intervistato da Angela. "Oberto conte di San Bonifacio", prima opera di Verdi, viene rappresentata alla Scala. A quei tempi l'orchestra non era nella buca ma occupava parte della platea. Non sempre c'era il direttore d'orchestra, ed era il primo violino a dare indicazioni di movimento. Le poltrone non esistevano, e i posti migliori erano i palchi di prim'ordine. C'era anche una fila di sedili, sotto i plachi, destinati alle signore. Alla prima dell'Oberto tutta la filarmonica di Busseto è presente. L'Oberto è un discreto successo e l'editore Ricordi pubblica la partitura. Ma i compensi non bastano a pagare i debiti. Margherita impegna al Monte di Pietà alcuni gioielli personali. L'amata moglie di Verdi muore poco dopo di meningite: aveva ventisei anni. Verdi è distrutto. Su commissione, scrive l'opera "Un giorno di regno", opera comica che si rivela un totale fallimento. Verdi decide "di non comporre mai più", come risulta dalla sua autobiografia.


Giuseppe Verdi: Le prime opere


Oberto conte di San Bonifacio è la prima opera scritta da Verdi, su libretto di Temistocle Solera, e fu rappresentata alla Scala nel 1839. E' inevitabile sentire l'influsso dei suoi celebri contemporanei, Rossini, Bellini, Donizetti. L'opera però contiene anche i tratti tipicamente verdiani che emergeranno in seguito.
Oberto ebbe 14 repliche. Meno di tre mesi dopo andò in scena Un giorno di regno, su libretto di Felice Romani, e fu un totale insuccesso. Fu l'unica rappresentazione di quell'opera, e fu per Verdi l'ennesimo dispiacere. In quel tempo infatti la sua vita fu attraversata da terribili lutti in famiglia. Nel giro di un anno erano morti i suoi due figli, e la moglie Margherita, figlia del suo amato tutore Barezzi - per lui un vero padre d'adozione - era morta una settimana prima dell'Oberto. Verdi dichiara: "con l'animo straziato dalle sventure domestiche, esacerbato dall'insuccesso del mio lavoro, decisi di non comporre mai più".


Giuseppe Verdi: Nabucco


Verdi discute con l'impresario Merelli la realizzazione di Nabuccodonosor, su libretto di Temistocle Solera. Per risparmiare sull'allestimento, l'impresario decide di utilizzare scene e costumi di altre opere, risistemati. Assistiamo a una pratica comune del teatro: con vera arte, sarte, costumisti e scenografi sono capaci di creare, con pochi interventi, effetti magnifici. Si prova il coro Va pensiero. Attratti dall'irresistibile forza di quelle armonie, donne delle pulizie, macchinisti, e perfino gli orchestrali cantano sottovoce. Va pensiero è il canto con cui gli ebrei, tenuti in cattività, sognano di tornare nella patria lontana. E' incontenibile la suggestione e il potere identificativo che ha quella musica e quel testo, sugli italiani del tempo. Si prova il finale del primo atto. Il teatro si riempie di pubblico improvvisato, attratto dalla musica. Prima rappresentazione: teatro alla Scala 1842. Giuseppina Strepponi, presente nel cast, famoso soprano e donna di grandi talenti, sostenitrice della musica di Verdi, si rivela al di sotto della propria arte. La sua voce, consumata dall'eccesso di recite, è stanca. Alla prima di Nabucco è presente Gaetano Donizetti, uno dei più importanti compositori italiani, contemporaneo di Verdi. Grande successo: Nabucco possiede una forza selvaggia e trascinante, adatta ai sentimenti italiani del tempo. Era la forza, non solo la bellezza che aveva trascinato il pubblico; la sua brutalità. L’italia allora aveva bisogno di questa forza. Alla terra della bellezza divenuta tema di schiavitù questa schiavitù iniziava a pesare; il canto accurato di Bellini non poteva più essere la sua voce, la nuova voce che i fermenti in lei si agitavano era VERDI.


Giuseppe Verdi: Il trionfo del Nabucco

Milano è oppressa dagli austriaci; Verdi è straziato dal dolore per aver perso in brevissimo tutta la sua famiglia. I due figli e l'amata moglie Margherita, sono morti. E' infelice perché la sua ultima opera, Un giorno di regno è stato un totale insuccesso. E' infelice perché vive in una patria amata ma prigioniera degli odiosi austriaci. Ha già rispedito i mobili a Busseto, sta per tornare definitivamente in campagna.
Nevica fitto, Verdi è depresso, passeggia in galleria De' Cristoforis a Milano e incontra per caso l'impresario Merelli che subito gli propone un libretto. Verdi gli risponde che con la musica ha chiuso, non ne vuole più sapere. Merelli insiste, Verdi è irremovibile, ma Merelli riesce a lasciare nelle mani di Verdi il libretto di Nabucco. Verdi, suo malgrado, passa la notte a leggere il libretto, fin quasi a impararlo a memoria, come ci raccontano le sue memorie. In breve tempo la musica è pronta. Iniziano le prove, e Giuseppina Strepponi, prestigioso soprano del tempo, è nel cast. Strepponi prova una grande ammirazione per Verdi, e lui per lei. Qualche anno più avanti inizierà la loro intensa storia d'amore, che durerà tutta la vita.


Giuseppe Verdi e il risorgimento: Nabucco e I Lombardi alla Prima Crociata

Con il trionfo riscosso dal Nabucco, rappresentato alla Scala nel 1842. Librettista del Nabucco fu Temistocle Solera. Verdi aveva certamente in mente e nel cuore un forte sentimento della libertà, e forse anche un messaggio profondo. La storia degli ebrei che si ribellano all'oppressore assiro Nabuccodonosor cela tra le righe il desiderio del popolo italiano di liberarsi dagli austriaci. Gli ebrei quasi diventavano gli italiani e Gerusalemme, la patria perduta, diventava l’Italia. Giovani repubblicani sognavano di fare del’Italia una nazione che soo una voce legava: la Musica, riunificandola nel sentimento.
Nel cast del Nabucco fu presente Giuseppina Strepponi, grande soprano del tempo e futura moglie di Verdi.
Dalla musica alla storia. A Milano, il salotto della contessa Clara Maffei riunisce gli intellettuali più importanti del tempo: si discute il problema dell'Italia spezzata. La rappresentazione de I Lombardi alla prima crociata, nel 1843, quarta opera di Verdi, innesca nuovi fermenti, tanto che il librettista Solera e l'impresario Merelli sono costretti a sottoporre la nuova opera di Verdi alla censura politico-religiosa . Il successo è grande: la lettura patriottica de I lombardi è ancora più marcata che nel Nabucco, presentandosi i crociati come 'lombardi'. Nelle ultime scene dell'unità si vede il teatro alla Scala e il suo pubblico, che acclama dal loggione.


Giuseppe Verdi e il Risorgimento: Giovanna d'Arco e Attila

Un pianoforte a rulli gira per le strade di Milano, suonando le arie dell'opera Giovanna D'Arco. Ciò serve a testimoniare che la musica di Verdi è diventata la bandiera della protesta italiana contro l'oppressore. Il popolo ne approfitta per trasformare il testo:
Viva l'eroica vergine che l'Anglia (Inghilterra) debellò diventa Viva l'eroica vergine che l'Austria debellò. Ne nascono disordini. I soldati austriaci intervengono per sciogliere i capannelli di cittadini ribelli. Con lo stesso spirito patriottico è accolta nel 1846 l'opera Attila (su libretto di Temistocle Solera e Francesco Maria Piave). E' un trionfo, prima al Teatro La Fenice, poi alla Scala. Nell'ultima parte dell'unità si vedono scene dal teatro. Il pubblico entusiasta canta le arie dell'Attila. Assistiamo dietro le quinte al funzionamento di alcune macchine di scena che creano il magico effetto del sole nascente


Giuseppe Verdi: censura e moralità alla metà dell'800

Nel 1844 Verdi si trasferisce a Venezia per tre mesi e lì incontra Francesco Maria Piave, il librettista con cui collaborerà per molte opere. Ai poeti Verdi chiedeva concisione, perché, in un opera, il vero messaggio è la musica a darlo. Dallo sceneggiato di Castellani vediamo la ricostruzione della prima di '"Ernani", girata al Teatro La Fenice prima dell'incendio del 1996. Nel 1848 la musica di Verdi era diventata la colonna sonora del Risorgimento, soprattutto a Milano. Vediamo scene dalle "cinque giornate", una provvisoria vittoria dei milanesi contro gli austriaci. La censura avvelena continuamente il lavoro di Verdi. Inizialmente Rigoletto viene bocciato: un gobbo buffone di corte non può attentare al Duca di Mantova, l'odioso libertino che gli ha sedotto la figlia. Anche "Un ballo in maschera" viene sottoposto a censura, arrivando persino in tribunale. Giuseppina Strepponi è diventata la compagna di Verdi. La loro relazione è molto discussa, soprattutto a Busseto, dove Verdi compra Palazzo Cavalli. Strepponi è una donna di grande cultura, parla molte lingue, vera artista e dama di grandissimo stile. Angela intervista Carla Fracci, la "Giuseppina Strepponi" nello storico film di Renato Castellani su Giuseppe Verdi. Fracci e Angela discutono sulla relazione privata tra Verdi e Strepponi, basandosi sui documenti pervenuti e su ricostruzioni ipotetiche, che la storiografia non ha ancora siglato. Verdi e Strepponi si trasferiscono nella Villa di Sant'Agata, vicino Piacenza. E' un grande podere con una bellissima residenza per la coppia. La bambina Filomena Verdi, nipote del compositore, è molto amata dalla coppia Verdi, che la adotta.


Giuseppe Verdi e il risorgimento: 1848

Mentre in Italia accadono gli eventi che innescheranno i moti del '48, Verdi sta lavorando all'estero. Nel luglio del 1847 va in scena a Londra I masnadieri. Nel novembre dello stesso anno, a Parigi, Jerusalem che è l'adattamento in grand-opéra dei Lombardi alla prima crociata. A Parigi restò fino al 1849, a parte il breve soggiorno italiano fatto con Giuseppina Strapponi, in occasione del quale comprò una casa a Busseto. A Parigi scrisse anche l'opera Il corsaro che fu rappresentata a Trieste senza l'intervento di Verdi. Torniamo a Milano. Dopo le famose Cinque giornate, Milano si libera dagli austriaci. La contessa Clara Maffei trasforma il suo salotto intellettuale in un ambulatorio d'emergenza. Mazzini, fervente repubblicano, entra a far parte del salotto repubblicano della contessa Maffei. Per liberare la Lombardia dagli austriaci si chiede aiuto all'esercito piemontese. La guerra che ne sorge è sfavorevole per gli italiani. Lo scrittore Giulio Carcano si reca a Parigi da Verdi con una richiesta: che il Maestro, molto considerato da Napoleone III di Francia, sottoscriva una petizione di richiesta di alleanza francese, contro gli austriaci. Alla fine dell'unità si vede che l'esercito austriaco è rientrato a Milano. La guerra con le armi è stata un fallimento. Da questo momento in poi diventerà soprattutto diplomatica.


Giuseppe Verdi: Il Trovatore

"Il Trovatore", melodramma in quattro atti del 1853 (prima rappresentazione al Teatro Apollo di Roma), appartiene, con "Rigoletto" e "Traviata", alla famosa trilogia popolare. Nell'unità vediamo una ricostruzione storica: la sera della prima il pubblico si recò in teatro nonostante le strade fossero state allagate dallo straripamento del Tevere. Verdi scrisse al suo amico Arrivabene "Quando andrai nelle Indie e nell'interno dell'Africa, sentirai Il trovatore". In realtà "Il trovatore" da lì a pochi anni fu rappresentato in tutte le principali capitali europee, e poi New-York, Buenos Aires, Havana, Alessandria d'Egitto, Bratislava, San Pietroburgo, fino a Bombay.
E' un'opera in cui regnano le tinte scure, magiche e quasi selvagge d'un mondo antico e misterioso. I musicologi sono sempre stati divisi nel giudizio, soprattutto per quanto riguarda l'azione. Il libretto di Salvatore Cammarano destò incertezze nello stesso Verdi, che all'inizio, come risulta dal loro carteggio, era scontento del lavoro del poeta. Verdi era esigentissimo, e talvolta interveniva personalmente apportando modifiche. Ma dove Verdi avrà letto o sentito parlare di "El trobador" di Antonio Garcìa Gutiérrez, tanto da volerlo mettere in musica? La curiosità intellettuale di Verdi per la narrativa e la drammaturgia era infaticabile. Si faceva arrivare da tante parti i testi più nuovi, che leggeva nella lingua originale, con tanto di vocabolario accanto.
La storia è piena di contrasti drammatici. Una zingara, la cui madre è stata fatta bruciare sul rogo dal Conte di Luna, ha taciuto la vera identità a Manrico, Il trovatore, di cui è innamorata Leonora. Manrico non sa che la zingara Azucena non è davvero sua madre. Il conte rapisce Leonora e imprigiona la zingara Azucena, che lui crede colpevole di aver gettato nel rogo il proprio fratello. In realtà Azucena, per errore, gettò tra le fiamme il proprio figlio, risparmiando Manrico.
Il contrasto porterà al suicidio di Leonora, e alla morte di Manrico per mano del Conte di Luna, che solo quando è troppo tardi apprende d'aver ucciso il fratello. La zingara ha così vendicato la propria madre.


Giuseppe Verdi: la casa di Sant'Agata

Villa Verdi, a Sant'Agata, appartiene ai discendenti di Filomena Verdi, nipote del compositore, da lui adottata proprio nella bellissima residenza nel parco della villa. Angela ci guida tra le stanze di casa Verdi, dove tutto è originale rispetto ai tempi in cui fu abitata dalla coppia Verdi.
Vediamo la sala del biliardo, dove Verdi giocò molte partite con Boito e Ricordi, a cui era legato per stima e affetto oltre che per lavoro. La residenza è un luogo di grande signorilità, con moltissime stanze. Ci lavoravano tredici persone di servizio addette alle più diverse mansioni. La vita era comunque semplice e frugale. Si cenava alle cinque del pomeriggio, e si andava a letto presto. Verdi si alzava alle quattro del mattino e teneva per ore la sua fitta corrispondenza col mondo. Sembra abbia scritto 25.000 lettere. Vediamo la camera di Giuseppina Strepponi. E' facile intuire a quanto l'artista Strepponi abbia rinunciato per vivere accanto al suo "Mago", come lei chiamava Verdi. Lei amava moltissimo viaggiare, conoscere luoghi e persone, parlava correttamente molte lingue, era stata una stella dell'opera, e amava moltissimo Parigi. Tutte le volte che poteva, pregava Verdi di portarla a Parigi, dove ritrovava il mondo intellettuale artistico e borghese che le apparteneva. Strepponi accettò di vivere nell'isolamento di Sant'Agata perché sapeva che questo era indispensabile all'arte di Verdi.
Vediamo la camera di Verdi, con la grande scrivania su cui componeva. In un angolo c'è il pianoforte. Sembra che Verdi usasse poco il pianoforte per comporre, scriveva direttamente la partitura.
Nel parco della villa, di oltre sette ettari, Verdi poté soddisfare la sua natura di 'contadino'. Vediamo il frigorifero naturale, una grotta che in inverno veniva riempita da lastroni di ghiaccio prelevati dal laghetto, che rimanevano intatti fino all'estate, e permettevano la conservazione di molti alimenti. Infine, nel giardino, la lapide di un grande amico di Verdi, da lui stesso seppellito: il suo amato cagnolino maltese.


L'Italia nel secolo di Verdi

All'anagrafe, l'atto di nascita di Giuseppe Verdi figura in francese. Nel 1813, infatti, l'Italia era ancora sotto Napoleone Bonaparte. Ma dopo la campagna di Russia e la sconfitta di Napoleone, l'Italia fu divisa dai vari dominatori in molti stati. Convivevano molte identità nazionali e molte lingue, e per passare da uno stato all'altro bisognava passare la frontiera e pagare un dazio. Verdi visse a Le Roncole di Busseto, in campagna. Il padre era un oste e la madre una filatrice. Il bambino Verdi fu subito attratto dall'organo della chiesa e presto imparò a suonarlo. Il padre di Verdi comprese il talento del figlio e con molti sacrifici gli regalò una spinetta, oggi in esposizione alla Casa di Riposo per Musicisti, a Milano. L'accordatore chiamato a sistemare lo strumento, lasciò dentro la spinetta un biglietto che recitava: "vedendo la buona disposizione che ha il giovinetto Giuseppe Verdi di imparare a suonare questo istrumento, che questo mi basta per essere del tutto pagato". Il piccolo Verdi prende lezioni dal maestro Trovesi di Busseto, studia in biblioteca, dirige la banda e a 15 anni è considerato un ottimo pianista. Probabilmente sarebbe rimasto sempre a Busseto se non avesse conosciuto Antonio Barezzi, un ricco commerciante di Busseto, appassionato di musica, mecenate della filarmonica del posto. Barezzi fu una figura chiave nella vita di Verdi. Lo mantenne agli studi per molti anni, lo sostenne spiritualmente e lo incoraggiò anche nei momenti più difficili.


Giuseppe Verdi e il risorgimento: I Vespri siciliani

Anno 1853: Verdi e Giuseppina Strepponi tornano a Parigi. A Verdi è stato affidato l'incarico di inaugurare con un'opera l'Esposizione universale, evento del secolo, di enorme prestigio. L'opera fu Les Vêpres siciliennes, su libretto di Scribe e Duveyrier, nello stile del grand-opéra. E' un'opera colossale, in cinque atti, su soggetto storico dalle forti tinte drammatiche. In questa occasione Verdi fu presentato a Napoleone III, che nel frattempo era diventato imperatore. Il successo fu tale che Verdi fu invitato a stabilirsi definitivamente a Parigi, ma lui non accettò. L'opera fu rappresentata alla Scala l'anno successivo col titolo Giovanna di Guzman. In Italia, Cavour, primo ministro, chiede ancora aiuto all'imperatore di Francia per cacciare gli austriaci dal Veneto. A Milano, nel salotto della contessa Clara Maffei, si discute di politica. Abbandonare l'idea di repubblica o accettare quella di monarchia? Mazzini, sostenitore della repubblica, non ha un esercito. Abbandonare l'idea di repubblica diviene quindi il male minore. Anche Verdi lo accetta e sostiene Cavour


Giuseppe Verdi e il Risorgimento: Un ballo in maschera

L'opera qui rappresentata è Un ballo in maschera, del 1859, su libretto di Antonio Somma. Inizialmente si intitolò Una vendetta in domino, ma venne subito censurata da Napoli, che l'aveva commissionata. Il motivo della severa opposizione risiede nel soggetto. Un marito che si crede tradito uccide il presunto rivale, un re, durante un ballo in maschera. Ciò per i Borboni era troppo oltraggioso. Si apre un contenzioso che Verdi supera introducendo alcune modifiche: la figura di Gustavo di Stoccolma viene sostituita con quella meno compromettente di un governatore del Massachusetts, il Conte di Warwick. L'opera viene "acquistata" da Roma nel 1859 e diviene subito popolare. Il popolo italiano si sente sostenuto dalle scelte poetiche dell'opera verdiana. Il motto "Viva V.E.R.D.I." - Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia - lo testimonia ampiamente. Dalla musica alla storia. Cavour propone la candidatura di Vittorio Emanuele II, piemontese, come Re d'Italia, e chiede il sostegno di Napoleone III per liberare l'Italia dagli austriaci. L'Austria attacca il Piemonte e la Francia interviene. Vittorio Emanuele e Napoleone III entrano a Milano. Vittorie di Solferino e San Martino contro gli austriaci. Ma Napoleone III, all'insaputa degli italiani, firma a Villafranca un concordato con l'Austria: la Lombardia è annessa al Piemonte ma il Veneto resta all'Austria. Infine, Cavour propone il plebiscito. Nel frattempo Garibaldi, senza l'aiuto di alcun esercito, conquista tutto il sud dell'Italia e lo consegna a Vittorio Emanuele II. Al primo Parlamento italiano, nel 1860, Vittorio Emanuele II viene proclamato Re d'Italia. Verdi viene eletto deputato, su invito di Cavour, del borgo di S. Donnino, oggi Fidenza, carica che esercitò con grande attenzione.


Giuseppe Verdi: Don Carlos

Per l'Opera di Parigi, nel 1867 Verdi scrisse Don Carlos, su libretto francese di Mèry e Du Locle, tratto dal Don Carlos di Schiller. Don Carlos è un grand-opéra. La versione italiana, rivisitata da Zanardini, è in cinque atti, e narra vicende storico-politico e sentimentali di notevole complessità. Per ragioni politiche Filippo II di Spagna ha sposato la giovane principessa fidanzata del figlio Carlo. La tragedia si consuma lentamente, con toni estremi: padre e figlio sono innamorati della stessa donna. Dall'opera vediamo la scena in cui Filippo, solo, vecchio e infelice, è tormentato dalla gelosia e dal rimpianto. Molte sono le passioni distruttive che regnano in questo dramma, che si conclude con la morte di Carlo, causata dall'Inquisizione e dal padre Filippo II. E' una vicenda assai dolorosa. A giudicare dall'intensità della musica sembra che anche Verdi si sia sentito vecchio, davanti al vuoto inutile della vita.


Giuseppe Verdi: Aida


Aida non fu rappresentata a Il Cairo, durante l'inaugurazione del canale di Suez, nel novembre del 1869, come avrebbe dovuto, secondo la commissione data a Verdi da parte del governo egiziano. Verdi la scrisse di getto, ma Aida dovette aspettare quasi due anni, a causa della feroce guerra tra Prussia e Francia nel 1870. I tedeschi avevano assediato Parigi, creando enormi problemi. L'allestimento dell'opera, che il governo de Il Cairo aveva commissionato all'Opera di Parigi, che era oltretutto sfarzoso e dispendioso, fu bloccato dalla guerra, e non poté essere trasferito in Egitto. D'altra parte il contratto imponeva che la prima rappresentazione avvenisse a il Cairo, e così fu nel 1872. Dopo un mese, l'opera Aida fu trasferita a Milano, dove andò in scena alla Scala. Aida, in quattro atti, segue l'impianto colossale del grand-opéra francese, con cori e impianti scenici di grande effetto e sensualità. Anche in Aida, come in Nabucco, c'è un fiume, che nella vicenda ha una grande importanza simbolica. Ma il Nilo, a differenza del fiume del Nabucco, è un fiume magico e splendente.


Giuseppe Verdi: Otello


Assistiamo ad alcune scene dall'Otello, opera del 1887, su libretto di Arrigo Boito, tratta dalla nota tragedia di William Shakespeare. La composizione di Otello è la più faticosa e lunga durante la carriera di Verdi. Verdi e Boito, quando ne parlano, lo chiamano "il progetto di cioccolata". L'unità si apre con la scena in cui i veneziani attendono al porto il condottiero Otello, reduce dalle vittorie contro i saraceni. Arriva la nave del generale al servizio della Serenissima: Otello, orgoglioso e glorioso canta la celebre Esultate. Possiamo vedere nei particolari il funzionamento alcune macchine teatrali, dietro le quinte, che creano la tempesta sul mare. La seconda scena è l'ultima della tragedia. Otello, lentamente avvelenato dai perfidi sospetti contro la fedeltà di Desdemona che Iago gli sa insinuare con arte perversa, impazzisce di dolore. Strangola Desdemona, la moglie che lo ha sempre amato e rispettato, e quando scopre di essere caduto in un tragico gioco di inganni, si uccide, davanti agli occhi impietriti dei suoi servitori. Otello è un successo immenso. La città di Milano nomina Verdi cittadino onorario.


Giuseppe Verdi: gli ultimi anni

Dopo "Otello", Verdi dà l'addio alle scene, ma dopo sei anni, ottantenne, scrive la sua ultima opera, "Falstaff". Nel 1897 muore Giuseppina Strepponi. Negli ultimi anni della sua vita, memore delle difficoltà vissute in gioventù e desideroso di aiutare i musicisti anziani e non benestanti, Verdi si dedica alla realizzazione di quella che definisce la sua "opera migliore": la Casa di Riposo per musicisti, a Milano. Nelle sue intenzioni la Casa di Riposo doveva essere sostenuta con i diritti di autore delle sue opere. Ma la legge vuole che dopo settanta anni dopo la morte dell'artista i diritti diventino di pubblico dominio. Le spese per la manutenzione della Casa sono ora sostenute dallo Stato e dai generosi lasciti di benefattori, tra molti quello di Arturo Toscanini.
Alberto Angela ci conduce attraverso una ricostruzione storica delle invenzioni tecnologiche di cui Verdi fu testimone durante la sua lunga vita: la luce elettrica, il telegrafo Morse, la macchina da scrivere - o "cembalo scrivano" come si chiamava inizialmente -, il telefono, la locomotiva a vapore, l'automobile, la radio. Verdi muore il 27 gennaio 1901. Aveva voluto che i suoi funerali fossero semplici, all'alba, senza canti, né cortei. Ma una grande folla silenziosa non può fare ameno di dargli l'ultimo saluto. Due mesi dopo, i feretri di Verdi e Strepponi furono tumulati nella Casa di Riposo per musicisti. Vediamo un breve film originale della traslazione delle salme.

 

Fonte: http://www.studenti.it/download/scuole_medie/Giuseppe%20Verdi.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 


 

Giuseppe Verdi vita e opere

 

Giuseppe Verdi

 



Sin dalle prime opere Verdi manifesta la volontà di legare in un nuovo nesso parola e musica, passioni e note. Nel Nabucco, il cui successo segna il vero inizio della sua carriera, è principalmente la musica a conferire ritmo e respiro unitario all’intreccio. Nel Macbeth, il capolavoro giovanile in cui profonde impegno ed energie, che segue al fortunato incontro col romanticismo dell’Ernani, Verdi si misura per la prima volta col genio di Shakespeare, che rappresenterà per lui, sino agli ultimi capolavori, una fonte letteraria privilegiata, ma anche un modello di pensiero e di drammaturgia. Sin da queste opere, pur senza stravolgere le forme tradizionali, Verdi mostra grande attenzione per la concatenazione scenica, curando che il succedersi dei pezzi e dei numeri musicali non ostacoli la continuità dell’azione drammatica.
 

Nabucco
Rappresentato per la prima volta alla Scala di Milano il 9 marzo 1842, Nabucco, terza opera di Verdi (dopo l’esordio con Oberto conte di San Bonifacio del 1839, cui seguì Un giorno di regno ossia il finto Stanislao nel 1840), lega la propria popolarità al coro dei prigionieri ebrei del terzo atto, "Va’ pensiero". Al debutto, il titolo era Nabucodonosor, dal nome del re di Babilonia protagonista del melodramma (in quattro atti): il titolo originale venne poi abbreviato nel 1844 per una rappresentazione a Corfù. Nabucco segna una svolta nella vita di Verdi che, dopo il fiasco clamoroso di due anni prima con Un giorno di regno e afflitto da lutti personali, aveva deciso di non scrivere mai più per le scene. Poi l’impresario Bartolomeo Merelli, equivoco personaggio che in seguito sfruttò e truffò il giovane Verdi, gli mostrò il libretto di Temistocle Solera da Anicet-Bourgeois e Cornue: la scintilla, come ebbe poi a raccontare Verdi stesso, scattò alla lettura di "Va’ pensiero", che portò la mente del maestro all’occupazione che l’Italia stava subendo.
Fu anche in effetti per le attinenze alla storia contemporanea che quest’opera dai contenuti patriottici riscosse un successo immediato e duraturo, con cinquantasette repliche nei primi quattro mesi. In questo melodramma solenne, il cui termine di paragone è il Mosè di Rossini, per la prima volta Verdi fu davvero se stesso, lasciando da parte lo stile colto per liberare la propria vena melodica popolare.
Una svolta ben avvertibile nel trattamento del coro, non impiegato come supporto armonico, secondo la lezione rossiniana, ma reso personaggio a tutto tondo. Ma l’opera segnò per Verdi anche una svolta biografica: fra i cantanti, a quella fortunata prima rappresentazione scaligera, a interpretare il ruolo della schiava Abigaille c’era il soprano Giuseppina Strepponi (1815-1897). Fu in questa circostanza che Verdi la incontrò per la prima volta, proprio pochi anni prima che lei abbandonasse il canto: Verdi l’avrebbe ritrovata a Parigi, dove la Strepponi insegnava lirica, e sposata diciassette anni dopo Nabucco.
L’insuccesso dell’opera comica Un giorno di regno, insieme alla morte della moglie e dei figli, stava per indurre Verdi all’abbandono della carriera di compositore. A farlo ricredere fu tuttavia Bartolomeo Merelli, impresario della Scala, che gli sottopose un libretto di Temistocle Solera che trattava della cattività babilonese degli ebrei. Nabucco andò così in scena il 9 marzo 1842 e fu un trionfo: molti vollero vedervi, tra l’altro, un’allegoria delle moderne sorti del popolo italiano e Verdi divenne un simbolo del Risorgimento. Il celebre coro "Va’ pensiero", nella terza parte dell’opera, esprime la sofferenza del popolo prigioniero, al quale tuttavia il gran pontefice Zaccaria riuscirà a restituire speranza. Dopo l’introduzione orchestrale, il coro intona la celebre melodia principale (a), articolandola in due frasi: a’ ("Va’ pensiero, sull’ali dorate; / va’, ti posa sui clivi, sui colli") e a" ("ove olezzano tepide e molli / l’aure dolci del suolo natal"). Udiamo quindi, a prosecuzione della precedente, una nuova linea melodica, b ("Del Giordano le rive saluta / di Sionne le torri atterrate"), cui fa seguito, quale logica conclusione, il ritorno di a" ("Oh, mia patria sì bella e perduta! / Oh, membranza sì cara e fatal!"). I prigionieri hanno ora un momento di sconforto, poiché anche l’arpa d’oro, simbolo dei profeti, tace. Da essa gli ebrei attendono il ricordo della loro libertà, come udiamo nelle frasi c’ ("Arpa d’or dei fatidici vati / perché muta dal salice pendi?") e c" ("Le memorie nel petto riaccendi / ci favella del tempo che fu"); o una profezia, ed è quanto udiamo nella frase d ("O simìle di Sòlima ai fati / traggi un suono di crudo lamento"); o almeno un suono ispirato da Dio, che renda forti nel sopportare la schiavitù, per chiedere il quale il coro intona distesamente la melodia a ("o t’ispiri il Signore un concento / che ne infonda al patire virtù"). Su queste ultime parole si svolge la conclusione del brano.
 

Ernani
Nella produzione giovanile di Verdi, Ernani è il primo gioiello in cui emerge con chiarezza la capacità del compositore di delineare la condizione psicologica dei personaggi con poche pennellate musicali. L’opera, contemporanea de I due Foscari, segue I lombardi alla prima crociata del 1843. Il dramma lirico in quattro parti Ernani approdò alle scene il 9 marzo 1844 al Teatro La Fenice di Venezia. Il soggetto del libretto di Francesco Maria Piave era tratto dalla tragedia di Victor Hugo pubblicata quattordici anni prima: la pièce, pietra miliare nel teatro drammatico francese del romanticismo, era ormai famosissima. Verdi dovette provarne un po’ di soggezione, dato che volle seguire personalmente il testo consigliando lui stesso al librettista le modifiche da apportare all’originale.
La distribuzione dei pezzi chiusi fra soprano (Elvira), tenore (Ernani), baritono (Carlo) e basso (Silva) rispetta geometrie perfette di sapore preromantico, definite dalle relazioni amorose dei personaggi, che si presentano ciascuno con un’aria e una cabaletta, musicalmente ben definiti nel rispettivo carattere. La verve romantica è enfatizzata nel contrasto sonoro fra voci e relativi caratteri e si realizza nei pezzi d’insieme, come il duetto fra Carlo ed Elvira e, soprattutto, il terzetto dell’ultimo atto. Qui Verdi anticipa quel senso di unità della scena che sarà la sua cifra stilistica negli anni della maturità. Tuttavia anche in questo caso è lo spessore dei cori a conferire all’opera gli accenti destinati a restare più popolari. La pagina corale "Si ridesti il leon di Castiglia" diventò infatti un inno emblematico del Risorgimento, tanto che gli irredentisti sostituirono "Venezia" a "Castiglia". Qualcosa di simile accadde anche al passo "A Carlo Quinto sia gloria e onor", dove al posto del nome del re di Spagna si cantava quello del pontefice Pio IX, allora ritenuto filorisorgimentale. Dopo l’Ernani, con Giovanna d’Arco e Alzira del 1845 e l’Attila del 1846 Verdi tocca uno dei punti più bassi della sua espressività: sono gli anni di aridità creativa che egli stesso chiamò "anni di galera".

Macbeth
Ancora un libretto di Francesco Maria Piave, con la collaborazione di A. Maffei, su soggetto tratto dal celebre dramma shakespeariano, fa da ordito testuale per questo melodramma in quattro atti del 1847, andato in scena per la prima volta il 14 marzo di quell’anno al Teatro della Pergola di Firenze. Il librettista questa volta non dette ottima prova di sé, palesando numerose difficoltà nel restituire la complessità dei caratteri della tragedia originale; malgrado ciò, in quest’opera si arriva all’affermazione del miglior Verdi.
Anche nelle scene che le carenze letterarie rendono più deboli e fin quasi ingenue, come quella delle streghe, il maestro risolve il problema spostando sull’orchestra spessore espressivo e tensione drammatica. Questo sforzo segna un progresso enorme nella tecnica compositiva e drammaturgica di Verdi, i cui effetti sono ben avvertibili nelle opere successive. La novità principale concerne il rapporto fra parola e musica; questa va a fondersi con l’azione in un rapporto intimo del quale le opere dei maestri precedenti a Verdi, come Rossini e Donizetti, contenevano appena il germe. L’attenzione si sposta dall’antagonismo dei ruoli tradizionali all’ineluttabile precipitare verso la perdizione della coppia protagonista, esplorando le zone oscure della coscienza dei personaggi, grazie al ricorso a tonalità notturne. Riusciti appaiono i pezzi chiusi, come l’aria del basso Banco "Come dal ciel precipita": anche qui, un ruolo di spicco è riservato al coro che ha la sua pagina di punta nella pagina "Patria oppressa", uno fra i brani migliori di Verdi. Resta lo squilibrio, dovuto al testo, fra scene altissime e mediocri, forse anche perciò Verdi non batterà ciglio quando si tratterà di rimaneggiare l’opera per le rappresentazioni all’estero. Nel 1855 Macbeth va in scena a Pietroburgo col titolo Sivardo il Sassone, mentre nel 1865 è ospitata al Théâtre Lyrique di Parigi: per questa seconda "esportazione" anche la partitura subirà dei mutamenti per adeguarla al gusto francese. Nell’arco della carriera verdiana, il Macbeth segna, coi Masnadieri dello stesso anno, la rinascita dopo gli "anni di galera"; seguiranno Il corsaro (1848) e la Luisa Miller (1849). La battaglia di Legnano, anch’essa del 1849, e Stiffelio, del 1850, segnano invece un ritorno allo stile donizettiano.
 
La maturità
Un salto di qualità si compie fra i lavori giovanili e la cosiddetta "trilogia popolare" della maturità verdiana, composta da Rigoletto, Il trovatore e La traviata, opere che valgono all’artista la definitiva consacrazione e il profilarsi di grandi commesse internazionali, seguite dal Ballo in maschera, primo cimento coi modelli del grand-opéra. La scrittura verdiana, in virtù d’un trattamento sempre più variegato e flessibile delle forme, amplia smisuratamente la propria gamma espressiva, rivelandosi capace di rappresentare personalità complesse, conflitti caratteriali e generazionali, l’intricata rete dei rapporti umani. Non a caso, sull’aria solistica prende talvolta il sopravvento il duetto, forma paradigmatica per la rappresentazione del confronto drammatico, che domina nel Rigoletto, facendosi serrato dialogo intimo nella Traviata.
 
Rigoletto
Rigoletto è il primo tassello di quella che, con Il trovatore e La traviata, è passata alla storia come la "trilogia popolare" dei capolavori del maestro, quella che toglie al signore il ruolo di protagonista per affidarlo all’umile. Verdi ha quarant’anni quando ha l’ispirazione folgorante: far ruotare attorno a un protagonista assoluto, vero filo conduttore unitario dell’azione, tutta la vicenda e ogni altro personaggio, innestando il nuovo assetto drammaturgico sull’impianto melodrammatico trazionale, che rimane pressoché intatto. In Rigoletto il buffone deforme e grottesco, un baritono, è agitato, nel corso della sua tragedia d’uomo e di padre, da sentimenti d’intensità e complessità sconvolgenti. Obiettivo della musica è disegnarne con precisione i connotati psicologici, provvedendo poi a definirne i contrasti con gli altri personaggi – Sparafucile, l’altro popolano della storia, il duca e Gilda – nonché col coro dei cortigiani, che agisce come un’individualità nel brano "Zitti zitti", la cui personalità è tratteggiata nella memorabile pagina affidata a Rigoletto, "Cortigiani, vil razza dannata". Il soggetto di Rigoletto è tratto dal dramma di Victor Hugo Le roi s’amuse, sostituendo al re di Francia Enrico IV, inguaribile libertino, il personaggio del duca di Mantova. Sulle prime, Verdi e il suo librettista Francesco Maria Piave avevano mantenuto il rango del personaggio originario: fu la censura veneziana, rifiutandosi di concedere il permesso per la rappresentazione, a costringere il compositore a questo e ad altri mutamenti nell’opera, accusata d’offendere la maestà sovrana. Superato l’ostacolo, grazie a profondi rimaneggiamenti, il melodramma in tre atti Rigoletto (ma il titolo originale era La maledizione) andò in scena al Teatro La Fenice di Venezia l’11 marzo del 1851.
 
Il Trovatore
Più di Rigoletto e meglio della Traviata, Il trovatore è il compendio di tutta l’opera verdiana precedente. Un gioiello unico, isolato dal resto della produzione del maestro per la sua maestosità, nell’atmosfera immobile del sortilegio, e per una solennità sacrale che rimanda al Beethoven più maturo. Il libretto, lasciato incompiuto da Salvatore Cammarano alla sua morte e completato da Baldare, trae l’argomento a fosche tinte dalla tragedia spagnola El trovador di Antonio García Gutierrez. La prima rappresentazione del "dramma in quattro atti e otto quadri" è al Teatro Apollo di Roma il 19 gennaio 1853. Nel Trovatore Verdi condensa alcune delle sue pagine più note e più belle: "Tacea la notte placida" e "D’amor sull’ali rosee" di Leonora (soprano) e gli interventi di Manrico (tenore), a solo o in pezzi d’insieme come "Ah che la morte ognora" o "Di quella pira". Un posto preminente occupa l’aria finale della zingara Azucena, che nel momento dell’agnizione scioglie l’odio che le ha corroso la vita in tenerezza materna. Proprio la condotta musicale del personaggio di Azucena consacra definitivamente la voce di mezzosoprano agli onori di ruolo principale. Insolitamente retrospettivo e rossiniano, semmai, è l’uso del coro, trattato senza la consueta incisività verdiana e impiegato anzi in funzione pressoché decorativa. L’ingresso dell’opera nel repertorio stabile d’ogni compagnia teatrale fu immediato e duraturo: oggi, forse, essa perde un po’ di terreno nelle nostre stagioni liriche per il mutare della vocalità rispetto alle esigenze dell’operismo verdiano, che nel Trovatore sono spinte al massimo. Il tenore Caruso osservò che la sola cosa di cui quest’opera ha bisogno sono i quattro cantanti più bravi del mondo. Che non è poco.
 
La Traviata
Attuale come non mai, il soggetto della Traviata. Allontanata dal suo amato Alfredo, un giovane di buona famiglia intenzionato a redimerla, per via dello spicciolo moralismo del padre di lui, la demi-mondaine Violetta cede alla tisi che la travaglia e muore. La vicenda, che il librettista Francesco Maria Piave trasse dal dramma di Alexandre Dumas figlio La dame aux camélias (a sua volta tratto dall’omonimo romanzo, in parte autobiografico), era così contemporanea da far individuare nell’opera in tre atti il primo esempio di naturalismo nel teatro musicale europeo. Resta il fatto che La traviata, rappresentata la prima volta con strepitoso successo il 6 marzo 1853 al Teatro La Fenice di Venezia, è l’opera di Verdi che più finemente d’ogni altra tratteggia l’evoluzione psicologica dei personaggi. È qui, soprattutto nella parte finale dell’opera, che Verdi inizia a battere la pista dell’adesione della musica alla parola declamata, più che intonata artificiosamente. Particolare attenzione è riservata alla definizione vocale della protagonista Violetta, attorno alla quale si costruisce tutta l’opera. La tensione drammatica e drammaturgica che si viene a creare monta fino alla fine, tutta orientata a sciogliersi nel finale. La tragedia che investirà Violetta (soprano) è presagita fin dall’inizio del melodramma, annunciata dalle dissonanze che Verdi sparge qua e là ad insidiare l’atmosfera festaiola e mondana che anima il preludio del primo atto. Nella Traviata vi sono alcune delle pagine più celebri di Verdi, come il duetto "Un dì felice, eterea" fra Violetta e Alfredo (tenore), preceduto da quello con coro del famosissimo brindisi "Libiam nei lieti calici", il duetto finale "Parigi, o cara", i cori di "zingarelle e matadori". Pare che anche per Verdi la storia avesse un sottofondo biografico: la sua compagna Giuseppina Strepponi era infatti gravemente malata e circolavano voci sgradevoli sulla sua turbolenta vita amorosa prima dell’unione col musicista. I melodrammi della "triade popolare" sono il trampolino per tutta la produzione successiva che, lasciando da parte le opere commissionate per i palcoscenici internazionali, ha le sue perle nella prima edizione del 1857 di Simon Boccanegra e del Ballo in maschera del 1859; di minor levatura è l’Aroldo, un rifacimento di Stiffelio datato 1857.

Un ballo in maschera segna l’addio di Verdi dalla scena italiana fino al ritorno del 1887 con Otello. Dopo l’esperienza dei Vespri siciliani, l’arte di Verdi conta una marcia in più: è quella innestata in questo melodramma, in cui Verdi coniuga l’elegante ésprit francese alla sobrietà dell’opera italiana. La partitura che nasce da queste contaminazioni è sempre tesa fra toni gai e cupi, incarnati rispettivamente dai personaggi secondari del paggio Oscar (soprano en travesti che tanto ricorda il frizzante Cherubino delle Nozze di Figaro di Mozart) e dell’indovina Ulrica (mezzosoprano, con caratteristiche già sperimentate da Verdi nel Trovatore col personaggio di Azucena). In mezzo, un’ampia gamma di sfumature psicologiche è riservata ai protagonisti dell’azione: il soprano Amelia, il tenore Riccardo e il baritono Renato che si distribuiscono i pezzi chiusi seguendo ciascuno fili melodici che riemergono insistenti, quasi a definire dei motivi conduttori. Il "melodramma in un preludio e tre atti" Un ballo in maschera, su libretto di Antonio Somma tratto da quello di Eugène Scribe per Gustave III où Le bal masqué di Auber, debuttò al Teatro Apollo di Roma il 17 febbraio 1859. Com’era accaduto anni prima per Rigoletto, anche questa volta Verdi vide abbattersi su una delle sue opere la censura che l’accusava di lesa maestà, complicata oltretutto da un regicidio in scena. La prima versione del libretto, infatti, manteneva i personaggi dell’originale francese, in cui protagonista non era Riccardo di Warwick, governatore del Massachusetts, ma il re di Svezia Gustavo III. La prima bocciatura arrivò da parte della censura borbonica di Napoli, a cui Verdi rifiutò di assoggettarsi, per cedere invece alla volontà dei censori vaticani. La versione usata per il debutto parigino, nel 1861, conobbe un’ulteriore modifica nella localizzazione e nei personaggi: Boston diventava Napoli, e Riccardo di Warwick si mutava in Riccardo d’Olivares. L’originaria ambientazione nella Stoccolma del Settecento, col ripristino del personaggio del re, fu tentata per la prima volta nel 1958 all’Opéra di Parigi. 
 
Le commesse internazionali
L’arte di Verdi, dopo il trionfo in patria, esige ormai un palcoscenico più ampio e sceglie di misurarsi col pubblico delle grandi capitali e coi generi in voga sulle scene europee, a cominciare dal grand-opéra parigino. Capace d’interiorizzare fecondamente stili e procedimenti d’altre scuole, oltre a dar prova di trovarsi a proprio agio nelle dilatate dimensioni del genere francese, Verdi si consente addirittura di spingere oltre lo sguardo, facendo proprie le morbidezze armoniche del nuovo linguaggio dell’opéra-lyrique. Mentre l’attenzione drammaturgica si sposta sul contrasto che oppone individuo e necessità storica, libertà e ragione di stato, sviluppando una commovente poetica degli sconfitti, la sua musica acuisce le proprie capacità di caratterizzazione, esplorando vieppiù le zone d’ombra dell’animo umano.
 
Les vêpres siciliennes
I primi positivi esperimenti di proporre le opere verdiane sui palcoscenici europei risalgono al 1847, con l’edizione londinese dei Masnadieri e l’adattamento in Jérusalem, per l’Opéra di Parigi, dei Lombardi alla prima crociata. Ma quando l’artista decise che era l’ora di spiccare definitivamente il volo verso l’Europa, Parigi e il grand-opéra furono le sue tappe decisive. Il dramma in cinque atti Les vêpres siciliennes debuttò all’Opéra di Parigi il 13 giugno 1855. La nascita di questo lavoro fu tormentata. Intanto Verdi aveva scelto di cimentarsi in un genere non più favorito nel gusto del pubblico francese che iniziava a percepirlo come vagamente datato - persino Meyerbeer, il campione musicale nella composizione di grand-opéra, stava cambiando stile - e poi ebbe problemi con il libretto, in origine pensato per Il duca d’Alba di Donizetti, opera del 1839 rimasta incompiuta (e completata da Matteo Salvi), e poi riadattato dallo stesso Scribe e Duveyrier. Verdi trovò l’azione priva di coesione interna, con troppa divaricazione fra la vicenda amorosa e quella politica, ma Scribe rifiutò di apportare la benché minima modifica. Malgrado tutto, Verdi riuscì a mettere a punto una partitura intensa e con particolari di grande efficacia drammatica, a cominciare dalla sinfonia d’apertura, capace da un lato di evocare i momenti paradigmatici dell’opera, ma dall’altro di reggere con dignità l’esecuzione concertistica a sé grazie all’ampio respiro. L’opera fu un successo, e costituì anche un’occasione per il musicista di Busseto di confrontarsi con un impianto drammaturgico più vasto del solito: cinque atti contro i tre o quattro di cui si componeva tradizionalmente il melodramma italiano. Les vêpres siciliennes si trasferì presto sulle scene italiane: già il 26 dicembre 1855 l’opera, col titolo Giovanna di Guzman (dovuto all’immancabile intervento censorio), tradotta dal Fusinato, era al Teatro Ducale di Parma, e il 4 febbraio dell’anno successivo approdò al prestigioso palcoscenico della Scala a Milano, in una nuova tradizione di E. Caimi. Dopo il 1861 il titolo della versione italiana fu stabilmente mutato ne I vespri siciliani.
 
Don Carlos
Durante il Secondo impero la tematica del contrasto fra sentimenti privati e ragion di Stato faceva ancora molta presa sul pubblico. Don Carlos, il maestoso grand-opéra di Verdi tratto dall’omonimo dramma di Schiller, ne è il compendio: tutti i risvolti più tragici della vicenda sono la conseguenza della tirannia con cui il regnante Filippo II di Spagna esercita il suo potere. L’opera, la terza commissionatagli a Parigi dopo Jérusalem e Les vêpres, restituisce tutti i frutti migliori di queste due precedenti esperienze. In questo lavoro, dietro l’apparentemente consueta distribuzione delle parti, prende vita una rete di relazioni inedita fra i personaggi e le voci di cui sono portatori. I nessi fra i motivi si moltiplicano, indicando non solo i personaggi, ma anche i loro legami, come accade per l’amicizia fra Don Carlos (tenore) e Rodrigo (baritono). Aprendo la strada a possibilità musicali nuove, questi legami creano un tessuto musicale a trama fine, perfettamente coeso alla complessità del testo. Andata in scena all’Opéra di Parigi l’11 marzo 1867, con un allestimento d’emergenza e molti tagli, l’opera in realtà era stata commissionata a Verdi già molto tempo prima, nel 1850: solo dopo quindici anni egli cominciò a lavorare sul libretto di François-Joseph Méry e Camille Du Locle. Nata come grand-opéra, Don Carlos è forse l’opera che Verdi rimaneggiò di più, nel passaggio dalle scene francesi a quelle italiane. A non convincere del tutto Verdi era l’assetto drammaturgico della storia, che solo per rispetto del gusto francese egli aveva distribuito in cinque atti. Verdi lasciò passare la prima italiana al Teatro Comunale di Bologna, il 27 ottobre 1867, poi ridusse l’opera a quattro atti per l’allestimento scaligero del 1884. La versione oggi più rappresentata, in lingua italiana, sulla traduzione di A. de Lauzières ritoccata dal Ghislanzoni, è una sorta di collazione, con numerosi tagli, delle numerose versioni. La partitura integrale, mai eseguita in vita da Verdi, è stata presentata per la prima volta dalla BBC nel 1973, quindi ripresa a Parigi nel 1986, ma senza il balletto.
 
La forza del destino
Fra una commessa per Parigi e l’altra, ecco arrivare a Verdi da Pietroburgo la richiesta di un’opera da rappresentarsi al Teatro Imperiale. L’idea del compositore era quella di portare in Russia un campione di melodramma italiano, appena contagiato dall’influenza del grand-opéra francese che aveva immancabilmente un effetto positivo sul gusto europeo. Ne nacque La forza del destino, su soggetto tratto da un dramma dello spagnolo Angel de Saavedra Ramírez de Banquedano, duca de Rivas, dal titolo Don Alvaro ò La fuerza del sino, cui Verdi volle aggiungere una scena dal Campo di Wallenstein di Schiller, i cui ideali lo attraevano da sempre. Ma il libretto originale di Francesco Maria Piave, con cui l’opera andò in scena a Pietroburgo il 10 novembre 1862, non lo convinceva appieno: troppi morti nel finale, in cui rispetto alla versione odierna perdeva la vita anche Don Alvaro. Verdi affidò dunque a un singolare rappresentante della Scapigliatura milanese, un certo Antonio Ghislanzoni che si fregiava d’essere letterato ma anche cantante e medico, la revisione del libretto in vista dell’approdo alle scene italiane. Fu Ghislanzoni a risparmiare la vita a Don Alvaro e a restituirci la versione con cui La forza del destino è rimasta in repertorio. La prima italiana alla Scala di Milano, il 27 febbraio 1869, riscosse discreto successo. L’opera è d’altronde uno dei migliori esempi della fluidità con cui la drammaturgia verdiana è ormai capace di trascorrere lungo i quattro atti del melodramma. Verdi non rinuncia a stilemi tratti da Rossini e Donizetti quando tratteggia i personaggi comici come fra’ Melitone (basso comico) o la vivandiera Preziosilla (mezzosoprano), ma compensa queste reminiscenze datate con un’inarrivabile profondità di narrazione dinanzi ai protagonisti Leonora (soprano), Don Alvaro (tenore) e don Carlo di Vargas (baritono).
Rappresentata per la prima volta a Pietroburgo nel 1862, l’opera deriva il proprio soggetto da un dramma dello spagnolo duca di Rivas. Narra dell’amore di don Alvaro, discendente della dinastia degli Incas, per Leonora, figlia del marchese di Calatrava. Il padre di Leonora si oppone a questo amore e sorprende i due nel tentativo di fuga. Alvaro, che non intende giungere ad un diverbio, getta a terra l’arma che tiene con sé, ma la forza del destino fa partire un colpo e il marchese resta ucciso. Da questo momento Leonora sarà perseguitata dal rimorso e troverà pace solo in un convento di frati. Carlo, fratello di Leonora, è assetato di vendetta e perseguita Alvaro, fino ad arrivare a battersi con lui nello stesso convento dove è rifugiata Leonora; Carlo resta ucciso ma, in punto di morte, uccide la sorella. La sinfonia dell’opera si apre con un richiamo degli ottoni, che introduce il tema del destino, riproposto in seguito dai violini e di nuovo suggellato dal richiamo iniziale. Udiamo ora il tema che caratterizzerà l’ultimo duetto tra Carlo e Alvaro, mentre il tema del destino lo accompagna ossessivamente. Eterno protagonista, il destino accompagna anche il tema successivo, che udiamo nell’opera come invocazione di Leonora al Signore; lo stesso materiale è quindi protagonista di un crescendo, che dà l’avvio a un passo tempestoso, sempre memore del tema del destino. Placatasi l’orchestra, i fiati richiamano ancora il motivo del duetto tra Carlo e Alvaro, che funge adesso da introduzione ad una lunga melodia del clarinetto, ancora legata a Leonora, rinfrancata dall’accoglienza del padre guardiano; al termine, un fugato introduce una sorta di sviluppo del tema del destino. Segue quindi, sempre tormentato dal destino, un corale degli ottoni che richiama la santità del rifugio di Leonora. Il tema del destino diviene ora protagonista di un crescendo, al termine del quale udiamo di nuovo l’invocazione di Leonora, seguita dall’altro suo tema, che questa volta, insieme a quello del destino, si ripropone in forma variata. Ha quindi avvio l’episodio conclusivo che, accelerando il tempo, suggella la sinfonia.
 
Aida
L’aneddotica vuole che Aida sia stata commissionata a Verdi dal khedivé d’Egitto Ismail Pascià per solennizzare il taglio del canale di Suez (1869) e contemporaneamente inaugurare il nuovo Teatro dell’Opera del Cairo. Risulta invece che il teatro fu inaugurato dal Rigoletto e la commessa d’una nuova opera giungesse a Verdi solo nel 1870. Sia quel che sia, in un momento in cui il gusto europeo trasudava esotismo, Verdi ebbe l’occasione d’intridere il suo nuovo melodramma delle atmosfere più magiche e sontuose dell’Egitto dei faraoni. E per rendere giustizia alla magnificenza dell’ambiente esotico, scelse l’impianto che stava sostituendo il grand-opéra nel teatro musicale francese, ovvero l’opéra-lyrique. Mantenendo la spettacolarità e la grandeur che caratterizzavano il grand-opéra, il nuovo genere vi alternava sezioni più intimiste e riflessive, adattandosi particolarmente alle esigenze proprie della drammaturgia verdiana. Aida trova il suo equilibrio tra poderose scene d’insieme, fra ricche danze e cori di stuoli di sacerdoti, cui sono affidate melodie evocativamente strette nell’ambito d’un intervallo di quarta, e passaggi di grande suggestione emotiva. Ma la novità vera, la svolta per la composizione verdiana, è nel trattamento dell’orchestra, ben più incisivo del solito e rivelatore di un’ormai solida padronanza d’ogni possibilità del linguaggio strumentale. L’opera lirica in quattro atti, su libretto di Antonio Ghislanzoni da un canovaccio di Camille du Locle, arrivò sulle scene del Teatro dell’Opera del Cairo con parecchio ritardo rispetto al previsto, poiché scene e costumi dovevano arrivare da Parigi, stretta d’assedio dall’esercito prussiano. Ma quando Aida andò in scena, alla vigilia di Natale del 1871, fu un trionfo di critica e di pubblico. Poco meno d’un anno dopo, l’8 dicembre 1872, il successo si ripeté in occasione della prima europea dell’opera alla Scala di Milano.
 
Il canto del cigno
Dopo il successo d’Aida, un periodo d’inattività: che sia, per Verdi ormai prossimo ai sessant’anni, il silenzio definitivo? Tutt’altro. Oltre a lasciare la propria impronta nella musica sacra, con la Messa da Requiem, il patriarca avvia la gestazione di Otello, durata quasi nove anni, e di Falstaff, messo in scena a ottant’anni. Quanta giovanile energia, nell’inventarsi una nuova maniera dopo il prodursi di grandi novità sulla scena musicale, con l’avvento di Wagner, che miete successi e seguaci anche in Italia, ma anche di Gounod, Bizet e Massenet! Nei due ultimi capolavori, sempre senza rinnegare del tutto la tradizione, Verdi porta a compimento la ricerca d’una vita: la frase musicale palesa una flessibilità che la rende musicalmente avvincente e al tempo stesso scrupolosamente fedele alla parola drammatica, in una perfetta corrispondenza.
 
Otello
Il rapporto conflittuale fra Verdi e il suo nuovo librettista Arrigo Boito ebbe paradossalmente l’effetto di rendere Otello l’opera verdiana in cui i diversi elementi sono più che mai coesi: un aspetto di non poco conto, negli anni in cui nei circoli culturali ci si divideva fra verdiani e wagneriani, senza vedere i reciproci influssi che i due musicisti ebbero l’uno sull’altro. Verdi scrisse l’opera dopo sedici anni di pausa creativa: una pausa di riflessione in cui il musicista ormai anziano aveva potuto ripensare e maturare ogni scelta compositiva, drammaturgica, poetica e stilistica. In questo i trascorsi di Arrigo Boito furono un contributo determinante: dell’esperienza di elemento di punta della Scapigliatura milanese, egli portava con sé la tendenza a ricercare la fusione ideale e perfetta fra musica, letteratura e arti visive, in questo caso la scenografia, anche se il rovescio della medaglia fu l’eccessivo uso di preziosismi linguistici. Questo bagaglio intellettuale si riversò nel libretto, che rileggeva il dramma shakespeariano – col geloso Otello (tenore) che, aizzato dal perfido Jago (baritono), uccide l’innocente Desdemona (soprano) – in dimensione molto moderna (eliminando fra l’altro l’atto veneziano e semplificando l’articolazione drammaturgica in favore d’una maggiore concatenazione fra le scene), spingendo ulteriormente avanti la musica di Verdi, che conosce una straordinaria ricchezza d’orchestrazione accompagnata da vera audacia armonica. Nella costruzione dell’opera, accolta in modo trionfale alla prima apparizione al Teatro alla Scala di Milano il 5 febbraio 1887, col mitico Tamagno nel ruolo del Moro, Verdi procede apparentemente in modo tradizionale, secondo lo schema che alterna il recitativo al pezzo chiuso; ma è facile notare che qui le simmetrie musicali tipiche del melodramma sono disfatte dal bisogno drammaturgico d’intonare realisticamente la parola. Otello è da un lato la summa dell’opera verdiana, dall’altro la pietra tombale del belcanto.
 
Falstaff
È ancora il teatro di William Shakespeare, con Le allegre comari di Windsor (ma i personaggi compaiono anche nelle due parti dell’Enrico IV e nell’Enrico V), a ispirare il tandem artistico Verdi-Boito, e questa volta in terra comica. Falstaff è l’ultima opera di Verdi, ma praticamente la prima del genere comico, appena sfiorato oltre mezzo secolo prima con la sua seconda opera, Un giorno di regno. La prima alla Scala di Milano è del 9 febbraio 1893, seguita nel 1894 dalla versione francese, andata in scena a Parigi il 18 aprile. La cornice emotiva nuova e diversa rispetto alle vicende drammatiche di tutti gli altri eroi verdiani ha l’effetto di liberare il compositore dagli schemi drammaturgici del melodramma, pur conservando tutti i mezzi assicuratigli dalla maturità artistica. Ne esce una condotta orchestrale che svela ogni possibilità espressiva dei diversi strumenti, trattati con la stessa attenzione riservata alla psicologia dei personaggi. Lasciatisi alle spalle sovrani, nobili e guerrieri, Verdi trova negli uomini e nelle donne (Alice, soprano, Meg, mezzosoprano, Quickly, contralto) che animano l’Osteria della Giarrettiera del Falstaff il terreno più adatto per legare la sua musica alla parola in una dimensione più che mai naturalistica. Con quest’opera terminata a 79 anni, Verdi dà prova d’una giovanile energia nel rinnovare totalmente il proprio stile, chiudendo il capitolo del melodramma ottocentesco per additare la via dell’opera novecentesca. Nella geniale partitura, qualche brandello di vocalità melodrammatica resta negli interventi del protagonista, il grasso Sir John Falstaff (baritono), e della coppia di giovani innamorati (Nannetta, soprano, e Fenton, tenore), che resiste come stereotipo del passato. Per il resto, il ritmo travolgente che anima il brillante testo di Boito è del tutto assecondato dalla partitura di Verdi che con quest’opera esce definitivamente di scena. Ridendo.
 
La vita
Giuseppe Verdi nasce nel 1813 a Roncole di Busseto, una piccola frazione di Busseto, in provincia di Parma, dove papà Carlo e mamma Luigia gestiscono una piccola osteria: qui riceve la sua prima formazione musicale dall’organista della chiesa di Roncole, don Pietro Baistrocchi. Alla sua morte, nel 1823, Verdi si stabilisce a Busseto. Qui incontra il commerciante Antonio Barezzi che, dopo averlo ospitato in casa sua, lo aiuterà a frequentare il ginnasio presso i gesuiti e a proseguire gli studi musicali con l’organista Ferdinando Provesi, che dirige la scuola di musica municipale. Per la Società filarmonica di Busseto, ancora adolescente, Verdi inizia la propria attività compositiva, ma continua a coltivare il desiderio di completare gli studi al di fuori dell’ambiente provinciale. Trasferitosi a Milano, tenta senza successo di essere ammesso al Conservatorio. Su consiglio di Alessandro Rolla prende lezioni private da Vincenzo Lavigna, operista e maestro concertatore di cembalo alla Scala.
Nel 1836 Verdi torna a Busseto per prendere il posto dello scomparso Provesi e sposa Margherita Barezzi. La felicità del fortunato esordio milanese con l’Oberto conte di San Bonifacio è di breve durata: Verdi perde i due figlioletti e la moglie. Il suo dolore contribuisce al fiasco di Un giorno di regno alla Scala. Nel 1842 il successo di Nabucco segna l’inizio di quelli che il musicista stesso chiamerà "anni di galera", trascorsi, dal 1848 in poi, nella tenuta di Sant’Agata dove continuerà a scrivere e a consolidare la propria carriera, iniziando la collaborazione col librettista Francesco Maria Piave. Poi iniziano i viaggi, prima di tutto a Parigi, dove ritrova la cantante Giuseppina Strepponi: la sposerà nel 1859. Il lavoro porta Verdi sempre più lontano: dopo Parigi e Londra è la volta di San Pietroburgo, nel 1862, poi ancora Parigi, nel 1865 e nel 1867. Gli anni Settanta sono quelli delle polemiche con i filowagneriani e gli scapigliati, nonché quelli della crisi matrimoniale e della nomina a senatore, nel 1874. Dopo la morte della Strepponi, nel 1897, Verdi spira a Milano nella sua stanza dell’Hotel Milan il 27 gennaio 1901.
 

La musica sacra e il quartetto
Negli anni seguenti al successo di Falstaff Verdi, ormai ottantenne, si dedica alla musica sacra. Nel 1898 vengono pubblicati i Quattro pezzi sacri, raccolta comprendente l’Ave Maria e le Laudi alla Vergine Maria, della fine degli anni Ottanta, oltre al Te Deum (1896) e allo Stabat Mater (1897). Ma il lavoro sacro più importante e noto di Giuseppe Verdi è la Messa da Requiem scritta nel 1874, a un anno dalla morte dell’idolo letterario del compositore, Alessandro Manzoni. L’idea d’una Messa in memoria d’un grand’uomo era già nata in Verdi al momento della morte di Rossini: il progetto prevedeva l’assegnazione dei suoi tredici movimenti ad altrettanti compositori italiani, fra i quali Mercadante e Petrella, che si negarono. La Messa per Rossini fu comunque portata a termine da Verdi, che si riservò il pezzo finale, il Libera me, col contributo di altri musicisti, tra i quali Mabellini, Pedrotti e Cagnoni, ma non poté essere eseguita, dormendo negli archivi di casa Ricordi sinché nel 1970 il musicologo Rosen recuperò otto dei tredici movimenti, eseguiti per la prima volta a Stoccarda, nel 1988. Verdi riprese e rimaneggiò il Libera me per la Messa da Requiem per Manzoni. La Messa è divisa in sette parti, e contiene in nuce la rivoluzione che si compierà con Otello e Falstaff. La dimensione strofica è già lacerata, mentre la parola, latina nel caso specifico, è già intonata naturalisticamente. Proprio questo è ciò che conferisce alla sezione più caratteristica della Messa, il Dies Iræ, la sua atmosfera particolarmente cupa e minacciosa. Allo stesso periodo risale il quartetto per archi in mi minore del 1873, unica composizione strumentale di Verdi, che smentisce con l’uso dotto del contrappunto i propri detrattori, che in quegli anni lo accusavano d’eccessiva semplicità. Certo, il quartetto è all’ascolto di ben singolare effetto: nei temi vi sono le reminiscenze delle danze del Rigoletto e di episodi di Un ballo in maschera trasfigurati alla luce dello stile severo del contrappunto. Il terzo movimento ha invece l’impeto degli scherzi di Beethoven, cui Verdi si richiama anche nel titolo del finale, chiamato "scherzo-fuga" benché sia una fuga a tutti gli effetti.

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Fonte: http://www.alleroncole.it/UpLoadDocumenti/Giuseppe%20Verdi%20vita,%20opere.doc

 

Autore del testo: Ristorante alle Roncole ? http://www.alleroncole.it/

 

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