Epistemologia definizione e significato

 

 

 

Epistemologia definizione e significato

 

Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti. Se vuoi saperne di più leggi la nostra Cookie Policy. Scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento acconsenti all’uso dei cookie.I testi seguenti sono di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente a studenti , docenti e agli utenti del web i loro testi per sole finalità illustrative didattiche e scientifiche.

 

 

EPISTEMOLOGIA

 

1. SPIEGAZIONI, CONCETTI, TEORIE

 

Poiché l’economia viene ritenuta generalmente una disciplina scientifica non sarà inutile prendere in considerazione alcune riflessioni sviluppate dai filosofi della scienza. La scienza si propone come la forma più elevata e affidabile di conoscenza e poiché nell’affrontare e risolvere i problemi della nostra vita, sia a livello individuale  che sociale, abbiamo bisogno di informazioni attendibili siamo naturalmente portati a credere agli scienziati, e quindi agli economisti. Ma è ben fondata la nostra fiducia nella scienza? In altre parole che tipo di conoscenza ci possiamo attendere dagli scienziati che, dopo tutto, sono uomini come tutti gli altri, non immuni cioè da limitazioni personali, interessi particolari, pregiudizi ideologici e altro ancora?


Se, come dice Karl Popper, “lo scopo della scienza è quello di trovare spiegazioni soddisfacenti di tutto ciò che ci colpisce come bisognoso di spiegazione”, allora sembra utile prendere le mosse dalla definizione di spiegazione causale. Essa ci permetterà di fare una distinzione precisa tra il lavoro dello storico e quello dello scienziato, come ad esempio il fisico, il biologo o l’economista. Scrive Popper (Logica della scoperta scientifica, 1970):
«possiamo dire di aver dato una spiegazione causale della rottu­ra di un certo pezzo di filo se abbiamo trovato che il filo ha una resistenza alla trazione di ½ kg, ed è stato caricato con un peso di 1 kg. Se analizziamo questa spiegazione causale, troviamo che essa con­sta di diverse parti costituenti. Da una parte abbiamo l’ipotesi: “Un filo si rompe tutte le volte che viene caricato con un peso che supera il peso che definisce la resistenza alla trazione di quel filo” e questa è un’asserzione che ha il carattere di una legge universale di natura. Dall’altra parte abbiamo certe asserzioni singolari (...) che sono vere soltanto per l’evento specifico in questione: ”il carico di rottura di questo filo è ½ kg”; e: “il peso con cui è stato caricato questo filo è 1 kg”. (...) [Dalla legge universale], insieme con le condizioni iniziali, deduciamo l’asserzione singolare: “Questo filo si romperà”. Diciamo che quest’asserzione è una predizione specifica, o singolare. Le con­dizioni iniziali descrivono quella che di solito si chiama la “causa” dell’evento in questione. (...) E la predizione descrive quello che di solito viene chiamato l’ “effetto” ».


In nota Popper precisa che l’uso che egli fa del termine predi­zione comprende asserzioni intorno al passato (“retrodizioni”) nonché asserzioni date che desideriamo spiegare (“explicanda”). Questa precisazione è particolarmente utile in quanto qualifica la spiegazione causale come uno strumento di ricerca flessibile, di cui possono avvalersi non soltanto gli scienziati che vanno alla ricerca di ipotesi o teorie con cui spiegare i fatti, ma anche gli storici i quali indagano le cause di determinati eventi. L’obiettivo degli scienziati, infatti, è costituito dalla scoperta di leggi ossia di asserzioni universali, mentre quello degli storici è rappresentato dalla individuazione di condizioni iniziali e cioè di asserzioni singolari. E’ importante, perciò, chiarire la distinzione tra questi due tipi di proposizioni.
Secondo Popper, le asserzioni genuinamente universali sono quelle che egli chiama «strettamente universali» per distinguerle da quelle «numericamente universali», che a suo giudizio sono equivalenti a congiunzioni di asserzioni singolari e quindi vanno assimilate a queste ultime. Le asserzioni strettamente universali possono essere definite delle asserzioni‑tutti, cioè delle asserzioni «intorno ad un numero illimitato di individui» che pre­tendono di essere vere «in ogni luogo e in ogni tempo». Viceversa, le asserzioni numericamente universali si riferiscono «soltanto ad una classe finita di elementi specifici, limitata a una regione spa­zio‑temporale individuale». «Dato un tempo sufficientemente lun­go ‑ osserva Popper ‑, si possono enumerare tutti gli elementi della classe finita presa in considerazione» e, pertanto, le asser­zioni di questo tipo «possono, in linea di principio, essere sostitui­te da una congiunzione di asserzioni singolari».
La distinzione tra asserzioni universali e asserzioni singolari può essere compresa in modo ancora più chiaro, secondo Popper, se la colleghiamo con quella «tra concetti universali e concetti indi­viduali». I concetti individuali sono caratterizzati «dall’essere no­mi propri o dal dover essere definiti per mezzo di nomi propri», mentre i concetti universali sono caratterizzati dal fatto che «pos­sono essere definiti senza l’uso di nomi propri». Ora, ciò che di­stingue le asserzioni universali da quelle singolari è che in queste ultime necessariamente «devono comparire nomi o concetti individuali». Ciò avviene spesso mediante l’impiego di «coordinate spazio‑temporali»; il che risulta ovvio «se si considera che l’applicazione di un sistema spazio‑temporale di coordinate implica sem­pre il riferimento a nomi individuali», come evidenzia il riferimento a “Greenwich” o all’”anno della nascita di Cristo”. Occorre sottolineare come non esista alcun collegamento tra con­cetti individuali e concetti universali: da un lato, infatti, non è possibile definire un oggetto individuale per mezzo di concetti universali, dall’altro un concetto universale trascende qualunque insieme di concetti individuali. Come osserva Popper, “il tentativo di identificare un oggetto individuale unicamente per mezzo delle sue proprietà e delle sue relazioni universali (…) è destinato al fallimento”. Infatti, “un procedimento di questo genere non descriverebbe un oggetto individuale (…), ma la classe universale di tutti quegli individui a cui appartengono queste proprietà o relazioni”. D’altra parte, “qualsiasi tentativo di definire i nomi universali con l’aiuto di nomi individuali” è ugualmente “destinato a fallire”, nonostante sia “largamente diffusa la credenza che sia possibile, mediante un procedimento chiamato astrazione, sollevarsi da concetti individuali a concetti universali”. Questo punto di vista, precisa Popper, “è parente stretto della logica induttiva, col suo passaggio da asserzioni singolari ad asserzioni universali”. Tuttavia, entrambi “questi  (…) procedimenti sono  egualmente impraticabili dalla logica”.


Possiamo riprendere il nostro discorso osservando che lo sche­ma della spiegazione è unico e vale sia per lo storico che per lo scienziato. Si tratta di un argomento logico e cioè di un insieme di asserzioni collegate tra loro in modo tale che da alcune di esse, dette premesse, è possibile dedurre la restante asserzione, detta conclusione. L’argomento è valido (o corretto) quando le premesse, se vere, garantiscono la verità della conclusione; in caso contrario, è inva­lido (o scorretto). Come abbiamo visto, negli argomenti esplicativi si distinguo­no due tipi di premesse: le ipotesi o teorie, che sono asserzioni universali sintetiche di tipo causale, e le condizioni iniziali, che sono asserzioni singolari. Considerate congiuntamente esse costituiscono l’explicans, mentre il fatto che si intende spiegare, descritto da una asserzione singolare, è detto explicandum.
Abbiamo già precisato la distinzione tra asserzioni universali e asserzioni singolari. Ci resta da chiarire il significato di «asserzio­ni sintetiche» e «asserzioni di tipo causale». Sul primo punto oc­corre ricordare che una distinzione usuale nell’ambito dell’epistemologia è quella tra scienze analitiche, come la logica, e scienze empiriche, come la fisica, la chimica, ecc.. Le prime studiano le relazioni logiche che sussistono tra le definizioni, men­tre le seconde cercano di fornire una risposta a questioni di fatto. E’ evidente, perciò, l’utilità di distinguere le asserzioni che sono vere o false logicamente da quelle che sono vere o false fattualmente.
A questo scopo, seguendo Wesley Salmon (Logica elementare,1969), possiamo confrontare le seguenti asserzioni:

«a) Tutti i celibi sono non sposati.
b) Qualche celibe è sposato.
c) Qualche celibe non è proprietario di automobili.
d) Tutti i celibi sono ciechi».

 

Le prime due sono asserzioni analitiche, le altre sono sinteti­che. Come Salmon rileva:

«La verità dell’asserzione a) segue dalle definizioni dei termini che compaiono in essa (...)  Poiché il celibe è, per definizione, un maschio adulto non sposato, il termine “celibe” non può essere riferito corret­tamente a qualunque persona che non sia non sposata. Le asserzioni di questo tipo sono dette “analitiche”. (...) L’asserzione b) è simile all’asserzione a), eccetto che i significati dei termini che compaiono in b) la rendono falsa piuttosto che vera. Le asserzioni di questo tipo sono dette “contraddittorie”. (...) Le asserzioni analitiche e contraddittorie sono, rispettivamente, verità e falsità logiche».

Viceversa, prosegue Salmon:

«Le asserzioni c) e d) (...) sono asserzioni, la cui verità o falsità non è determinata soltanto dai significati dei termini che includono. Esse sono dette “sintetiche”. (...) L’unico modo per stabilire che c) è vera e che d) è falsa è quello d’indagare sui celibi. (...) Le asserzioni sintetiche non sono verità o falsità logiche, bensì asserzioni fattuali».

Riguardo al secondo punto, la definizione di «asserzioni di tipo causale», occorre richiamare l’attenzione sul carattere deduttivo della spiegazione. La possibilità di dedurre l’explicandum dall’explicans è ciò che, secondo alcuni, caratterizza propriamente una spiegazione. Spiegare perché un certo evento si verifichi significa, infatti, escludere la possibilità che esso non si verifichi e cioè vietare che altri eventi possano verificarsi. Ma se la spiegazione non è un argomento deduttivo e cioè l’explicans non implica logi­camente l’explicandum, essa non escluderà questa possibilità e quindi non spiegherà perché l’evento si sia verificato. Questa pre­cisazione serve a sottolineare la necessità che le leggi utilizzate nella spiegazione siano asserzioni universali e non semplici generalizzazioni statistiche. Infatti, nelle spiegazioni che fanno uso di generalizzazioni statistiche, a differenza di quanto accade in quelle in cui compaiono asserzioní universali, l’explicandum non può essere dedotto logicamente dall’explicans. Osservano a questo proposito Karel Lambert e Gordon G. Brittan (Introduzione alla filosofia della scienza, 1981):

«Supponiamo di voler spiegare il fatto che Jones ha avuto un attacco cardiaco sulla base della generalizzazione statistica (assunta come vera) che il novanta per cento delle persone della sua età hanno attacchi cardiaci. Le premesse della nostra presunta spiegazione sa­rebbero dunque:

(1) Il novanta per cento delle persone di età E hanno attacchi cardiaci.
(2) Jones è di età E.

Ma dovrebbe essere immediatamente chiaro che la conclusione che vogliamo, cioè

(3) Jones ha un attacco cardiaco,

non è una conseguenza deduttiva di queste premesse (cioè non ne segue e non ne è implicata deduttivamente); il che è quanto dire che le due premesse potrebbero essere vere e tuttavia “Jones ha un attacco cardiaco” essere falsa».

 

Ma anche se decidessimo di utilizzare nei nostri argomenti soltanto asserzioni universali, escludendo le generalizzazioni statistiche, non saremmo, tuttavia, in grado di fornire una spiegazione nel senso che abbiamo precisato. Come osservano Lambert e Brittan, infatti:

«chiedere una spiegazione di un attacco cardiaco significa inda­gare sulle condizioni fisiologiche o di altro genere che causano o pro­ducono un attacco cardiaco. E non c’è nessun riferimento a tali con­dizioni nell’asserzione che una certa percentuale o anche tutte le persone di una certa età hanno attacchi cardiaci».
Ciò che desideriamo conoscere è la causa che ha prodotto l’e­vento considerato allo scopo di approntare delle contromisure adeguate. Questo discorso può essere esteso a tutti i campi della scienza. Dalla scienza ci aspettiamo un ampliamento delle nostre conoscenze per poter intervenire in modo efficace sulla realtà che ci circonda e realizzare i nostri obiettivi. Questo risultato può essere ottenuto solo se siamo in grado di istituire relazioni di tipo causale tra gli eventi. Sembra perciò che il compito della scienza possa essere definito come la ricerca sistematica di leggi o connes­sioni causali tra gli eventi. Ma che cosa intendiamo con questa espressione? Lambert e Brittan forniscono la seguente risposta:

«Le leggi causali sono spesso caratterizzate in termini di quattro condizioni, che possono essere formulate in breve. Primo, una legge causale asserisce una relazione invariabile tra eventi, nel senso che ogniqualvolta si verifica la causa, si verifica anche l’effetto. Secondo, le leggi causali sono leggi di successione: esse collegano eventi che hanno luogo in un certo momento con eventi che hanno luogo in un altro momento. (...) La terza condizione frequentemente posta sulle leggi causali è che gli eventi che esse collegano sono spazialmente contigui. E la quarta condizione è che la relazione causale implicata da tali leggi è asimmetrica: se a causa b, b non può essere la causa di a».

In base alle considerazioni che precedono possiamo dire che lo scienziato, dovendo spiegare un fatto noto, ma strano e cioè inaspettato in base alle teorie comunemente accettate, si trova di fronte alla necessi­tà di formulare una nuova ipotesi dalla quale, in congiunzione con le condizioni iniziali, sia possibile dedurre il fatto stesso. Lo storico, invece, dà per scontata la conoscenza di teorie riguardanti il fatto che intende spiegare. Il suo obiettivo è quello di scoprire le condizioni iniziali che, in congiunzione con tali teorie, gli consentono di dedurre quel fatto. Seguendo il suggerimento del filosofo Charles Peirce possiamo chiamare questo tipo di inferenza “abduzione”.

 

2. IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA

Abbiamo visto che cosa si intende per spiegazione causale e quale ruolo svolgano in essa le teorie che costituiscono l’obiettivo degli scienziati. E’ tempo ora di tornare alla nostra domanda iniziale. Possiamo davvero fidarci delle teorie proposte dagli scienziati? Quale conoscenza della realtà ci possono fornire? E che cosa si deve intendere per conoscenza? Da 2500 anni almeno i filosofi cercano di dare una risposta a queste domande. Dei risultati del loro lavoro noi daremo solo una breve sintesi. In particolare, posta la distinzione tra conoscenza certa (episteme) e conoscenza opinabile (doxa), ci occuperemo della critica degli scettici alla pretesa di ottenere una conoscenza certa e della risposta dei “dogmatici”, che hanno dato vita a due importanti scuole di pensiero: l’empirismo e il razionalismo.
Per affrontare il problema della conoscenza conviene partire da una domanda molto semplice:

Possiamo conoscere qualcosa?

A questa domanda siamo portati a rispondere istintivamente: sì!
Ma che cosa comporta o significa conoscere qualcosa? Ci sono tre condizioni che devono essere soddisfatte perché si possa parlare di conoscenza. La prima è che si pensi o si creda sinceramente (non per gioco o per finta) qualcosa. La seconda, che quanto si pensa o si crede sia vero ossia corrisponda a quanto effettivamente accade. La terza, infine, che si possano fornire delle ragioni convincenti per ciò che si pensa o si crede ovvero che si sia in grado di giustificare la propria credenza (facendo vedere che non si tratta di un fortunato tirare ad indovinare).
Riassumendo, perché un enunciato della forma

“A sa che P”

sia accettabile deve accadere che:

  1. A creda che P
  2. P sia vera
  3. A possa giustificare la sua credenza che P

 

Siamo così arrivati alla distinzione filosofica tradizionale tra conoscenza e credenza o opinione. Conoscenza è una credenza vera e giustificata.
La terza condizione è stata formulata in modo diversi dai filosofi: alcuni hanno ritenuto che la giustificazione possa consistere in una semplice motivazione; altri hanno preteso che essa consista in una vera e propria dimostrazione. Per questi ultimi l’unica conoscenza degna di questo nome è quella certa e cioè dimostrata o assistita da prove o motivazioni definitive. I greci la chiamavano episteme, in opposizione alla doxa con cui  indicavano la semplice opinione. Da episteme deriva il termine “epistemologia” che significa filosofia della conoscenza o della scienza. Accettiamo per ora l’identificazione della conoscenza con la conoscenza certa. Solo successivamente, dopo aver visto le difficoltà a cui va incontro questa posizione, prenderemo in considerazione una concezione della conoscenza meno esigente. Credenza, verità e giustificazione vanno intese come condizioni necessarie e, se prese insieme, sufficienti perché si possa parlare di conoscenza.

 

3. LO SCETTICISMO

 

La concezione della conoscenza come credenza vera e dimostrata è quella accolta dalla tradizione del pensiero occidentale. Essa, tuttavia, non è rimasta esente da critiche. Queste critiche sono state avanzate, più di duemila anni fa, dagli scettici i quali etichettarono i loro avversari come dogmatici. E’ iniziata da allora una lunga e tuttora interminata guerra tra lo scetticismo e il dogmatismo, che ha dato un contributo rilevante alla crescita della filosofia della conoscenza.
E’ naturale pensare che la maggior parte della gente si senta, almeno all’inizio, in sintonia con i dogmatici. Chi potrebbe ragionevolmente dubitare che ci sia qualcosa di cui abbiamo una conoscenza certa? Gli scettici greci, tuttavia, misero a punto un argomento che intendeva mostrare che non si può mai avere una credenza giustificata. Essi non misero in discussione il fatto che possediamo delle opinioni né - cosa più importante - che alcune di esse possano risultare vere; concentrarono invece i loro attacchi sulla terza condizione per la conoscenza, la richiesta che le nostre credenze od opinioni vere siano giustificate e sostennero che il tentativo di giustificare le credenze cade fatalmente in preda ad un regresso infinito. Infatti, ogni volta che tentiamo di giustificare una qualsiasi credenza, non facciamo altro che ricorrere ad un’altra credenza; ma, a meno che quest’ultima non sia una credenza giustificata, non abbiamo fatto molta strada. Se cerchiamo di giustificare questa seconda credenza non facciamo altro che menzionarne una terza, e così via all’infinito. Il tentativo di giustificare le credenze per mezzo di altre credenze non può avere successo, perché è soggetto ad un regresso infinito. Poiché una serie infinita di giustificazioni non può essere completata, tutti noi fondiamo le nostre credenze su assunzioni ingiustificate ossia su mere opinioni. Ciò che riposa su mere opinioni non è che mera opinione e l’edificio della conoscenza certa crolla. Va osservato che questo argomento è generale e può essere rivolto sia contro la concezione forte della giustificazione, che richiede vere e proprie dimostrazioni, sia contro la concezione debole che si accontenta di semplici motivazioni.
Gli scettici, tuttavia, non si accontentarono di questo risultato. Essi scoprirono un secondo regresso infinito che usarono per sostenere una tesi ancora più radicale: che non solo non possiamo credere in qualcosa di certo, ma che non siamo nemmeno in grado di sapere veramente in che cosa crediamo. Questo secondo regresso infinito è il regresso delle definizioni. L’argomento è il seguente. Per sapere in che cosa crediamo dobbiamo conoscere il significato delle parole che usiamo per esprimere le nostre credenze. Conoscere il significato di una parola vuol dire essere capaci di definirla. Ma definire una parola significa usare altre parole che a loro volta devono essere definite. Dato che non siamo in grado di completare una serie infinita di definizioni, tutti noi usiamo necessariamente una serie di parole di cui non conosciamo il significato, perché non le abbiamo definite. Tutti noi quindi non possiamo mai veramente sapere in che cosa crediamo!

 

4EMPIRISMO E RAZIONALISMO

 

I dogmatici risposero al regresso infinito delle giustificazioni, respingendo l’idea degli scettici secondo cui una credenza può essere giustificata solo ricorrendo ad un’altra credenza. Sostennero, invece, che ci sono credenze che non richiedono di essere giustificate da altre credenze, poiché se ne può cogliere la verità direttamente o immediatamente, cioè senza alcuna mediazione. Pertanto il regresso infinito delle giustificazioni può essere arrestato da tali credenze: le altre devono essere giustificate a partire da queste, ma queste non hanno bisogno di alcuna giustificazione. I dogmatici, quindi, per combattere l’obiezione degli scettici sulla possibilità di ottenere una conoscenza certa invocarono una distinzione tra due tipi di conoscenza:

  1. la conoscenza immediata di proposizioni fondamentali (o principi primi o assiomi) che non richiedono giustificazioni ulteriori;
  2. la conoscenza mediata o derivata di proposizioni che richiedono una giustificazione sulla base delle proposizioni fondamentali o principi primi o assiomi.

 

La risposta dei dogmatici al regresso infinito delle definizioni è simile. Essa contesta l’idea degli scettici secondo cui conosciamo il significato di una parola solo se possiamo definirla in termini di altre parole. I dogmatici sostennero che il significato di certe parole non richiede spiegazione, perché può essere colto direttamente o immediatamente. Il regresso infinito delle definizioni può essere arrestato da tali parole: le altre devono essere definite a partire da queste, ma queste non hanno bisogno di alcuna definizione. I dogmatici, pertanto, per rispondere all’obiezione degli scettici sulla possibilità di sapere ciò in cui crediamo, invocano una distinzione tra due tipi di parole o termini o concetti:

  1. concetti primitivi o indefiniti, il cui significato non richiede spiegazione perché è immediatamente evidente;
  2. concetti definiti, il cui significato deve essere spiegato o definito in termini di concetti primitivi o indefiniti.

 

In altre parole i dogmatici, per controbattere il regresso infinito delle giustificazioni e delle definizioni, sono costretti a ricorrere ad una teoria della conoscenza immediata. Qual è la fonte della conoscenza immediata della verità di certe proposizioni e del significato di certi termini? Nella storia della epistemologia si sono avute due risposte a questa domanda: la prima dice che è l’esperienza, la seconda che è la ragione.
La prima risposta sembra la più naturale. L’idea sottostante è che usando i nostri occhi e le nostre orecchie, possiamo arrivare a stabilire la verità di certe proposizioni, direttamente e senza mediazioni. Le proposizioni in questione sono enunciati che traducono ciò che osserviamo o sperimentiamo ovvero enunciati osservativi. E questi sono le proposizioni fondamentali o principi primi o assiomi in base ai quali possiamo giustificare le nostre credenze. L’idea che i sensi costituiscano una fonte di conoscenza immediata della realtà  è la spina dorsale di una teoria della conoscenza detta empirismo. Secondo questa teoria accanto agli enunciati osservativi esistono anche i concetti osservativi, il cui significato non richiede  alcuna spiegazione e che quindi funzionano da concetti primitivi. Essi traducono certe caratteristiche del mondo che sono immediatamente evidenti quando facciamo esperienza del mondo stesso. Gli esempi usuali sono “rosso” e “blu”, “caldo” e “freddo”, “liscio” e “ruvido”, “pesante” e “leggero”, “dolce e amaro”. Il significato di queste parole non può essere definito, deve essere colto associando tali parole ad esperienze appropriate. Gli altri concetti devono essere definiti in base a questi concetti osservativi.
Molti empiristi sostenevano un punto di vista radicale e cioè che l’esperienze non solo è una fonte di conoscenze immediate ma che ne è l’unica fonte. Esso è consegnato nel detto latino: “nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu”.
La seconda risposta all’argomento scettico del regresso infinito si basava su un appello alla ragione o all’intuizione intellettuale come fonte di conoscenza immediata. Il regresso infinito delle giustificazioni veniva arrestato dai principi primi o assiomi che erano evidenti di per sé o riconosciuti come veri dall’intuizione intellettuale. La verità di altre proposizioni, a prima vista lontane dall’essere ovvie  o evidenti di per sé, poteva essere stabilita sulla base di tali assiomi. E’ questa l’idea centrale di una teoria della conoscenza nota come razionalismo o intellettualismo. Il razionalismo è una dottrina meno plausibile dell’empirismo: che cosa sarebbero queste proposizioni evidenti di per sè e che cosa si può stabilire a partire da esse? Il modo migliore per rispondere a questa domanda è segnalare il fatto che fu la geometria euclidea a costituire il modello e la principale fonte di ispirazione del razionalismo. l razionalisti presero una strada simile anche riguardo al regresso infinito delle definizioni, ritenendo che la ragione o l’intuizione intellettuale potesse chiarire il significato dei concetti primitivi o non definiti. Anche qui la fonte principale di ispirazione fu la geometria euclidea. Molti razionalisti, analogamente agli empiristi, pensavano che la ragione o l’intuizione intellettuale fosse l’unica fonte di conoscenza genuina sia delle proposizioni che dei concetti.
Gli scettici di fronte alla risposta dei dogmatici non rimasero in silenzio. In particolare, di fronte alle pretese degli empiristi che invocavano la possibilità di ottenere una conoscenza immediata del mondo attraverso i sensi, essi avanzarono due critiche: la prima riguarda la sicurezza della base empirica della conoscenza e ha dato luogo al problema della percezione e cioè dell’apparenza e della realtà, già sollevato in età classica; la seconda, sviluppata da David Hume nel Trattato sulla natura umana (1739) e ripresa da Popper nella Logica della scoperta scientifica (1934), riguarda invece l’adeguatezza della base empirica. Lasciando da parte il problema dell’affidabilità dei sensi (accettando cioè provvisoriamente la concezione del realismo ingenuo per cui i sensi ci forniscono una conoscenza certa degli oggetti esterni), concentriamo la nostra attenzione sulla seconda critica, quella che contesta la possibilità di costruire una teoria  - e cioè una proposizione universale - a partire da proposizioni singolari quali sono le proposizioni osservative che traducono in linguaggio le nostre esperienze.

 

5.  LA CRITICA HUMIANA ALL’INDUZIONE

 

Gli empiristi pensano che le credenze debbano essere giustificate sulla base dell’esperienza. Se gli si chiede come fa a sapere che chi mette le mani sul fuoco se le brucerà, l’empirista risponde: “per esperienza”. Ma appellarsi all’esperienza passata per giustificare credenze o aspettative sul futuro significa impegnarsi in un ragionamento induttivo. Pensiamo che il pane che stiamo per mangiare ci nutrirà perché il pane ci ha nutrito quando l’abbiamo mangiato in passato. Possiamo esplicitare il nostro tacito ragionamento così:

Il pane mi ha nutrito lunedì.
Il pane mi ha nutrito martedì.
Il pane mi ha nutrito mercoledì.
Il pane mi ha nutrito giovedì.
II pane mi ha nutrito venerdì.
Il pane mi ha nutrito sabato.
Dunque, il pane mi nutrirà domani (domenica).

Prenderemo nel seguito questo argomento un po’ pedante e artificioso come esempio di ragionamento induttivo.
Hume pensava che fosse un dato di fatto psicologico che noi ragioniamo induttivamente. Pensava addirittura che in questo “noi” dovessero essere inclusi anche gli animali: gatti e cani sono anch’essi induttivisti impenitenti. Egli non discute (almeno in questo contesto) che le premesse di argomenti di questo genere possano essere conosciute con certezza sulla base dell’esperienza passata. La sua obiezione è che gli argomenti induttivi sono logicamente scorretti: la verità delle premesse non garantisce la verità della conclusione. E’ possibile che la conclusione sia falsa anche quando tutte le premesse sono vere e dunque la conclusione non segue dalle premesse. Nel nostro esempio, il fatto che il pane mi abbia nutrito dal lunedì al sabato non garantisce che il pane che mangio domenica non mi avvelenerà. (Si confronti l’argomento induttivo scorretto riportato sopra con questo argomento deduttivo valido: “Il pane nutre sempre, quindi il pane mi nutrirà domani (domenica)”. Qui se la premessa è vera, anche la conclusione deve essere vera. Altrimenti, se domenica il pane mi avvelena, la premessa che il pane nutre sempre si rivelerà falsa]. Hume insisteva sul fatto che, siccome gli argomenti induttivi non sono validi, l’appello all’esperienza passata non può provare o giustificare o darci un motivo plausibile per sostenere credenze riguardo al futuro. Ma una credenza è ragionevole solo se possiamo provarla o giustificarla o fornirne un motivo plausibile. Quindi nessuna credenza riguardo al futuro è ragionevole. Una persona ragionevole sarà di un completo scetticismo riguardo al futuro (o riguardo a casi di cui non si è avuta esperienza).
Prima di discutere di una possibile risposta a Hume, bisogna chiarire alcuni punti preliminari. Il primo è che fin qui abbiamo considerato un solo tipo di argomento induttivo, anche se si tratta proprio del tipo considerato da Hume. Questo tipo di argomento induttivo ha assunto il nome “singola inferenza predittiva”, perché le sue conclusioni consistono di una singola predizione. Un secondo tipo di argomento induttivo arriva a una conclusione generale muovendo da premesse che riportano esperienze passate. Un semplice esempio potrebbe essere:

Il pane mi ha nutrito lunedì.
Il pane mi ha nutrito martedì.
Il pane mi ha nutrito mercoledì.
Il pane mi ha nutrito giovedì.
Il pane mi ha nutrito venerdì.
Il pane mi ha nutrito sabato.
Dunque, il pane mi nutrirà sempre.

Tali argomenti induttivi sono chiamati “generalizzazioni induttive”. Le stringenti critiche di Hume si applicano anche ad essi: se è invalida l’inferenza predittiva singola, tanto più invalida è la generalizzazione induttiva (se si può parlare di gradi di validità e di invalidità). Con “argomento induttivo” intenderemo nel seguito un argomento di uno di questi due tipi.

 

6.  IL PRINCIPIO DI INDUZIONE

 

La risposta di gran lunga più popolare alla critica humiana dell’induzione sostiene che gli argomenti induttivi, così come li abbiamo presentati, non sono corretti. Ora, ci sono due modi di trasformare un argomento scorretto in uno corretto: si possono rafforzare le premesse, in modo che da esse segua la conclusione, oppure si può indebolire la conclusione, in modo che essa segua dalle premesse.
La prima soluzione consiste in un appello al principio di induzione. I suoi sostenitori affermano che Hume si è costruito argomenti induttivi di comodo per poterli criticare più facilmente. In particolare egli avrebbe omesso un’assunzione che tutti questi argomenti contengono implicita­mente. Se la rendessimo esplicita e la includessimo fra le pre­messe delle nostre induzioni, si scoprirebbe allora che, in fin dei conti, quelle induzioni sono valide. Questa assunzione è il “principio di induzione”.  In che cosa consiste que­sto principio di induzione? Alcuni dei tentativi più semplici per formularlo sono: “Il futuro assomiglia al passato”, “I casi non osservati assomigliano a quelli osservati” o “La natura è uniforme”.
Si deve ammettere che se aggiungiamo “Il futuro assomiglia al passato” (o qualcosa di altrettanto forte) alle premesse dei nostri due semplici esempi di ragio­namento induttivo, allora quegli argomenti induttivi diven­tano argomenti deduttivi perfettamente validi:

Il futuro assomiglia al passato.
Il pane mi ha nutrito da lunedì a sabato.
Dunque, il pane mi nutrirà domani (domenica).

E similmente per la corrispondente generalizzazione induttiva. Ma, possiamo obiettare, è ragionevole impiegare un principio induttivo nei nostri ragionamenti, solo se sappiamo che è vero (o possiamo giustificarlo o credere in esso). E questo non lo possiamo proprio fare.
Non possiamo infatti giustificare la nostra credenza nel principio di induzione con alcun argomento tratto dall’espe­rienza. Farlo vorrebbe dire ragionare cosi:

Lunedì il futuro assomigliava al passato.
Martedì il futuro assomigliava al passato.
Mercoledì il futuro assomigliava al passato.
Giovedì il futuro assomigliava al passato.
Venerdì il futuro assomigliava al passato.
Sabato il futuro assomigliava al passato.
Dunque, il futuro assomiglia (sempre) al passato.

Ma questo è di nuovo uno scorretto ragionamento induttivo. Se cerchiamo di rendere valido questo secondo argomento appellandoci a un secondo principio induttivo, chiaramente finiamo per  infilarci in un regresso infinito.
D’altra parte, non possiamo nemmeno basare la nostra credenza nel principio di induzione su un qualunque argomento che non sia basato sull’esperienza. Infatti, il solo modo per dimostrare che qual­cosa è vero senza fondarsi sugli insegnamenti dell’esperienza è  ragionare per assurdo: dimostrare cioè che qualcosa de­ve essere vero perché la sua negazione conduce a una con­traddizione. Ma non possiamo argomentare che il principio di induzione debba essere vero perché la sua negazione con­duce a una contraddizione. Non deriva nessuna contraddizione dal credere che il futuro non assomiglierà al passato. Quindi nessun argomento che non sia basato sull’esperienza (nessun ragionamento per assurdo) può giustificare la nostra credenza nel principio di induzione.
Ne segue, diceva Hume, che la credenza nel principio di induzione è del tutto irragionevole: “La supposizione che il futuro rassomiglia al passato non si fonda sopra alcuna specie di argomenti, ma è derivata unicamente dall’abitudine”.
E così resta valida la sua conclusione: abbiamo l’abitudine di argomentare induttivamente, ma non si può dimostrare che sia ragionevole farlo.

 

7.  IL PROBABILISMO

 

La seconda soluzione del problema di Hume è costituita dal probabilismo. Esso comincia col fare una concessione a Hume. Gli argomenti induttivi, così come li abbiamo presentati fin qui, sono scorretti (e non aiuta ap­pellarsi a principi induttivi). Dal fatto che il pane mi ha sem­pre nutrito nel passato non segue che mi nutrirà anche do­mani (o sempre). Su questo punto Hume ha senz’altro ragione. Ma il probabilista pretende che possiamo ren­dere validi gli argomenti induttivi se indeboliamo le loro conclusioni, trasformandole in enunciati probabilistici. Ciò di cui abbiamo bisogno per evitare le accuse di irrazionalismo da parte di Hume sono probabilità piuttosto che certez­ze. L’esperienza passata non rende certo che il pane di domani mi nutrirà. Ma se essa rende probabile che questo suc­cederà, allora è perfettamente ragionevole che io mangi il pa­nino e non il vassoio su cui me lo offrono. La persona razio­nale aggiusta le sue credenze e il suo comportamento secon­do le probabilità: il suo motto è «La probabilità è la guida nella vita».
Hume spese poco tempo con questo approccio. Si limitò a negare che, indebolendo la conclusione mediante l’inserimento della parola “probabilmente”, si possa rendere valido un argomento induttivo. Sosteneva che c’è tuttavia bisogno di rafforzare le pre­messe con un principio induttivo probabilistico del tipo: “La natura è probabilmente uniforme” o “Il futuro probabilmen­te assomiglia al passato” o “I casi non osservati probabil­mente assomiglieranno ai casi osservati”. E diceva che il suo vecchio argomento si applica con altrettanta efficacia a principi di questo tipo: non possono essere conosciuti per mezzo dall’esperienza sotto pena di regresso infinito e non possono essere conosciuti indi­pendentemente dall’esperienza perché le loro negazioni non sono contraddittorie. Quindi non possono essere conosciuti affatto e li usiamo solo per abitudine.
Molti filosofi (e un numero ancora maggiore di scienziati) non sono rimasti convinti da que­sti argomenti humiani. E’ ovvio che “Il pane mi ha nutrito da lunedì a sabato, quindi mi nutrirà domenica” non è corretto: se domenica il pane mi avvelena, come può succedere, l’invali­dità di questo argomento diventa del tutto evidente (le sue premesse sono vere e la conclusione è falsa). Ma non è ovvio che “Il pane mi ha nutrito da lunedì a sabato, quindi probabil­mente mi nutrirà domenica” sia scorretto: se domenica il pane mi avvelena, come può succedere, non è affatto ovvio che una conclusione falsa discenda da premesse vere. Questo perché “Probabilmente il pane mi nutrirà anche domenica” è compa­tibile col fatto che domenica il pane mi avveleni, proprio co­me “Il prossimo lancio di dadi probabilmente non sarà un sei” è compatibile con l’uscita di un sei.
Incoraggiati da queste riflessioni, i probabilisti hanno cercato di sviluppare la teoria della probabi­lità in modo tale che gli argomenti induttivi probabilistici risultassero validi. La teoria della probabilità è una ben definita branca della matematica. Le sue applicazioni più semplici riguardano dispositivi casuali come il lancio di una moneta, di dadi, la roulette, l’estrazione di carte da un mazzo. In ognuna di queste situazioni c’è un certo numero di casi possibili che si suppongono essere (nell’ipotesi più semplice) tutti equiprobabili: la moneta può mostrare o testa o croce, il dado la faccia con l’uno o il due o il tre o il quattro o il cinque o il sei. E così nelle altre situazioni. La probabilità di un evento può essere definita come il numero dei casi in cui l’evento si ve­rifica (numero dei casi «favorevoli») diviso per il numero dei casi possibili. Così la probabilità che tirando una moneta venga testa è ½; la probabilità che lanciando il dado venga un numero minore di cinque è 2/3 ecc. La probabilità massi­ma è chiaramente 1 e la minima 0. La teoria matematica della probabilità permette di calcolare, a partire dalle probabilità iniziali dei risultati in una situazione casuale, la probabilità di eventi complessi come, per esempio, quella di ottenere tre te­ste consecutive lanciando la moneta tre volte (1/8).
Come ci aiuta tutto ciò con il problema dell’induzione? I probabilisti avevano in mente un tipo diverso di probabilità, la probabilità logica degli enunciati di essere veri. Più precisamente pensavano ad una teoria che fosse in grado di calcolare la probabilità di una ipotesi date certe evidenze. Così “p(h, e)= r” si sa­rebbe dovuto leggere: “La probabilità logica dell’ipotesi h data l’evidenza e è r”. Che una tale teoria potesse essere sviluppata veniva suggerito dai casi limite. Se si suppone che e implichi logicamente h, cosicché se e è vera anche h deve essere vera, allora p(h, e) = 1. Oppure, si sup­ponga che e contraddica h, cosicché se e è vera, allora non può essere vera anche h: in questo caso p(h, e) = 0. In mezzo a questi due estremi, pensavano i probabilisti, ci devono essere dei casi intermedi in cui e non implica e non contraddice h, ma la rende più probabile che no, e cioè: p(h, e) > ½. Se si potesse dimostrare che esistono casi del genere, allora si po­trebbe in fin dei conti giustificare il ragionamento induttivo.
Per esempio, se e è l’evidenza che dice che tutto il pane che ho mangiato mi ha sempre nutrito e h l’ipotesi che il prossimo pezzo di pane mi nutrirà (o tutto il pane mi nutrirà), allora il risultato p(h, e) > ½ giustificherebbe l’idea che le induzioni sono valide qualora le loro conclusioni vengano indebolite aggiungendo la parola “probabilmente”.
Questo è il programma probabilista. Per quanto attraente si è mostrato enormemente difficile da realizzare. La difficoltà fondamentale consiste nel fatto che quando applichiamo il calcolo delle probabilità, per esempio al lancio dì un dado, identifichiamo non solo tutti i casi possibili, ma assegniamo ad essi anche una probabilità. Se pensiamo che il dado non sia truccato, assegniamo una probabilità di 1/6 a ciascuno dei sei casi possibili. Ma se il dado è truccato, la nostra assegnazione iniziale non sarà così semplice. Il punto cruciale è che è necessaria una qualche assegnazione iniziale se vogliamo che la teoria ci permetta di calcolare le probabilità di eventi più complicati. Un identico discorso vale per la teoria della probabilità logica: nell’applicarla alle ipotesi scientifiche dobbiamo conoscere tutte le ipotesi possibili e assegnare ad esse delle probabilità. In questo caso, tuttavia, sorgono dei problemi.  Per i linguaggi naturali (quelli che noi utilizziamo normalmente) non solo le ipotesi sono infinite, ma in certi casi non è nemmeno chiaro che cosa debba essere considerato come ipotesi possibile. Inoltre, l’assegnazione iniziale di probabilità non si basa su nessuna espe­rienza del mondo.
Questi risultati forniscono una risposta a Hume? Se Hume li avesse conosciuti avrebbe potuto obiettare (come altri hanno fatto) che le distribuzioni ini­ziali di probabilità degli enunciati che non si basano su nes­suna evidenza rappresentano un’assunzione sostanziale sul mondo. Questa assunzione non è così semplice come l’asser­zione «La natura probabilmente è uniforme», che Hume pretendeva fosse necessaria per convalidare gli argomenti in­duttivi probabilisti. Ma è un’assunzione dello stesso gene­re: non si basa sull’esperienza e non può essere conosciuta indipendentemente dall’esperienza perché la sua negazione non implica contraddizione (come mostra il fatto che esistono altre distribuzioni iniziali coerenti). In breve, non la si può conoscere affatto e, di conseguenza, il ragionamento probabilistico che si basa su di essa è irrazionale (in quanto fondato sulla semplice abitudine).

 

8.     IL NEOPOSITIVISMO

                    
Nonostante la critica humiana all’induzione, la fiducia nell’empirismo non venne meno. Le idee di questo indirizzo di pensiero riemersero con vigore negli anni venti del ‘900 ad opera di un gruppo di filosofi che, dal luogo in cui si riunivano, prese il nome di Circolo di Vienna. Questi studiosi dettero vita ad una versione aggiornata dell’empirismo che va sotto il nome positivismo logico o neopositivismo. Poiché questa dottrina ha influenzato profondamente l’idea che gli scienziati si fanno della loro attività, vale la pena di analizzarne in dettaglio le idee fondamentali. Del circolo di Vienna facevano parte, insieme ad altri, Moritz Schlick, Hans Hahn, Friedrich Waismann, Herbert Feigl, Otto Neurath e Rudolf Carnap. Questi studiosi tenevano raduni informali, studiando e discutendo in particolare il Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein. Essi sostenevano che la filosofia non produce proposizioni vere o false, ma si limita semplicemente a chiarire il significato degli enunciati, dimostrando che alcuni sono scientifici, alcuni sono matematici e altri (inclusa la maggior parte dei cosiddetti asserti filosofici) sono privi di senso. In breve, essi pensavano che ogni enunciato significante fosse o un asserto di logica formale (in un senso ampio, che comprende tutte le proposizioni matematiche) o un asserto scientifico (anche in questo caso la locuzione veniva intesa in senso ampio, in modo da farle includere tanto gli enunciati singolari come «Questo lenzuolo è bianco», quanto gli enunciati universali come le leggi fisiche). Tutti gli altri tipi di enunciato erano, strettamente parlando, privi di senso. Se qualche significato avevano, esso poteva essere «emotivo», «motivazionale», ma non cognitivo. Enunciati come «Dio esiste in un luogo celeste» rientravano in questa categoria, così come certi enunciati filosofici tradizionali: per esempio «Non possiamo mai osservare direttamente gli oggetti fisici», «Non posso mai esser sicuro che tu abbia una mente», «Nessun uomo è libero, ma siamo tutti determinati dal nostro passato» e così via. Bisogna sottolineare che tali asserti non erano considerati falsi; erano considerati letteralmente privi di senso, come le espressioni di una lingua sconosciuta. La pratica filosofica tradizionale veniva così respinta. Alla filosofia si riconosceva una sola funzione legittima: quella di chiarire il significato delle proposizioni, in modo che a ogni domanda si potesse rispondere nell’ambito della disciplina più appropriata.
Per comprendere il vigoroso attacco che il positivismo logico sferra ai sistemi filosofici tradizionali è necessario prendere in considerazione le sue idee-base: in primo luogo la distinzione tra proposizioni «analitiche» e «sintetiche»; in secondo luogo, il criterio (detto «principio di verificazione») adottato per determinare quando una proposizione è significante dal punto di vista cognitivo.
Abbiamo già introdotto la distinzione tra proposizioni analitiche e sintetiche. Qui possiamo aggiungere che le proposizioni analitiche hanno questo nome perché, dal momento che il loro predicato è contenuto nella definizione del soggetto, tutto ciò che esse fanno è asserire del soggetto qualcosa che si ottiene analizzando lo stesso termine‑soggetto (per esempio: «Tutti gli scapoli ‑ cioè i maschi non sposati ‑ sono non sposati»). Ne consegue che noi verifichiamo queste proposizioni esaminando le parole in esse contenute. D’altro canto le proposizioni sintetiche sono così definite perché sono il risultato di un’unione, ovvero di una sintesi, tra due cose logicamente non correlate (per esempio: «Questa scrivania è marrone» oppure “il consumo dipende dal reddito”). Le proposizioni analitiche non si riferiscono al mondo nello stesso modo delle proposizioni sintetiche. Dalla verità di una proposizione analitica non possiamo inferire che le cose denotate dai termini della proposizione esistano: dalla proposizione analitica «Tutti i giganti sono giganti» non possiamo inferire che esistano dei giganti. Invece, se una proposizione come «Questa scrivania è marrone» è vera, possiamo inferirne che il mondo contiene per lo meno una scrivania. I positivisti logici descrivono la differenza tra i due tipi di proposizione dicendo che le proposizioni analitiche sono «banali» e quelle sintetiche «informative».
Servendoci delle tecniche messe a punto dai logici e dai matematici siamo in grado di dire se una proposizione è o no analitica. Ma come facciamo a dire quando una proposizione sintetica, ovvero una proposizione che sembra riguardare il mondo, ha o no significato?
Una proposizione come «Dio esiste in un luogo celeste» ha significato? Sembra riguardare il mondo, ma è davvero così?
Per rispondere a questa domanda i neopositivisti hanno elaborato un criterio per mettere alla prova la significatività delle proposizioni sintetiche: il famoso criterio di verificabilità empirica. Ogni proposizione che soddisfi questo criterio è considerata fattualmente significante. Se non riesce a superare il test, o è analitica (e quindi non riguarda il mondo) oppure è non significante, cioè priva di senso. Quindi tutte le proposizioni che mirano a esprimere una genuina conoscenza dei mondo devono soddisfare il criterio di verificabilità empirica per essere considerate significanti. In che cosa consiste questo criterio di verificabilità?
Il criterio in questione viene formulato in modi diversi dai diversi autori. Una delle versioni piu’ note è quella fornita da A.J. Ayer in “Linguaggio, verità e logica” (1936). Secondo Ayer, un enunciato sarà fattualmente significante (cioè non analitico) per una data persona se e solo se tale persona sa come verificare la proposizione che esso esprime; ovvero, se sa quali osservazioni lo porteranno, in determinate condizioni, ad accettare la proposizione come vera o a respingerla come falsa.
La parola chiave in questa formulazione è «osservazione». L’elemento essenziale del principio di Ayer è che deve essere possibile descrivere quali tipi di osservazione si renderebbero necessari per stabilire se una proposizione è vera o falsa. Se si potesse descrivere qualche osservazione utile per stabilire la verità o la falsità di una pro­posizione allora la proposizione avrebbe significato; in caso contrario, sarebbe priva di senso. Per chiarire il criterio di verificabilità è utile perciò distinguere tra la verificabilità effettiva e la verificabilità in linea di principio. Consideriamo la proposizione «Esiste una vita extraterrestre». Questa proposizione non è mai stata verificata da nessuno; eppure è verificabile e possiamo descrivere i passi che dovremmo intraprendere per verificarla. Dovremmo prima trovare i mezzi per arrivare in altre parti dell’universo, e poi vedere se ospitano esseri viventi. Se si stabilisce che tali esseri esistono, allora la proposizione sarà vera; altrimenti sarà falsa. Ma in ogni caso è significante, perché si possono descrivere le condizioni in cui sarebbe dato sapere se è vera o falsa.
Prendiamo invece in considerazione l’enunciato «Dio esiste in un luogo celeste». Quali condizioni ne proverebbero la verità? Che passi possiamo intraprendere per dimostrare che, almeno in linea di principio, è verificabile? Poiché non esiste alcun modo concepibile di effettuare una verifica, fosse anche solo in linea di principio, questo enunciato non contiene alcuna informazione: non è un’asserzione cognitivamente significante.
Se accettassimo le idee fondamentali dei positivismo logico, quali sa­rebbero le conseguenze per la filosofia tradizionale? La conseguenza princi­pale sarebbe quella di respingere alcune pretese della filosofia: quella  di dirci qualcosa sul mondo e quella di farlo con proposizioni che non possono essere verificate empiricamente  e quindi sono prive di senso.
Questo significa forse che la filosofia non ha alcuna funzione legit­tima? La risposta è: no! Il neopositivista crede che la filosofia una funzione ce l’abbia: quella di analizzare il linguaggio. Si tratta di prendere in considerazione un problema, mostrando a quali tra le domande che esso pone si può rispondere mediante il ragionamento logico e matematico e a quali mediante l’indagine empirica. La funzione della filosofia non è di rispondere a queste domande, ma semplicemente quella di chiarire il loro significato in modo che si possa sapere di che specie sono e come procedere per dare una risposta.
Riassumendo, mentre il compito della filosofia consiste nell’analizzare il significato delle proposizioni e stabilire se si tratta di proposizioni analitiche, sintetiche o prive di senso, quello dello scienziato consiste nella enunciazione di teorie e nel controllo della loro verità o falsità mediante osservazioni od esperimenti. Poiché una teoria scientifica è necessariamente una proposizione sintetica, può essere sottoposta a verifica. Se risulta vera, allora viene accettata come parte della nostra conoscenza. Una teoria scientifica, tuttavia, è una proposizione, oltre che sintetica, universale. Sorge, pertanto, il problema di stabilire come possa essere verificata una proposizione di questo tipo, dato che essa trascende necessariamente qualsiasi proposizione osservativa (singolare) o anche qualsiasi insieme di tali proposizioni che pretenda di accertarne la verità. Le soluzioni che si possono tentare sono due, ma nessuna risulta accettabile.
La prima consiste nell’affermare che una proposizione universale si può ottenere da una serie più o meno numerosa di proposizioni osservative. La sua verità sarebbe garantita, naturalmente, dalla verità di queste ultime. Ma su questa strada incontriamo un ostacolo insuperabile: il problema dell’induzione.
La seconda soluzione consiste nell’affermare che una proposizione universale può essere verificata (confermata) da una o più asserzioni singolari, quanto più numerose tanto meglio. Ma questa è una pretesa infondata: si basa infatti su un argomento logico scorretto, la c. d. “fallacia dell’affermazione del conseguente”, che presenta questa forma:

Se p, allora q
q
p. 

Alcuni filosofi della scienza hanno fatto osservare che una proposizione singolare, sebbene non possa confermare una teoria (proposizione universale), tuttavia  è perfettamente in grado di falsificarla. Lo dimostra la validità dell’argomento seguente, detto modus tollens:

Se p, allora q
non-q
non–p.

(L’invalidità del primo argomento e la validità del secondo risultano evidenti se a p e q sostituiamo, rispettivamente, le proposizioni “Sono a Venezia” e “Sono nel Veneto”).
Da questa osservazione ha preso spunto un nuovo indirizzo dell’epistemologia, detto falsificazionismo, che si propone di fornire, dopo il crollo dell’empirismo e del razionalismo, criteri realistici di accettazione delle teorie scientifiche.

 

9.   Il RAZIONALISMO E LE GEOMETRIE NON EUCLIDEE

 

9.1.   L’ALTERNATIVA RAZIONALISTA

 

Abbiamo fin qui considerato il tentativo dell’empirista di sconfiggere lo scetticismo e mostrare che è possibile la cono­scenza certa. Ma l’empirismo non è stato l’unico tentativo in questo senso. Ci occuperemo ora dell’alternativa ra­zionalista o intellettualista.
Riprendiamo la questione scettica del regresso infinito delle dimostrazioni e delle definizioni. Gli empiristi avevano cercato di arrestarlo dicendo che i sensi sono una fonte di conoscenza immediata e certa riguardo al mondo. La rispo­sta razionalista al regresso è strutturalmente simile: si cerca di fermarlo dicendo che la ragione o l’intelletto sono una fonte di conoscenza immediata e certa riguardo al mondo. La verità dei primi principi del razionalista non sarà esami­nata alla luce dell’esperienza sensoriale, ma al “lume naturale della ragione”. E da questi principi evidenti di per sé si po­tranno provare molte altre cose che a prima vista sembrano assai lontane dall’essere evidenti di per sé.
Il razionalismo (o intellettualismo) è, almeno a prima vista, una dottrina assai meno plausibile dell’empirismo. Come può il pensiero puro, questo cosiddetto “lume naturale della ragione”, fornirci una conoscenza certa del mondo? Ma abbiamo visto co­me l’empirismo, malgrado la sua plausibilità iniziale, si sia trova­to affetto da molteplici difficoltà. Forse una qualche forma di razionalismo è il solo modo per uscire dalle difficoltà dell’em­pirismo. Molti empiristi hanno pensato in questo modo. Ci basti ricordare Russell e la sua disperata concezione che, per cercare di convalidare gli argomenti induttivi e di fornire una risposta a Hume, dobbiamo supporre che esista qualche principio indut­tivo generale, conoscibile indipendentemente dall’esperienza. Le difficoltà dell’empirismo non erano la sola ragione, e nemmeno la ragione principale, per­ché i filosofi pensassero che una tale conoscenza dovesse es­sere possibile. La ragione principale per pensarlo era che una tale conoscenza esisteva per davvero. Il che ci porta al paradigma razionalista.

 

    1. Il PARADIGMA RAZIONALISTA

 

Nel corso dei secoli il paradigma razionalista della conoscen­za è stato la conoscenza matematica in generale, e la geometria euclidea in particolare. I filosofi erano incredibilmente impres­sionati da Euclide. John Aubrey racconta un simpatico aneddoto a proposito di Thomas Hobbes,  il filosofo della politica:

“Aveva quarant’anni quando si mise a studiare la geometria; il che accadde per caso. Siccome si trovava nella biblioteca di un tale, c’era li aperto il libro degli Elementi di Euclide, preci­samente alla proposizione 47 del primo libro [cioè il teorema di Pitagora]. Hobbes lesse la proposizione. Per Dio...,disse (di quando in quando inseriva qualche bestemmia per dar più enfasi al discorso), questo è impossibile! Quindi legge la dimo­strazione, che lo riporta a una precedente dimostrazione: leg­ge pure questa. La quale lo riporta a un’altra, e anche questa legge. Et sic deinceps in modo che alla fine, per via dimostrati­va, rimase convinto della verità in questione. Questo lo fece innamorare della geometria”.

Hobbes si innamorò sul serio della geometria. Ebbe a di­chiarare che essa era “la sola scienza che finora a Dio sia pia­ciuto offrire all’umanità”. Passò il resto della sua vita a cer­care di fare per la scienza politica quello che Euclide aveva fatto per la geometria, a cercare di svilupparla more geome­trico: il risultato fu la sua opera più famosa, il Leviatano.
Che cosa impressionava tanto Hobbes? Il teorema di Pita­gora, che gli era per caso caduto sott’occhio, dice che il quadra­to costruito sull’ipotenusa di un triangolo rettangolo è uguale alla somma dei quadrati degli altri due lati. È tutt’altro che ov­vio o evidente di per sé che ciò sia vero; anzi, Hobbes in un pri­mo momento pensò che fosse impossibile. Ora, Euclide non cerca di convincerci della sua verità esibendo triangoli rettan­goli di varie fogge e dimensioni, costruendo quadrati sui loro lati e misurandone le aree. Un tale metodo non ci darebbe nes­suna sicurezza che il teorema valga per tutti i triangoli, o che il prossimo triangolo che esaminiamo non falsifichi il teorema: ri­cordiamoci il problema dell’induzione. Il metodo euclideo è del tutto differente: dimostra il teorema facendo vedere che, se si accettano per vere alcune altre proposizioni geometriche più semplici, allora si dovrà accettare per vero anche il teorema di Pitagora. Ora, queste altre proposizioni alle quali Euclide si ri­chiama nel corso della dimostrazione, pur se generalmente più semplici, non sono neanche loro ovvie o evidenti di per sé. Così Euclide dimostra anche queste. Edotti dalle argomentazioni scettiche sul regresso infinito, sappiamo che Euclide deve parti­re con alcune proposizioni indimostrate o principi primi o as­siomi. E in effetti così fa. Ma le proposizioni indimostrate o as­siomi da cui dipendono tutte le successive dimostrazioni eucli­dee sono vere in modo ovvio, sono vere di per sé. Sono dieci:

Se a cose uguali si aggiungono cose uguali, ne risultano cose uguali.
Se da cose uguali si sottraggono cose uguali, i resti sono uguali.
Cose che sono uguali a una stessa cosa sono uguali anche tra loro.
Cose che coincidono tra loro sono tra loro uguali.
Il tutto è maggiore della parte.
Per due punti passa una linea retta.
Una linea retta può essere prolungata indefinitamente in tutte e due le direzioni.
Dato un punto e una lunghezza, c’è un cerchio che ha co­me centro quel punto
e raggio quella lunghezza
Tutti gli angoli retti sono uguali.

(La terminologia di Euclide è stata modificata. Si è anche igno­rato il fatto che Euclide chiama i primi cinque assiomi “nozioni comuni”, perché non sono specifici della geome­tria. Inoltre, erano stati annunciati dieci assiomi e ne sono stati elencati solo nove; la ragione di questo delibe­rato errore sarà chiarita a tempo debito.)
Ciò che impressionò tanto Hobbes fu questo. Gli assiomi euclidei sono evidenti di per sé: una volta che siano stati inte­si, basta “il lume naturale della ragione” per vedere che sono veri. Eppure, grazie a un lungo, ma altrettanto evidente di per sé, processo di ragionamento, Euclide è in grado di dimostra­re molte altre proposizioni che  non sono affatto ovvie o evidenti. L’esempio in cui si imbatté Hobbes fu il teorema di Pitagora, che a prima vista gli sembrava impossibile. Un altro esempio si trova alla fine degli Elementi, quando Euclide di­mostra che esistono esattamente cinque poliedri regolari, né più, né meno. (Un poliedro regolare, per esempio il cubo, è un solido le cui facce sono tutte uguali così come gli “angoli solidi” fra le facce.) E tutto questo viene ottenuto per mezzo del puro ragionamento, senza alcun appello all’esperienza sensoriale.
Hobbes non è stato l’unico a rimanere impressionato. Un altro esempio è Albert Einstein che ci racconta quale grande impressione gli fece Euclide, quando aveva so­lo dodici anni:

“C’erano delle asserzioni, per esempio quella che le tre altezze di un triangolo si intersecano in un sol punto, che - pur non essendo affatto evidenti - potevano essere tuttavia dimostrate con tanta certezza da eliminare qualsiasi dubbio. Questa luci­dità e certezza mi fecero un’indescrivibile impressione. Il fat­to che l’assioma dovesse essere accettato senza dimostrazione non mi dava fastidio. Per me era sufficiente, in ogni caso, po­ter basare le dimostrazioni su proposizioni la cui validità non mi sembrava dubbia. [...] Sembrava possibile acquistare una certa conoscenza degli oggetti dell’esperienza per mezzo del puro pensiero”.

Einstein ci addita qui proprio quello che è il sogno razionali­sta: “acquistare una certa conoscenza degli oggetti dell’espe­rienza per mezzo del puro pensiero”. Sembrava che Euclide avesse fatto divenire realtà questo sogno, almeno nella misura in cui si trattava della conoscenza dello spazio. I razionalisti speravano di ottenere altrettanto per altre discipline, operan­do come Euclide aveva fatto per la geometria: cominciare con assiomi evidenti di per sé, appropriati per la disciplina in que­stione, e stabilire la verità dei teoremi in quella stessa discipli­na per mezzo di un processo di ragionamento anch’esso evi­dente di per sé.
Ci sono stati molti tentativi. Si è già menzionato il Leviata­no di Hobbes. I Principi della filosofia di Descartes furono scritti in modo geometrico, con assiomi, teoremi e dimostra­zioni. Così fece Spinoza con la sua Ethica more geometrico demonstrata. Così fece Isaac Newton in uno dei più impor­tanti testi scientifici che siano mai stati scritti, i Philosophiae naturalis principia mathematica (iltitolo alludeva deliberata­mente a quello di Descartes). Il Saggio sul governo di James Mill comincia anch’esso con pochi assiomi riguardanti la natura umana, che egli pretende­va fossero evidenti di per sè, e cerca di dedurre da essi la dottrina politica. Allo stesso modo gli economisti neoclassici costruiscono la loro teoria partendo da alcune proposizioni ritenute evidenti di per sè e deducendo da queste, con l’aiuto della matematica tutte le altre proposizioni. Una versione assiomatica della teoria dell’equilibrio economico generale, originariamente formulata da Léon Walras nella seconda metà del’’800, è stata proposta recentemente da Gerard Debreu (Theory of value. An axiomatic analysis of economic equilibrium, 1959). Questi progetti non erano ispirati dal solo Euclide. Ci sono molti esempi isolati di “primi principi” apparentemente “evidenti di per sé”: “Ogni oggetto fisico occupa uno spazio”; “Niente può essere in due luoghi in uno stesso momento”; “Due cose non possono essere in uno stesso luogo nello stesso momento”; “Niente può essere contemporaneamente blu e rosso”; “Se una cosa ne causa un’altra, allora la prima non può acca­dere dopo la seconda”; “Quanto più denaro possiedi, tanto meno ti importa di avere cento lire in più”; “Tutti preferisco­no avere di più di ciò che a loro piace che averne meno” e così via.
Come c’è il regresso infinito delle dimostrazioni, che i razio­nalisti arrestavano con gli assiomi, così per gli scettici c’era an­che il regresso infinito delle definizioni. Alcuni razionalisti arre­stavano anche questo appellandosi al “lume naturale della ra­gione”: la ragione ci permette di afferrare certi concetti indi­pendentemente dall’esperienza. Di nuovo, Euclide era il cam­pione e l’ispiratore di questa concezione. Per evitare il regresso Euclide opera con certi termini primitivi, come “linea”, “pun­to”, “piano”. Il significato di questi termini potrebbe venire ap­preso per mezzo dell’esperienza? I razionalisti pensano di no, perché tali termini si riferiscono a cose che non sono affatto ac­cessibili ai sensi. Un punto geometrico non occupa spazio, una linea geometrica non ha larghezza. I “punti” e le “linee” che tracciamo sulla carta o sulla lavagna sono degli ammassi relati­vamente piccoli ma estesi e dei vermi relativamente sottili e al­lungati - rappresentazioni più o meno adeguate dei veri punti e delle vere linee geometriche. Posso accorgermi che un certo ammasso o un certo verme sono un’approssimazione migliore di un punto o di una linea genuini rispetto a un altro ammasso o un altro verme, soltanto perché sono in possesso dei concetti geometrici di punto e di linea. La fonte di questi concetti, che ci permettono giudicare ciò di cui facciamo esperienza, non può es­sere l’esperienza. Tesi questa che è stata estesa ad altri concetti che non si riferiscono a oggetti dell’esperienza: Dio, l’essere, il bene, la giustizia, ecc.. Tutti questi sono idee o concetti  innati, volendo in­tendere che sono prodotti della ragione pura.
Gli empiristi non ne furono convinti e dedicarono molte energie a mostrare che tutte le idee e i  concetti sono derivati dall’esperienza. Affermavano che noi possediamo una facoltà, la facoltà di astrazio­ne: percepiamo ammassi più grossi e più piccoli, facciamo astrazione dalle dimensioni, e perveniamo al concetto di pun­to geometrico. Percepiamo esseri limitati e imperfetti, faccia­mo astrazione dalle limitazioni e imperfezioni, e perveniamo al concetto di Dio.
Tuttavia, concetti e verità vanno tenuti distinti. Si può pensare che l’esperienza sia la fonte di tutti í concetti e di tutte le verità (come pensavano gli empiristi radicali). Si può pensare che l’esperienza sia la fonte di tutti i concetti ma non di tutte le verità (come pensava Locke). Si può pensare che l’esperien­za sia la fonte di tutte le verità ma non di tutti i concetti (co­me pensava Einstein). Si può pensare che l’esperienza non sia la fonte né di tutti i concetti né di tutte le verità (come pensavano Platone e Descartes). La vera disputa fra raziona­listi ed empiristi riguardava le verità e la conoscenza, non i concetti con cui essa si esprime. Dobbiamo allora concen­trarci su questa.

 

  1. LA CONOSCENZA MATEMATICA E’ ANALITICA O SINTETICA?

 

Mentre per í razionalisti la conoscenza matematica rap­presentava l’ispirazione principale, essa era una vera spina nel fianco degli empiristi. Per poter valutare le difficoltà che gli empiristi incontrarono con la matematica, è utile comin­ciare con una coppia di distinzioni che furono formulate per la prima volta dal filosofo tedesco Immanuel Kant. La prima distinzione è quella fra conoscenza a priori e a posteriori: la conoscenza a priori è quella che può essere ottenuta indipendentemente dall’esperienza; a poste­riori, quella che si ottiene grazie all’esperienza. Occorre far subito due commenti sulla definizione di conoscenza a priori. In primo luogo una conoscenza può essere a priori anche se, di fatto, una persona può averla ottenuta in seguito a un’esperienza: se la cono­scenza può essere ottenuta indipendentemente dall’esperien­za, allora è a priori. Così, una persona può, a livello psicolo­gico, essere indotta a credere che 7 + 5 = 12 contando degli oggetti, cioè in seguito a un’esperienza. Ma se questa verità può essere conosciuta indipendentemente dall’esperienza, essa rimane una verità a priori. In secondo luogo, una conoscenza può dipendere dal dominio del linguaggio da parte di una persona, e quella persona può aver appreso il linguaggio tramite l’esperienza. Ma se una persona, appreso un linguaggio, può arrivare a conoscere una verità senza nessun’altra esperienza, allora quella verità è conosciuta a priori.
La prima distinzione kantiana è una distinzione epistemo­logica, una distinzione fra due tipi di conoscenza. La seconda distinzione è logica, o semantica: è la distinzione fra proposizioni analitiche e proposizioni sintetiche. Come sappiamo, le proposizioni analitiche vengono definite come quelle che sono vere in virtù del significato delle parole che contengono. Kant dava una definizione che rappresenta un caso particolare di questa idea: un enunciato è analitico se il predicato è “conte­nuto” nel soggetto. L’esempio preferito, “Tutti gli scapoli sono non sposati”, soddisfa entrambe queste definizioni: una volta stabilito che il soggetto significa “uomo non sposato”, si constata che il predicato “non sposato” è contenuto nel sog­getto come sua parte (“contenuto in” deve essere inteso in senso lato, in modo da comprendere “lo stesso di”: così “Tutti gli scapoli sono scapoli” viene anch’esso qualificato come un enunciato analitico.) Questa definizione e questo esempio kantiani, sono ristretti a pro­posizioni del tipo soggetto-predicato. Ma non tutte le propo­sizioni sono di questo tipo. Forse renden­dosene conto, Kant diede anche un’altra definizione di analiticità: una proposizione è analitica se la sua verità è conseguenza della sola legge di contraddizione. Possiamo intenderla nel senso che una proposizione è analitica se la sua negazione implica contrad­dizione (cioè se può essere dimostrata tramite reductio ad ab­surdum). E possiamo semplicemente definire sintetiche le proposizioni che non sono analitiche.
Possiamo anche parlare di falsità analitiche e falsità sintetiche, che si definiscono come nel caso precedente. In questo modo, il dominio dell’analitico è costitui­to da quegli enunciati la cui verità o falsità segue dal significato delle parole che contengono. Nel seguito, come si fa usualmente, chiameremo tautologia un enunciato analiticamente vero e contraddizione un enunciato analiticamente falso.
Queste due distinzioni, una epistemologica e l’altra logica, ci danno quattro possibilità, che possiamo rappresentare nella scatola di Kant (figura 8). Gli empiristi e i razionalisti sono d’accordo sul fatto che lo scompartimento analitico a posteriori è vuoto: se la verità di un enunciato (o la sua falsità) segue dal significato delle parole che contiene, allora non abbiamo bisogno di apprendere dal­l’esperienza la sua verità (o falsità). Gli empiristi e i razionali­sti sono anche d’accordo che lo scompartimento analitico a priori non è vuoto: le verità analitiche sono conoscibili indi­pendentemente dall’esperienza. Gli empiristi e i

razionalisti sono ancora d’accordo (anche se ciò è meno ovvio) che lo scompartimento sintetico a posteriori non è vuoto. Gli empiri­sti pensano che ogni conoscenza sintetica sia a posteriori. La maggior parte dei razionalisti, senza accettare questa pretesa di  universalità, concedono che c’è una qualche conoscenza a poste­riori: persino il razionalista più fanatico concede che il solo modo di sapere quanti capelli ci sono sulla te­sta di una persona è di contarli. (Il razionalista intransigente potrebbe dire, però, che lo scompartimento sintetico a posteriori in realtà non contiene conoscenze, ma semplici credenze, poiché tutti i suoi contenuti sono incerti.)
Il problema si riduce allo scompartimento sintetico a priori. La tesi fondamentale dell’empirismo è che esso è vuoto. Gli empiristi sono di una fermezza adamantina nel sostenere una tesi di coestensività: l’analitico è coestensivo con l’a priori, il sintetico con l’a posteriori. D’altra parte, la tesi fondamentale del razionalismo è che esista la conoscenza sin­tetica a priori. È a questo che si riferiva Einstein quando parla­va di “ottenere una certa conoscenza degli oggetti dell’espe­rienza per mezzo del puro pensiero”.
Accanto alle distinzioni logiche ed epistemologiche che abbiamo discusso, i razionalisti introducono una distinzione metafisica fra proposizioni necessarie e contingenti. Le proposizioni contingenti sono vere in virtù di come il mondo è fatto; se il mondo fosse fatto al­trimenti, nonostante esse siano vere nel mondo che c’è, sa­rebbero false in qualche altro mondo possibile. Le verità ne­cessarie sono vere indipendentemente da come è fatto il mondo; sarebbero vere anche se fosse fatto altrimenti, sono vere in tutti i mondi possibili.
Gli empiristi tendono a non aspettarsi un granché da que­sta terza distinzione e la considerano nient’altro che una confusa variante terminologica della distinzione logica fra verità analitiche e sintetiche. Ai loro occhi, l’analitico è coestensivo con l’a priori e con il necessario. La concezione razionalista è me­no squadrata. Essi considerano l’analitico a priori necessario, il sintetico a posteriori contingente. Ma il sintetico a priori è necessario o contingente? Kant lo considerava contingente; altri (come Leibniz) lo consideravano necessario.
Cosa possono farci, gli empiristi, con il paradigma razio­nalista, la conoscenza matematica? Data la loro tesi di coe­stensività, ci possono fare solo due cose: la devono collocare o nello scompartimento analitico a priori della scatola di Kant o in quello sintetico a posteriori. Ma nessuna delle due concezioni sembra, a prima vista, plausibile.
È chiaro che è banale che alcuni enunciati matematici siano analitici e a priori: “Tutti i numeri primi sono numeri”, “Due è identico a due” sono degli esempi. Ma è plausibi­le supporre che lo siano tutti? Enunciati come “7 + 5 = 12”, o il teorema di Pitagora, o “Non esiste un numero primo più grande di tutti gli altri” non sembrano essere veri in virtù delle parole che contengono. Si può comprendere questi enunciati perfettamente, senza sapere se sono veri o no. In aritmetica, la più semplice delle teorie matematiche, ci sono problemi fa­mosi, ben noti quanto irrisolti da secoli, piuttosto semplici da enunciare. La congettura di Goldbach dice che ogni numero pari è somma di due primi. La congettura dei primi gemelli di­ce che ci sono infiniti “numeri primi gemelli”, cioè infinite coppie di numeri primi la cui differenza è 2 (come per esem­pio 11 e 13). I matematici non sono stati in grado di provare o di confutare queste congetture nonostante sappiamo benissimo che cosa significhino questi enunciati. È poco plausibile pensare che essi sia­no o analiticamente veri o analiticamente falsi, se non siamo ancora riusciti a sapere se sono veri o falsi.
Nemmeno le verità note in matematica sembrano essere analiticamente vere. I matematici sanno che non esiste un numero primo più grande di tutti (questo non è un proble­ma irrisolto). Ma lo sanno non grazie a un’analisi del signifi­cato delle parole, ma grazie alla dimostrazione. E nemmeno sembra che si dia luogo a una contraddizione negando un enunciato dimostrato, o teorema, di questo genere. Tuttavia nel derivare una con­traddizione dalla negazione di un teorema, il matematico si ap­pellerà ad altri principi matematici assunti come premesse. Un’attenta analisi di tutte le dimostrazioni, per esempio dell’aritmetica, rivelerebbe che devono essere as­sunti un piccolo numero di principi perché si possano dimo­strare (direttamente o per assurdo) i teoremi dell’aritmetica stessa. Questi sono, in effetti, gli assiomi dell’aritmetica. Si può così mostrare che la negazione di “7 + 5 = 12” o di “Non esiste un numero primo più grande di tutti gli altri” conduce a negare uno degli assiomi assunti. (Il che, di fatto, equivale a dimostrare che le proposizioni “7 + 5 = 12” o “Non esiste un numero primo più grande di tutti gli altri” derivano dagli as­siomi dell’aritmetica.)
A questo punto iI solo modo con cui gli empiristi possono difendere la loro posizione è di dire che gli assiomi matematici stessi so­no analitici, di modo che qualsiasi cosa venga dedotta da essi (direttamente o per assurdo) è anch’essa analitica. Potrebbe­ro anche aggiungere che non è necessario che le verità anali­tiche siano per forza delle banalità o delle verità ovvie. Tuttavia molti assiomi matematici non sem­brano affatto analitici. E nessuno di essi può essere dimo­strato tramite una reductio ad absurdum, perché nessuno di essi può essere dimostrato in nessun modo.
Il secondo corno del dilemma empirista è cercare di infila­re la matematica nello scompartimento sintetico a posteriori della scatola kantiana. Il più famoso avvocato di questo ap­proccio fu John Stuart Mill. Mill diceva che le verità matema­tiche (non analitiche) sono “generalizzazioni dell’esperien­za”, aggiungendo che siamo portati a perdere di vista questo fatto perché la matematica contiene alcune delle nostre gene­ralizzazioni dell’esperienza che sono fra le “prime e più fami­liari”. Mill non negava, evidentemente, che apprese alcune verità matematiche per mezzo dell’esperienza, i matematici non possano provare tutte le verità matematiche a partire da quelle. Ma non si possono provare tutte le verità matematiche da altre verità matematiche, pena un regresso infinito. La ca­tena di verità matematiche deve terminare in verità matemati­che che sono dimostrate dall’esperienza, non sulla base di al­tre verità matematiche. Gli assiomi della matematica devono essere generalizzazioni dell’esperienza.
Già Kant aveva criticato una concezione del genere. Egli riteneva che Hume, con la sua critica del ragionamento in­duttivo, avesse dimostrato che nessuna conclusione ottenuta per generalizzazione induttiva può essere considerata assolu­tamente certa. Così, se “2 + 2 = 4” o “La somma degli angoli di un triangolo è uguale a 180°” fossero le conclusioni di ge­neralizzazioni induttive, dovremmo ammettere che non sia­mo assolutamente sicuri della loro verità. Ma, insisteva Kant, noi siamo sicuri della loro verità, e dunque non possono es­sere mere generalizzazioni induttive.
Mill rifiutava questo argomento perché rifiutava la critica di Hume alla generalizzazione induttiva, convalidandola mediante un appello al principio induttivo che la natura è unifor­me. E sosteneva che sappiamo che il principio è vero perché anch’esso è una delle “nostre prime e più familiari generalizza­zioni dell’esperienza”. Mill così scendeva, senza accorgersi, il primo gradino del­la scala del regresso infinito humiano dei principi induttivi.
Possiamo utilizzare un altro argomento per rafforzare quello kantiano. È una caratteristica delle conoscenze a po­steriori che, indipendentemente dalla misura di quanto sia­mo certi della loro verità, possiamo almeno immaginare, nel caso fossero false, come potremmo apprenderlo dall’espe­rienza. In altre parole, di fronte a conoscenze del genere pos­siamo specificare una situazione che, nel caso si verificas­se, ci indurrebbe a ritenere che gli enunciati che le esprimono sono stati falsificati. Io sono convinto che tutti i corvi siano neri. Sono - possiamo supporlo - assolutamente certo che è vero. (Non sono certo della sua verità perché è analitica, perché credo che l’essere nero sia parte della “definizione” della pa­rola “corvo”. Stiamo parlando qui di verità sintetiche.) Ma, per quanto certo possa esserne, posso dire che cosa mi fa­rebbe abbandonare tale credenza: per esempio vedere un corvo rosa che si posa sul mio davanzale. Sono certo che questo non accadrà mai, ma devo concedere che potrebbe succedere, che è possibile.
Consideriamo ora un esempio geometrico. In cosa potrebbe consistere una confuta­zione di “La somma degli angoli di un triangolo è uguale a 180°”? Dobbiamo prendere un triangolo, misurarne gli an­goli e scoprire che la somma non fa 180°. Ora, un triangolo è formato da tre rette che si intersecano; dunque, per pren­dere un triangolo, devo trovare tre rette che si intersecano. Lasciamo stare i dubbi sul fatto che le rette geometriche sono del tutto inaccessibili ai sensi. L’ottica geometrica ci dice che la luce viaggia in linea retta nei mezzi omogenei. Possiamo quindi immaginarci un “triangolo di luce”, per esempio prendendo tre sorgenti luminose ciascuna delle quali sia visibile dalle altre due e collocata in modo che si possano misurare gli angoli sotto cui essa viene vista. Se som­miamo questi angoli, avremo la somma degli angoli del no­stro “triangolo luminoso”. Supponiamo che la somma degli angoli sia 190°. Possiamo dire di aver trovato un modo di confutare la nostra proposizione geometrica?
Ovviamente no. Diremmo piuttosto che le nostre misure devono essere sbagliate. O potremmo dire che il mezzo at­traversato dai raggi di luce non era omogeneo. E se nessuna di queste due cose funzionasse, saremmo forzati a dare la colpa all’ottica geometrica e dire che la luce non viag­gia sempre in linea retta nei mezzi omogenei. Ciò che non vorremmo fa­re mai è dare la colpa alla geometria.
Vale la pena di analizzare la situazione  sul piano lo­gico. Euclide ci fornisce la proposizione geometrica. L’ottica geometrica ci dice che la luce viaggia in linea retta in un mezzo omogeneo. Queste due cose insieme ci dicono che la somma degli angoli di un qualunque “triangolo di luce” è di 180°:

Euclide: La somma degli angoli di un triangolo è 180°.
Ottica geometrica: La luce viaggia in linea retta in un mezzo omogeneo.
Conclusione: La somma degli angoli di un qualsiasi “triangolo di luce” è 180°.

Ora le nostre misure im­maginarie, posto che siano corrette, confutano certamente la conclusione dell’argomento. Se respingiamo la conclusione, dobbiamo respingere anche una delle due premesse. E ab­biamo appena detto che non esiteremmo a dar la colpa al­l’ottica geometrica.
Ma perché? La risposta, in definitiva, è che abbiamo biso­gno di Euclide, non solo in ottica, ma nelle scienze in gene­rale, per non parlare della vita quotidiana. Rinunciare a Eu­clide vorrebbe dire gettare nella confusione tutto il comples­so delle nostre conoscenze. Per contro, abbandonare l’idea che la luce viaggi in linea retta significa solo che dobbiamo modificare l’ottica. Il che sarebbe serio, ma non catastrofico. Così, per quanto sia logicamente possibile dare la colpa a Euclide - come mostra il nostro argomento - non è in realtà possibile nella pratica. Si potrebbe dire che la geometria euclidea è prati­camente inconfutabile o praticamente a priori.
Il nostro argomento mostra anche in che modo la geometria euclidea (e la matematica in generale) ci sia utile. Entrambe le premesse di quell’argo­mento sono necessarie per ottenere la conclusione: l’ottica geometrica, da sola, non ci fornisce la conclusione sui trian­goli di luce, abbiamo bisogno anche della proposizione di Euclide. Se omettiamo la proposizione euclidea, ovviamente l’argomento diventa scorretto. Ma se le proposizioni eucli­dee fossero analitiche, potrebbero essere omesse senza toc­care la validità dell’argomentazione. Così, oltre essere “prati­camente a priori”, la nostra proposizione euclidea è anche sintetica: ne abbiamo bisogno per ottenere conclusioni so­stanziali riguardo al mondo (nel nostro piccolo esempio, ri­guardo ai “triangoli di luce”). Di fatto, usiamo verità mate­matiche nella vita quotidiana e si tratta di verità estrema­mente utili. È difficile capire come potrebbero esserci tan­to utili delle verità meramente analitiche. La matematica de­ve essere sintetica per poter giocare il ruolo così importante che svolge nella vita quotidiana e nelle scienze.
II dilemma empirista sembra dunque senza speranza. Né l’una né l’altra delle teorie empiriste della matematica sem­brano sia pur minimamente plausibili. Che il sogno raziona­lista di una conoscenza sintetica a priori non sia poi così fol­le, in fin dei conti?

 

  1. LE OBIEZIONI SCETTICHE AL RAZIONALISMO

 

Abbiamo parlato del successo del metodo euclideo, del sogno razionalista di estenderlo ad altre discipline e delle diffi­coltà incontrate dagli empiristi. Lo scettico che dice di tutto questo?
La più importante obiezione scettica colpisce il cuore della posizione razionalista. I razionalisti dicono che i loro assiomi sono  veri perché sono “evidenti di per sé”, perché la loro verità è ovvia o indubitabile secondo “il lu­me naturale della ragione”, perché (come sosteneva Descartes) “percepiamo in modo chiaro e distinto che sono veri”. Ma che garanzie ha il razionalista che una falsità non possa essere evidente di per sé, ovvia, indubitabile, percepita in modo chiaro e distinto? Il razionalista deve stabilire che l’e­videnza  garantisce la verità. E questo, so­stiene lo scettico, non può essere stabilito.
L’obiezione può venire espressa in molti mo­di e sostenuta con varie considerazioni. Gli scettici amano so­stenerla esibendo credenze che i nostri antenati pensavano fossero evidenti di per sé, ma che noi riteniamo false (“La Terra è piatta” e “Il tutto è più grande della parte” sono fra gli esempi favoriti). La sostengono anche mostrando dei casi estremi che sembrano però del tutto possibili: che succe­de se per A la proposizione p è evidente di per sé, mentre per B è evidente non-p? A e B non possono avere ragione tutti e due e dunque l’evidenza non può garantire la verità. Il razionalista come può dimostra­re che non sono possibili casi estremi di questo tipo?
Una seconda obiezione scettica riguarda la nozione razio­nalista di dimostrazione. I razionalisti affermavano che si può  dimostrare che proposizioni a prima vista non evidenti di per sé diventano evidentemente vere deducendole da assiomi evidenti di per sè. Ma sono possibili errori di ragionamento, specialmente nel corso di lunghe catene di­mostrative. Se si verifica un errore del genere potremmo trovarci a “dimostrare” o a “provare” una falsità. Quindi c’è un alone di incertezza che circonda qualsiasi verità “di­mostrata”. Perfino se diamo per scontato che conosciamo con sicurezza gli assiomi, non possiamo estendere questo ti­tolo d’onore ai teoremi.
Una terza obiezione scettica riguarda il sogno razionalista di estendere il progetto euclideo. Che garanzie ci sono che questo possa essere fatto? È solo una pia speranza, dice lo scet­tico, che si possano trovare assiomi evidenti di per sè e adegua­ti a fondare le verità della fisica o dell’etica o della scienza poli­tica o dell’economia. Tentativi di estendere il progetto euclideo al di là dei confini matematici non sono certo mancati, e sono stati noto­riamente fallimentari.
La più importante di queste obiezioni è la prima. Per ap­prezzarne la forza, consideriamo una possibile risposta a essa. Lo scettico pretende che è possibile che una persona trovi che una qualche proposizione è evidente di per sè (o ovvia, o in­dubitabile), mentre un’altra trova che la negazione di quella proposizione è evidente di per sè (o ovvia, o indubitabile). Si potrebbe obiettare che questo significa travisare la natura del­l’autoevidenza. Lo scettico sta assumendo che una proposizio­ne sia non evidente di per sé, ma solo evidente per una o più persone. Lo scettico considera l’autoevidenza come una rela­zione epistemologica che viene intrattenuta fra un determinato gruppo di persone e un determinato gruppo di proposizioni. E’ così che può supporre che una proposi­zione possa intrattenere una relazione con una persona e non con un’altra. Ma, per il razionalista, si tratta di un fraintendimento: l’autoeviden­za è una caratteristica intrinseca di queste proposizioni, ed è del tutto indipendente da ciò che la gente pensa. Allo stesso modo, dire che una proposizione è indubitabile non vuol dire che, sul piano psicologico, questa o quella persona non ne possano dubitare. Vuol dire piuttosto che, così come è vera, ha anche un’altra caratteristica: l’indubitabilità. Ha poco senso parlare di una proposizione evidente di per sé o indubitabile per que­sta o quella persona, come ha poco senso parlare di una pro­posizione che sia vera per una persona e non per un’altra. In­fatti, l’autoevidenza e l’indubitabilità, come la verità, sono ca­ratteristiche intrinseche delle proposizioni.
Come potrebbe rispondere lo scettico? Potrebbe per pri­ma cosa segnalare che se l’autoevidenza o l’indubitabilità so­no caratteristiche intrinseche delle proposizioni che non de­vono essere analizzate in relazione al soggetto umano che concretamente conosce, allora sono caratteristiche del tutto misteriose. Quale caratteristica deve avere una proposizione, a parte l’essere vera, per essere qualificata come indubitabile o evidente di per sé? (Stiamo qui assumendo che l’autoevi­denza o l’indubitabilità non siano la stessa cosa della verità. Negare ciò significa accettare una teoria della verità basata sull’evidenza o sull’indubitabilità). Una risposta a que­sta domanda può essere messa nei termini del “ricercatore idealmente razionale”. Una proposizione è vera in modo au­toevidente non se Tizio o Caio la trovano ovvia, ma se un “ricercatore idealmente razionale” la trova ovvia. Una proposizione è indubitabilmente vera non se io non ne posso dubitare, ma se un “ricercatore idealmente razionale” non ne può dubitare. E chi sarebbe un “ricercatore idealmente razionale”? Il candidato favorito è Dio.
Ma il nostro problema è se gli esseri umani possono cono­scere per mezzo della ragione pura, non se lo può fare Dio. Se il razionalismo deve essere una teoria positiva della cono­scenza umana, allora deve trattare l’autoevidenza e tutto il resto come gli esseri umani la considerano, non come la vede Dio.  Ovviamente, se la verità viene presa come una condizio­ne che definisce l’autoevidenza o l’indubitabilità, allora lo scettico deve parlare di una proposizione falsa che appare evidente o indubitabile a una persona. Una volta che lo scettico si esprima in questo modo, il suo argo­mento mantiene intatta la sua forza.

 

  1. COME FURONO INVENTATE LE GEOMETRIE NON EUCLIDEE

 

Nel corso dei secoli, la principale ispirazione del razionali­smo era stata la geometria euclidea. Sia Descartes che Kant, in forme assai diverse, cercarono di spiegare come il ragiona­mento a priori possa produrre una conoscenza assolutamente certa della struttura dello spazio. Molte persone ebbero riser­ve su queste due teorie razionaliste della conoscenza sintetica a priori. Pochi però ne avevano sul paradigma razionalista di questa conoscenza, la geometria euclidea. Fino agli inizi dell’800 sembrava che non ci fossero alternative plausibili alla concezione razionalista della geometria. Le teorie empiriste sulla conoscenza matematica in generale e sulla geometria in particolare continuavano a sem­brare senza alcun futuro. Ma ben presto gli stessi matematici cominciarono a mettere mano alla questione, scuotendo il consenso sullo status sintetico a priori della geometria, e die­dero agli empiristi una nuova speranza di riuscire finalmente a rendere conto della conoscenza matematica. Cercheremo ora di spiegare come e perché ciò avvenne.
Il trionfale successo di Euclide era macchiato da un pic­colo neo, apparentemente di scarsa importanza, ma che si era fatto notare da molto tempo. Nel precedente paragrafo dei dieci assiomi euclidei ne sono stati elencati solo 9. Quello omesso è:

    Se due rette sono tagliate da una terza in modo che gli an­goli interni da una delle due parti siano minori di due angoli retti, allora le due rette, se prolungate, si incon­treranno da quella parte.

Si tratta di un assioma un po’ più complicato degli altri. Per capirlo bene c’è in effetti bisogno di guardare un dise­gno (figura 9).

 

Questo assioma dice che le rette A e B si intersecheranno se vengono prolungate verso destra, perché gli angoli indicati han­no una somma minore di 180°. Viene chiamato “assioma delle parallele” perché ci permette di dimostrare che quando la som­ma è esattamente 180°, le linee A e B sono parallele (scrive Euclide negli Elementi di geometria: “Parallele sono quelle rette che essendo nello stesso piano e venendo pro­lungate illimitatamente dall’una e dall’altra parte non si incontra­no fra loro da nessuna delle due parti).
I primi geometri non presero molto sul serio il problema della verità dell’assioma delle parallele postulato da Euclide, ma molti dubitarono che fosse vero in modo ovvio o autoevidente. Per esempio, Proclo, nel suo Commento al I libro degli “Elementi” di Euclide, diceva che:

Deve essere assolutamente cancellato dai postulati, perché è un teorema che presenta molte difficoltà [...], e fino a che non ne saremo convinti con una dimostrazione [...], come non respingeremmo questo fatto, probabile sì, ma irraziona­le, dalla nostra dottrina?

In altre parole, non dovremmo porre come assioma un’ “ipo­tesi plausibile” su ciò che faranno o non faranno due rette se le prolunghiamo “illimitatamente”. Un’ipotesi del genere deve essere dimostrata. (L’atteggiamento di Proclo mostra una volta di più la debolezza dell’appello all’autoevidenza: ciò che era evidente di per sé a Euclide e ad altri, non lo era per Proclo.)
Molti geometri cercarono di seguire il suggerimento di Proclo, di dimostrare cioè l’assioma delle parallele a partire dagli altri nove. I tentativi si susseguirono per 2000 anni, ma senza successo. Vennero esibite molte pretese dimostrazioni, che si rivelarono però tutte o sbagliate o contenenti assun­zioni aggiuntive rispetto ai nove assiomi euclidei che non creavano problemi. Il matematico inglese Playfair produsse un esempio importante di quest’ultimo ti­po. Playfair dimostrò che si può dimostrare l’assioma eucli­deo delle parallele, a patto di assumere che per un punto da­to passi una e una sola parallela a una retta data. Questo enunciato, oggi noto come “assioma di Playfair”, è equivalen­te all’assioma di Euclide se viene assunto insieme agli altri assiomi: Euclide aveva dimostrato l’assioma di Playfair a par­tire dai suoi assiomi originari e si può dimostrare l’assioma di Euclide sulla base dei suoi primi nove assiomi e dell’assio­ma di Playfair. In molte discussioni l’assioma di Playfair so­stituisce quello originale euclideo (a volte viene addirittura erroneamente attribuito a Euclide stesso). D’ora in poi esso sarà il nostro assioma delle parallele.
L’assioma di Playfair è evidente di per sé, mentre quello di Euclide non lo era? Alcuni l’hanno sostenuto, ma il risul­tato di equivalenza che abbiamo menzionato mette in dubbio que­sta affermazione. Assiomi equivalenti giocano lo stesso ruolo matematico e logico nel sistema, e che importanza può dun­que avere se uno di loro possa sembrare più “ovvio” o più “evidente di per sé” ad alcune persone?
La “regina delle scienze” si teneva dunque uno scheletro nell’armadio, e le ossa sbatacchiavano sempre più forte col passare dei secoli. Nel XVIII secolo la lista dei tentativi falliti riempiva ormai una ventina di pagine. Nel 1767D’Alembert arrivò a chiamare questa situazione lo “le scandale des Elé­ments de géométrie. Andava crescen­do il sospetto che forse l’assioma delle parallele non potesse essere dimostrato, almeno correttamente. Ma come si poteva mai provare un’asserzione del genere? Il fatto che dozzine di dimostrazioni, una volta esaminate attentamente, si fossero dimostrate scorrette, non provava che una dimostrazione non sarebbe stata scoperta domani. Non si possono esaminare tut­te le dimostrazioni possibili senza prima averle trovate tutte.
Uno di questi tentativi falliti ha un interesse speciale. Nel 1773 il matematico italiano Girolamo Saccheri pubblicò il suo Euclides ab omni naevo vindacatus (Euclide redento da ogni macchia). In questo libro si cercava di dimostrare l’as­sioma delle parallele mediante una reductio ad absurdum: Saccheri assumeva la sua negazione e cercava di dedurne u­na contraddizione. La negazione dell’assioma che esista una e una sola parallela a una retta data passante per un punto dato conduce a due possibilità: o non c’è nemmeno una pa­rallela o ce n’è più di una. Saccheri investigò entrambe le possibilità e ottenne risultati molto particolari. Per esempio, se si assume che non ci siano parallele, si può dimostrare che la somma degli angoli di un triangolo è maggiore di 180°(e tanto più grande è il triangolo tanto maggiore è la somma). Se si assume che ci sia più di una parallela, si può dimostrare che la somma degli angoli di un triangolo è minore di 180°(e tanto più grande è il triangolo tanto minore è la somma). Saccheri pensava che questi risultati fossero così assurdi che l’assioma di Euclide delle parallele fosse stato “vindicatus”. Ma non gli riuscì di derivare una contraddizione esplicita (un enunciato della forma “p e non p”) dalla negazione del­l’assioma euclideo delle parallele, che era quello che gli sa­rebbe servito per una dimostrazione per assurdo completa.
(In realtà la situazione è un po’ più complessa di quanto abbiamo detto. Sia E* il complesso degli assiomi euclidei me­no l’assioma delle parallele, E l’assioma di Euclide delle pa­rallele, R l’assunzione che non ci siano parallele e H l’assun­zione che ci sia più di una parallela. Allora la negazione di E è “o R o H. Saccheri non ottenne nessuna contraddi­zione da “o R o H. Ne ottenne però una da ”R ed E*”. Se gli fosse riuscito di derivarne una anche da ”H ed E*”, que­sto avrebbe provato che se E*è vera, allora “o R o H”deve essere falsa, cioè E deve essere vera. Questa sarebbe stata una vera dimostrazione per assurdo di E a partire da E*).
Un centinaio di anni dopo altri si incamminarono sulla stessa strada. Viveva in Ungheria un vecchio signore di nome Wolfgang Bolyai, che aveva consumato la sua esistenza sullo “scandalo della geometria”. Nel 1804aveva spedito una nuova dimostrazione dell’assioma euclideo delle parallele a Gauss, il matematico più famoso dell’epoca, che gli mostrò che si trattava di un altro tentativo erroneo. Imperterrito Bolyai continuò a cercare e negli anni Venti del XIX secolo aveva messo insieme un libro in cui raccoglieva í suoi tentati­vi falliti, “ponendo in evidenza, in ciascun tentativo, la nuo­va ipotesi da introdurre per rendere rigorosa la dimostrazio­ne”. Fu a questo punto che entrò in scena suo figlio che, contro i consigli del padre, si mise an­che lui a studiare il problema. Bolyai junior, senza saperlo, adottò il metodo di Saccheri: assunse che per un punto dato passasse più di una parallela a una retta data e cercò di deri­varne una contraddizione. Ma, invece di una contraddizione, dedusse molte delle strambe proposizioni in cui già si era imbattuto Saccheri. Siccome era un po’ strambo anche lui, Bolyai junior sostenne che quei risultati non erano affatto strambi, ma solo diversi. II 3 novembre 1823 scriveva a suo padre: “Sono ormai risoluto di pubblicare un’opera sulla teoria delle parallele. [...] Ho creato dal nulla un nuovo uni­verso”.
Bolyai senior non ne era convinto e si decise a mostrare il lavoro di suo figlio a Gauss. Il “principe dei matematici”, co­me lo chiamavano, diede un responso sorprendente:
Se comincio col dire che non posso lodare questo lavoro, re­sterai certamente meravigliato; ma non posso dire altra cosa; lodarlo sarebbe lodare me stesso; infatti tutto il contenuto dell’opera, la via spianata da tuo figlio, i risultati ai quali egli fu condotto coincidono quasi interamente con le mie medi­tazioni, che hanno occupato in parte la mia mente da trenta a trentacinque anni a questa parte.
Gauss prose­guiva poi spiegando che non aveva pubblicato i suoi risultati perché erano così strani che temeva per la sua reputazione. Ma il giovane Bolyai non aveva una reputazione da perdere ed era ben contento di pubblicarli. Cosa che fece, nel 1832, in appendice al libro di suo padre. Senza che né i Bolyai né Gauss lo sapessero, il matematico russo Lobacevskij aveva già pubblicato nel 1829dei risultati simili. Saccheri, Gauss, Bolyai junior e Lobacevskij sono ora considerati come coinventori della geometria iperbolica.
Gauss si preoccupava di come i matematici avrebbero reagito a una geometria non euclidea. Preoccupazioni giusti­ficate: il libro di Bolyai fu accolto da un nugolo di proteste e í suoi risultati scartati come strambi e balzani. Alcuni diceva­no che non c’era da meravigliarsi che venissero ottenuti ri­sultati così balzani perché gli assiomi della geometria iperbo­lica erano incoerenti, e avrebbero condotto a contraddizioni. Grave accusa. Come vi si poteva rispondere? Come dimo­strare che non si poteva ottenere una contraddizione dagli assiomi di Bolyai? Il fatto che nessuno fosse riuscito a deri­varne una non dimostrava che non ne sarebbe stata trovata una domani.
In effetti l’asserzione che la geometria non euclidea è incoe­rente è equivalente all’asserzione che l’assioma delle parallele è dimostrabile. Usando le stesse abbreviazioni introdotte in precedenza, dire che le geometrie non euclidee sono incoerenti è come dire che né “E* e H”né “E* e R”possono essere vere. Come dire che se E* è vera, allora H è falsa e R è falsa, e quindi è falsa anche “o R o H. Ma dire che “o R o H”è falsa è come dire che E è vera. Dunque dire che le geometrie non euclidee sono incoerenti equivale a dire che, se E* è vera, anche E è vera, cioè che E se­gue da E*. Per converso, dire che un sistema non euclideo è coerente equivale a dire che E non segue da E* e dimostrare la prima asserzione equivale a dimostrare la seconda. I due pro­blemi logici: “Come dimostrare che l’assioma delle parallele di Euclide non può essere dimostrato?” e “Come dimostrare che la geometria non euclidea è coerente” sono in effetti lo stesso problema.
Fin qui abbiamo parlato solo della geometria iperbolica. L’altro tipo di geometria non euclidea, quella che viene gene­rata dal sostituire l’assioma delle parallele di Euclide con l’as­sioma che per un punto esterno a una retta non passi nessuna parallela alla retta data, fu studiata da Riemann nella seconda metà del XIX secolo e viene chiamata geometria ellittica o geo­metria riemanniana. Non si può infatti aggiungere semplice­mente l’assioma di Riemann al resto degli assiomi euclidei, perché il sistema che ne risulta è incoerente (come già Sacche­ri aveva dimostrato). Bisogna modificare anche l’assioma euclideo per cui una retta può essere prolungata indefinitamente in entrambe le direzioni. Questo assioma produce infatti linee infinitamente lunghe e uno spazio infinito. L’assioma modifi­cato produce linee finite ma illimitate e uno spazio finito ma il­limitato. Una linea è finita ma illimitata se ha lunghezza finita ma non ha punti che la delimitano: una curva euclidea chiusa, per esempio una circonferenza, è finita ma illimitata.
Riemann e altri matematici misero anche a tacere, negli anni Ottanta del XIX secolo, la grave accusa che le geometrie non euclidee fossero incoerenti. Essi riuscirono a mostrare che se la geometria euclidea è coerente, allora lo sono anche le geometrie non euclidee. Il che significa che abbia­mo tre descrizioni della struttura dello spazio: diverse, ma tutte e tre possibilmente vere.
È molto difficile immaginarci come possano essere vere le geometrie non euclidee, perché siamo totalmente familiarizzati con la concezione euclidea di uno spazio che si estende infinita­mente nelle tre dimensioni. In effetti, questa concezione dello spazio fisico o reale è un frutto relativamente re­cente: è vecchia solo cinquecento anni. Per la maggior parte della storia conosciuta (i duemila anni precedenti) il pensiero occidentale fu dominato da una concezione diversa, dovuta ad Aristotele, per cui lo spazio - o universo - sarebbe finito e di forma sferica. Secondo Aristotele non c’è nulla, nemmeno lo spazio vuoto, al di fuori dell’universo sferico. Per duemila anni la gente comprendeva benissimo questa concezione, e la mag­gior parte delle persone l’accettava per vera. Noi la troviamo molto difficile da capire. È anche molto difficile da capire come possa essere possibile che non esistano parallele o che ce ne sia­no più di una. Tuttavia, possiamo fornire delle “rappresenta­zioni”, o dei “modelli”, di come possano essere veri gli assiomi non euclidei, a patto di essere disposti a lasciare da parte la con­cezione euclidea dello spazio. Supponiamo di avere a che fare con uno “spazio” con solo due dimensioni, costituito da tutti i punti interni a un cerchio. Una retta in questo “spazio” sarà una corda di quel cerchio, o un segmento di corda. E per un punto che non sia sulla retta passeranno infinite rette che non intersecheranno mai la retta data, per quanto esse vengano pro­lungate in questo nostro “spazio” (cfr. figura 10). (Come faccia­mo a sapere che esistono queste infinite “parallele”? Ce lo dico­no i risultati di geometria euclidea riguardanti í punti interni a un cerchio.) Si ha qui la tentazione irresistibile di dire che sol­tanto una di queste rette è veramente parallela alla retta data, perché ogni altra la intersecherà se viene prolungata insieme al­la retta data fuori dal cerchio. D’accordo. Ma questo vuol dire uscire dalla rappresentazione euclidea. Lo “spazio” del nostro modello è limitato dalla circonferenza del cerchio, tutte le rette hanno lunghezza finita, e nessuna retta può essere estesa fuori dal cerchio perché fuori dal cerchio non ci sono “punti dello spazio”. (Proprio come nel sistema aristotelico non ci sono punti fuori dall’universo sferico.)
Possiamo anche fornire un “modello”, una “rappresenta­zione” di uno spazio in cui non ci sono parallele. Si immagini uno “spazio” costituito da tutti e soli i punti della superficie di una sfera. Una retta sarà la distanza più breve fra i punti di questa superficie e cioè un “cerchio massimo” (un cerchio il cui centro coincide con quello della sfera) o un suo arco. (Gli aeroplani volano lungo cerchi massimi quando cercano di co­prire un percorso nel minor tempo possibile.) Due qualsiasi archi di cerchi massimi si intersecano (in due punti) se vengo­no prolungati. Quindi in questo spazio non ci sono rette parallele. (E come

 

facciamo a sapere che gli archi dei cerchi mas­simi si intersecano se vengono prolungati? E la geometria eu­clidea della sfera che ce lo insegna.) Anche qui abbiamo l’irre­sistibile tentazione di dire che gli archi dei cerchi massimi non sono in realtà linee rette, e che la distanza più breve fra due punti della superficie sferica è il segmento che li congiunge e che passa attraverso l’interno della sfera. Ma ancora una volta questo significa uscire dalla rappresentazione euclidea, e im­mergere la sfera nello spazio euclideo tridimensionale. Lo “spazio” del nostro modello è confinato sulla superficie della sfera, tutte le rette sono finite ma illimitate (non ci sono punti terminali) e non ci sono punti di questo spazio - e tantomeno rette - all’interno della sfera.
Questi due semplici “modelli” non sono modelli delle geometrie non euclidee in cui siano veri tutti gli assiomi di quelle geometrie. Ci sono assiomi che vengono a cadere in questi semplici “modelli”. (Nella parte interna di un cerchio una linea non può venire estesa indefinitamente in entrambe le direzioni. Sulla superficie sferica due punti diametralmen­te opposti non determinano un’unica retta.) I nostri “model­li” disegnano però entrambi uno “spazio” in cui uno degli assiomi distintivi delle geometrie non euclidee è vero. È mol­to più difficile definire modelli in cui siano realizzati tutti gli assiomi della geometria iperbolica o della geometria rieman­niana. Tuttavia può essere fatto, e in ogni caso anche i nostri modelli più semplici ci possono dare un’idea di come i matematici riuscirono a dimostrare che, se la geometria euclidea è coerente, tale deve essere anche la geometria non euclidea. Perché è proprio la geometria euclidea del cerchio e della sfera che ci dice che gli assiomi non euclidei sono veri negli “spazi” che abbiamo definito.
Queste dimostrazioni di coerenza sono della massima im­portanza. Esse hanno dimostrato che il bimillenario pro­gramma di dimostrare l’assioma euclideo delle parallele era un tentativo impossibile sul piano logico. Hanno dimostrato che i dubbi concernenti la rispettabilità matematica delle geometrie non euclidee erano infondati. Da un punto di vi­sta matematico le tre geometrie si trovano su un piede di pa­rità, ciascuna di esse rappresenta una possibile descrizione dello spazio.

 

13.    PERCHE’ LE GEOMETRIE NON-EUCLIDEE SONO IMPORTANTI DA UN PUNTO DI VISTA EPISTEMOLOGICO

 

La scoperta delle geometrie non euclidee e le dimostra­zioni della loro coerenza sono della massima importanza an­che per la filosofia della conoscenza. Esse privarono i razionalisti del loro paradigma  (il sintetico a priori) e diedero agli empiristi un in­dizio importante di come avrebbero potuto accordare la co­noscenza matematica con la loro dottrina.
Nella sezione precedente abbiamo detto che agli inizi dell’’800 tutti pensavano che la geometria euclidea rappresen­tasse una conoscenza a priori e la vera descrizione della strut­tura dello spazio. Abbiamo discusso sopra le difficoltà che gli empiristi avevano avuto con la geometria euclidea, sottolineando che, a differenza delle ordinarie verità a posteriori, le verità della geometria euclidea sembrano irre­futabili nella pratica. Avevamo combinato insieme Euclide e l’ottica per ottenere una conclusione confutabile:

Euclide: La somma degli angoli di un triangolo è 180°.
Ottica geometrica: La luce viaggia in linea retta.
Conclusione: La somma degli angoli di un qualsiasi “triangolo di luce” è 180°.

E avevamo detto che se le misure di un qualche “triangolo di luce” contraddicessero questa conclusione, bisognerebbe da­re la colpa non a Euclide ma all’ottica, perché altrimenti ci troveremmo nella catastrofica situazione di non aver più una geometria con cui operare. L’invenzione delle geometrie non euclidee cambiò completamente questa situazione.
Il primo ad apprezzare questo fatto potrebbe essere stato proprio Gauss. Si racconta che Gauss avrebbe misurato gli angoli di un “triangolo di luce” prodotto da tre torce situate sulla cima di tre colline per de­terminare quale geometria fosse quella vera fra quella eucli­dea e quella iperbolica. Se il racconto corrisponde a verità, Gauss fu il primo ad accorgersi che una volta che si abbiano delle geo­metrie in competizione che producono risultati discordanti sulla somma dei “triangoli di luce”, è compito dell’osservazione o dell’esperimento dirci quale di esse sia quella vera. Non sappiamo più a priori che ciò che dice Euclide è vero per lo spazio reale. (In effetti, non l’abbiamo mai saputo. Era un’il­lusione credere che lo sapessimo, illusione creata dalla po­vertà della matematica disponibile, che ci forniva un’unica teoria geometrica.) Ora possiamo almeno immaginare co­me confutare Euclide. Ciò che prima era impensabile ora di­venta almeno pensabile. Se Gauss avesse trovato che la som­ma degli angoli del suo “triangolo di luce” era minore di 180° avrebbe potuto dare la colpa a Euclide e affermare che lo spazio è iperbolico. (Se Gauss avesse invece scoperto che la somma degli angoli era maggiore di 180°, si sarebbe tro­vato di fronte a un bel problema: siccome non conosceva la geometria riemanniana, avrebbe probabilmente lasciato ca­dere il risultato attribuendolo a errori di misurazione o a qualche altro tipo di errore.) In effetti Gauss non trovò nien­te di tutto questo. La somma degli angoli del suo “triangolo di luce” era di 180°.  Ma bastava questo a dimostrare che Euclide aveva ragione, nonostante tutto? Difficile da sostenere, perché il prossimo triangolo che Gauss avesse misurato avrebbe potuto fornire un altro valore per la somma degli angoli. Gauss aveva alme­no confutato le geometrie non euclidee? Neanche questo, ma per un motivo più sottile. Le misure di Gauss non potevano avergli mostrato che la somma degli angoli del suo triangolo di luce era esattamente 180°. Ogni misurazione comporta un margine di errore e. Il massimo che Gauss poteva dire è che la somma degli angoli del suo triangolo di luce era di 180° più o meno e. Il margine di errore lascia aperto uno spiraglio al geometra non euclideo. La geometria iperbolica fornisce una somma degli angoli minore di 180°, e tanto più grande è il triangolo, tanto minore è la somma. La geometria riemannia­na fornisce una somma degli angoli maggiore di 180° e tanto più grande è il triangolo, tanto maggiore è la somma. Ma non sappiamo di quanto la somma degli angoli di un dato triango­lo ecceda o sia inferiore a 180° se non è fissato il valore di una certa quantità (noto come “coefficiente di curvatura”). Dato che questo valore non è determinato, il geometra non euclideo potrebbe sempre dire che il triangolo di luce di Gauss non era abbastanza grande perché fosse apprezzabile il difet­to o l’eccesso della somma degli angoli, essendo tale difetto o eccesso minore del margine d’errore di misurazione.
Sia dal punto di vista che abbiamo appena citato, sia da molti altri, le geometrie non euclidee sono più complicate del­la geometria ordinaria. Fatto questo che portò il grande fisico e ­matematico francese Henri Poincaré a sostenere che, per quanto sia logicamente possibile confutare e respingere Eucli­de, non lo faremo mai, perché il sistema scientifico che ne ri­sulterebbe sarebbe troppo complicato. Se le cose andassero storte, sarebbe sempre e comunque più semplice continuare a stare dalla parte di Euclide e dare la colpa a qualcos’altro (l’ot­tica, per esempio). Kant aveva torto a dire che dobbiamo  (sul piano logico) strutturare la nostra scienza sulla base dei principi euclidei: ma aveva ragione a dire che vorre­mo sempre farlo. Poincaré diceva, kantianamente, che impor­remo sempre una struttura euclidea alla nostra scienza. Rifiu­tandoci di prendere sul serio una scienza complicata che non incorpori la geometria euclidea, rendiamo quella geometria vera a priori, per convenzione o per decisione.
C’è un ultimo colpo di scena nella nostra storia. Abbiamo già parlato della teoria newtoniana della meccanica e della gra­vitazione, la teoria che ha conosciuto il più grande successo fra tutte quelle che siano mai state avanzate dalla scienza. Questa teoria assume e incorpora la geometria euclidea. (È perché tut­ti davano Newton per scontato che tutti davano per scontato anche Euclide.) Nel 1916, però, Albert Einstein rese pubblica una nuova e diversa teoria della meccanica e della gravitazio­ne, che assumeva e incorporava la geometria riemanniana. Le due teorie producevano risultati diversi per esperimenti in cui entravano in gioco corpi molto veloci e/o di massa molto gran­de. E gli esperimenti sono a favore della teoria di Einstein e contro quella newtoniana. Molti fisici contemporanei, se si chiedesse loro se lo spazio è euclideo o riemanniano, risponde­rebbero che l’evidenza disponibile suggerisce che è riemannia­no. Potrebbero anche aggiungere che per la maggior parte de­gli scopi scientifici e della vita quotidiana non si sbaglia un granché, e certamente non si sbaglia in modo percettibile, ad assumere che lo spazio sia euclideo. Gli architetti e i geometri non devono buttare tutto il loro lavoro alle ortiche e mettersi a studiare le geometrie non euclidee!
Non ha importanza sapere se quei fisici hanno ragione. Ciò che conta da punto di vista  filosofi­co è che l’invenzione delle geometrie non euclidee ci ha inse­gnato che il problema se lo spazio sia o non sia euclideo è un problema di fisica da risolvere, in ultima analisi, con l’osser­vazione e l’esperimento. Questa invenzione ci ha insegnato che non abbiamo una conoscenza a priori della struttura del­lo spazio. Hilary Putnam ha detto che “il crollo della geome­tria euclidea è per l’epistemologo l’evento più importante della storia della scienza”. Possiamo ora capire cosa intendesse dire.
Sarebbe un affermazione troppo forte dire che l’invenzione delle geometrie non euclidee di­strugge il razionalismo. Non sarebbe però sbagliato dire che distrugge l’argomento più importante a favore del razionali­smo. Si trattava di un argomento semplicissimo: la geometria euclidea ci dà una conoscenza sintetica a priori della struttu­ra dello spazio; dunque la conoscenza sintetica a priori esiste. L’invenzione delle geometrie non euclidee ha mostrato che la premessa di questo argomento era falsa.

 

La reductio ad absurdum è una forma di argomento valida che viene usata per confermare una conclusione o per respingere la tesi contraria. L’idea che sta alla sua base è molto semplice. Supponiamo di voler provare che  l’asserzione p è vera. Incominciamo con l’assumere che p sia falsa ossia  presupponiamo non-p. Poi, sulla base di questa assunzione, deriviamo una conclusione che si sa falsa. Poiché risulta una conclusione falsa dalla nostra assunzione non-p mediante un argomento deduttivo valido, l’assunzione stessa deve essere falsa. Se non-p è falsa, p deve essere vera, come volevasi dimostrare. Chiamiamo “sotto-deduzione” l’argomento mediante il quale deduciamo un’asserzione falsa, presupponendo non-p. La validità di ogni particolare reductio ad absurdum dipende dalla validità della sotto-deduzione. In particolare la dimostrazione di p dipende dalla falsità della conclusione della sotto-deduzione, che può consistere o in una asserzione che siamo disposti semplicemente a ritenere falsa o in una contraddizione logica. Spesso la conclusione della sottodeduzione è costituita dalla stessa asserzione p. Il che costituisce un caso particolare di contraddizione. Se, supponendo non-p, possiamo dedurre p, allora otteniamo sia p che non-p e cioè una contraddizione logica. Un semplice esempio di reductio ad absurdum è il seguente. Siano x e y due numeri interi positivi. Vogliamo dimostrare che se il prodotto xy è un numero dispari, allora x e y sono entrambi dispari. Supponiamo per assurdo che i due numeri non siano entrambi dispari; allora uno di essi, per esempio x, sarà pari e quindi possiamo scriverlo nella forma 2z = x. Ma, in tal caso, anche il prodotto xy = 2zy è un numero pari contrariamente a quanto asseriva l’ipotesi.

In realtà, altrettanto -  se non più  - importante, è la terza. Questo è divenuto evidente dopo la scoperta delle geometrie non euclidee che ha messo in luce come gli assiomi della geometria euclidea  (come del resto quelli delle altre geometrie) sono semplici ipotesi o congetture che devono essere sottoposte al controllo empirico e non possono aspirare al rango di verità indiscusse e definitive: cfr. su questo punto la sezione 1.13.

 

 

Fonte: http://venus.unive.it/albertg/Epistemologia.doc

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

 

Epistemologia definizione e significato

 

 

Visita la nostra pagina principale

 

Epistemologia definizione e significato

 

Termini d' uso e privacy

 

 

 

Epistemologia definizione e significato