Teorie evolutive

 

 

 

Teorie evolutive

 

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Teorie evolutive

 

L'EVOLUZIONE E LA SPECIE - IL CONCETTO DI SPECIE

 

Le specie oggi viventi, sia animali che vegetali, sono classificate secondo il metodo introdotto dal fissista Carlo Linneo (1707 – 1778) nel `700 (per una definizione di "fissismo" vedi più avanti). Tale sistema è caratterizzato da una successione di livelli di classificazione che, a partire dal più generale e ampio fino al più particolareggiato, permettono di individuare ogni singola specie. Quest' ultima rappresenta l'unità sistematica fondamentale: un gruppo di individui che sono tra loro interfecondi e danno prole fertile per ogni generazione successiva; gli uomini sono tutti interfecondi quindi fanno parte della stessa specie (sapiens); asino e cavallo sono due specie diverse perché sono sì interfeconde, ma la loro prole (muli o bardotti ) sono sterili; pecora e capra sono due specie diverse perché non danno prole...

 

La Tassonomia o Sistematica è la disciplina scientifica che si occupa della classificazione degli organismi viventi in categorie, dette appunto, categorie tassonomiche.

Anche l' uomo ha il suo posto nella sistematica:

 

 

EVOLUZIONE = insieme di processi graduali e continui il cui risultato è la diversificazione delle forme viventi

 Regno --- Animale

Phylum --- Cordati

Tipo --- Vertebrati

Classe --- Mammiferi

Ordine --- Primati

Famiglia --- Ominidi

Genere --- Homo

Specie --- sapiens

 

STORIA E TEORIE EVOLUZIONISTICHE

 

Aristotele (384-322 a.C.) e la sua scuola sostenevano la teoria della "generazione spontanea della vita", cioè l’esistenza di una forza particolare detta "Vis Plastica" capace di plasmare gli organismi.

 

La teoria della generazione spontanea fu riconosciuta fino a quando prima Redi nel 1600, poi Spallanzani nel 1700 quindi Pasteur nel 1800 non dimostrarono che la vita si origina solo dalla vita (ci vollero 200 anni perché gli scienziati accettassero che gli esseri viventi nascono solo da altri esseri viventi).

 

Fino a tutto il '600 inizio ‘700, la teoria più accreditata era il creazionismo o fissismo secondo la quale le specie, originate dalla creazione divina, sono fisse e immutabili. Questa teoria si doveva confrontare con

  1. l'interpretazione dei fossili (considerati inizialmente come “scherzi della natura” o pietre modellate dalle acque e dal vento)
  2. le numerose specie animali e vegetali che le esplorazioni avevano fatto conoscere e le nuove conoscenze in campo biologico e geologico
  3. i filosofi illuministi che ritenevano il fissismo un impedimento alla libera indagine sul cosmo

 

 

Nascono le prime teorie evoluzionistiche.

 

Robert Hooke (1635-1703) fu forse il primo che dedusse l'instabilità della crosta terrestre dovuta a fenomeni di vulcanesimo, terremoti ed innalzamenti. Su questa base l'autore giustificava i fossili sulle montagne, i fenomeni d'estinzione e la comparsa di nuove specie; un brillante tentativo di conciliare la visione fissista con un modello più dinamico.

 

Con l'inizio del'700 il mondo scientifico era pronto ad accogliere ipotesi naturalistiche e non bibliche.

 

George Buffon (1707-1788) nella sua Historie Naturelle abbozzava il principio dell'Attualismo (ripreso poi da Hutton e Lyell che ne faranno il principio fondante delle scienze geologiche): per capire e studiare la storia della terra occorre studiare i suoi processi attuali. Buffon inoltre fu il primo ad attribuire alla Terra circa settantamila anni contro i seimila ammessi dalla Chiesa (il vescovo irlandese Husher aveva calcolato addirittura il momento della creazione al 4004 a.C. ). Una Terra più vecchia era indispensabile per ammettere l’esistenza dell’evoluzione.

 

George Cuvier (1769-1832), dopo anni di studio, era arrivato a documentare le estinzioni e propose un modello per il quale la Terra era caratterizzata da brusche variazioni ambientali regionali, delle rivoluzioni che provocavano estinzioni a cui succedevano intervalli di calma. Il ripopolamento avveniva da zone limitrofe non interessate dallo sconvolgimento (specie preesistenti quindi e non nuove). La sua teoria è nota come teoria delle catastrofi.

 

Jean Baptiste de Lamarck (1744-1829), botanico e paleontologo, nel suo lavoro "Filosofia Naturale", vedeva l'intera massa degli organismi interessata da un movimento costante ed ascendente verso una maggiore complessità. Il flusso dell'evoluzione viene alimentato, secondo lui, dalla generazione spontanea della materia organica (teoria già superata ai suoi tempi): gli organismi molto semplici iniziano a salire la "scala della natura". In base a questo, gli esseri più semplici sono quelli più recenti, mentre quelli più complessi sono i più antichi. Ovviamente non si ammetteva né l'esistenza di limiti tra le specie che si succedevano nel tempo, né l'esistenza di fenomeni di scomparsa. I punti più importanti della teoria evolutiva di Lamarck sono:

  1. tutti gli individui possiedono una tendenza intrinseca al perfezionamento;
  2. ogni specie (o gruppo di organismi) fa parte di una linea evolutiva indipendente, che ha avuto origine per generazione spontanea;
  3. gli esseri viventi reagiscono al mutare delle condizioni ambientali acquisendo adattamenti appropriati.
  4. l'impiego di un organo porta al suo sviluppo, il non uso porta all'atrofia fino alla sua scomparsa (legge dell'uso e del non uso);
  5. le modificazioni acquisite dai genitori vengono trasmesse alla prole (legge dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti). Quest'ultimo punto fu accettato da tutti gli autori contemporanei perché mancava una visione alternativa (le leggi di Mendel erano ignorate) e si credeva che la sede del patrimonio ereditario fosse nel sangue; i progressi della genetica dimostreranno l'inesattezza dell'ipotesi di possibilità di trasmissione dei caratteri acquisiti tramite l'uso o il disuso. I punti 4 e 5 sono oggi portati avanti dai Neolamarckisti, di cui parleremo dopo.

 

Attorno al 1830 il geologo Lyell grazie anche alla scuola del suo maestro Hutton sostenne in "Principi di Geologia", che i fossili non sono scomparsi a causa di catastrofi, ma per una lenta interazione con l'ambiente.

 

Darwin (1859) affermava in modo razionale e con prove convincenti che tutte le forme di vita esistenti non sono il prodotto della creazione, ma derivano per evoluzione da forme viventi più antiche, a loro volta derivate. La teoria darwiniana si può riassumere in cinque punti fondamentali:

  1. gli individui che appartengono ad una stessa specie non sono uguali e presentano una variabilità individuale;
  2. le variazioni individuali sono mantenute nella prole;
  3. gli organismi producono più prole di quella che può sopravvivere fino al momento della riproduzione (saggio di Malthus sulle popolazioni). Ne deriva, tra gli organismi, una lotta per la sopravvivenza.
  4. statisticamente sopravvivono più facilmente quegli individui che hanno ereditato i caratteri più vantaggiosi per la sopravvivenza, dunque solo i meglio adattati all’ambiente in cui vivono;
  5. quest'ultimi arrivano meglio alla maturità sessuale e possono trasmettere i loro caratteri ai discendenti che tenderanno a divenire sempre più numerosi nella popolazione. Esiste quindi un ambiente che tende a selezionare gli individui, selezione naturale, (così come la selezione artificiale effettuata negli allevamenti di animali) e che porta, secondo Darwin, alla formazione di nuove specie attraverso piccoli, graduali e lenti cambiamenti adattativi.

 

Le variazioni sono quindi casuali, non orientate dall'ambiente fisico verso le direzioni più vantaggiose come nel Neolamarckismo: è l'ambiente stesso che seleziona i portatori dei caratteri più funzionali e la selezione fa accumulare nel tempo variazioni favorevoli svolgendo un ruolo dinamico e plasmando gradualmente le nuove specie.

Nel 1859 la pubblicazione dell'opera “L'origine delle specie” di Darwin segnò una svolta decisiva, egli però non sapeva come funzionasse l'ereditarietà, pensava che tutte le parti del corpo contribuissero alla formazione di gemmule che portate dal sangue, andavano a concentrarsi sugli organi riproduttivi, inoltre lasciava insoluti i problemi riguardanti le modalità e le cause per le quali le variazioni sorgono, si accumulano e si coordinano per produrre strutture di adattamento. Le sue scoperte rovesciavano l'immagine di una natura armonicamente finalizzata secondo un modello divino: l'uomo non era più il privilegiato dalla creazione ma il prodotto di quelle stesse forze naturali che avevano generato gli altri esseri viventi. Darwin ebbe molti oppositori, soprattutto in ambiente ecclesiastico, ancora di più quando, nel 1871, pubblicò il secondo lavoro “L'origine dell'uomo” che causò tutti quei fraintendimenti (anche arrivati fino ad oggi) e che portarono ad illustrare Darwin in alcune vignette come un essere con la testa da uomo ed il corpo da scimpanzé.

 

 

 


Haeckel (1834-1919) studiando gli embrioni animali, dimostrò che l'ontogenesi ricapitola la filogenesi ovvero nelle fasi di sviluppo, l'embrione presenta strutture tipiche dei suoi antenati e crescendo queste si trasformano fino alla forma attuale.

 

Weismann (1834-1919) pose una netta separazione tra cellule sessuali riproduttive e quelle somatiche, affermando che solo nelle prime si producono e si trasmettono le variazioni casuali su cui agisce la selezione, mentre le modificazioni subite dalle cellule somatiche non sono trasmesse ai discendenti. Si negava così la trasmissione dei caratteri acquisiti e ricevettero ovviamente una forte contestazione da parte dei neolamarckisti.

 

Il Neolamarkismo si basa sull'assunto che i caratteri somatici acquisiti dagli organismi durante la vita per adattarsi all'ambiente siano trasmessi alla prole. Le cellule somatiche si modificano secondo le esigenze ambientali e trasmettono la loro variazione alle cellule germinali (l'informazione in questo modello, procederebbe in due sensi: dalle proteine al DNA e dal DNA alle proteine tramite l' RNA messaggero).

All'opposto si colloca Weismann (Neodarwinismo), ancor prima che le scoperte di Mendel fossero note, sostenne che i caratteri acquisiti dal corpo durante la vita non sono ereditabili in quanto non possono essere trasmessi al patrimonio genetico.

 

Gregor Mendel (1822-1884) dopo anni di esperimenti giunse all'importante conclusione che i caratteri ereditari ed i fattori che li determinano rimangono ben distinti con il susseguirsi delle generazioni: non si perdono né si diluiscono. Le leggi mendeliane costituivano un sistema esauriente sui modi di trasmissione dei caratteri ereditari; mancava però un'ipotesi sulle unità di trasmissione di questi caratteri.

 

Nel 1909 Johansen chiamò queste unità geni e Morgan ipotizzò che i geni si trovassero nei nuclei delle cellule. La variabilità genetica si doveva al rimescolamento dei caratteri e si accompagnava alla stabilità delle singole unità geniche.

 

De Vries (1848-1933) scoprì il fenomeno delle mutazioni: se queste sembrano sufficienti a spiegare l'evoluzione, perché scomodare la selezione naturale?

 

R. Fisher, J.B. Haldane e S. Wright riuscirono a conciliare la selezione naturale con i principi della genetica e si cominciò a comprendere che piccole variazioni genetiche sono la fonte della variabilità su cui la selezione opera. Di conseguenza si prese a vedere l'evoluzione come una serie di modificazioni che avvengono di generazione in generazione nel patrimonio genetico di una popolazione, consistenti nel fatto che alcune varianti genetiche diventano più comuni a spese di altre e che alcuni nuovi geni vengono introdotti attraverso il processo di mutazione spontanea (essenzialmente errori di copiatura del materiale genico). L'evoluzione si sviluppa nei diversi gruppi di animali e piante con velocità molto diverse. La Teoria Sintetica dell'evoluzione o Sintesi Moderna era nata e destinata a divenire la più seguita nel mondo scientifico.

 

Fonte: http://www.iccolombo.it/uploads/materiali%20didattici/Scienze/TEORIE_EVOLUTIVE.doc

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