Origine e natura dei vangeli sinottici

 

 

 

Origine e natura dei vangeli sinottici

 

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Origine e natura dei vangeli sinottici

 

Origine e natura dei vangeli sinottici

 

ORIGINE E NATURA DEI VANGELI SINOTTICI

  1. Vangeli

I 4 vangeli canonici sono scritti anonimi nati tra il 65 e il 95 d.C. La loro stesura definitiva può essere collocata intorno al 125 d.C. Non essendo stato dato loro alcun titolo, al momento in cui se ne volle dare uno, si mise il termine ‘vangelo’ (euangelion) preceduto dall’espressione ‘secondo’ (katà) e il nome dell’evangelista, cioè il nome dell’autore indicato dalla tradizione. Cosa significa Vangelo? In greco euangelion è una parola composta; eu = buono, angelion = annuncio. Nel mondo greco il termine euangelion indica la buona notizia per la nascita di un bambino, per una vittoria militare, per l’ascesa al trono dell’imperatore etc…

L’apostolo Paolo fu presumibilmente il primo ad usare l’espressione (60 ricorrenze su 67 presenti nel NT) per indicare l’annuncio orale della salvezza offerta da Dio agli uomini in Gesù Cristo . Talvolta troviamo il verbo euangelizomai ‘evangelizzo’, reco la buona notizia . Una costante in tutto il NT è che sia il sostantivo, sia il verbo si riferiscono alla predicazione orale e non a testi scritti. Il primo ad usare il termine vangelo per indicare gli scritti che noi possediamo fu Giustino († 165). L’uso si estese, ma sempre nell’espressione ‘vangelo secondo…’ perché era chiaro che il Vangelo era uno solo, trasmesso in 4 differenti versioni.

 

  1. Origine dei vangeli sinottici

I vangeli intendono trasmettere tradizioni su quel che Gesù disse e fece durante la sua vita terrena. L’esperienza pasquale, avendo trasformato profondamente i discepoli e il loro rapporto con Gesù, modificò di conseguenza le tradizioni su Gesù e il modo di trasmetterle. La comparsa dei vangeli in forma scritta richiese un certo tempo, corrispose a esigenze precise e implicò una specifica interpretazione della tradizione precedente.

Per studiare l’origine dei vangeli distingueremo le seguenti tre tappe: gruppo prepasquale, comunità postpasqualeredazione dei vangeli.

 

3. Origine della tradizione: Gesù e i discepoli prima della pasqua

 a) La comunità prepasquale intorno a Gesù

Intorno a Gesù si formò un gruppo di discepoli al cui interno venne coltivata una tradizione di parole di Gesù. Questo gruppo che per alcuni aspetti conduce vita itinerante, condivide con Gesù la vita di ogni giorno  ed è anche il gruppo che gode del privilegio di ascoltare i suoi insegnamenti; in alcuni casi, questi discepoli sono inviati a proclamare lo stesso messaggio del regno di Dio. Accanto ad essi ci fu anche un gruppo di simpatizzanti che accolse l’annuncio di Gesù.

Da un punto di vista storico appare chiaro che Gesù aveva le caratteristiche di un maestro e di un profeta e che così lo vide la gente. Viene considerato un maestro e ci si rivolge a lui con l’espressione aramaica rabbi (Mc 9,5; 10,51; 11,21) o con quella greca didaskalos (Mc 10,17 par.; 12,14 par.; 12,19 par.; 14,14 par.).

A proposito del termine rabbi va precisato che, soltanto dopo la distruzione di Gerusalemme nell’anno 70 e l’insorgere di un giudaismo normativo più uniforme, centrato sulla legge, rabbi si trasforma in titolo e fa la sua comparsa il rito dell’ordinazione dei rabbi. Per il tempo precedente l’espressione ha il senso, non ancora formulare, di “mio signore”, “mio maestro”, e in questo senso veniva attribuito a Gesù.

Come in tutti i gruppi e le ‘scuole’ dell’antichità, anche nel gruppo di Gesù dovette esistere una tradizione coltivata di ‘parole del maestro’. Non dobbiamo necessariamente pensare ad una tradizione che nasce in un ambito di persone rozze e incolte…. pescatori, pubblicani vivono in contatto con l’ellenismo della Decapoli o con i grandi centri di Magdala e Tiberiade.

 

b) Cultura della memoria e della tradizione

Per comprendere il gruppo di Gesù e dei suoi discepoli è necessario collocarlo nel contesto del mondo giudaico cui appartiene interamente. D’altra parte bisogna fare molta attenzione a non incorrere nel grave anacronismo di proiettare sul tempo di Gesù il sistema d’insegnamento delle scuole rabbiniche posteriori all’anno 70, il quale ha prodotto la maggior parte della letteratura giudaica giunta fino a noi. Sappiamo bene come questo giudaismo normativo, successivo alla distruzione del tempio nel 70, s’impegnasse a conservare scrupolosamente le tradizioni dei maestri con l’impiego di tecniche molto raffinate.

Tuttavia si deve tenere presente, anzitutto, che la cura della memoria del passato è la caratteristica fondamentale d’Israele in tutte le epoche, il che spiega la sua stupefacente sopravvivenza ed è alle origini stesse del sorgere della Bibbia. Inoltre, già prima del 70 esisteva una vera e propria pedagogia popolare giudaica basata sulla coltivazione della tradizione. La pedagogia popolare nel mondo antico era molto conservatrice e si basava su tre istituzioni fondamentali: la casa paterna, la sinagoga e la scuola elementare. Elemento centrale di tutte e tre era la memorizzazione.

In famiglia il padre aveva l’obbligo di trasmettere ai figli le tradizioni religiose del popolo ed essi dovevano apprenderle a memoria. Gli articoli fondamentali della fede israelitica e la thorà erano trasmessi all’interno della famiglia. L’esempio più noto di quanto un ebreo doveva apprendere a memoria è il ‘credo storico’ di Deut 26,5-Io, che si doveva recitare presentando le primizie del raccolto.

Sappiamo dell’esistenza di sinagoghe a Nazaret, “dove era stato allevato” Gesù (Lc 4,16), a Cafarnao (Mc 1,21) e in altre località della Galilea (Mc 1,39). Il culto sinagogale era incentrato sulla lettura della Bibbia, preceduta dalla recita del decalogo e dallo Shema’ Israel da parte di tutto il popolo che lo sapeva a memoria. Il presidente della sinagoga (archisynagogos) o l’assistente della sinagoga (hazzan, hyperetes) si accordava in precedenza con un membro della comunità perché provvedesse alla lettura. Poiché l’ebraico si scriveva senza vocali, la lettura doveva essere ben preparata e spesso i lettori conoscevano il testo a memoria. Pare che già al tempo di Gesù fosse stato introdotto un sistema di scuole elementari nei villaggi giudaici (bet ha-sefer = “casa del libro”). Quando i farisei acquisirono influenza con la regina Salome Alessandra (76-67 a.C.), questo fu uno degli obbiettivi che si proposero per resistere alla ellenizzazione. Gli studi superiori erano compiuti nella bet ha-midrash (“casa di studio”), di accesso più ristretto. Dato il carattere religioso dell’insegnamento, come di tutta la cultura giudaica dell’epoca, la bet ha-sefer era inseparabile dalla sinagoga e si trovavano di norma nello stesso edificio. Come a Babilonia, in Grecia e a Roma, il metodo fondamentale d’insegnamento era basato sulla memoria. S’imparava a memoria anche ciò che non si comprendeva e che veniva spiegato solo in seguito. “Primo imparare (a memoria), poi comprendere” era una massima rabbinica che rifletteva la pratica della scuola elementare precristiana. È proverbiale la fedeltà della tradizione rabbinica, che veniva imparata a memoria; il miglior esempio è il trattato Pirqe Abot (Detti dei Padri) della Mishna.

L’eco di questa capacità di memorizzazione è riscontrabile in alcune testimonianze. Gerolamo, che visse per molti anni in Palestina, si meravigliava che alcuni giudei del suo tempo fossero capaci di ripetere gli elenchi di nomi dei libri delle Cronache nell’ordine esatto, dal primo all’ultimo e viceversa (Commentarius in Ieremiam 2.5,2.6), e anche conoscessero a memoria la Torà e i Profeti (Commentarius in Isaiam 58,2).

Per apprendere questo metodo erano necessarie tecniche mnemoniche, anzitutto lo studio dei testi a voce alta e cantilenante. Sal 1,1-2 ci dice che nelle scuole postesiliche del tempio la Torà veniva sussurrata (hagah), ossia la s’imparava a memoria cantilenandola. Alcuni testi dell’Antico Testamento portano il riflesso di tecniche atte a favorire la memorizzazione: l’allitterazione (Prov 18,20-22), il ricorso all’ordinamento alfabetico (Prov 31,10-3 i), la rima e il ritmo (è più facile mandare a memoria i versi anziché la prosa), le domande e le risposte (Sal 34,13 ss.; ricordiamo i catechismi tradizionali composti in vista della memorizzazione).

I discepoli di Gesù erano intrisi di questa cultura della memoria e della tradizione. E ancora: uno studio formale della tradizione evangelica mostra che, in larga misura, essa è stata composta in modo tale da poter essere facilmente memorizzata e fedelmente trasmessa. Gesù non impiega un linguaggio formalmente teologico, che definisce, distingue e concettualizza. Egli usa immagini, metafore, simboli, espressioni enigmatiche e pregnanti. Il suo è un modo di parlare plastico e immaginoso, che s’imprime nella memoria più facilmente delle astrazioni. Il linguaggio di Gesù è poetico. Gesù muove da un’esperienza personale della vicinanza di Dio, non è un esegeta della legge, ma un esegeta di Dio e si esprime in linguaggio poetico perché la realtà gli parla di Dio e Dio illumina la realtà. Questo linguaggio non è un semplice ornamento letterario di concetti, ma l’espressione spontanea di esperienze profonde non comunicabili altrimenti. Perciò il mistico è poeta quando descrive l’esperienza intima di Dio. Del resto i momenti culminanti della rivelazione nella Bibbia (pensiamo a numerosi passi profetici) sfociano in espressioni poetiche.

Benché non si disponga dell’originale aramaico, non si è mancato di studiare il linguaggio poetico di Gesù: ne risulta che egli ricorre a diverse forme di parallelismo, un procedimento tecnico fondamentale della poesia ebraica.

Un’altra situazione che richiedeva la conservazione e la trasmissione di parole era la vita interna del gruppo composto da Gesù e dai discepoli, che si differenziava sociologicamente da altri gruppi giudaici. Non si deve pensare a norme precise come la regola di Qumran, ma a numerose parole di Gesù che definiscono lo stile di vita dei suoi discepoli e i rapporti che devono sussistere tra loro. Si possono così citare detti sulla sequela e la perseveranza (Lc 14,2.6; 9,62), sulla ricompensa promessa a coloro che lo seguono (Mc 10,28-29), sulla disponibilità a servire (Mc 10,43-44) e a perdonare (Mt 6,14), sulla fiducia nel Padre in ogni circostanza (Mt 6,2.5-33) ecc.

Insomma, l’inizio della tradizione dei detti di Gesù deve la sua origine al gruppo prepasquale, alle particolari esigenze di due situazioni tipiche: la missione prepasquale dei discepoli e la vita interna del gruppo. Come afferma H. Schürmann: “Gli inizi della tradizione dei logia devono cercarsi nella cerchia dei discepoli immediati di Gesù e, quindi, in Gesù stesso”.

Una tradizione di detti di Gesù era coltivata già prima della pasqua. Lo stesso non si può dire della tradizione narrativa. Dunque prima della pasqua esistevano tradizioni narrative intorno a Gesù, anche se non si trattava di una tradizione coltivata in modo esplicito e accompagnata dai procedimenti tecnici utilizzati per la tradizione dei detti. Solo dopo la pasqua si può parlare della coltivazione di una tradizione narrativa su Gesù.

 

4. La comunità postpasquale: la tradizione reinterpretata alla luce dell’esperienza pasquale

 

4.1 Fedeltà e attualizzazione della tradizione

La comunità postpasquale ha sentito la necessità di conservare con cura quella tradizione dei detti di Gesù che aveva incominciato a formarsi; essa è interessata soprattutto alla trasmissione fedele della tradizione e al legame tra il Gesù storico e il Risorto, il Vivente presente tra i suoi. Per questo ricerca il significato ‘attuale’ del passato e non si accontenta di una mera ripetizione meccanica. La fedeltà al passato è inseparabile dalla libertà di renderlo rilevante nel presente. Questo è un carattere peculiare della tradizione evangelica che non si riscontra, almeno non nella tessa misura, nella tradizione rabbinica. Una tradizione che non tenesse conto dell’azione presente del Risorto e non fosse diretta dallo Spirito rimarrebbe lettera morta (cf 2Cor 3,6); sarebbe come la tradizione rabbinica. Se d’altra parte la tradizione si fondasse solo sulla pasqua e la pentecoste e non fosse vincolata al Gesù terreno e ai suoi discepoli più vicini, non sarebbe fondata sulla storia. L’autentico concetto cristiano di tradizione deve evitare entrambi gli unilateralismi, che riappaiono spesso nel corso della storia.

Numerosi fattori sociali richiedevano l’adattamento e l’attualizzazione della tradizione evangelica. La traduzione dall’aramaico in greco implicava un adattamento linguistico. Era poi necessario un adattamento sociale in quanto certe tradizioni sorte nel mondo rurale palestinese dovevano adeguarsi alla civiltà urbana (il cristianesimo si diffuse nel bacino del Mediterraneo particolarmente in grandi città come Corinto, Efeso e Antiochia). Inoltre era inevitabile un adattamento culturale, per la diversità dei costumi semitici della Palestina da quelli in uso nei grandi centri ellenistici; così, per esempio, la versione marciana dei detti di Gesù sul divorzio tiene conto non soltanto della possibilità che l’uomo abbandoni la moglie (così la versione più semitica di Mt 19,9 e 5,31-32.), ma anche dell’eventualità che la moglie lasci il marito, il che corrispondeva ai costumi romani (Mc 10,11-12). L’esistenza di nuove comunità cristiane con problemi e situazioni particolari rese necessario un adattamento ecclesiale. Si può confrontare, per esempio, la versione della parabola della pecorella smarrita in Lc 15,4-7 con Mt 18,12-13. In Luca la parabola è diretta contro gli scribi e i farisei, che criticano Gesù perché mangia con pubblicani e peccatori (1,1), e tende a giustificare il comportamento di Gesù. In Matteo è rivolta ai discepoli (18,1) e intende insegnare il comportamento da adottare verso i piccoli nella comunità cristiana (18,6.10.14), vale a dire verso i membri più poveri.

La preoccupazione di mantenere saldo il legame con la tradizione può essere riscontrato nell’uso della formula “ricevere” (paralambanein) / “consegnare” (paradidonai, che corrisponde a un’espressione tecnica ebraica usata per indicare la fedeltà alla tradizione (qibbel min/masar le). Paolo vi ricorre per trasmettere due tradizioni particolarmente care, il credo primitivo basato sulla morte e risurrezione di Gesù (1Cor15,3) e l’istituzione dell’Eucaristia (1Cor 11,23). Nell’espressione “io ho ricevuto dal Signore quel che vi ho trasmesso” il termine Signore esprime la confessione di fede nel Risorto (Signore = Kurios è il Risorto) ma indica qui il Gesù terreno, come si vede nel seguito “il Signore Gesù, nella notte in cui veniva consegnato”. Possiamo fare la stessa constatazione in passaggi analoghi in cui Paolo impiega il titolo “Signore” nel trasmettere prescrizioni risalenti a Gesù (cf 1Cor 1,10; 9,14).

 

4.2.  Il ricorso alla Scrittura

Non è possibile comprendere la comunità postpasquale senza fare almeno un cenno alle  concezioni dell’ambiente giudaico che collega l’Antico Testamento con il Gesù in cui essa crede.

Per gli ebrei la Scrittura ha un’autorità suprema come parola di Dio. Secondo un detto famoso, “nella Scrittura ci sono settanta volti” e con ciò si allude alla pluralità dei suoi significati. Si dice inoltre che “ciò che non è nella torà, non è nel mondo”, ossia tutto è compreso nella Bibbia ed essa può gettar luce su qualsiasi circostanza della vita; il difficile è scoprire questa luce. Ciò spiega la costante interrogazione dei testi propria della religiosità giudaica. Questa attitudine favorì la cosiddetta esegesi derashica (deraš = cercare, indagare), che si basa su di una serie di tecniche per interpretare e attualizzare i testi. I principi fondamentali sono due: l’unità di tutta la Scrittura e la necessità di spiegare qualsiasi testo della Scrittura ricorrendo ad altri passi della Scrittura stessa. Questo metodo comporta che testi assai disparati siano messi in relazione e servano l’uno a interpretare l’altro, sulla base degli indizi più diversi. Non si tratta qui di discutere il valore dell’esegesi derashica; quel che importa è comprenderne la dinamica interna e la considerazione del testo biblico che essa implica.

I primi cristiani affrontano il testo biblico con l’attitudine interpretativa giudaica e le relative tecniche, cercandovi lumi sulla persona e l’opera di Gesù e, d’altronde, proiettando sulla loro ricerca derashica la luce nuova offerta dalla morte e risurrezione di Gesù.

Risulta con evidenza che nel cristianesimo primitivo si dispiegò un’attività di studio e di riflessione senza la quale non si può intendere la conservazione e l’elaborazione della tradizione evangelica. In termini rigorosi si può dire che l’attività teologica ed esegetica, esplicita e riflessa, fu praticata nella comunità postpasquale sin dal primo momento. Trattandosi di ebrei osservanti, essi erano obbligati a rileggere la parola di Dio e a esaminarla secondo il metodo derashico a partire da Gesù, che per loro costituisce il dato di partenza. È probabile che in un primo momento Gesù e i fatti della sua vita siano stati visti genericamente come compimento dell’Antico Testamento (Mc 14,49). Soprattutto la sua morte, ma ancora in modo generico, viene interpretata alla luce della Scrittura, come mezzo per superare lo scandalo che implicava (cf il credo primitivo di 1Cor 15,3-4). Per questa ragione il racconto della passione è ricco di allusioni all’Antico Testamento, che non arrivano alla citazione esplicita; in particolare, ma non solo, si trovano allusioni al Salmo 22 per presentare Gesù come il vero giusto che soffre ingiustamente, riscattato però da Dio (Mc 15,14 e Sal 22,19; 15,29 e Sal 22,8; 15,34 e Sal 22,34).

Non è eccessivo affermare che il riferimento all’Antico Testamento è una dimensione presente in tutti i testi evangelici, poiché sia per quelli che sono all’origine della tradizione — Gesù e la comunità prepasquale — sia per quelli trasmessi nei vari stadi della tradizione, era fondamentale interpretare ogni episodio come compimento del piano di Dio. Dunque un momento molto utile nell’interpretazione di qualunque testo evangelico è la ricerca del retroterra veterotestamentario tenendo conto anche delle tecniche derashiche giudaiche e dell’interpretazione dell’Antico Testamento nel giudaismo intertestamentario.

 

4.3.  Coltivazione di tradizioni narrative su Gesù

Dopo la pasqua divenne assai più chiara l’importanza della persona di Gesù e l’inseparabilità della sua persona e della sua dottrina. D’altra parte, quanto più si avvertiva l’assenza fisica di Gesù, tanto più acquisiva valore il mantenimento dei ricordi della sua vita.

Fra le tradizioni narrative si segnala, anzitutto, la passione, un racconto molto antico, di carattere unitario e che, probabilmente, fu il primo a essere messo per iscritto. Proprio perché si tratta di una narrazione continua e unitaria, la passione ha una trama ovvero una connessione causale degli eventi, in cui intervengono gli interessi e le motivazioni dei personaggi (Gesù, sommi sacerdoti, il prefetto romano Pilato, il popolo), i conflitti, l’epilogo. La trama cattura l’interesse del lettore, che ne coglie il filo, scopre le possibilità che si aprono ed è coinvolto nella lettura. La trama della passione doveva avere una funzione essenziale per l’esistenza e l’organizzazione del racconto evangelico nel suo insieme.

 

 

 

4.4. Le diverse attività della comunità postpasquale

La comunità postpasquale conserva, rielabora e trasmette la tradizione evangelica nell’ambito delle molteplici attività che ne costituiscono la vita. Le informazioni di cui disponiamo sono sufficienti a conoscere le più importanti.

Nella comunità esisteva la catechesi. Questa è una constatazione che si deduce facilmente dagli Atti degli Apostoli (“perseveravano continuamente nell’insegnamento degli apostoli”, 2,42). Molti testi dei sinottici presentano caratteristiche che ne evidenziano l’uso nella catechesi primitiva; per esempio la sintesi di morale evangelica del discorso della montagna di Mt 5-7.

Un’altra attività della comunità fu l’annuncio del vangelo prima ai giudei, poi ai gentili, ossia la predicazione missionaria. Già prima della pasqua ci si serviva di compendi dell’insegnamento di Gesù per l’attività missionaria. Queste tradizioni, dopo la pasqua, vennero conservate e sviluppate (Mc 6,6-10; Mt 10; Lc 9,1-6;10,1-16), mentre altre ne nacquero con caratteristiche spiccatamente cristologiche, come quelle presenti nei discorsi missionari degli Atti.

La comunità si trovò coinvolta in numerose controversie su diversi fronti: dispute fra gruppi cristiani differenti, con l’ambiente pagano, con le autorità civili e con il giudaismo. Nei vangeli sono frequentissime le dispute di Gesù, alle quali si faceva ricorso, in buona misura, per spiegare il comportamento conflittuale della comunità. Basti pensare alla polemica sul condividere la mensa con quelli che la mentalità giudaica riteneva impuri (Mc 2,13-17 par.) o sul digiuno (Mc 2,18-22) o ancora sui limiti del riposo sabbatico (Mc 2,23-28).

La comunità postpasquale, composta da giudei pii, osservava le pratiche pie giudaiche (Atti 2,46; 3,1). Aveva però anche una forma propria di culto, incentrato sulla “frazione del pane” (Atti 2,42). Alcune tradizioni evangeliche furono trasmesse nel contesto liturgico, il che è facilmente provato dalle caratteristiche letterarie imposte da questo impiego (solennità, schematismo; Mc 14,22-25 par.; Mt 6,9-13; Lc 11,2-4).

Tutte le suddette attività influirono sulla configurazione della tradizione. Per la comunità postpasquale un fatto del passato è il punto di partenza della propria identità: Gesù di Nazaret. La fede postpasquale riconosce nel crocifisso, e in nessun altro, il Risorto ed esige fedeltà alle sue parole e gesti.

 

4.5.  La complessità della tradizione: pericopi isolate e ampi blocchi, tradizione orale e scritta

Si è osservato come una prima lettura dei vangeli riveli l’esistenza di pericopi che sembrano relativamente autonome. In effetti, si può incontrare una stessa pericope in luoghi distinti nei diversi vangeli (Mc 11,15-17 e Gv 2,13-17; Mt 6,9-13 e Lc 11,2- 4); inoltre il collegamento tra le pericopi sembra spesso vago e incerto. Queste pericopi furono trasmesse in un primo momento oralmente e, in molti casi, in forma isolata. La ricerca moderna ha studiato a fondo queste piccole unità cercando di classificarle secondo la ‘forma’ letteraria (ovvero secondo le loro caratteristiche letterarie) e di scoprire l’uso e l’evoluzione di ogni forma nella vita della comunità primitiva. Ma la tradizione era costituita anche da blocchi di una certa estensione e relativamente unitari, incorporati dagli evangelisti nelle loro opere e facilmente individuabili (raccolta di controversie: Mc 2,1-3,6 e Lc 5,17-6,11 e Mt 9,1-17 + 12,1-14; parabole: Mc 4,1-34; miracoli: Mc 4,35-5,43; Lc 8,22-56 e Mt 8,23-34 + 9,18-26): si tratta, per lo più, di raccolte di pericopi affini. Si è osservato che il racconto della passione si segnala per estensione, antichità e unità. Analogamente a quanto si fa per le “forme” isolate, è possibile studiare queste raccolte o blocchi più estesi dal punto di vista letterario. La tradizione evangelica fu trasmessa all’inizio in forma orale. Non si tratta però di un ambiente di oralità pura. La cultura orale giudaica si esprimeva in un contesto in cui testi scritti erano noti e diffusa era la pratica della scrittura. La memorizzazione di un testo puramente orale è ben diversa quella di uno scritto o dell’interpretazione di uno scritto. La messa per iscritto della propria tradizione da parte delle comunità cristiane risale ad epoca antica. Questo avveniva in quanto si andavano formando raccolte più estese e si accentuava il desiderio di non perdere nulla per assicurarne la trasmissione.

La trasmissione della tradizione evangelica fu dunque un processo assai complesso, avvenuto all’interno di comunità vive e organizzate, ma in corso di rapida evoluzione e differenziazione. Furono trasmesse pericopi isolate e raccolte o blocchi di una certa ampiezza. La messa per iscritto non implicò la sparizione automatica della tradizione orale: entrambe coesistettero a lungo ed ebbero influssi reciproci. Allo stesso modo si scambiavano e influivano l’una sull’altra le tradizioni delle varie comunità.

 

5. La redazione dei vangeli sinottici

La terza fase nella nascita dei vangeli sinottici è la redazione dei testi a noi noti. Gli evangelisti raccolgono e trasmettono la tradizione evangelica esistente nella chiesa ma sono, talvolta, veri e propri autori. Da una parte compilano la tradizione che aveva avuto origine in Gesù e nei discepoli, conservata e rielaborata nella comunità postpasquale. Da questo punto di vista gli evangelisti sono i portavoce delle chiese cui appartengono e i vangeli sono libri della chiesa: infatti in essi è stato raccolto quel che essa ha trasmesso e rielaborato nella sua vita e inoltre la chiesa si riconosce in queste opere e non in altre. D’altra parte gli evangelisti sono veri e propri autori, perché hanno un proprio stile letterario, una maniera propria di modellare, selezionare e ordinare la tradizione, una propria ottica teologica; ciascuno di essi riflette una propria esperienza di Gesù e una peculiare risposta alle necessità della propria comunità.

La chiesa cattolica, nel suo magistero più solenne, ha accolto in pieno le tre tappe che l’investigazione moderna individua nella genesi dei vangeli, presentate in questa sezione. Il concilio Vaticano II fu preceduto da vivaci dibattiti intorno a questi problemi. Nell’aprile del 1964 apparve l’istruzione Sancta Mater Ecclesia della Pontificia Commissione Biblica, sull’origine e la natura dei vangeli, la cui dottrina doveva essere ripresa, Poco dopo, dalla costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione del Vaticano II (novembre 1965). Il paragrafo, assai denso e conciso, che si riferisce ai vangeli, è il seguente:

«La santa madre chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e con ininterrotta costanza che i quattro vangeli sopraindicati, dei quali afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (Atti 1,1-2). Gli apostoli poi, dopo l’ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva detto e fatto, con quella più completa intelligenza di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dalla luce dello Spirito di verità, godevano. Gli autori sacri, poi, misero per iscritto i quattro vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte tramandate a voce o già messe per iscritto, di altre raccogliendo una sintesi o spiegandole tenendo presente la situazione delle chiese, conservando infine il carattere di predicazione, sempre però in modo tale da riferirci su Gesù cose vere e autentiche. Essi scrissero, infatti, attingendo sia dalla propria memoria e dai propri ricordi sia dalla testimonianza di coloro che ‘ne furono testimoni fin dal principio e divennero ministri della parola’, scrissero con l’intenzione di farci conoscere la ‘verità’ (cf Lc 1,2-4) degli insegnamenti sui quali siamo stati istruiti» (DV 19).

Il lavoro degli evangelisti viene descritto nei seguenti termini:

Selezionare dati della tradizione orale o scritta. Sia Giovanni (20,30-31; 21,25) sia Luca (1,1-4) fanno chiaramente capire di essersi basati su diverse fonti e informazioni e di non avere la pretesa di dire tutto, ma di aver operato una selezione in funzione dei propri obiettivi.

Compiere sintesi come, per esempio, quella che Matteo fa dell’insegnamento morale di Gesù nel discorso della montagna (cpp. 5-7). È chiaro che Matteo ha compiuto questa sintesi raccogliendo fonti, rielaborandole e riordinandole creativamente.

Adattare la tradizione ricevuta alle situazioni delle diverse chiese. Ricordiamo come Matteo (18,12-14) e Luca (15,4-7) riprendano la stessa tradizione — la parabola della pecorella smarrita —, ma la utilizzino in maniera diversa in funzione delle necessità delle rispettive comunità.

Conservare lo stile della predicazione. L’obiettivo degli evangelisti non era fornire informazioni storiche o compilazioni esaurienti, ma offrire alla chiesa la base della fede e della vita cristiana.

Sorgono a questo punto alcuni problemi: qual è la natura delle opere dei redattori? quale finalità perseguivano? E ancora: perché gli evangelisti riprendono la tradizione evangelica precedente proprio nella forma di una vita di Gesù? Seguono un modello letterario preesistente? O è la dinamica stessa di questa tradizione ecclesiale che, sviluppandosi a partire dalla proprie potenzialità, ebbe come risultato la configurazione letteraria che conosciamo?

 

 

6. Natura dei Vangeli Sinottici

 

6.1. I vangeli sono testi narrativi

Un primo aspetto da prendere in considerazione è che i vangeli sono testi narrativi che presentano la vita di Gesù e il suo insegnamento.

Sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento vi sono testi argomentativi (ad esempio Rom 4,1-17), appellativi (Es 20,1-17), esortativi (Rom 12,1-21), poetici ecc. Ma quanto vi è di più specifico nella fede biblica è espresso in forma narrativa. Di fronte all’agire imprevedibile e unico di Dio nella storia è possibile solo la narrazione, il racconto. Il “credo” israelitico narra ciò che Dio ha compiuto nella storia a favore del suo popolo (Deut 26,5-9). Trasmettere eventi ed esperienze storiche è il tratto caratteristico della narrazione. “Narratività” e “storicità” sono termini correlati se si intende per storicità la descrizione di eventi situati nel tempo e nello spazio. La comparazione tra i vangeli sinottici e il vangelo di Tommaso, un’opera gnostica del secolo II, può essere istruttiva. Quest’ultimo inizia così:

Queste sono le parole segrete che pronunciò Gesù il Vivente e che Didimo Giuda Tommaso tramandò per iscritto. E disse: Chi trova il senso di questa parole non gusterà la morte.

Seguono 114 frasi, per lo più introdotte dall’espressione “disse Gesù”, ma senza alcuna struttura narrativa. Ciò significa che nel vangelo Tommaso troviamo una raccolta di parole di Gesù ma non un vangelo nel senso dei quattro canonici.

Il carattere narrativo è molto evidente in Marco, probabilmente il vangelo più antico: in esso le parole di Gesù sono molto più rare che in Matteo e Luca (costituiscono il 20% circa del totale dell’opera).

Un elemento letterario fondamentale della narrazione è la trama, l’intreccio. È la connessione interna che mette in relazione i personaggi le loro motivazioni, atteggiamenti e rapporti, i loro conflitti; la trama implica una relazione causale tra gli eventi, verisimili, sebbene anche contingenti, in quanto storici e frutto della libertà umana. Leggere un testo narrativo significa scoprire il filo o, meglio, i fili che costituiscono il testo (il latino textum significa tessuto; il testo è un tessuto) e seguirne gli intrecci. È ovvio che la trama si coglie soltanto quando si legge un vangelo dall’inizio alla fine come un’opera unitaria.

La trama narrativa, simile nei tre sinottici, si basa su alcuni personaggi (Gesù, i discepoli, i farisei e le autorità giudaiche, Pilato, il popolo); ha un inizio (il ministero di Gesù in Galilea), uno sviluppo (l’eco popolare che suscita, l’incomprensione, l’ostilità crescente da parte delle autorità, l’aggravamento del conflitto, l’approfondirsi dell’insegnamento, la decisione di andare a Gerusalemme, il viaggio e lo scontro in città) e un epilogo (il conflitto sfocia nella passione e morte in croce di Gesù, seguita dalla risurrezione). Questa trama coinvolge l’interesse del lettore che trova connessioni contingenti, sorprese e personaggi che lo attraggono o provocano in lui rifiuto.

Qual è l’origine della trama evangelica? Le pericopi isolate e i blocchi più ampi della tradizione evangelica non avevano una trama o un intreccio veri e propri, mentre lo aveva l’antichissimo racconto della passione che, appunto per questo, possedeva un carattere eminentemente narrativo, ampio, unitario e ben connesso. Con ogni probabilità questa trama di racconto si è estesa in seguito alla vita di Gesù dagli inizi, in modo tale che con tutta una serie di tradizioni preesistenti è stato costruito un racconto coerente, percorso da una trama “in crescendo” fino a sfociare nella passione-morte-risurrezione.

Risale a M. Kähler, studioso del secolo scorso, una frase che ha avuto molto successo: “I vangeli sono il racconto della passione con un’ampia introduzione”. Dal punto di vista quantitativo questo giudizio è eccessivo. Tuttavia resta vero che il racconto della passione ha avuto la funzione fondamentale di strutturare la trama che presiede alla narrazione evangelica nel suo insieme.

 

6.2. I vangeli sono narrazioni teologiche

I vangeli non sono narrazioni di pura finzione né tanto meno cronache storiche del passato. Sono narrazioni teologiche in quanto scoprono nella vita di Gesù l’azione di Dio e il compimento dell’Antico Testamento. Un semplice cronista non potrebbe mai farlo. I vangeli sono testi religiosi che partono dalla fede nel Dio della Bibbia e in Gesù Cristo.

Gli evangelisti sono sulla linea della tradizione storiografica giudaica, cui si deve la Bibbia, che scopre l’azione di Dio nella storia. Essi scoprono e narrano l’azione storica di Dio nella vita di Gesù di Nazaret e partono dalla fede in Cristo risorto.

I vangeli sono narrazioni di Gesù con una trama che sfocia nella croce; al tempo stesso sono professioni di fede sulla presenza attuale del Signore risorto nella comunità mentre rivolge a essa la sua parola. Nei vangeli il Signore risuscitato parla oggi alla comunità, ma attraverso la vita e le parole del Gesù del passato che finì sulla croce. La luce della pasqua illumina tutto il racconto evangelico, ma soltanto il cammino che porta alla croce — la narrazione di Gesù — consente di giungere alla pasqua e di comprendere il Risorto. A partire da Bultmann si è spesso ripetuto che i vangeli sono scritti alla luce della risurrezione, ma bisogna anche aggiungere che sono scritti ai piedi della croce e per non dimenticarla. Gesù è il Signore risorto e glorificato ma non c’è Signore risuscitato senza Cristo crocifisso.

Una certa fusione di orizzonti si produce tra il passato di Gesù e il presente del Signore risorto e così la narrazione evangelica cerca di rendere presente ciò che narra. Sappiamo già che, nel corso della loro trasmissione, vi è uno sforzo costante per attualizzare le tradizioni in modo che acquistino rilevanza nel presente. Gli evangelisti selezionano i propri materiali, li modificano, inseriscono aggiunte, li rielaborano essi tendono a comporre un racconto che interpelli e introduca il lettore nella narrazione.

Abbiamo già osservato come nei vangeli si possano riscontrare tre preoccupazioni simultanee che presiedettero anche alla trasmissione della tradizione:

1. evocare in maniera soddisfacente la storia passata di Gesù. Il legame con le parole e le opere di Gesù era una preoccupazione costante;

2. attualizzare per il presente la tradizione ricevuta. Quel che interessa è il significato attuale di questa storia, perché il Gesù del passato è il Signore risorto e presente;

3. il rapporto con la Scrittura. La tradizione viene costantemente reinterpretata alla luce dell’Antico Testamento che, per i primi cristiani, è parola di Dio, e ciò è attuato secondo i vari metodi dell’esegesi giudaica.

Evocazione della storia passata (è Gesù di Nazaret, il crocifisso), attualizzazione (è il Signore glorioso) e ricorso alla Scrittura (è l’atteso, il promesso, il figlio inviato da Dio) sono le tre dimensioni permanenti del racconto evangelico e di ciascuno dei testi che lo compongono, per quanto siano articolate diversamente secondo il particolare carattere letterario e teologico di ognuno di essi.

 

6.3. vangeli non sono cronache storiche, benché siano basati sulla storia

È chiaro che i vangeli non sono relazioni storiche né cronache del passato. Non sono nemmeno biografie nel senso moderno: non descrivono il carattere del personaggio né la sua evoluzione né tutti i dettagli della sua vita a partire dagli antecedenti familiari e della sua infanzia.

Spesso la nostra curiosità storica resta frustrata dai vangeli. Come finì il rapporto di Gesù con i suoi parenti che ritenevano fosse fuori di sé (Mc 3,21)? Giovanni Battista invia dal carcere i suoi discepoli a interrogare Gesù; nutre egli stesso dubbi se sia davvero lui il messia (Mt 11,2-5)? E tante altre domande che sorgono spontaneamente.

I vangeli tuttavia sono fondati su dati reali e pretendono di trasmettere con fedeltà parole, fatti ed eventi della vita di Gesù. La ricerca attuale considera ingiustificato lo scetticismo della ricerca della prima metà del secolo XX sul valore storico dei vangeli e sulla possibilità di accedere al Gesù terreno per loro tramite. Si è già detto come e quanto la tradizione evangelica abbia sempre avuto una volontà esplicita di garantire la fedeltà del legame con Gesù.

Affermare che “non è possibile scrivere una vita di Gesù” è ormai un luogo comune. Questa idea nacque come reazione alle intenzioni, assai diffuse tra la fine del XIX e la prima parte del secolo XX tra i conservatori e tra i critici, di scrivere “vite di Gesù” utilizzando i vangeli come fonti storiche. Da questo punto di vista, la frase citata sopra è giustificata: i vangeli non sono cronache storiche né è possibile scrivere una biografia di Gesù con il rigore e la completezza di una biografia moderna. Ma è subito da aggiungere che per nessun giudeo dell’epoca si dispone di informazioni tanto numerose e credibili quante se ne hanno per Gesù. Esiste una quantità di notizie sul conflitto e sulla morte di Gesù (la ricerca storica deve incominciare da qui), sul suo messaggio, le sue azioni, il suo rapporto con il giudaismo ecc., che si possono sostenere attualmente con ragionevole sicurezza.

 

6.4. Finalità dei vangeli

Sintetizzo in tre punti:

1) Suscitare e rafforzare la fede delle comunità cristiane

Giovanni lo afferma esplicitamente: “Questi (segni) sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il figlio di Dio, e perché credendo abbiate vita nel suo nome” (Gv 20,31). I vangeli sono scritti per credenti e intendono irrobustire la fede dei credenti. Si tratta di una letteratura confessionale indirizzata all’interno della comunità e non a coloro che le sono estranei (lo stesso vale, probabilmente, per tutto il Nuovo Testamento). Anche Luca lo conferma dichiarando nel prologo la finalità della propria opera: “...perché tu conosca la solidità degli insegnamenti che hai ricevuto”, 1,4; vale a dire, l’intento è quello di dotare di solide basi la dottrina già accettata.

I vangeli sono documenti intraecclesiali che però contengono la chiamata alla conversione. Intendere questo punto non è difficile. Nella chiesa primitiva c’erano paterfamilias che si erano convertiti al cristianesimo, il che, di norma, comportava la conversione dell’intera famiglia. Queste famiglie cristiane costituirono la struttura fondamentale ella chiesa («chiese domestiche»). Si davano tuttavia casi di membri che non avevano compiuto una scelta definitiva. A questi è rivolta la chiamata alla conversione. Ma, evidentemente, non è tutto: l’approfondimento nella fede e la coerenza con essa nella vita è un processo permanente. I testi evangelici intendono promuovere questo processo di conversione continua di ogni cristiano e delle comunità.

2) Fare della vita di Gesù il paradigma di comprensione delle sue parole

I vangeli fanno della vita di Gesù il contesto in cui bisogna situare e intendere le sue parole. Si è ricordata sopra la diversità rispetto al Vangelo di Tommaso, che è una raccolta di parole di Gesù priva di una qualsiasi trama narrativa. Per i vangeli canonici la vita di Gesù è il principio ermeneutico delle sue parole, perché l’adesione alle sue parole è inseparabile dalla sequela della sua vita. La fede cristiana non è un semplice contenuto dottrinale, poiché questa dottrina è indissolubilmente legata alla persona che la proclama. Per dirla in termini ancora più precisi: l’adesione al Risorto non può essere separata dalla sequela del crocifisso.

Venne un momento in cui non bastavano più pericopi isolate, né blocchi più ampi ma parziali, e si costruì un racconto che abbracciava tutta la vita di Gesù e la cui trama — particolarmente conflittuale — sfociava nella morte di Gesù in croce. Sorge spontanea una domanda: perché in un momento determinato, intorno all’anno 70, sorgono questi racconti che chiamiamo vangeli e che non erano esistiti sino ad allora? Caratteristica peculiare dei vangeli è il loro carattere narrativo, in grado di sviluppare tutta la vita di Gesù fino alla sua scandalosa conclusione. La narrazione rivendica questa storia passata ed evita che sia dimenticata. I vangeli intendono portarci fino alla croce (questa è la trama) e dirci che il figlio di Dio si incontra nella croce e nella storia che essa necessariamente implica (cf Mc 15,39).

I vangeli intendevano combattere una spiritualità tanto entusiasta, tanto affascinata dall’esperienza del Signore glorioso e dai doni dello Spirito, da considerare totalmente superato, residuo di una mentalità terrena e imperfetta, ogni riferimento al Gesù terreno? In effetti è probabile che la rivendicazione della storia di Gesù sostenuta dalle narrazioni evangeliche non mirasse soltanto a impedire che lo scorrere del tempo portasse a dimenticarla ma, anzitutto, a contrastare una spiritualità e una teologia che, in nome della pasqua e della risurrezione, prescindevano dal Gesù terreno, dalla croce e dalle esigenze storiche che questa comportava.

 

3) Visione equilibrata e sintetica,dal punto di vista letterario e teologico, sia della persona e dell’opera di Gesù sia del legame dei discepoli con lui

 

I racconti evangelici sono caratterizzati dalla fusione di tradizioni diverse, integrate in una visione unitaria che evita gli unilateralismi e, perciò stesso, gli errori cui era esposta ogni tradizione presa isolatamente.

«Tratto caratteristico dei vangeli canonici è l’intento di evitare la deformazione riduzionista che vede la presenza di Dio in Gesù in un modo solo, e insieme l’intento di favorire una comprensione ampia ed equilibrata, sia della presenza divina sia del discepolato che essa suscita» .

I vangeli canonici, da un punto di vista letterario, si articolano come una visione completa della vita pubblica di Gesù. Ciò consente loro d’includere raccolte parziali e, allo stesso tempo, di reinterpretarle criticamente in profondità. Il racconto della passione fornisce la trama letteraria e i1 principio teologico fondamentale.

 

6.5. La pluralità dei vangeli

I vangeli di Matteo, Marco e Luca presentano grandi somiglianze ma non sono copie l’uno dell’altro. Sono detti vangeli sinottici, parola che etimologicamente significa “con uno sguardo” (syn-opsis) perché, in effetti, i loro testi sono di natura tale che possono essere disposti su colonne parallele, cosicché appaiano in modo rapido e chiaro le affinità e le differenze. Per uno studio serio è imprescindibile l’uso di una smossi dei vangeli. Il “problema sinottico” è stato molto studiato nell’intento di scoprire le relazioni letterarie, esistenti tra questi tre vangeli e di fornire una spiegazione soddisfacente di questo strano fenomeno.

Già da subito però si deve tener conto delle implicazioni che comporta la molteplicità dei vangeli. Indubbiamente vi è una qualche relazione letteraria, mediata o immediata, tra i sinottici. Ciò significa che nella chiesa primitiva le narrazioni su Gesù venivano riscritte. Veniva compiuto uno sforzo continuo di fedeltà e attualizzazione Non bastava una ricezione passiva: ci si sforzava di rielaborare e completare sulla base della propria esperienza. I testi e le tradizioni si influenzavano reciprocamente. Si ripeteva, fino a un certo punto, un fenomeno che aveva interessato il pop1 giudaico. Anch’esso riscriveva la storia: ricordiamo come il Cronista giunge a riscrivere, dalla sua ottica più tarda e sacerdotale, la storia narrata secoli prima dal Deuteronomista. Matteo e Luca, probabilmente, lavorarono sul testo di Marco e lo riscrissero, con nuovi contributi, in funzione delle necessità delle loro comunità.

La chiesa accettò sempre la pluralità dei vangeli e si oppose ai tentativi di limitarsi a uno solo o di comporre un racconto che fosse una sintesi di tutti. La prima di queste possibilità fu messa in pratica da Marcione (85-160) che accettava soltanto una versione ridotta di Luca; egli raggiunse una grande influenza ed ebbe numerosissimi seguaci. La seconda fu rappresentata dal Diatessaron dell’autore siriaco Taziano (seconda metà del sec. II), che ebbe grande influenza. Il Diatessaron è un’armonizzazione dei vangeli, che dispone testi presi dai quattro canonici in un’unica storia continuata. Questo testo prevalse in molte chiese ed ebbe numerose traduzioni. La traduzione latina fu compiuta in data molto antica e rappresentò il primo abbozzo di vangelo in questa lingua. Il Diatessaron però non riuscì a soppiantare il «vangelo tetramorfo ».

Indubbiamente la pluralità di testi evangelici presuppone una ricchezza teologica. Sappiamo per esperienza che è molto meglio contare su quattro versioni di un evento anziché su di una sola. Ciascun evangelista vede Gesù e il suo messaggio da una prospettiva propria e in funzione delle necessità della propria comunità. Per questo è fondamentale cogliere le differenze esistenti tra i sinottici. Dietro la loro apparente somiglianza si nascondono teologie e chiese diverse. La chiesa, proprio perché colse e valorizzò questa diversità, mantenne con accanimento la pluralità di testi evangelici, anche nel culto.

Il «vangelo tetramorfo» ci parla della ricchezza, della pluralità e insieme, dell’apertura alla comunione e all’unità: nessuna versione esaurisce la ricchezza di Gesù e del suo messaggio e, perciò, tutte sono aperte, per principio, ad altre versioni e interpretazioni. Vi sono apocrifi che sviliscono l’«unico vangelo» di Gesù Cristo con sviluppi fantasiosi e la chiesa ritenne che essi andassero al di là del pluralismo legittimo; d’altra parte ci furono tentativi di eliminare la pluralità limitandosi a un unico testo (così Marcione), ma la chiesa non accettò questo uniformismo, che all’epoca costituì un grave pericolo, il cui ampio successo fu dovuto all’attrattiva esercitata dalla sicurezza della semplificazione.

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO QUARTO

 

LA QUESTIONE SINOTTICA

 

    1. precisazioni terminologiche

 

Premetto il significato di alcune espressioni tecniche.

 

- sinottico. Nel 1770 J. J. Griesbach coniò il termine ‘sinottici’ per definire questi tre vangeli che, posti su tre colonne parallele, possono essere letti simultaneamente (synopsomai = guardare con un solo colpo d’occhio).

- duplice tradizione. Testi comuni a Matteo e a Luca

- triplice tradizione. Testi comuni a Matteo, Luca e Marco

- tradizione semplice. Tradizione presente in uno solo dei vangeli. I tedeschi usano l’espressione tecnica sondergut: patrimonio peculiare

- doppioni. Tradizioni presenti due volte nello stesso vangelo

 

 

4.2  I Tre Sinottici

Fin dall’antichità è stata osservata una stretta somiglianza tra i vangeli di Marco, Matteo e Luca. Nel 1770 J. J. Griesbach coniò il termine ‘sinottici’ per definire questi tre vangeli che, posti su tre colonne parallele, possono essere letti simultaneamente (synopsomai = guardare con un solo colpo d’occhio). Le somiglianze riguardano: il materiale che nei tre sinottici è quasi identico e si differenzia da quello di Giovanni; l’ordine di successione degli avvenimenti (ministero in Galilea, unico viaggio a Gerusalemme, passione e risurrezione, la formulazione talvolta addirittura identica di alcuni detti e anche di alcuni fatti). Proprio la sinossi dei tre vangeli però mette in luce anche divergenze relative a: materiale non presente in tutti e tre o collocato in un ordine diverso o formulato in maniera diversa.

È chiaro che le somiglianze esigono una spiegazione letteraria che può essere fornita solo dalla dipendenza tra gli scritti.

Fra i fenomeni che confermano questa dipendenza letteraria, cinque sono decisivi:

— Il materiale evangelico comune a Matteo-Marco-Luca si sussegue secondo un ordine in larga misura identico; si arriva anche alla sequenza di una quindicina di pericopi.

— Quando l’ordine di successione è diverso fra i tre vangeli si hanno accordi Matteo-Marco o accordi Luca-Marco, praticamente mai accordi Matteo-Luca.

— Persino il materiale evangelico della duplice tradizione si sussegue all’interno di Matteo e di Luca in un ordine in larga misura identico.

— All’interno di Matteo e di Luca i punti di congiunzione tra la triplice tradizione e la duplice tradizione non coincidono mai, salvo quando sono imposti dall’argomento (così nella successione: precursore, tentazioni).

— Il linguaggio di Matteo e di Luca si presenta sistematicamente più corretto di quello di Marco; ma i testi migliorati di Matteo e di Luca si presentano sempre, pericope per pericope, diversi fra di loro! Come, ad esempio Marco 1,40 a confronto con Mt 8,1 e Lc 5,12.

L’ipotesi che ci aiuta a capire meglio la questione sinottica e la cosiddetta ipotesi delle due fonti

L’ipotesi graficamente si presenta così:

 

 

 

Prevalsa già nell’Ottocento, essa è tuttora condivisa dalla grande maggioranza degli studiosi, che a volte, dandola ormai per acquisita, rischiano di applicarla in maniera un po’ meccanica, trascurando quei fenomeni che essa non riesce a spiegare; su questi viceversa fanno leva i suoi oppositori, oggi vivacemente al contrattacco.

Premessa fondamentale, da cui conviene partire, è l’esclusione di una dipendenza di Luca da Matteo o di Matteo da Luca.

 

a. Luca non dipende da Matteo, né Matteo da Luca

Infatti:

1. La completa diversità nei punti di sutura fra la duplice tradizione e la triplice dimostra che sia Matteo che Luca, autonomamente, senza potersi avvalere

del lavoro già fatto dall’altro, hanno unificato due distinti blocchi di tradizione.

2. L’assenza del sondergut matteano in Luca e di quello lucano in Matteo, tenendo conto della tendenza di entrambi a raccogliere con cura i detti del Signore, e mancando plausibili spiegazioni teologiche (trattandosi anzi a volte di temi cari anche all’altro evangelista), non è spiegabile come omissione da parte dell’uno o dell’altro, ma solo come effetto di mancata conoscenza.

3. La presenza continua in Matteo e Luca di formulazioni più corrette di quelle di Matteo ma diverse tra loro. Se Luca avesse conosciuto Matteo (o viceversa) perché non avrebbe dovuto utilizzare le correzioni già fatte?

 

b. La fonte della triplice tradizione è Marco

Esclusa l’utilizzazione di Matteo da parte di Luca o di Luca da parte di Matteo, per spiegare le convergenze nella triplice tradizione si deve ammettere o che Matteo e Luca abbiano utilizzato Marco, o che tutti e tre abbiano utilizzato una fonte comune (Ur-Markus). Questa seconda ipotesi però non è necessaria. La prima, più semplice, e perciò preferibile fino a prova contraria, per non moltiplicare gli enti senza necessità, spiega ottimamente tutti i dati sia sul materiale, sia sull’ordine, sia sulla formulazione:

1. Il materiale. L’assenza in Marco sia della duplice tradizione Matteo-Luca che del Sondergut matteano e lucano, si spiega molto più plausibilmente con aggiunte da parte degli altri due che non con omissioni da parte di Marco.

2. La formulazione generalmente meno corretta in Marco rispetto a Matteo e Luca è spiegabile solo con la priorità marciana: non può essere stato Marco a voler cambiare in peggio!

3. L’ordine di successione. L’indipendenza reciproca tra Matteo e Luca e la dipendenza di entrambi da Marco è la spiegazione più semplice (e perciò preferibile anche se teoricamente non l’unica) sia del dato positivo (il susseguirsi del materiale nello stesso ordine) sia di quello negativo (all’interno della triplice tradizione Matteo e Luca non concordano mai in un ordine diverso da quello di Marco). In concreto poi le inversioni di Matteo rispetto a Marco si concentrano nei cc. 5—10 e sono dovute al desiderio di raggruppare i miracoli in un’unica grande sequenza (Mt 8—9) dopo il discorso della montagna e prima di quello missionario. Quelle di Luca sono poche e tutte facilmente spiegabili: la predica infruttuosa a Nazaret viene anticipata come chiave di lettura di tutto il ministero di Gesù (Lc 4,16-30, cf Mc 6,1-6a); la vocazione dei primi discepoli, che in Marco lascia la strana impressione che essi seguano uno sconosciuto, viene posticipata per farla precedere dall’insegnamento e dal miracolo (Lc 5,1-11, cf Mc 1,16-20); e così via.

 

c. La duplice tradizione deriva da un’altra fonte

Infatti:

1. Non può derivare semplicemente da tradizioni orali: la notevole identità nell’ordine di successione mostra che si trattava di tradizioni già unificate e dunque presumibilmente scritte

2. Non è stata ricavata da Luca in Matteo o da Matteo in Luca.

3. Non deriva, ovviamente, da Marco, in cui non esiste; ma neppure da una fonte premarciana che l’avrebbe contenuta insieme alla triplice tradizione, e dalla quale Matteo e Luca l’avrebbero ripresa mentre Marco l’avrebbe omessa. Infatti, a differenza dei pochi brani Matteo-Marco o Marco-Luca, che si possono spiegare con omissioni di Luca o di Matteo, non è possibile spiegare con un’omissione di Marco tutto questo blocco di materiale Matteo-Luca. Marco non ha prevenzioni nei confronti dell’insegnamento di Gesù, anzi lo sottolinea continuamente; né contiene solo i fatti ma anche vari detti, spesso raggruppati in forma simile a «discorsi». Si tratta dunque di un altro blocco di materiale aggiunto da Matteo e Luca a quello marciano.

Possiamo ragionare anche così: dal momento che una separazione tra questi due blocchi di materiale, in ogni caso, si è verificata, l’alternativa è se attribuirla alla fase orale o alla fase scritta: a una «biforcazione» avvenuta nella tradizione (col diversificarsi delle varie comunità?), o a una mutilazione inflitta da Marco a un testo da lui già trovato con tutto il materiale unificato: ma questa seconda ipotesi è veramente incredibile.

4. Per esclusione dunque si deve ammettere, come unica spiegazione possibile, che Matteo e Luca l’abbiano presa da un’altra fonte,diversa da Marco, anche se a noi non pervenuta. Gli studiosi di lingua tedesca hanno chiamato questo documento semplicemente Quelle (Q) cioè fonte.

5. Una conferma è data dal fenomeno dei «doppioni» soprattutto quando appaiono una volta in mezzo a materiale della triplice tradizione, una volta in mezzo a materiale della duplice tradizione: così per esempio il doppio discorso missionario lucano (Lc 9,1-6; 10,1-16; cf Mc 6,7-13 e Mt 9,35—10,42), il logion della lucerna (Lc 8,16; 11,33; cf Mc 4,21 e Mt 5,15) o quello sul ripudio (Mt 5,31s e 19,9; cf Lc 16,18 e Mc 10,11). Si spiegano col fatto che alcuni elementi erano entrati sia in Marco sia nella Quelle e, quando Matteo e Luca le hanno messe insieme, lo hanno lasciato nei due contesti diversi.

Le varie argomentazioni ci sembrano valide anche autonomamente l’una dall’altra, ancor più se prese cumulativamente. Certo l’optimum sarebbe stato possedere anche la Quelle, ma è il caso piuttosto di sottolineare che le due fonti si potrebbero dimostrare anche se non avessimo neppure Marco: sarebbe sufficiente confrontare Matteo e Luca per constatare la unificazione di due diversi blocchi di tradizione, realizzata però da ognuno dei due autonomamente.

 

In questo capitolo riporto in forma riassuntiva quanto esposto in R.A. Monasterio – A.R. Carmona, Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, Ed. Paideia, Brescia 1995, cap. I.

Cf per esempio l’espressione ‘vangelo di Dio’ in Rm 1,1; 15,16; vangelo di Cristo in Rm 15,19; 1Cor 9,12, 2 Cor 2,12, 9,13).

Cf Mc 1,15; 8,35.

H. Talbert, The Gospel and the Gospels, in J.L. Mays (ed.), Interpreting the Gospels, Philadelphia 1981.

 

Cf V. FUSCO, “La questione sinottica” in: M. LACONI e collaboratori, Vangeli Sinottici e Atti degli Apostoli (Logos vol V) Torino 1994, 84-98. Si vedano anche: R. PENNA, “Il fatto sinottico e le sue soluzioni. Annotazioni in margine ad una nuova Sinossi dei Vangeli”, Lat. 59 (1993) 143-160.

 

Fonte: http://www.niccolov.it/dispense/Sinottici%20capitoli%20III%20e%20IV.doc

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