Pragmatica cognitiva definizione e riassunto

 


 

Pragmatica cognitiva definizione e riassunto

 

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Pragmatica cognitiva definizione e riassunto

PSICOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE – PRAGMATICA COGNITIVA

Pragmatica cognitiva: studio degli stati mentali delle persone che comunicano: motivazioni, credenze, obiettivi, intenzioni.
Affinché si parli di comunicazioni devono esistere due interlocutori che condividono una rappresentazione mentale di ciò che sta accadendo (gioco comportamentale dove gli interlocutori condividono l’idea di quello che stanno facendo) e che sono consapevoli di partecipare ad un’interazione dove uno influenza l’altro.
Ci accorgiamo che ci viene rivolto un messaggio solo quando questo produce un cambiamento.
Indicatore: caratteristica di un individuo da cui si può inferire qualcosa (es. espressione del viso).
Segno: prodotto dell’azione di un individuo per comunicare qualcosa (un letto non  rifatto, piatti sporchi in un lavandino).
Segnale: azione di un individuo per comunicare qualcosa (es. danza di corteggiamento di un animale).
Bit: unità di misura dell’informazione.
La quantità e la qualità relativa dell’informazione di un messaggio è inversamente proporzionale alla probabilità delle notizie contenute. La comunicazione umana è qualitativa perché si basa sul significato soggettivo che il messaggio ha per il ricevente e non sulla quantità di informazioni trasmesse.
La comunicazione ostensiva è quella dove il significato di un termine si chiarisce in modi extralinguistici (per esempio mostrando un oggetto insieme con uno simile ma con funzioni diverse). La comunicazione non intenzionale è quella dove involontariamente si comunica uno stato di cose (per esempio la propria sciatteria indossando abiti sporchi). In realtà la comunicazione tra due interlocutori,  per essere tale, deve essere reciprocamente intenzionale; diversamente si parla di estrazione di informazioni. La comunicazione ostensiva, extralinguistica, diventa tale quando è intenzionale.
L’efficacia di una comunicazione dipende da quanto gli interlocutori condividono dopo l’interazione rispetto a prima.
Gli aspetti paralinguistici della comunicazione sono quegli accessori, a volte involontari,  (es. timbro della voce) che ne rafforzano l’atto e quindi l’interazione fra attore e partner.
Atto comunicativo permanente: es. messaggio registrato, scrittura.
Atto comunicativo impermanente: linguaggio parlato: il focus della comunicazione può essere nell’azione comunicativa (tono della voce, espressioni, parole, ecc.) oppure nella relazione e nell’effetto fra azione e ambiente (gestione di oggetti, spazio e tempo: per esempio la gestione del ritardo a un appuntamento può avere un forte effetto comunicativo).
La pertinenza di un atto comunicativo dipende dalla capacità dell’attore di fare capire al partner che il suo messaggio e così importante da meritare lo sforzo cognitivo per essere compreso.
Linguaggio verbale (parlato) e non verbale (postura, gesti, segnali convenzionali con con un significato culturalmente condiviso e non convenzionali, espressioni legate ad emozioni di base e geneticamente trasmesse e condivise).
Sintassi: struttura grammaticale della frase.
Semantica: significato delle parole.
Pragmatica: scopo per cui un messaggio è emesso.
La comunicazione linguistica è composizionale, cioè è data dall’assemblaggio di simboli ed ha una produttività infinita. Anche la sua capacità dislocativa, ovvero la capacità di dare riferimenti spazio temporali, è possibile a differenza da quanto avviene per la comunicazione extra linguistica.
La comunicazione extralinguistica non è composizionale perché è composta da parti isolate e non assemblate, con un significato proprio e condiviso, anche se la sequenza di parti diverse della comunicazione extralinguistica può costituire un messaggio più articolato. La comunicazione extralinguistica è associativa, con una limitata produttività perché un gesto, affinché sia comunicativo, deve essere socialmente condiviso.
I due canali della comunicazione linguistica ed extralinguistica sono sostanzialmente indipendenti ma richiedono a volte uno sforzo cognitivo per comprenderne e risolverne le eventuali incongruenze.  La comunicazione extra linguistica richiede uno sforzo cognitivo maggiore affinché sia efficace (comprensione di un gesto, un’espressione). E’ comunque più efficace sui significati di base.
Gli atti comunicativi performativi sono quelli che orientano il comportamento delle persone, a patto che si verifichino alcune condizioni:

  • Esistenza di una procedura convenzionale accettata e condivisa che prescriva il comportamento delle persone che devono rispettare le prescrizioni in modo corretto e completo.

La competenza linguistica dipende dalla capacità di produrre un grande numero di significati lessicali e quindi di generare e comprendere un grande numero di frasi ben formate e significanti.
Atto locutorio: semplice emissione linguistica con un significato specifico: se ti muovi, sparo.
Atto illocutorio: intenzione comunicativa: minacciare. Gli atti illocutori possono esprimere opinioni, comandi, emozioni, dichiarazioni.
Atto perlocutorio: effetti voluti: difendersi.
I primi due atti sono convenzionali e condivisi; il terzo  è soggettivo perché dipende dagli stati mentali dell’attore che comunica.
Massime di cooperazione: rientrano in un lavoro di collaborazione fra parlante e ascoltatore e si realizzano quando l’ascoltatore risponde al parlante in modo non semplicistico ma  interpretandone le intenzioni e ampliando con le proprie risposte la base della conoscenza condivisa.
Errore, inganno e sfruttamento sono comportamenti comunicativi dell’ascoltatore che violano le massime di collaborazione, in modo involontario (errore) e consapevole (inganno  e sfruttamento), dando risposte che in qualche modo sono fuorvianti o improduttive per il parlante (è un esempio di sfruttamento rispondere con una frase ironica o sarcastica ad una domanda fuori luogo di un parlante).
La comunicazione, linguistica ed extralinguistica, è un’attività cooperativa dove c’è condivisione dei significati degli atti comunicativi e dell’interazione, dove il partner comprende che c’è un’intenzione comunicativa dell’attore nei suoi confronti, dove ci sono regole di alternanza e di coerenza comunicativa e dove le norme sociali e culturali di riferimento devono essere rispettate.
Ogni comunicazione è soggetta ad interpretazione ed attribuzione di uno specifico significato da parte dell’ascoltatore o del lettore: è sufficiente che attore e partner condividano la stessa volontà di generare un significato e di interpretarlo. Non è necessaria la compresenza spazio temporale. Anche lo strumento comunicativo influenza l’attività dell’attore e del partner. Non è più valido un approccio manipolativo o comportamentista della comunicazione dove si attribuisce alla sorgente del messaggio la sola responsabilità del significato. In un approccio cooperativo il significato è il risultato dell’interazione fra attore e partner. Quando il partner (es. in un litigio) è ridotto a puro oggetto di comunicazione non si può più parlare di comunicazione cooperativa.
C’è successo in una cooperazione comunicativa quando l’ascoltatore capisce i desideri del parlante e si adegua. Si parla di cooperazione conversazionale quando c’è comprensione e comportamentale quando c’è anche adeguamento ai desideri del parlante.
Un prerequisito della comunicazione è l’attenzione condivisa degli interlocutori.
I soggetti umani hanno delle credenze ma non sono in grado di arrivare a tutte le possibili conseguenze logiche di queste credenze oppure hanno delle incongruenze anche settoriali rispetto ad una credenza più generale (es. un uomo crede che tutti gli uomini sono uguali e poi mostra un certo razzismo rispetto a particolari etnie).
Credenze individuali (soggettive), comuni (diffuse fra più persone) e condivise (credenze comuni a più persone, consapevoli di tale analogia e diffusione).
Conoscenza esplicita: è una conoscenza consapevole, esprimibile linguisticamente, di una persona in merito ad alcune entità della realtà in cui vive.
Conoscenza tacita: è costituita da abilità che scattano automaticamente in una determinata situazione.
Il focus verso il quale si orienta la linea di azione o di pensiero di un attore costituisce la direzionalità dell’intenzione. Un’azione intenzionale (concettualmente solo conscia)  include conseguenze desiderabili (deliberate) e conseguenze inevitabili (non deliberate) ma accettabili in virtù dell’obiettivo. Possono essere inconsce alcune azioni non intenzionali o alcune conseguenze non deliberate.
Per intenzione comunicativa si intende la volontà esplicita di comunicare qualcosa e di condividerlo con il partner: esibire la cravatta di un college non significa comunicare esplicitamente che si appartiene a quel college, significa solo condividere con altri la propria appartenenza. Si parla di estrazione di informazioni.
Comunicare significa anche condividere tra attore e partner la consapevolezza che l’attore vuole comunicare qualcosa (atto comunicativo deliberato e conscio).
Un atto comunicativo intenzionale, non deliberato e conscio è quello dove l’attore non struttura in anticipo le frasi del suo messaggio.
Un atto comunicativo intenzionale, non deliberato e inconscio è tipicamente un lapsus.
La comunicazione fa spesso riferimento a piani di azione interpersonali, dove le azioni vengono condivise e distribuite fra attore e partner (gli script, piani fissi, già pronti,  ne sono un esempio).
I piani condivisi, non sono piani rigidi come gli script, ma sono piani dove ogni soggetto sa che farà la sua parte nell’azione congiunta se e solo se gli altri soggetti faranno altrettanto. Sono piani che vengono continuamente negoziati fra i soggetti coinvolti. In tale ambito, per ogni soggetto,  è molto importante comunicare chiaramente la propria appartenenza al gruppo che deve attuare il piano, in modo da spingere gli altri soggetti a comportarsi nel modo più appropriato nei suoi confronti. Solo in questo modo un piano di azione condiviso può essere attuato.
La comunicazione fra un attore e un partner può essere visto come un gioco comportamentale.
Se l’attore comunica una richiesta al partner (sulla base di un certo gioco comportamentale, che consiste in una serie di diritti e doveri che i due soggetti conoscono e condividono)  e quest’ultimo rifiuta comunicando una sua giustificazione, allora c’è cooperazione conversazionale ma non comportamentale. I due soggetti conoscono le regole del gioco comportamentale e hanno cooperazione conversazionale ma non comportamentale. I giochi comportamentali sono le regole e la struttura sulle quali poggiano gli enunciati di una comunicazione.
Un gioco comportamentale affinché possa essere giocato deve essere condiviso dai soggetti, nelle sue regole e nelle mosse dei partecipanti (domande e risposte), deve avere delle condizioni valide di luogo, spazio e tempo e deve avere una relazione fra le parti che permetta di essere giocato (es. due soggetti che non parlano la stessa lingua difficilmente possono giocare un gioco comportamentale).
Non è necessario che un gioco sia consapevolmente conosciuto dai giocatori. A volte le mosse e le regole fanno parte della dotazione istintiva e inconscia dei soggetti.
Giochi culturali (comuni ad una determinata cultura) determinano per esempio le regole della conversazione in termini di tono di voce, distanza dall’interlocutore, gesti;  giochi di gruppo (comuni ad un gruppo) hanno regole condivise da particolari gruppi ristretti (es. clan mafiosi);  giochi di coppia (comuni ad una coppia) hanno regole molto particolari dove per esempio l’insulto e la presa in giro sono considerati come forma di divertita comunicazione e non come forma di offesa.
Un gioco comportamentale per essere giocato deve avere le condizioni necessarie e la volontà dei soggetti. Per esempio i giochi professionali (per es. psicoterapia) sono quelli che hanno  maggiori vincoli di tempo e luogo per la loro attuazione. Ci sono poi altre condizioni e competenze dei soggetti che vincolano la fattibilità o meno di un gioco.
Un gioco comportamentale ha sempre una mossa di apertura che può essere stabilita dal detentore dell’autorità, che può anche stabilire la chiusura del gioco; in generale la chiusura di un gioco è oggetto di contrattazione fra i partecipanti che decideranno se gli obiettivi sono stati raggiunti o non potranno essere raggiunti.
Ogni mossa affinché possa essere valida deve essere concordata fra i partecipanti, in funzione delle finalità degli stessi ed al contesto in cui il gioco viene svolto.
Un gioco che viene iniziato può essere rotto per volontà di una o di tutte la parti o per fallimento di conoscenza od esecuzione, che porta a mosse sbagliate e fuori luogo.
Affinché un gioco possa essere giocato deve esistere una relazione fra i giocatori che devono condividere le regole e le aspettative del gioco: un gioco fra soggetti di culture o gruppi diversi può andare incontro a fallimento per mancata condivisione delle regole. Tuttavia, a volte, anche limiti importanti come la lingua permettono comunque di giocare giochi seppure molto generali e di base.
Si parla in questi casi di interazioni libere, dove i soggetti si inventano regole e modi per instaurare un rapporto cooperativo. Non esistono regole stereotipate di comportamento.
Esiste quindi un passaggio dalle situazioni non cooperative alle interazioni libere per finire ai giochi comportamentali. Le interazioni libere possono strutturarsi poi in giochi comportamentali condivisi da gruppi e culture.
Il bambino nel suo processo di sviluppo cognitivo impara dei format comportamentali che sono veri e propri giochi con regole condivise.
Il gioco conversazionale è una parte del  gioco comportamentale:  esistono delle meta regole che stabiliscono il compito da svolgere in ciascuna fase e quelli successivi in funzione di ciò che viene fatto a monte.
Nei dialoghi si può distinguere una struttura globale che determina il flusso della conversazione e organizza il concatenarsi di blocchi di sequenze del discorso (per esempio una conversazione telefonica ha una struttura rigida) e una locale che rappresenta l’alternanza dei turni di parola e le risposte obbligate ai contenuti di specifici turni (es. domanda e risposta).
La struttura globale non deriva da regole linguistiche ma da giochi comportamentali.

 Struttura di un dialogo:

  • Atto espressivo dell’attore, illocutorio che esprime un’intenzione, uno stato d’animo, ecc.: fulcro di questa fase è la comprensione da parte del partner che l’attore sta producendo un atto espressivo. Gli atti espressivi non producono solo degli stati mentali ma possono essere anche performativi, ovvero atti che fanno parte di uno specifico gioco comportamentale o agonistico fra le parti (es. ti prego di allontanarti). Per meglio esprimere uno stato mentale l’attore deve evitare forme espressive tradizionali o standardizzate.
  • Decodifica del significato da parte del partner, che comprende le intenzioni comunicative. Tutte le inferenze sono fatte all’interno delle credenze condivise, partendo dal significato letterale di quello che si ascolta ed arrivando al gioco comportamentale che il partner attribuisce all’attore. Ovviamente le inferenze che si possono fare con riferimento a quanto detto dall’attore sono teoricamente infinite ma nella pratica si possono limitare a quelle che sono più pertinenti o rilevanti per la situazione. Il partner parte da questa condizione per fare delle inferenze, non esplora tutto il campo infinito delle possibilità.

All’interno di questa fase ci sono anche gli atti linguistici indiretti, dove la reale intenzione viene espressa attraverso un altro atto illocutorio (il classico giro di parole con il quale si vuole esprimere indirettamente un’intenzione). Gli atti linguistici indiretti possono essere compresi partendo dalla comprensione  di forme idiomatiche condivise, da catene di inferenze dei contenuti degli atti indiretti (con il  presupposto che la vera intenzione non è quella letterale), dall’analisi del contesto e della situazione contingente. Gli atti linguistici indiretti possono essere convenzionali o non convenzionali, semplici o complessi, a seconda che il partner debba fare o meno delle inferenze per comprendere il reale  significato che l’attore intende trasmettere.

  • Attribuzione di stati mentali all’attore e (non necessariamente) modifica degli stati mentali del partner: far comprendere al partner i propri stati mentali non coincide necessariamente con l’ottenimento della reazione desiderata. L’attore deve sfruttare le motivazioni altrui per  ottenere l’effetto desiderato, non basarsi unicamente sulla perfezione sintattica della comunicazione. L’aggiustamento degli stati mentali del partner è l’effetto della leva fatta sulle sue motivazioni e credenze individuali.

Il processo di aggiustamento può svolgersi in tre casi diversi: l’attore vuole coinvolgere il partner in un gioco comportamentale e questo ha successo se il partner crede che l’attore vuole giocare effettivamente il gioco, il gioco è valido e i rispettivi ruoli sono distinti e possibili; l’attore vuole che il partner esegua un’azione e questo ha successo se il rapporto si inquadra in una situazione di collaborazione o cortesia; l’attore vuole condividere una credenza con il partner e questo ha successo se l’attore è affidabile, sincero, attendibile e se esiste un’evidenza a favore.
Affinché l’effetto comunicativo dell’attore sia efficace e il partner accetti di partecipare al  gioco, condividendo una credenza dell’attore,  è fondamentale che il partner stesso  attribuisca all’attore la capacità di svolgere il suo ruolo e attendibilità. L’attore deve apparire corretto, sincero, motivato, in possesso di un piano, capace, ben informato.
Le rappresentazioni del gioco da parte di attori e partner sono sempre soggettive, così come i ruoli e le relative mosse. Le stesse mosse possono riferirsi, da un punto di vista soggettivo, a più e diversi giochi e se non c’è chiarezza fra gli interlocutori si può andare incontro a un fallimento comunicativo come anche ad un’ambiguità colta e condivisa dalle parti.

  • Preparazione della risposta del partner per aderire o meno alle richieste dell’attore di eseguire un’azione o di condividere un fatto o uno stato mentale.

Questo è il risultato dell’integrazione fra l’effetto comunicativo dell’attore e i giochi comportamentali che il partner vuole giocare: ovvero, ad una domanda si può rispondere con un semplice no oppure con un no ed una ulteriore spiegazione (rilevante ma non necessariamente sincera) per iniziare comunque un gioco comportamentale nuovo e per non andare incontro ad un fallimento dell’effetto comunicativo.
Qualora la comunicazione dell’attore richieda l’esecuzione di un’azione, la risposta del partner può essere linguistica o non linguistica (con un semplice gesto), sia in caso affermativo che negativo. Se invece l’obiettivo comunicativo è il cambiamento di uno stato mentale allora il partner è tenuto a dichiarare il cambiamento o meno (anche senza essere necessariamente sincero). A volte il partner risponde con una richiesta di chiarificazione che apre un sotto dialogo  oppure con una risposta che intende a sua volta modificare gli stati mentali dell’attore, allineandoli ai propri.

  • Risposta comunicativa del partner: l’input di questa fase è l’intenzione comunicativa preparata nella fase precedente ed è composta da due processi: la pianificazione delle espressioni degli stati mentali in funzione delle intenzioni comunicative e la realizzazione di tali espressioni con comportamenti linguistici ed extra linguistici. Il tutto nei limiti del gioco comportamentale in atto (per esempio con forme particolari di cortesia).

Il rifiuto ad una proposta di adesione ad un gioco comportamentale può essere:

  • negativa senza giustificazione;
  • negativa diretta con giustificazione;
  • negativa indiretta (ovvero non si rifiuta la proposta specifica ma un rapporto più generale con l’attore: es. vuoi giocare a tennis con me ? No, mi sei antipatico);
  • controproposta.

A volte il rifiuto, per essere attutito, può essere accompagnato da ritardo nella risposta, espressioni facciali. 
Una condizione affinché il partner decida di aderire a un gioco comportamentale è che la sua motivazione prevalga su altre concorrenti, che consideri l’attore un partner accettabile per il gioco, che i suoi stati mentali siano compatibili con il gioco.

Interazione espressiva: comunicazione senza intenzione di esprimere lo stato mentale associato come proprio (es. citazione altrui)
Sfruttamento: uso della comunicazione per ottenere un effetto diverso da quello convenzionale (es. ironia, metafora, come se)
Fallimento: mancato raggiungimento dell’effetto comunicativo desiderato
Inganno: comunicazione di uno stato mentale non posseduto
Un processo comunicativo standard è quello che include delle regole standard per il passaggio da una fase altra del processo comunicativo: affinché si possa svolgere una fase successiva (con le relative inferenze) occorre che sia completata quella precedente (con le opportune informazioni disponibili); se una fase non si completa in modo opportuno intervengono delle regole che sostituiscono quelle automatiche per attivare un diverso processo inferenziale.
Un processo comunicativo non standard non utilizza delle regole standard in quanto non adeguate al contesto e ricorre a inferenze di tipo classico. La comunicazione non standard è supportata da toni di voce ed espressioni che aiutano a riconoscere che l’enunciato non esprime ciò che letteralmente può significare. Per esempio a un collega di lavoro, in caso di un importante evento sportivo, si può semplicemente dire: 

  • non perderti la gara ! (uso standard)
  • non perderti la gara ! (uso non standard, ironico, perché lui non la potrà vedere)
  • mi spiace che tu perda la gara (uso non standard, comunicazione “come se”)

Nel caso dell’ironia è la condivisione di credenze che consente alla comunicazione di essere efficace. L’ironia è semplice quando il significato si può cogliere immediatamente mentre è complessa quando richiede una serie di inferenze.
L’atto comunicativo semplice è quello dove il passaggio al gioco comportamentale richiede un’inferenza immediata; quello complesso si verifica quando l’inferenza è molto più complessa.
Le situazioni “come se” sono quelle dove la comunicazione viene usata per esprimere uno stato d’animo diverso da quello posseduto (es. preoccupazione) per altri scopi (es. compiacere all’interlocutore). A differenza dell’ironia, dove l’efficacia della comunicazione dipende dalla condivisione o meno del reale significato della frase, nella comunicazione “come se” non c’è nessuna relazione fra quanto uno dice e quanto uno crede: ovvero la risposta del partner è generalmente sempre basata su un’affermazione e uno stato d’animo dell’attore ritenuti sinceri.
Il fallimento comunicativo è quello dove l’attore non riesce ad ottenere il suo scopo nei termini di un’azione o di uno stato mentale del partner, per un atteggiamento soggettivo dello stesso partner. Il fallimento condiviso si verifica quando entrambi sono consapevoli che è accaduto e lo accettano. Ci sono personalità depressive che accettano molto facilmente un fallimento comunicativo e altre ossessive che invece gli si oppongono duramente.
Il fallimento comunicativo può verificarsi per:

  • Incomprensione (comunicazione disturbata da rumori di fondo o espressa in una lingua non conosciuta); fraintendimento della comunicazione (errata applicazione di una regola standard o errato blocco di una regola standard): es. l’attore legge un libro e il partner risponde con un’azione – errata applicazione della regola - oppure il partner crede riferito a lui un giudizio dell’attore su un terzo soggetto (gli ho detto: “sei uno stupido”; “perché sarei uno stupido ?”) – mancato blocco della regola;
  • Incomprensione o fraintendimento del significato del parlante: es. incomprensione dell’ironia, con mancato blocco di una regola quando il partner prende per seria una battuta ironica;
  • Rifiuto da parte del partner che non si adegua per: attribuzione errata di intenzioni all’attore (es. stavo scherzando !!!), attribuzione all’attore di tentato inganno, diverse motivazioni del partner, gioco non condiviso, attribuita non attendibilità dell’attore: in tutti questi casi il partner utilizza delle conoscenze diverse da quelle a lui attribuite dall’attore.

Il recupero del fallimento si compie con una parafrasi di quanto già detto.
L’inganno è una violazione consapevole di un gioco condiviso ed è basato sulle credenze altrui per raggiungere un fine soggettivo preordinato. L’attore fa una comunicazione che è una mossa del gioco comportamentale sapendo che ne sta giocando un altro. Un gioco è regolare quando la sincerità è una regola imprescindibile affinché il gioco non si rompa; è irregolare quando l’inganno è una regola accettata (es. poker) e non rompe il gioco.
Il gioco è di facciata nel caso dei comportamenti “come se”, ovvero quando si cerca di manipolare gli stati mentali dell’interlocutore.
Un inganno semplice (bugia) consiste in una comunicazione che impedisca al partner di risalire al gioco che l’attore vuole effettivamente giocare. L’inganno complesso consiste nella comunicazione che spinge il partner a comportamenti diversi da quelli che avrebbe se avesse accesso alle vere intenzioni dell’attore.
L’inganno complesso porta a vari livelli di inferenze e comunicazioni: es. io so chi tu sei, ma so anche che tu sai che io so e allora ti fornisco un’informazione vera che tu prenderai per falsa.
Per competenza comunicativa si intende un insieme di capacità astratte possedute indipendentemente da come vengono utilizzate; la prestazione comunicativa fa invece riferimento all’effettiva applicazione delle capacità. E’ la prestazione comunicativa la vera prova dell’esistenza di una capacità comunicativa.
Un minimo di comunicazione fra individui di un sistema sociale è necessario per la riproduzione e la sopravvivenza.
In un sistema rigido di interazione ad un segnale corrisponde un solo significato, senza possibilità di composizione o modifica. In un sistema semirigido, tipico dei mammiferi superiori, un numero limitato di segnali può essere montato per significati composti. Con i primati si ha un notevole salto di qualità con prestazioni comunicative molto superiori rispetto a quelle di altri animali.
In un sistema aperto di comunicazione, di pertinenza solo degli uomini, i significati componibili con i segnali sono infiniti, così come le frasi producibili con la sintassi.
E’ solo con l’homo sapiens anatomicamente moderno che si sviluppa un linguaggio così come possiamo intenderlo oggi.  La comunicazione e la cognizione si sviluppa a partire dagli ominidi con la nascita di un proto linguaggio che poi evolve in linguaggio vero e proprio grazie alle attività sociali, manuali, la trasmissione culturale, le necessità comunicative.
Ciò che differenzia grandemente l’uomo dai primati è la struttura della corteccia celebrale: non è la massa celebrale che rende possibile il linguaggio ma è la macro architettura celebrale che si organizza con lo sviluppo della massa che rende possibili i salti qualitativi da cui dipende la competenza comunicativa. Ovvero, non è l’aumento del numero di neuroni che fa la differenza ma è lo sviluppo di neuroni che gestiscono altri neuroni, modulando le capacità cognitive.
Nei primissimi anni di vita il bambino ha una superproduzione di neuroni e sinapsi che hanno un lento declino a partire dai 4 anni perché vengono selezionate le strutture più efficienti ed efficaci secondo una specificità di obiettivo ed un adattamento simil darwiniano.
Diversamente da come sosteneva Piaget, le competenze comunicative non dipendono dallo sviluppo del sistema motorio. L’essere umano ha sicuramente delle competenze linguistiche innate che non sono possedute dai primati anche se si può insegnare loro una qualche forma di proto linguaggio. Il linguaggio secondo un approccio evolutivo si è sviluppato a partire da primitive funzioni comunicative.
Secondo Chomsky invece il linguaggio dell’uomo non è frutto dell’evoluzione ma di una qualche forma di modificazione genetica non finalizzata. Avremmo quindi avuto un salto quantico fra le competenze dei primati e degli ominidi, in un processo discontinuo.
In realtà ominidi e primati mostrano analogie nella comunicazione extralinguistica (gesti, smorfie, espressioni) mentre la discontinuità appare molto più marcata in quella linguistica. Effettivamente quello che differenzia ominidi e primati è la quantità di neocorteccia che produce le capacità cognitive dalle quali dipende la competenza comunicativa ed equilibra la comunicazione linguistica ed extralinguistica: se c’è stata una mutazione genetica nell’ominide questa è proprio relativa alla neocorteccia, che ha prodotto uno sviluppo cognitivo, linguistico e culturale, passando dalla comunicazione extralinguistica alla scrittura.
E’ con l’homo sapiens che appare la piena padronanza del linguaggio simbolico dove si fa riferimento a luoghi e tempi diversi da quelli dell’interazione e quindi a un più generale gioco comportamentale.
Non si può parlare di sviluppo della competenza comunicativa ma solo di emersione della stessa: le doti comunicative o ci sono o non ci sono, si tratta solo di padroneggiarle. E’ dai tre anni che la comunicazione linguistica comincia a prevalere nettamente su quella extralinguistica, quando le strutture neocorticali e le risorse cognitive a maturazione più lenta permettono di gestire al meglio le doti linguistiche per particolari esigenze.
Non esiste una continuità ed una causalità fra la comunicazione extralinguistica e linguistica: condividono solo i vincoli culturali e sociali del mondo in cui sono inserite ed possono servire specificatamente a esprimere particolari messaggi (per es. le emozioni sono meglio esprimibili con la comunicazione extralinguistica).
Il primo passo della comunicazione infantile è l’attenzione condivisa, un processo innato che si sviluppa in fasi: in principio il bambino usa l’adulto come un mezzo per raggiungere uno scopo, quindi l’adulto diventa agente per lo scopo e infine l’oggetto diventa il mezzo per ottenere l’attenzione dell’adulto.   Dai tre anni lo sviluppo della capacità di comprendere gli stati mentali altrui è un ulteriore salto per l’emersione della competenza comunicativa.
Le norme culturali nelle quali emergono le competenze comunicative dei bambini vengono trasmesse fin dal principio con interazioni adulti-bambini che sono giochi comportamentali con o senza oggetti e che utilizzano un linguaggio tipico del rapporto madre/padre-bambino. Non è solo l’adulto che aggiusta il suo linguaggio ma anche il bambino.
Per comprendere un atto comunicativo il bambino deve conoscere il gioco comportamentale a cui fa riferimento e quindi deve sviluppare delle competenze specifiche: l’atto è semplice o complesso a seconda che il riferimento al gioco comportamentale sia immediato o necessiti di una serie di inferenze. La capacità di comprendere un atto comunicativo consiste nella conoscenza delle mosse del gioco comportamentale di riferimento: la comprensione sarà crescentemente più difficile per atti semplici, complessi, standard e non standard (ironia, inganno) oppure che richiedano il possesso di capacità di comprensione degli stati mentali altrui e di una teoria della mente.
Il linguaggio è normalmente situato nell’emisfero controlaterale alla mano dominante. In entrambi gli emisferi ci sono aree deputate al suo funzionamento.
La competenza pragmatica linguistica è analitica ed è localizzata in moduli dell’emisfero sinistro, per la gestione di domande, affermazioni, ordini.
La competenza pragmatica centrale sintetica, non puramente linguistica, per la comprensione di metafore e del sarcasmo e per padroneggiare le regole relative alle cose che si possono fare con le parole, è localizzata nell’emisfero destro.
I processi comunicativi sono divisibili in due parti: una centrale (sulla corteccia) dove vengono fatte le inferenze per collegare un atto comunicativo a un gioco ed una periferica dove si svolgono i processi di input e output e quindi motori. La competenza pragmatica è di competenza dei processi centrali mentre la prestazione pragmatica è di competenza sia di quelli centrali che periferici.
Soggetti dai 50 agli 80 anni dimostrano solo una minore comprensione dell’ironia.
I traumi frontali si riflettono sull’abilità comunicativa, con discorsi confusi e poco strutturati, senza tracce di afasia e sulla comprensione della comunicazione non standard, facendo fatica a comprendere una relazione non immediata fra significato espresso e significato inteso (ironia).
I soggetti afasici non mostrano deficit di pragmatica linguistica ma solo di prestazioni linguistiche. Il recupero deve basarsi sulla comunicazione extralinguistica.
La plasticità neuronale permette di sopperire ai deficit di alcune aree danneggiate deputate al linguaggio con altre aree vicarianti.
Autismo: ridotta prestazione linguistica (non competenza) ed extralinguistica per carenza nell’attenzione condivisa, nella memoria di lavoro, nella capacità di tenere attivi contemporanei stati mentali (scarsa interpretazione dei significati),   danneggiata capacità sociale.

Comunicazione medico-paziente

  • Comunicazione suggestiva: il paziente è volutamente all’oscuro delle pratiche mediche (nella nostra cultura applicabile solo ai bambini)
  • Comunicazione terapeutica: la parola del medico ha una funzione di accompagnamento e facilitazione, non curativa. Sono fondamentali sincerità e trasparenza che il medico deve assicurare in un rapporto collaborativo. Medico e paziente devono concordare percorso terapeutico e meta finale, che non è una condizione oggettiva di guarigione ma una valutazione soggettiva del paziente.

Stili comunicativi del medico

  • Paternalistico vs. informativo: da un lato c’è l’accentramento di tutte le decisioni su terapia e obiettivi nel medico, dall’altro è il paziente che è deputato alla scelta finale. 
  • Interpretativo e deliberativo: medico e paziente condividono terapia e obiettivi, interpretando ciò che è considerato malattia da parte del paziente.

La scelta del modello comunicativo e dello stile di interazione dipende da paziente a paziente.
Nella psicoterapia, quando è importante aumentare l’auto consapevolezza del paziente, è opportuna una meta lettura condivisa dell’analisi, ovvero un interpretazione dell’analisi spiegata al paziente.
All’interno della relazione psicoterapeutica, il sintomo manifestato dal fobico o dal paranoico diventa un modo di comunicare che il terapeuta deve interpretare, attribuendogli un significato, e spiegare al paziente. Il sintomo diventa un attivatore involontario di azioni e di risposte complementari: un paranoico che sospetta un complotto potrà facilmente stimolare una risposta di cautela dagli interlocutori che non farà che aumentare i suoi sospetti.
Il contesto nel quale può essere fatta questa interpretazione è la seduta psicoanalitica e il contenuto è sia la relazione con altri che quella con il terapeuta.
Il percorso attraverso il quale il terapeuta arriva ad interpretare e spiegare al paziente i comportamenti patologici consiste in un accompagnamento graduale del paziente a scoprire che i suoi comportamenti sono decisi da lui e non sono fuori dal suo controllo. Il modo consiste nel far capire al paziente che le sue azione apparentemente prive di senso sono in realtà comunicative, intenzionali e deliberate.
Una condizione affinché questo processo si svolga efficacemente è l’alleanza terapeutica fra paziente e terapeuta.
La comunicazione della terapia è composta da un flusso superficiale fatto da tutte le informazioni e dalle credenze su sé e il mondo che il paziente trasmette al terapeuta, da un flusso profondo che è composto dalle rielaborazioni di queste informazioni da parte del terapeuta che le restituisce al paziente e da una condivisione di quanto discusso e analizzato con il terapeuta. Il fulcro della riuscita della terapia è il cambiamento delle credenze del paziente in seguito alla condivisione con il terapeuta di certe sue elaborazioni.
In tal senso è necessario avere una minima base di conoscenze e di significati condivisi con il terapeuta a cui fare riferimento nella terapia. La condivisione è il risultato di una contrattazione e talvolta la condivisione è anche sulla non condivisone di certe conclusioni.
L’efficacia di una comunicazione sta nell’efficacia delle parti di un discorso:

  • La ricerca inventiva degli argomenti di persuasione;
  • L’ordine dato agli argomenti;
  • La redazione del discorso con metafore e ironia;
  • La recitazione del discorso.

Anche il silenzio è comunicativo e a volte necessario per esprimere significati e stati mentali.
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Additare e mimare sono state le prime forme comunicative dell’uomo su cui si è sviluppata tutta la competenza comunicativa e tuttora l’additare può avere una sua forza comunicativa se gli interlocutori condividono una conoscenza relativa all’oggetto indicato o al contesto generale. Un’esperienza e una conoscenza condivisa sono alla base dell’efficacia comunicativa.
Inoltre la comunicazione umana (a differenza di quella di altri primati) è un esperienza fondamentalmente cooperativa perché stimola un istinto di base cooperativo dell’uomo, un fatto unico nel mondo animale.
Alla base della comunicazione umana sta quindi un’intenzionalità condivisa che è un requisito delle forme cooperative dell’attività umana, che sono all’origine dell’evoluzione della comunicazione negli uomini a partire da forme puramente gestuali.
Evoluzione della comunicazione umana:

  • Gestualità
  • Intenzionalità condivisa e cooperazione che poggiano su abilità socio cognitive degli umani per creare attenzione congiunta e su motivazioni alla condivisione
  • Abilità di apprendimento e imitazione culturale per creare e trasmettere convenzioni comunicative.

Le esibizioni comunicative sono manifestazioni tipicamente fisiche e non intenzionali del mondo animale, per raggiungere un obiettivo istintivo: es. attrarre un partner.
I segnali comunicativi, tipici solo del mondo dei primati, hanno la caratteristica dell’intenzionalità ovvero del controllo del loro uso per influenzare altri soggetti. I riceventi devono essere in grado di percepire l’intenzionalità comunicativa.
I primati hanno una flessibilità vocale molto limitata: la loro vocalizzazione, tipicamente legata a certe emozioni, è piuttosto uniforme e rigida perché selezionata dall’evoluzione e dalla necessità di far fronte ad alcune situazioni naturali (per es. di rischio per l’attacco di un predatore). La comunicazione dei primati appare come una semplice associazione di una vocalizzazione ad una situazione, ben distante da come possiamo concepire la comunicazione umana.
Viceversa la comunicazione gestuale dei primati appare più simile a quella umana laddove si intravede l’uso intenzionale e flessibile di alcuni segnali comunicativi.
I primati hanno movimenti di intenzione che sono gesti che comunicano una loro intenzione o anticipano un loro comportamento. Sono gesti ritualizzati, appresi ontogeneticamente con l’evoluzione e non con processi di imitazione.
I primati hanno anche gesti di richiamo dell’attenzione dove lo scopo è appunto richiamare su di sé l’attenzione del ricevente. I gesti di richiamo dell’attenzione vengono appresi, ritualizzati e usati per diversi scopi una volta che si dimostra che sono efficaci per richiamare l’attenzione. Ovvero sono gesti referenziali e servono per richiamare l’attenzione: una volta richiamata l’attenzione si potrà approfondire la comunicazione. Questo sembra molto simile a quanto avviene anche per l’uomo.
La comunicazione gestuale richiede, a differenza di quella vocale, un controllo reciproco dell’attenzione: chi comunica deve controllare che l’interlocutore sia attento e che riceve deve controllare che il gesto sia rivolto a lui.
In generale le grandi scimmie riescono a comprendere se gli interlocutori sono o meno attenti ma non necessariamente mostrano una sequenza del tipo: richiamo dell’attenzione, gesti intenzionali. Più comunemente la sequenza è: controllo se l’altro è attento, eventualmente giro intorno, produzione del gesto, controllo della reazione, ripetizione o modifica del gesto.
Le scimmie che crescono a contatto con l’uomo possono imparare nuovi gesti, come indicare cose che vogliono ma non possono prendere. In generale lo sviluppo della gestualità è conseguenza della volontà di richiamare l’attenzione dell’uomo per la soddisfazione di alcuni loro bisogni (per esempio indicare una porta perché venga aperta). Non hanno lo stesso comportamento con altre scimmie (laddove è più probabile una gestualità imperativa che dichiarativa) perché ben difficilmente tra loro c’è il comportamento cooperativo tipicamente umano. Infatti, le scimmie non comprendono la gestualità indicativa dell’uomo che gli vuole segnalare qualcosa che le può soddisfare (per es. del cibo nascosto), ma fanno inferenze più efficaci in condizioni di comportamento competitivo (ovvero tendono a imitare il comportamento di altri soggetti in competizione con loro laddove porta ad un qualche beneficio – per esempio la scoperta di cibo).  
Le grandi scimmie comprendono che gli altri agiscono secondo dei fini e reagiscono di conseguenza (per esempio provano emozioni diverse se l’uomo non dà loro del cibo perché non può o non vuole): quindi comprendono in qualche modo che le azioni sono mosse da stati mentali.
Le grandi scimmie comprendono anche che gli altri hanno delle percezioni della realtà (per esempio curiosando dove qualcun altro sta guardando) e reagiscono di conseguenza e che la loro percezione può essere diversa.
In sostanza, le grandi scimmie comprendono che gli altri abbiano dei fini e che agiscano in un determinato modo quando percepiscono che lo stato del mondo non è compatibile con i loro fini. In poche parole, le grandi scimmie comprendono le basi dell’azione intenzionale e usano tale competenza anche per la comunicazione gestuale.
Le grandi scimmie fanno gesti che hanno come obiettivo l’esecuzione di un’azione da parte del ricevente e come tale i gesti vengono percepiti da altre scimmie. Oppure, fanno gesti per richiamare l’attenzione su altri gesti che hanno come fine l’esecuzione di un’azione. La cosa importante è che le scimmie non percepiscono mai il gesto referenziale di altre scimmie (come dell’uomo) come gesto cooperativo ma solo come gesto egoistico di chi lo compie.
La comunicazione umana parte dai gesti, usati per fare inferire al ricevente un messaggio:

  • gesti per orientare l’attenzione di un ricevente (gesto deittico)
  • gesti per orientare l’immaginazione del ricevente con riferimento a qualcosa di non presente (gesto iconico). Implicano capacità di simulazione, simbolizzazione, imitazione tipica degli umani ma non delle scimmie.

Affinché questa inferenza sia efficace occorre che ci sia una conoscenza condivisa. Non è necessaria una competenza linguistica acquisita per gesti deittici o iconici (per es. infanti che additano).
E’ oltretutto necessario condividere alcune credenze e usi culturali: è necessario condividere un terreno comune che consenta di capire ciò su cui l’attore sta rivolgendo l’attenzione e perché lo fa, superando la visione egocentrica delle cose.
Alla base della comunicazione gestuale sta la cooperazione fra gli esseri umani, in termini di risorse cognitive per generare condivisione di intenti e istinti sociali alla cooperazione.
Il terreno comune alla base della comunicazione si fonda su tre distinzioni:

  • terreno comune originato dal nostro ambiente percettivo immediato e condiviso o frutto di esperienze condivise passate;
  • terreno comune originato da processi top-down (fine comune e concentrazione su cose rilevanti degli interlocutori) oppure bottom-up (evento improvviso che causa un’attenzione condivisa);
  • terreno comune originato da credenze generalizzate comuni  e non esplicitate oppure da credenze specifiche e contingenti.

Maggiore è la condivisione e minore è la necessità di comunicazione palese e maggiore è l’efficacia della comunicazione semplicemente gestuale.
La comunicazione tipicamente umana e cooperativa può avere i seguenti contenuti:

  • richieste imperative di azioni (fate !) e richieste cooperative di azioni (aiutatemi a fare);
  • offerte di aiuto senza precedente richiesta altrui;
  • condivisione di stati d’animo.

 Gli atti comunicativi umani sono intenzionali nel senso che un gesto che indica un oggetto non vuole solo richiamare l’attenzione sull’oggetto ma anche sull’intenzione personale di indicare lo stesso oggetto, per poi fare alcune inferenze sull’intenzionalità. Ovvero quando si osserva qualcosa indicato da una persona ci si chiede (diversamente dalle scimmie) il perché di tale segnalazione.
Questo processo si basa sulle motivazioni cooperative delle persone, crea un terreno comune degli interlocutori e norme sociali inviolabili: nella società bisogna comunicare, soprattutto con specifiche modalità, per essere ritenuti sani di mente e bisogna condividere con altri argomenti ritenuti di interesse comune; dal lato di chi risponde, è richiesta educazione, partecipazione, ascolto, condivisione.
La ricorsività coinvolta ne processo comunicativo è quella spirale – teoricamente infinita – di intenzioni e credenze: ad esempio, io voglio che voi sappiate che io so che voi sapete, ecc. ecc. Questa spirale è ovviamente finita nella vita pratica perché dipende dalle capacità di inferenze delle persone.
Comunicazione linguistica e gestuale richiedono un terreno comune, un’intenzionalità condivisa. La comunicazione gestuale è tanto più efficace quanto più forte è questo terreno comune. La comunicazione gestuale ha in più rispetto a quella linguistica l’attenzione referenziale, per indirizzare l’attenzione altrui.
Anche le convenzioni linguistiche, che sono alla base della comunicazione, sono frutto di un’intenzione condivisa e di forme di cooperazione, comportamento che invece non compare nelle scimmie che invece cercano di prevedere e manipolare le percezioni, i fini e le azioni altrui.
I bambini, prima dell’acquisizione di un linguaggio vero e proprio, indicano sostanzialmente per due ragioni:

  • gesti imperativi: chiedere  per avere: in particolare ordinare un’azione e influenzare un comportamento
  • gesti dichiarativi: condividere emozioni e stati d’animo. In particolare, condividere uno stato d’animo su un referente (persona o cosa) comune e  comunicare informazioni su un referente comune.

Alla base di questi gesti e intenzioni sta comunque un comportamento cooperativo.
In particolare, quando a partire dall’anno di età i bambini cominciano a sperimentare gesti referenziali, dimostrano di comprendere le intenzioni  altrui soprattutto se c’è un terreno comune, inteso come precedente condivisione di conoscenza e comportamenti. Difficile che un estraneo possa interagire con un bambino meglio di chi ha già avuto a che fare con lui.
La comprensione de messaggi nascosti diventa una competenza dei bambini dai 3-4 anni di età, con la maturazione cognitiva. Inoltre, anche la comprensione delle reciproche aspettative di aiuto è una competenza che matura con il tempo (ciò che io mi aspetto da te è anche ciò che tu ti aspetti da me).
La gestualità infantile comincia anche prima dei tre mesi di età ma non ha finalità comunicative.
I tre motivi comunicativi fondamentali (chiedere, condividere e informare) hanno radici nei primi mesi di vita:

  • il pianto affinché l’adulto gli dia da mangiare è la base delle richieste della comunicazione linguistica
  • gli scambi emotivi con espressioni facciali sono la base dei gesti dichiarativi espressivi
  • i gesti dichiarativi informativi appaiono solo dopo i dodici mesi quando il bambino comincia a capire cosa significa aiutare l’altro.

E’ soltanto con la maturazione delle strutture socio cognitive e motivazionali che questi gesti primitivi maturano e diventano vera e propria comunicazione: dai nove mesi in poi il bambino capisce che gli altri hanno dei fini, che li raggiungono con dei mezzi e prestano attenzione a cose specifiche. Soprattutto dai dodici mesi il bambino comincia, soprattutto con il gioco,  a svolgere attività cooperative con gli altri e pone le basi per quel terreno comune della comunicazione cooperativa che è l’attenzione e l’intenzione condivisa.
I bambini cominciano a padroneggiare i gesti convenzionali (es. il mimare il saluto con le mani) quando cominciano a padroneggiare le convenzioni linguistiche, il che suggerisce processi di apprendimento analoghi.
La creazione di gesti iconici creativi (es. il mimare emozioni), non convenzionali, necessita di capacità di imitazione, simulazione, rappresentazione simbolica e finzione che hanno una maturazione completa solo dopo i due anni.
C’è comunque da dire che la gestualità deittica rimane prioritaria rispetto a quella iconica, soprattutto quando matura la competenza linguistica di cui la gestualità deittica è complementare. O meglio, la gestualità iconica rimane confinata in un perimetro ludico non strettamente comunicativo, come quello del gioco di finzione di cui la gestualità iconica è uno strumento.
L’uso del linguaggio appare dopo il primo anno e dopo l’uso di gesti deittici, convenzionali e iconici. Lo sviluppo del linguaggio non avviene per banale associazione di suoni a cose ma per mezzo dell’esperienza sociale condivisa, dello sviluppo di un terreno comune che permette di comprendere a poco a poco il significato delle parole e il loro uso. Il bambino capisce il significato di una parola anche quando l’adulto focalizza l’attenzione su qualcosa e lo nomina: l’attenzione condivisa genera apprendimento. Anche questa è però un’esperienza sociale condivisa.
Anche l’acquisizione delle convenzioni linguistiche segue il modello cooperativo. Un bambino acquisisce l’uso di una convenzione linguistica e ne comprende il significato quando l’adulto condivide con lui un terreno comune, una certa attenzione. Fuori da questo, la convenzione linguistica non può essere acquisita. E una volta che acquisiscono la convenzione la usano anche in altri contesti in modi non diversi dalla gestualità iconica o deittica.

Perché la comunicazione umana è fondamentalmente cooperativa? Perché nell’evoluzione la comunicazione con fini altruistici è stata quella più efficace alla sopravvivenza: aiutare gli altri aiutava ad aiutare sé stessi. Almeno questo all’inizio, fino a quando la comunicazione cooperativa ha cominciato ad essere usata anche per l’inganno e finalità personalistiche.
Le attività collaborative delle grandi scimmie differiscono dalle attività collaborative umane nella stessa misura come differiscono le relative forme di comunicazione.
E’ vero che le scimmie, come altri animali, compiono attività di gruppo ma queste non sono pianificate, strutturate e organizzate come quelle degli uomini: in particolare le scimmie possono percepire le altre scimmie come attori individuali della situazione, dotati di loro scopi, ma non hanno le capacità per definire a priori fini e attenzione congiunti tipiche dell’intenzionalità condivisa. Cioè sono incapaci di avere una visione dall’alto della situazione cooperativa assegnando o invertendo ruoli ai soggetti coinvolti.
Quello che allora distingue la comunicazione umana da quella delle grandi scimmie è che la prima è progettata per fini collaborativi e la seconda per fini individualistici: anche la menzogna in qualche modo si poggia su presupposti collaborativi perché presuppone la fiducia – mal riposta – dell’altro.
Alla base della comunicazione umana sta un rapporto di mutualità: informiamo gli altri perché sappiamo che così facendo gli altri possono aiutare noi nel raggiungimento di un fine comune, in un’ottica, tipicamente umana, cooperativa. Il gesto deittico – l’additare – è il precursore di questo tipo di comunicazione: indicare/informare per raggiungere un fine comune.
Un altro elemento fondamentale della comunicazione cooperativa è la reciprocità: informiamo gli altri perché ciò migliora la nostra reputazione cooperativa ed abbiamo a nostra volta più possibilità di essere aiutati.
I gesti deittici sono in questo caso meno efficaci di quelli iconici laddove soprattutto non esiste un terreno comune: i gesti iconici (mimica) necessitano per contro di capacità di imitazione, rappresentazione, finzione che emergono con la maturazione cognitiva.
Informiamo per migliorare la nostra reputazione ed essere aiutati e ringraziamo quando veniamo aiutati, per migliorare la reputazione altrui e quindi potere poi essere ancora aiutati. La combinazione di questi processi con le norme sociali porta a emozioni come il senso di colpa espresso sotto forma di scuse, quando una persona non aiuta l’altra come invece avrebbe dovuto.
Perché i bambini imparano meglio degli altri primati ? Una ragione può essere che gli esseri umani si concentrano di più sulle azioni concrete e specifiche, apprendendo per imitazione dagli altri. Dedicano molto tempo alla conformità, alla solidarietà, alla affiliazione, con un forte desiderio di condividere emozioni e atteggiamenti con gli altri. Tutto questo contribuisce a creare quel terreno comune che è vitale per la comunicazione. Questi atteggiamenti non compaiono nei comportamenti delle grandi scimmie: non imitano per conformismo, per solidarietà, per aderenza a norme sociali.
La comparsa della comunicazione convenzionale è successiva a convenzioni gestuali, deittiche o iconiche. I gesti iconici vennero inventati per finalità specifiche, imitando alcune azioni per ottenere scopi concreti. Il significato specifico dei gesti iconici venne poi ampliato a situazioni più generiche da chi osservandoli e imitandoli senza conoscerne le motivazioni concrete cominciò ad utilizzarli in ambiti diversi e più generali. Da questo prendono avvio le convenzioni comunicative gestuali.
Il passaggio dalla comunicazione gestuale – più efficace nell’indirizzare l’attenzione in un rapporto limitato – alla comunicazione vocale sta probabilmente nella possibilità dell’uso pubblico e a distanza della comunicazione vocale, nella possibilità di rivolgersi a un contesto sociale più ampio, nella possibilità di agire sulla propria reputazione. Inizialmente la comunicazione vocale ha accompagnato quella gestuale, supportandola con vocalizzi primitivi, ma poi l’ha sostituita perché è diventata più efficiente ed efficace e perché ha reso inutile la mimica della gestualità iconica.
La comunicazione umana è fondata essenzialmente su tre motivazioni: richiedere, informare e condividere. Tre motivazioni che hanno una struttura sintattica e grammaticale progressivamente sempre più complessa.
Le grandi scimmie usano una gestualità fondamentalmente orientata alla funzione imperativa e non usano meccanismi sintattici. Usano una sequenza e non una combinazione dei segni, una sorta di grammatica del richiedere che non necessita per esempio di marcatori sintattici dei ruoli di diversi attori in un evento. Indicano prima la cosa o l’azione desiderata, seguiti dal soggetto che dovrebbe fare l’azione.
I bambini muti, che usano anche una gestualità informativa, indicano prima la cosa di cui stanno parlando e poi ne predicano qualcosa di interessante, con una struttura sintattica che tende a diventare più articolata solo quando gli stessi bambini si trovano a interagire in una comunità che utilizza il linguaggio dei segni con convenzioni linguistiche che facilitano una sintassi e una grammatica più articolata.
La genesi della grammatica nella comunicazione umana è quindi fatta da una segmentazione della situazione referenziale in elementi diversi – eventi e partecipanti – con l’uso rispettivamente di gesti iconici e deittici.
Quando la comunicazione passa dal semplice richiedere all’informare allora la sintassi diventa più complessa perché richiede:

  • identificare anche oggetti assenti o sconosciuti
  • strutturare la comunicazione marcando anche terze persone assenti
  • esprimere motivazioni diverse da quelle puramente imperative

Come dimostra le modalità con le quali si è sviluppato il linguaggio dei segni, l’aggregazione in una comunità di soggetti che comunicano con una gestualità che hanno acquisito individualmente favorisce processi convenzionali degli stessi segni, nei significati singoli e nella loro combinazione, con un trasferimento ai nuovi arrivati che a loro volta sviluppano ulteriori segni e combinazioni.   La grammatica di una lingua si evolve nello stesso modo.
Le forme sintattiche e grammaticali più complesse si trovano nella narrazione.  La sintassi elaborata correla gli eventi nella narrazione e rintraccia i partecipanti da un evento all’altro. Gli uomini usano la narrazione per ampliare quel terreno comune e quella condivisione che sono alla base della comunicazione. La comunicazione segue regole sintattiche e grammaticali che contribuiscono al senso di appartenenza a un gruppo.
Le costruzioni linguistiche evolvono e diventano convenzionali in una comunità linguistica: così quella costruzione che può sembrare senza senso acquisisce una sua valenza e può essere a sua volta trasmessa e sviluppata.
Quando la prevedibilità comunicativa è alta a causa di un forte terreno comune, i parlanti automatizzano e riducono le costruzioni. Queste possono essere poco comprensibili per i nuovi arrivati: allora vengono rianalizzate e ricombinate nel discorso e il processo riparte. La grammatica evolve così in modo molto rapido.
In sintesi la convenzionalizzazione della grammatica può avere luogo solo se il parlante e il ricevente hanno l’obiettivo di una comunicazione efficace, ovvero che il messaggio venga percepito nel modo migliore e più rapido, per l’interesse comune di entrambi (a differenza di come avviene per le grandi scimmie dove prevale l’istinto individualistico).
Al di là delle profonde differenze linguistiche e grammaticali le diverse lingue hanno in comune degli universali linguistici sintattici e grammaticali che dipendono dal fatto per esempio che gli uomini vogliono esprimere emozioni e motivazioni simili, manipolano l’attenzione degli altri in modi simili, ovvero devono sbrigare faccende comunicative simili.
Molti aspetti della competenza linguistica umana si sono evoluti biologicamente ma lo stesso non è avvenuto per la grammatica: i principi grammaticali universali derivano più da motivi storico-culturali, cognitivi, comunicativi, emotivi comuni a etnie e popoli diversi, piuttosto che da fattori biologici.
La strada della comunicazione cooperativa umana comincia con la comunicazione intenzionale delle grandi scimmie che si manifesta principalmente con i gesti, appresi con la ritualizzazione, usati per richiedere e per attirare l’attenzione per far si che altri facciano qualcosa. Tale produzione e comprensione di gesti si basa sulla comprensione dell’intenzionalità individuale cioè sulla comprensione che gli altri hanno fini e percezioni.
La comunicazione cooperativa umana include anche la capacità di comprendere l’intenzionalità condivisa, aiutare e condividere. E allora scaturiscono le tre motivazioni principali della comunicazione cooperativa umana: richiedere, informare e condividere. Gli umani sanno implicitamente, in base a norme sociali implicite,  che devono essere, come gli altri, cooperativi.
I gesti deittici e iconici degli umani sono naturali perché sfruttano le capacità innate dell’uomo di seguire lo sguardo altrui e di interpretare come intenzionali i gesti altrui, sfruttano un terreno condiviso e assunzioni di cooperazione.
Nello sviluppo infantile la gestualità deittica emerge solo con le abilità legate all’intenzionalità condivisa. La gestualità iconica emerge solo dopo quella deittica e viene rapidamente sostituita dal linguaggio.
Lo sviluppo della comunicazione cooperativa è una conseguenza dell’attività naturale umana di mutua collaborazione: richiedere, informare e condividere sono attività per agevolare e sviluppare la mutua collaborazione ed espandere il terreno comune.
Le abilità umane di imitazione hanno portato alla creazione, acquisizione e sviluppo di gesti iconici convenzionalizzati che sono stati poi la base per lo sviluppo linguistico vero e proprio.
Lo sviluppo delle forme grammaticali si è realizzato in relazione alle esigenze di richiedere, informare e condividere con una complessità sempre maggiore, per marcare soggetti, tempi, luoghi, ruoli.
L’istinto collaborativo dell’uomo e la comunicazione cooperativa sono due abilità che si sono evolute con la specie e che si basano sulla comune infrastruttura psicologica dell’intenzionalità condivisa. Se l’istinto primordiale umano non fosse stato la collaborazione ma la competizione, se le norme sociali non avessero condizionato fin dall’inizio il comportamento e la comunicazione, anche con riferimento all’esigenza di aiutare o informare per migliorare la propria reputazione e quindi godere di aiuto altrui, probabilmente i linguaggi umani sarebbero molto diversi rispetto a quelli attuali e la grammatica e la sintassi molto più semplici.

 

 

Fonte: http://www.appuntiunito.it/wp-content/uploads/2014/10/Pragmatica-cognitiva.docx

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