Poesia lezioni

 

 

 

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Poesia lezioni

 

Poesia lezioni

 

CHE COS’E’ LA POESIA?
Ai fini del nostro studio la poesia è un genere letterario il cui testo è suddiviso in versi.

 

CHE COS’E’ UN VERSO?
E’ una riga di scrittura, interrotta da un a capo, che viene un po’ prima del margine destro della pagina e che spesso non coincide con la fine della frase. Il verso è l’unità di base nella scansione in versi, è in rapporto agli altri, ma è concepibile ed analizzabile anche da solo.

 

CHE COS’E’ LA STROFA?
E’ un raggruppamento di versi.

 

CHE COS’E’ LA METRICA?
La metrica è l’arte dei versi; cioè insegna il modo di comporre e misurare i versi, determinandone le leggi e gli elementi.
La metrica si divide in:
prosodia =  studia gli elementi del verso ( sillabe, accenti….) e ciò che lo rapporta ad altri versi (es. rime)
forme metriche  =  studiano le strutture testuali (es. ode, canzone, sonetto….)

 

 

PROSODIA: LA SILLABAZIONE

CHE COS’E’ LA SILLABA?
E’ l’unione di più lettere (vocali e consonanti) che si pronunciano con una sola emissione di voce.

REGOLE PER CONTARE LE SILLABE:

Ecco le regole generali per sillabare in modo corretto le parole italiana (tratte da “La grammatica della lingua italiana”, M. Sensini, Oscar Mondadori, pagg. 37-38):

“[…]

· una vocale, quando è all’inizio di parola ed è seguita da una sola consonante, fa sillaba a sé: a-mi-co;

· le vocali di un dittongo o di un trittongo non possono mai essere divisi e, quindi, formano una sola sillaba: a-iuo-la, pie-de.

Erroneamente alcuni gruppi di vocali possono essere presi per dittonghi. Per non sbagliare è importante sapere che non forma dittongo il gruppo costituito dalla vocale i seguita da un’altra vocale nelle parole composte in cui la i appartiene alla prima parte del composto e le altre vocali alla seconda parte: ri-u-sci-re, chi-un-que. Allo stesso modo non forma dittongo e quindi è separabile dal resto la i seguita da altre vocali nelle parole derivate, se la forma primitiva della parola era accentuata sulla i e perciò non poteva formare dittongo: spi-a-re (da spì-a);

· due vocali in iato (Quando due vocali, una finale di parola e l'altra iniziale della parola seguente, s'incontrano, si ha l'iato (dal latino: hiare: stare a bocca aperta). possono essere divise: ma-e-stro, e-ro-e;

· una consonante semplice posta tra due vocali o seguita da vocale forma sempre sillaba con la vocale che segue: pa-lo, a-mo-re, fi-lo-so-fo; 

· le consonanti doppie si dividono sempre fra due sillabe, cioè una sta con la vocale che precede e l’altra con quella che segue: bal-lo, car-ret-tie-re.

· i gruppi di due o più consonanti diverse tra loro e consecutive formano sillaba con la vocale che le segue se costituiscono un gruppo che può trovarsi all’inizio di una parola: ca-pri-no, de-sti-no, di-ma-gri-re (in italiano esistono parole che iniziano con pri-, sti-, gri-: primo, stima, grigio);

· i gruppi di due o più consonanti diverse tra loro e consecutive si dividono in modo che la prima consonante del gruppo vada con la vocale precedente e l’altra o le altre con la vocale della sillaba che segue se non costituiscono un gruppo che può trovarsi all’inizio di una parola. Ciò succede, in particolare, con i gruppi consonantici bd, bs, cm, cn, ct, dm, gm, lm, mb, mp, nc, nt ecc.: bac-te-rio, im-por-tan-za, dif-te-ri-te, com-bi-na-zio-ne;

· la s seguita da una o più consonanti (la cosiddetta s preconsonantica) forma sillaba con la vocale che segue: ri-spo-sta, e-sclu-sio-ne;

· le parole composte con i prefissi trans-, tras-, dis-, cis-, in- e simili si possono dividere secondo le regole citate, oppure, specialmente se nella parola i due componenti sono sentiti ancora come distinti, conservando integro il prefisso: così si può sillabare tanto tras-por-ta-re quanto tra-spor-ta-re, tanto dis-per-de-re quanto di-sper-de-re. La tendenza della lingua, tuttavia, è quella di rispettare le regole generali: tra-spor-ta-re, di-sper-de-re, di-spor-si;

· i digrammi e i trigrammi non si dividono mai: in-ge-gno, bi-scia, fi-glia-stro.”

Preciso alcuni termini.

I dittonghi sono delle unità sillabiche composte di una i o una u semiconsonantiche + una vocale che può essere accentata o no. I dittonghi si dividono in due gruppi: i dittonghi ascendenti e i dittonghi discendenti. 
I dittonghi ascendenti sono quelli che presentano la semiconsonante i o u prima della vocale.
Es.: piede, piove, chiesa, piazza, fiume, quello, questo, muoversi, palio, nuotare.
I dittonghi discendenti sono quelli che presentano prima la vocale e poi la i o la u semiconsonante. In questo caso le semiconsonanti sono chiamate più correttamente semivocali.
Es.: laurea, pausa, poi, mai, altrui, eucalipto, sei.

In italiano vi sono anche i trittonghi, che sono composti da tre vocali pronunciate con una sola emissione di voce e formano una sola sillaba. Sono formati da i e u semiconsonantiche + vocale accentata o da i semiconsonantica + vocale accentata + i semivocalica. Es.: buoi, suoi, miei, tuoi. 

Lo iato avviene quando due vocali che sono una di seguito all’altra nel corpo della parola non vengono pronunciate con una sola emissione di voce, come nel caso dei dittonghi, e quindi non costituiscono un’unica sillaba, ma due.
Questo succede:
1- quando si incontrano le vocali a,e,o: e-ro-e, bo-a-to, pa-e-se; 
2- quando una delle due vocali è una i o una u sulla quale cade l’accento: vì-a, spì-a, scì-a, pa-ù-ra. 
In questo caso lo iato rimane anche nelle parole che derivano da quelle che portano tali vocali 
accentate: vi-a-le, spi-a-ta, pa-u-ro-so.
3- dopo i prefissi ri-, bi-, e tri-. Es.: ri-u-sci-re, bi-en-na-le, tri-an-go-lo.
4- in parole derivate dal latino dove la u in una sequenza –uo, anche se non accentata, non è 
consonantica: in-no-cu-o.

Da notare come l’incontro della i con un’altra vocale non formi né un dittongo né uno iato quando la i stessa segue la c, la g, e i gruppi gruppo gl e sc. In questo caso la i è solo un segno grafico che serve per dare un suono dolce alle lettere e i gruppi suddetti. Es.: sciarpa, ciabatta, bacio, ciurma, foglia, giorno, giacca, figlio. 

I digrammi sono rappresentati dai gruppi ch, gh, ci, gi, gl, gn, sc.
Se il digramma gl, oltre che da una i è seguito da un’altra vocale, il gruppo gli forma un trigramma. 

***

DALLA SILLABA AL VERSO

Se la capacità di riconoscere correttamente le sillabe che compongono una parola è importante in grammatica, essa è ancora più importante nella metrica, perché i versi italiani fondano la loro identità di base proprio sul numero di sillabe che li compongono. Da questo fatto deriva il concetto di sillabismo valido in poesia, e che Beltrami esemplifica così: due serie sono composte dallo stesso numero di sillabe se l’ultima tonica è nella stessa posizione (“Gli strumenti della poesia”, Pietro G. Beltrami, Ed. Il Mulino, pag.32).
Quindi, due versi saranno dello stesso tipo se porteranno l’ultima accento sulla sillaba che occupa la stessa posizione. In italiano, i casi normali sono tre:
1- all’ultima sillaba tonica segue una sillaba atona. In questo caso il verso ha uscita piana ed è detto verso piano. 
2- la serie (il verso) termina con l’ultima sillaba tonica. In questo caso il verso ha uscita tronca ed è detto verso tronco.
3- all’ultima sillaba tonica seguono due sillabe atone. In questo caso il verso ha uscita ed è detto verso sdrucciolo.
Rarissimo il caso di tre sillabe atone dopo l’ultima sillaba tonica (verso bisdrucciolo).
Nella metrica italiana, essendo la lingua stessa più ricca di parole con uscita piana, si è deciso di dare il nome al verso sulla base dell’uscita piana.
Perciò se, ad esempio, un verso è scomponibile in una serie dove l’ultimo accento cade sulla decima sillaba, allora il verso sarà un endecasillabo. L’endecasillabo potrà essere tronco, quindi essere scomposto in una serie di dieci sillabe; potrà sdrucciolo, quindi essere scomposto in una serie di dodici sillabe; potrà essere bisdrucciolo, quindi essere composto in una serie di tredici sillabe; ma se l’ultima sillaba accentata occupa la decima posizione, sarà sempre e comunque un endecasillabo. E lo stesso discorso vale per tutti gli altri versi tradizionali.
Dall’applicazione del concetto di sillabismo deriva che la nostra tradizione poetica è isosillabica, cioè possiede tipi di versi basati sullo stesso numero di sillabe. Ma la poesia italiana possiede anche un’esperienza anisosillabica, cioè ha prodotto forme di versificazione che, partendo da un verso base, ammettevano una certa oscillazione del numero di sillabe (una o due in genere), senza perdere l’impressione di avere a che fare sempre con lo stesso tipo di verso base. Questo avvenne soprattutto nella poesia delle origini, dove l’attenzione era più spostata sulla rima che sul numero di sillabe. Nell’ambito della versificazione libera moderna l’anisosillabismo può esistere anche senza doversi poggiare sulla maggiore importanza della rima.

Le regole grammaticali che ho esposto per dividere correttamente una parola in sillabe, però, di solito non sono mai sufficienti per determinare il numero di sillabe che compongono i versi in una
poesia. 
Se per esempio, sappiamo che la Divina Commedia di Dante è scritta con la forma metrica della terzina che consiste di endecasillabi, ci aspettiamo che ogni verso sia di undici sillabe. E, seguendo solamente le regole suddette, se il conto delle sillabe ci ridà con il primo verso:

Nel – mez- zo – del – cam – min – di – no – stra – vi – ta (undici sillabe)

già con il secondo verso non ci tornano le undici sillabe che ci aspettiamo. Infatti:

mi – ri – tro – vai – per – u – na – sel – va – o – scu – ra (dodici sillabe).

Il fatto è che quando tutte le vocali in un verso sono separate almeno da una consonante la scansione metrica corrisponde con quella grammaticale.

Di me medesmo meco mi vergogno (Rvf. 1, 11)

Quando ciò non avviene, le regole grammaticali non sono più sufficienti a spiegare la scansione metrica. Alle regole esposte bisogna aggiungere l’influenza di alcuni fenomeni che comportano una variazione del numero di sillabe rispetto alla norma. I fenomeni contemplati dalla metrica (o istituti metrici) più importanti sotto questo aspetto sono quattro: la sinalèfe, la dialèfe, la sinèresi e la dièresi.

LEZIONE 1/ 10    -    PRATICA

  1. Presentati agli altri amici del forum con un ACROSTICO.

 

CHE COS’E’ UN ACROSTICO? E’ un componimento poetico in cui le iniziali dei singoli versi, lette nell’ordine, formano una o più parole, come per esempio il nome di una persona.
ES: (IVANA)
I nventar
V ersi
A nnaspando
N ell’
A nimo.

  1.  Dividi in sillabe questa poesia di Vincenzo Cardarelli:

AUTUNNO

Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle pioggie di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.

  1. Reinventa la poesia “AUTUNNO”  con la tecnica del RICALCO.

COME SI FA  IL RICALCO?
Fare il ricalco di una poesia, significa riscriverne il testo poetico, sostituendo alcune parole e7o anche tutte, ed anche avvicinarsi allo  stile del poeta ed al suo contenuto, lasciando libera la propria creatività.

 

SILLABISMO E ACCENTO    (TEORIA)

Nella lezione precedente  abbiamo  visto che i  versi italiani sono caratterizzati dal numero di sillabe e  il computo delle stesse dipende anche dalla posizione  dell’ultima tonica.
Ogni parola ha una sillaba  più “forte” delle altre su cui cade l’accento (detto ICTUS).
Per questo la metrica viene chiamata sillabico - accentuativa.

Per facilitare la sillabazione di un verso, esso va considerato come una “sola lunga parola”, per cui si avrà una filza di sillabe.
Poi si legga questo verso ritmicamente, come se fosse una filastrocca, una di quelle che i bambini chiamano “conte”.

ESEMPIO:

Dolce e chiara è la notte senza vento   (Leopardi)
Se contiamo le sillabe grammaticali, otteniamo 14 sillabe: 
Dol/ce / e / chia/ra / è / la / not/te / e / sen/za / ven/to
 1        2    3    4       5    6     7     8       9   10    11  12    13   14

Uniamolo, ora,  come se fosse una lunga parola e proviamolo  a scandire ritmicamente, come se fosse una filastrocca:

Dolceechiaraèlanottesenzavento

ci verrà spontaneo dividerlo così 
Dol/ce/chia/raè/la/not/te/sen/za/ven/to
Ecco cosa è successo:
Dol / ce_ e / chia/ra_ è / la / not/te_ e / sen/za / ven/to
 1            2         3         4     5     6       7         8     9    10  11
Abbiamo unito alcune vocali, quelle segnalate con la lineetta blu, per un arteficio di nome SINALEFE.
Questo per spiegare che il computo metrico delle sillabe non corrisponde sempre a quello grammaticale, poiché è soggetto alle figure metriche:

  • SINALEFE
  • DIALEFE
  • SINERESI
  • DIERESI
  • IATO

SINALEFE

Si ha le sinafele quando  la vocale finale di una parola e l’iniziale di quella seguente si contraggono in un’unica sillaba. Nel testo poetico la sinalefe non è segnalata da alcuna convenzione. Nei manuali di metrica, e in sede di analisi, si può usare un arco che sottende le parti interessate, o un angolo con il vertice rivolto in alto (^) segnato sopra.

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono. (Petrarca, Canzoniere, I, 1)

Voi - ch’a - scol – ta – te^in – ri – me – spar – se^il – suo – no.

DIALEFE

Quando in un verso la vocale finale di una parola e la vocale iniziale di quella seguente rimangono separate e contano per due sillabe, allora si ha la dialefe.
Nel testo poetico la dialefe non è segnalata da alcuna convenzione. Nei manuali di metrica, e in sede di analisi, si usa un angolo con il vertice rivolto in basso (Ú) posto tra le vocali interessate al fenomeno, o una barretta verticale o qualche altro segno.

che la diritta via Ú era smarrita. (Dante, Inferno, I, 3)
(Dialefe tra “via” e “era”)

SINERESI

In senso stretto, si dice sineresi il fenomeno per il quale un nesso di due vocali che dovrebbe essere diviso in due sillabe vale una sola sillaba.

DIERESI
La dieresi è il fenomeno per il quale un nesso di due vocali, normalmente monosillabico, vale due sillabe.
Nei testi poetici, per la sineresi non è previsto alcun segno convenzionale che la segnali, mentre per la dieresi è previsto un segno, detto dieresi grafica, consistente in due punti (..) che sormontano una vocale del nesso interessato.
Un fenomeno nel quale in parte rientra la sineresi è dato dalla regola per la quale, in un verso, i nessi di vocale tonica e atona in fine di parola - come via, mai, mia, tua, tuo, suo, poi, voi, lui, lei, ecc.valgono due sillabe alla fine del verso, una sillaba quando si trovano all’interno.
Per esempio, la parola via vale due sillabe a fine verso, una sillaba all’interno del verso. Dalla grammatica sappiamo che la parola ha normalmente due sillabe, quindi possiamo dire che la sua scansione sillabica rimane immutata a fine verso, mentre all’interno del verso subisce il fenomeno della sineresi. La stessa cosa vale per parole come spia, mio, suo ecc. 
La parola poi, invece, contiene il dittongo oi e la grammatica, dalle regole che abbiamo sopra descritto, ci dice che essa è monosillabica. Quindi all’interno del verso verrà rispettata la sua scansione sillabica normale, mentre a fine verso, valendo due sillabe, subirà il fenomeno della dieresi. La stessa cosa vale per parole come mai, lui, lei ecc. Ma a fine verso, non si usa mai rilevare la divisione del nesso in due sillabe con la dieresi grafica.

ESEMPI:
primavera per me non è pur mai (Rvf. 9, 14); il nesso ai di mai è a fine verso, quindi mai è bisillabo.

ch’un dì cacciando sì com’io solea (Rvf. 23, 148); il nesso ea di solea è a fine verso, quindi solea è trisillabo.

Amor vien nel bel viso di costei (Rvf. 13, 2); il nesso ei di costei è a fine verso, quindi costei è trisillabo.


e all’interno dei versi la situazione cambia:

ma dentro dove già mai non aggiorna (Rvf. 9, 7); qui mai è un monosillabo.
di che sperato avea già lor corona (Rvf. 23, 44); qui avea è un bisillabo.
et aperta la via per gli occhi al core (Rvf. 3, 10); qui via è un monosillabo.

IATO: Si ha lo IATO quando, per ragioni metriche , le vocali si considerano in due sillabe distinte.
Quindi si verifica lo iato in presenza di dialefe e di dieresi.

AFERESI, APOCOPE, EPITESI E SINCOPE

Comuni nella tradizione poetica italiana sono altri fenomeni linguistici che permettono di variare la scansione in sillabe nelle parole in modo da permettere un aggiustamento del numero delle stesse per adeguarle alle esigenze strutturali del verso. Essi sono:
l’afèresi, l’apòcope, l’epìtesi (o paragòge) e la sìncope.

L’aferesi è la caduta della vocale o di una sillaba all’inizio di parola. Per esempio: rena per “arena”, verno per “inverno”.

La sincope è la caduta di una vocale interna di parola. Per esempio: lettre per “lettere”, spirto per “spirito”, medesmo per “medesimo”.

L’apocope è la caduta di una vocale a fine di parola. Per esempio: amor per “amore”, vuol per “vuole”, ancor per “ancora”. Molto comune nella tradizione poetica italiana anche l’utilizzo delle forme apocopate per fornire rime tronche, del tipo cuor: amor, utilizzate fino al primo Novecento, poi cadute decisamente in disuso, o comunque spesso sentite come leziose nell’ambito dell’attuale versificazione libera.

L’epitesi (o paragoge) è l’aggiunta di una vocale a fine di parola. Per esempio: fue per “fu”, tue per “tu”, piue per “più” 

Per ulteriori approfondimenti si consiglia il  testo “Glli strumenti della poesia” di Pietro G. Beltrami. Ed. Il Mulino

 

VERSI IMPARISILLABI E VERSI PARISILLABI

Sono chiamati versi parisillabi i versi con numero pari di sillabe, imparisillabi i versi con un numero dispari di sillabe. Da notare che la tradizione italiana non usa combinare insieme versi imparisillabi e versi parisillabi.

L’ACCENTO

In italiano l’accento è quella caratteristica per la quale, in una parola, noi pronunciamo con maggiore forza una sillaba rispetto alle altre, o meglio, pronunciamo con maggiore intensità la vocale di quella determinata sillaba. Questa insistenza è detta accento tonico, o accento.
La sillaba sulla quale c’è l’accento tonico è detta tonica, mentre le altre sillabe non accentate sono dette atone.
Non c’è sempre perfetta coincidenza tra gli accenti che sono utili all’identificazione del verso e quelli che sono comunque rilevabili nell’enunciato, e talvolta capita addirittura che un accento metrico si trovi su una sillaba che normalmente non è accentata. Anche per questi motivi, i metricologi preferiscono usare il termine ictus invece di accento.

Nella costituzione ed identificazione di un verso, oltre al numero di sillabe ha importanza fondamentale la disposizione degli accenti. Quando si dice, per esempio, che un verso ha accento sulla 6° e sulla 10°, s’intende dire che esso possiede la sesta e la decima sillaba toniche. Si definisce schema accentuativo di un verso la disposizione degli accenti essenziale all’identificazione del verso stesso. Gli accenti, così, si distinguono in principali e secondari. Gli accenti principali sono quegli accenti la cui corretta disposizione è essenziale per la correttezza del verso. Se questi accenti non sono disposti nel modo idoneo, il verso, dal punto di vista della tradizione, non è corretto. Gli accenti secondari sono gli accenti non essenziali alla definizione del verso, ma importanti per il ritmo dello stesso.

Ma com’è possibile individuare gli accenti metrici di un verso. Riporto la soluzione proposta dal Beltrami che riprende quella di Marco Praloran in uno studio del 1988. Essenzialmente si fa coincidere l’accento metrico con l’accento della parola e si definisce quali parole sono di regola atone e quali no.
Di regola sono atoni e non portano l’accento metrico: gli articoli, le preposizioni, le congiunzioni, i pronomi personali monosillabici seguiti dal verbo; non in posizione non enfatica; gli aggettivi possessivi in posizione debole, cioè seguiti dal sostantivo (mia vita); gli aggettivi di una sillaba seguiti dal sostantivo (gran dono); gli ausiliari di una sillaba seguiti dal participio (è stato) ; gli ausiliari bisillabici quando il loro accento precede quello del participio (l’avea fatto).
Gli aggettivi possessivi in posizione forte diventano tonici (in vita mia è tonico); e gli ausiliari bisillabici diventano tonici se il loro accento non precede quello del participio (in abbia travolto è tonico); tonico anche non in posizione enfatica.

Non raramente, nel linguaggio poetico capita d’imbattersi in alcune parole che presentano un’accentazione diversa da quella usuale, cioè la sillaba tonica è diversa da quella della parola “normale”. Tale spostamento avviene per esigenze ritmiche e metriche, e non a caso, ma basandosi sulle doppie forme delle parole nel linguaggio poetico.
Uno spostamento d’accento indietro, in sillabe precedenti la sillaba accentata d’origine, è detta sìstole. Es.: “pièta” invece di “pietà”; “podèsta” invece di “podestà”.
Uno spostamento d’accento in avanti, in sillabe successive alla sillaba accentata d’origine, è detta diàstole. Es.: “umìle” invece di “ùmile”; “simìle” invece di “sìmile”.


IL RITMO:
La poesia nasce come voce, e solo successivamente diventa voce scritta. Credo che ogni poesia, anche la più "intimista", vada immaginata come detta a voce. E che leggere con la voce le poesie sia un esercizio importante.
Lo specifico della poesia sembra collegato alla presenza di un ritmo.
Il ritmo della poesia non è un gioco vano. Se la poesia è poesia, e non è l'esercizietto di stile e di retorica, il ritmo delle parole accompagna il ritmo dell'emozione (emozione è parola scivolosa, lo so, ma la comunicazione poetica è intrinsecamente comunicazione emotiva).
Non serve essere grandi attori per leggere poesia. Serve capire, stupirsi, amare e abbandonarsi.
Credo che l'interpretazione della poesia sia un punto di mediazione fra lettura e scrittura. E’ come la musica: un compositore di musica, un autore, comincia certamente con l'ascoltare. Poi, impara a suonare uno strumento e quindi a interpretare. Infine, se ha talento e ispirazione, comincia a comporre musica sua.
Anche chi non "diventerà poeta", comunque, nell'interpretazione della poesia compie già un atto creativo. La poesia interpretata appartiene all'autore e al lettore-ricreatore come la musica interpretata appartiene all'autore e al pianista-esecutore.
Una poesia può lasciarvi anche incerti o e smarriti per gli infiniti echi che suscita in voi.
Ma se "non capite le parole", o se la sintassi vi sembra un garbuglio, diffidate. Non è ingarbugliando le carte che si fa poesia. Il poeta non ha nulla da nascondere, ha solo da rivelare quel pochissimo (una fessura, uno spiraglio) che ha visto e che vuol farvi vedere. Può essere che un poeta giochi a nascondino per stile, ma lo scopo è sempre rivelare.
Il ritmo della parola è dunque il ritmo dell'emozione.
Le poesie non vanno lette  come fossero prosa: "state attenti a non marcare con la voce la fine del verso". Questa preoccupazione deriva probabilmente dalla necessità di evitare una lettura troppo cantilenata della poesia, ma rischia, se spinta all'estremo, di vanificare l'intenzione del poeta. D'accordo, non dobbiamo leggere le poesie come filastrocche da civette sul comò, ma ci sarà pure una ragione se chi le ha scritte è "andato a capo ogni tanto"…
La lettura migliore è quella che, tenendo ben conto del verso, tende ad assorbirne il ritmo, ad armonizzarsi su di esso.
Se una persona ci legge a voce alta una poesia sballandone completamente il ritmo, noi ci accorgiamo che quella persona fondamentalmente non capisce ciò che sta leggendo.


LEZIONE 2/10   PRATICA:

  • Leggere a voce alta la seguente poesia di G. Carducci:

NEVICATA
Lenta fiocca la neve pe 'l cielo cinerëo: gridi,
suoni di vita piú non salgono da la città,

non d'erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
non d'amor la canzon ilare e di gioventù.

Da la torre di piazza roche per 1'aëre le ore
gemon, come sospir d'un mondo lungi dal dí.

Picchiano uccelli raminghi a' vetri appannati: gli amici
spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.

In breve, o cari, in breve - tu càlmati, indomito cuore –
giú al silenzio verrò, ne 1'ombra riposerò.

  • Eseguire la sillabazione del testo indicando le forme metriche rilevate
  • Crea una POESIA LISTA.

E’ una poesia in cui si inserisce una lista per fare ordine nella memoria personale, relativamente ad un tema scelto.
Per esempio, scegli uno dei temi sotto:
“dolcezze”  -    “ i propri ricordi”   -   le cose che mi rendono felice  - le tristezze – i pensieri del sabato J)) – ciò che sono – ciò che purtroppo non sono – ciò che voglio  - ciò che ho voluto – ciò che ho – ciò che desidero –ciò che ancora sono ecc… poi fai una tua lista personale.
Esempio:
Dolcezze  di Corrado Covoni
Il mare al tramonto
La voce di un’amica
Il volto di mia madre
La rosa gialla del mio giardino
Il calore del sole.

 

PROSODIA:  I VERSI ITALIANI - LA STROFA - LA RIMA -L’ENJAMBEMENT

I principali VERSI italiani si dividono in:

 

PARISILLABI -  IMPARISILLABI a seconda che abbiano un numero pari o dispari di sillabe (vedere lezione 2) e  a seconda del tipo di parola con cui terminano:

 

se terminano con una parola tronca sono tronchi

se terminano con una piana sono piani

e sono sdruccioli se terminano con una parola sdrucciola

 

per tronca si intende una parola con accento sull'ultima sillaba (città)

piana è una parola con accento sulla penultima (quasi tutte le parole italiane es. sedia)

sdrucciola è una parola con accento sulla terzultima (tavolo)

 

questo aspetto è importante, in quanto gli accenti sono di fondamentale importanza nei versi

 

I principali versi italiani sono:

 

bisillabo: accento sulla 1^

 

Bisillabo

 

Dietro
qualche
vetro
qualche
viso
bianco (Cesareo)

 

- trisillabo o ternario: accento sulla 2^

 

Trisillabo
Si tace,
non getta
più nulla,
si tace
non s'ode
rumore
di sorta (Palazzeschi)

 
- quaternario: accento sulla 1^ e la 3^
 

Quadrisillabo o Quaternario
Damigella
tutta bella,
versa, versa quel buon vino (Chiabrera)

 
- quinario: accenti sulla 1^o sulla 2^ e sulla 4^

Quinario
Città  gagliarda
città cortese
perla del Garda
figlia dell'italo
nostro paese (Prati)

 
 
- senario: accenti sulla 2^ e 5^
 

Senario
Fratelli d'Italia,
l'Italia s'è desta,
dell'elmo di Scipio
s'è cinta la testa (Mameli)

 
- settenario: accenti su una delle prime 4 sillabe e sulla 6^

Settenario
Perché mostrarmi a dito?
Son io forse schernito
perché Neera ammiro
e sua beltà desiro
già vecchio divenuto? (Chiabrera)

 
 
- ottonario: accenti sulla 3^ e 7^ oppure sulla 4^ e 7^

Ottonario
Su 'l castello di Verona
batte il sole a mezzogiorno,
da la Chiusa al pian rintrona
solitario un suon di corno,
mormorando per l'aprico
verde il grande Adige va;
ed il re Tëodorico
vecchio e triste al bagno sta. (Carducci)

 
 
- novenario: accenti su 2^, 5^, 8^

Novenario
C'è una voce nella mia vita
Che avverto nel punto che muore;
voce stanca, voce smarrita
col tremito del batticuore. (Pascoli)

 
 
- decasillabo: accenti su 3^, 6^ e 9^

Decasillabo
S'ode a destra uno squillo di tromba;
a sinistra risponde uno squillo:
d'ambo i lati calpesto rimbomba
da cavalli e da fanti il terren.
Quinci spunta per l'aria un vessilli;
quindi un altro s'avanza spiegato:
ecco appare un drappello schierato;
ecco un altro che incontro gli vien. (Manzoni)

 
 
-endecasillabo: accenti su 6^ e 10^ oppure su 4^, 8^ e 10^, o ancora su 4^, 7^e10^

Endecasillabo
La donne, i cavallier, l'arme, gli amori,
le cortesie, l'audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d'Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l'ire e i giovanil furori
d'Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano. (Ariosto)
Per altri tipi di versi si rimanda a testi specifici.
LA STROFA
Dunque: più parole formano un verso, più versi formano una strofa. E così come i versi prendono il nome dal numero delle sillabe ritmiche che li compongono, le strofe prendono il nome dal numero di versi da cui sono formate. Si comincia con il distico
Nella torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto. (Pascoli)
Poi c'è la terzina
Lo maggior corno della fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica. (Dante)
Quattro versi formano una quartina
A te che, padre sei,
volgo dolente il ciglio;
pietà d'un mesto figlio,
che chiede libertà. (Metastasio)
Non c'è una strofa di cinque versi (o almeno, non ha un nome), ma c'è di sei, la sestina
La vïoletta
che in sull'erbetta
s'apre al mattin novella,
di', non è cosa
tutta odorosa,
tutta leggiadra e bella? (Chiabrera)
Anche la strofa di sette versi non esiste, e si passa all'ottava, di otto versi: 
Canto l'arme pietose e 'l capitano
che 'l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò co 'l senno e con la mano,
molto soffrì nel glorïoso acquisto;
e in van l'Inferno gli s'oppose, e in vano
s'armò d'Asia e di Libia il popol misto.
Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi
segni ridusse i suoi compagni erranti. (Tasso)
I raggruppamenti di versi superiori a otto non hanno un nome ben definito, e si dirà: strofa di cinque versi, di nove versi, ecc.


LA RIMA


Si definisce rima l'identità di una o più sillabe a partire dall'ultima vocale accentata.

La rima non deve essere confusa con l'assonanza= somiglianza di sillabe finali

es. sole- amore, il suono dell vocali è simile ma cambia la consonante.

Allo stesso modo la rima non va confusa con la consonanza che le è molto più simile

nella consonanza cambia l'accento della vocale :

es. cuòre amóre

i suoni delle o sono diversi, quindi non si ha una rima.

 

Le rime convenzionalmente si indicano con le lettere dell'alfabero (maiuscole)

spesso si usa indicare con la minuscola un'assonanza

 

in base allo schema delle rime (come sono ordinate) si avranno le seguenti rime:

 

AA= rima baciata ( cioè un verso rima con quello immediatamente seguente)

 

ABAB= rima alternata ( cioè un verso non rima con quello immediatamente seguente, ma con quello successivo a questo)

 

ABBA= rima chiusa o incrociata ( in un gruppo di 4 versi, il primo rima con il quarto ed il secondo con il terzo)

 

ABC ABC=rima ripetuta (si hanno quando in una poesia, i versi con la stessa uscita occupano la stessa posizione in strofe diverse)

 

ABC CBA= rima  invertita (cioè al passaggio da una strofa all’altra si inverte la posizione delle rime)

 

particolare è la rima incatenata o terza rima introdotta da Dante nella Commedia

lo schema è:

ABA BCB CDC DED EFE ecc..

 

Rima costante: Essa collega tutte le strofe di un testo nella stessa posizione. Nelle varie strofe, le altre rime cambiano, ma questa rimane appunto, costante.

Nella rimalmezzo invece si ha una specie di rima baciata, solo che l'ultima parola del verso rima con una parola interna al verso successivo

Esempio di  Leopardi:

 

“passata è la tempesta

odo augelli far festa, e la gallina…”

 

la rima è tra: tempesta, festa

 

Infine se non vi è rima si avranno i versi sciolti e i versi liberi

 

Attenzione a non confonderli:

 

i versi sciolti sono tutti di pari numero di sillabe [es. i sepolcri sono scritti in endecasillabi sciolti, tutti endecasillabi senza rima;

 

invece i versi liberi non sono tutti uguali, ma misti, per es. metà endecasillabi, metà settenari o anche più tipi e tutti senza rima, oppure con qualche rima ma senza uno schema fisso, di fatto ogni verso ha le sue regole metriche, non si deve pensare ai versi liberi come a dei versi senza regole, solo che non hanno uno schema fisso

ma sono disposti liberamente  (tipici della poesia contemporanea)

 
 

PROSODIA: L’ENJAMBEMENT

In poesia si ha l'enjambemant quando in un verso non è contenuto compiutamente un concetto che si completa nel verso successivo.
Il concetto di enjambement si applica a gruppi di parole che sono sentiti come fortemente uniti sia per motivi semantici sia per motivi sintattici.
Ecco un esempio, tratto da I sepolcri del Foscolo, in cui il ricorso all'enjambement si verifica in ogni verso:

A egregie cose il forte animo accendono / l'urne de' forti, o Pindemonte; e bella / e santa fanno al peregrin la terra / che la ricetta. Io, quando il monumento / vidi ove posa il corpo di quel grande...

La discordanza tra pausa metrica e pausa sintattica che l'enjambement determina serve a dare maggiore ampiezza e musicalità al ritmo poetico.

 

A tal proposito, ci viene in aiuto Sandro Orlando, che nel suo manuale di metrica italiana riporta alcuni casi dei più comuni enjambement presenti nella tradizione poetica italiana e fa alcune utili precisazioni:

“[…]

- quelli che legano aggettivo + sostantivo appartenenti a versi differenti ma consecutivi, come in Petrarca (RVF XLIII 1-2): Il figliuol di Latona avea già nove / volte guardato dal balcon sovrano;
- sostantivo + complemento di specificazione come, ad esempio, nel foscoliano Alla sera 11-12: […] e van con lui le torme / delle cure onde meco egli si strugge;
- preposizione (articolata) + sostantivo: è il caso di Dante (Pg XX 4-5): Mossimi; e ‘l duca mio si mosse per li / luoghi spediti pur lungo la roccia.

Questo modulo non si realizza solamente tra versi differenti ma trova impiego, seppure eccezionale, anche in unità strofiche diverse […]”

(S. Orlando, “Manuale di metrica italiana”, Ed. Bompiani, pag.33)

Ma i gruppi scindibili sono anche: verbo + avverbio, ausiliare + participio passato del verbo e altri.

Vediamo un altro esempio illustre, “L’infinito” di Leopardi:

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir fra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio;
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Qui possiamo riconoscere degli enjambement forti, del tipo sostantivo + aggettivo tra il quarto e il quinto verso: “[…] interminati / spazi […]”; tra il quinto e il sesto verso: “[…] sovrumani / silenzi […]”; tra il nono e decimo verso: “[…] io quello / infinito silenzio”; tra il tredicesimo e il quattordicesimo verso: “[…] Così tra questa / immensità […]”.
Altro enjambement forte è del tipo sostantivo + complemento di specificazione fra secondo e terzo verso: “[…] che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte […]”.
Un altro enjambement, ma di tipo diverso, è d’intensità un po’ più lieve è dato tra il settimo e l’ottavo verso: “[…] ove per poco / il cor non si spaura. […]”; e ancora tra sesto e settimo: “e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo; […]”.
Invece tra il penultimo e l’ultimo verso non c’è enjambement, e neppure tra terzo e quarto, dove alla fine del terzo si ha la conclusione del primo periodo.


LEZIONE 3/10 PRATICA

 

1. Leggere a voce alta la poesia di Giovanni Pascoli: “La mia sera”

METRO: cinque strofe ciascuna di sette novenari e un senario con schema ABABCDCd (dove d è sempre sera)
MESSAGGIO 
In questa poesia Pascoli vuole trasmettere i suoi sentimenti verso la pace e la tranquillità che gli sono trasmesse dalla sera, in contrasto con il temporale ed il frastuono che hanno caratterizzato il giorno. E’ evidente anche il riferimento alla sua vita che ha conosciuto momenti di violenta "bufera", mentre la pace della sera gli ricorda  la sua infanzia serena e il dolce rapporto con la madre.
                  La mia sera
 
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera! 
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell'aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell'umida sera.
E', quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d'oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
Che gridi nell'aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Nè io ... che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don ... Don ... E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano, 
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra ...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch'io torni com'era ...
sentivo mia madre ... poi nulla ...
sul far della sera.
2. Scegliere uno  o più tipi di rima e creare una poesia a tema libero.

 

 

PROSODIA: IL COMPONIMENTO
Più parole formano un verso, più versi formano una strofa, più strofe formano un componimento poetico.
Analizzeremo i seguenti componimenti poetici:
IL SONETTO  -   LA CANZONE   - LA BALLATA – L’EPIGRAMMA
IL SONETTO
E’ una poesia di 14 versi raccolti in due quartine e 2 terzine, con uno schema di rime variabile. Le quartine hanno due sole rime ripetute secondo lo schema ABAB-ABAB oppure ABBA-ABBA; le terzine rimano secondo gli schemi CDE-CDE, oppure CDE-EDC, oppure CDC-DCD o ancora CDC-EDE.
Ecco un esempio:
Forse perché della fatal quïete
tu sei l'immago, a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,
  e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all'universo meni,
sempre scendi invocata e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
  Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
  delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.  (Foscolo)
I versi sono tutti endecasillabi, la sequenza delle rime è: ABAB ABAB CDC DCD.

LA CANZONE

La canzone antica è composta da una strofa detta stanza (cioè una struttura di più versi cui è associato un determinato schema di rime), che si ripete alcune volte con identico schema rimico, e si conclude normalmente – ma non sempre – da una strofa più breve della stanza, detta congedo o commiato (nelle canzoni più antiche il congedo era raro, e anche in seguito si trovano alcune canzoni che ne sono prive).
I versi utilizzati nella canzone antica sono endecasillabi e settenari
La stanza ha un numero variabile di versi.
Il numero di ripetizioni delle stanze è variabile.
Dal Cinquecento ha subito delle modifiche e nell’Ottocento si è evoluta in canzone libera o leopardiana, dove endecasillabi e settenari si alternano senza schemi fissi.

Canzone leopardiana

A Silvia

Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
 
Sonavan le quiete
stanze, e le vie d’intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
 
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.
 
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
 
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.
 
Anche perìa fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
(Giacomo Leopardi, A Silvia)


LA BALLATA

 

La ballata (o ‘canzone a ballo’) è una forma di poesia legata, in origine, al canto e ai movimenti delle danze.
Di solito la ballata è composta di endecasillabi o settenari soli, qualche volta di endecasillabi misti a settenari. Consta di un numero indeterminato di strove dette stanze, tutte della medesima struttura, preceduto da una strofa più breve detta ripresa, perché ripetuta alla fine di ogni stanza.
Nella riproposizione delle ballate antiche, le più interessanti da un punto di vista tecnico sono quelle del Pascoli.
Esempio:

Sogno d’un dì d’estate.

Quanto scampanellare
tremulo di cicale!
Stridule per filare
moveva il maestrale
le foglie accartocciate.

Scendea tra gli olmi il sole
in fascie polverose:
erano in ciel due sole
nuvole, tenui, rose:
due bianche spennellate

in tutto il ciel turchino.

Siepi di melograno,
fratte di tamerice,
il palpito lontano
d’una trebbïatrice,
l’angelus argentino…

dov’ero? Le campane
mi dissero dov’ero,
piangendo mentre un cane
latrava al forestiero,
che andava a capo chino.”

(Beltrami, ‘Gli strumenti della poesia’, Il Mulino, pag. 126)


L’EPIGRAMMA

 

La parola “epigramma” deriva dal latino “epigramma” ripresa dal greco “epígramma” (“scritto sopra, sovrapposto”) che deriva da “epigráphein” che significa “scrivere sopra”.
Lo ritroviamo in origine nel mondo classico come genere lirico. Dapprima esso si sviluppò come iscrizione sepolcrale, funeraria con carattere commemorativo e celebrativo.
In seguito, nella letteratura ellenistica e romana, diviene un breve componimento vario per metro ed argomento. 
In età imperiale, esso assume toni mordaci e satirici, atti ad esprimere pensieri sarcastici e polemici, a volte anche affettivi.
Il genere è passato nella nostra tradizione poetica mantenendo la vena polemica, ed il carattere arguto e pungente del pensiero. Le caratteristiche necessarie per scrivere un epigramma sono la brevità ed il tono. Questo deve essere o sarcastico o polemico, o anche più semplicemente e meno aspramente pungente e vivace, e deve evidenziare nella rapida conclusione la battuta mordace, la sentenza tagliente, il giudizio vivido, lo spirito arguto e veloce, l’ironia.
Il metro è rimasto ampiamente vario, così come la disposizione delle rime e la loro presenza. 
Possiamo trovare semplici quartine del tipo ABBA o ABAB, o anche solo una coppia di endecasillabi rimati o senza rima. Possiamo trovare il metro dello strambotto, o strutture metriche che imitano altre forme, e nel Novecento il verso libero, dall’uso dei più vari versi canonici a imitazioni di tali versi etc.
Nel Settecento si assiste ad un maggior proliferare di epigrammi in relazione a tematiche sociali, politiche e personali.

Esempi:

Il De Sanctis, nella sua “Storia della letteratura italiana”, esaminando la poetica di Vittorio Alfieri e la nuova asprezza dei suoi versi riporta tre suoi epigrammi:

“Tratta la parola come non fosse suono, e si diletta di lacerare i ben costrutti orecchi italiani; e a quelli che strillano dà la baia:

Mi trovan duro?
Anch’io lo so:
pensar li fo.
Taccia ho d’oscuro?
Mi schiarirà
poi libertà.

In epoca contemporanea:

In questo mondo colpevole, che solo compra e disprezza,
il più colpevole son io, inaridito dall’amarezza

(“A me”, di P.P. Pasolini)

 

 

 

 

Fonte:

http://www.poesia-creativa.it/lezione%201.doc

http://www.poesia-creativa.it/LEZIONE%202%20di%20poesia.doc

http://www.poesia-creativa.it/LEZIONE%203%20di%20poesia.doc

http://www.poesia-creativa.it/LEZIONE%204%20di%20poesia.doc

 

Sito web da visitare: http://www.poesia-creativa.it/

 

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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Il mondo
il mondo è grande e nessuno sà dove finirà....
se un giorno me ne andrò non sò dove finirò
non mi cercate non mi troverete perchè il mondo è grande....
e se un giorno me ne andrò solo dio mi cercherà e mi troverà
perchè dio è più grande del mondo....e quando mi troverà con amore mi perdonerà...
quando il mondo finirà non sò come finirà....

 

Andare vià
andare via o restare non sò che fare mi sento confusa....
la vita è difficile non solo x me ma x tutti...
cosa scegliere andare vià o restare mi sento tanto sola e non
sò se qualcuno maì mi verrà a cercare...come finirà la mia vita ?
una voce mi dice di restare ma io rispondo devo andare non mi fermare....
devo andare non mi fermare...
lasciami andare non mi fermare devo andare stò tanto male....

 

Un ringraziamento da Larapedia all' autrice Velardi Pasqualina

 

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