Cavalieri santo sepolcro

 

 

 

Cavalieri santo sepolcro

 

I CAVALIERI DEL SANTO SEPOLCRO TRA MILIZIA MONASTICA E ORDINE EQUESTRE

 

di Vito Sibilio

 

Comprendere la storia dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro non è solo dare un senso politico e religioso ad una sequela di fatti ormai millenari, ma anche capire come è nata un’idea oggi apparentemente incomprensibile, ma carica di fascino e onusta di gloria, quella della milizia monastica, ossia di un corpo scelto di eroi in armi per amore della Fede, che, per dedicarsi completamente alla loro vocazione, facevano professione dei consigli evangelici. Quest’idea, di cui vissero gli Ordini monastico-cavallereschi, si è poi ulteriormente trasformata e adattata ai tempi, fino a divenire, ai nostri giorni, ispiratrice di iniziative benemerite di carità e devozione in Terra Santa. In ciò che segue si delineerà anzitutto lo sviluppo dell’idea della milizia monastica e poi la storia dell’Ordine stesso.

 

LA NASCITA DEGLI ORDINI MONASTICO-CAVALLERESCHI IN PROSPETTIVA DI STORIA DELLE IDEE

 

Fino alla Prima Crociata, sebbene le guerre fossero ovviamente comuni, nel mondo cristiano nessuno pensò mai di utilizzarle come uno strumento di santificazione o di espiazione delle colpe. Se in seguito alla conversione dell’Impero Romano la Chiesa si era dovuta interessare ai problemi etici connessi alla guerra dello Stato ormai cristiano, e aveva elaborato la dottrina del bellum iustum – ancora presente nel Catechismo promulgato da Giovanni Paolo II– tuttavia mai essa concepì i conflitti come qualcosa di positivo, ma solo come dei mali minori che di volta in volta bisognava sopportare.
Le guerre che gli Imperatori cristiani, d’Occidente e d’Oriente, sostennero nel corso del primo millennio spesso erano contro popolazioni pagane, in quanto la linea di propagazione della fede coincideva pressoché col confine dell’Impero stesso, per cui non poche di queste guerre furono accompagnate da benedizioni e rituali sacrali, non tanto per ciò che esse erano ma per quello che difendevano . Leone IV (846-854) e Giovanni VIII (872-882) assicurarono ai guerrieri carolingi in lotta contro i pagani e i saraceni che, qualora fossero caduti, sarebbero andati in Paradiso. E tuttavia la guerra rimaneva ancora qualcosa di estrinseco rispetto alla vita ecclesiastica: era moralmente biasimata e nei Penitenziali erano previsti particolari espiazioni per il soldato che avesse ucciso un suo nemico.
La grande svolta avviene con le Crociate. Esse sono una guerra pancristiana, ossia di tutta la comunità dei fedeli, la cosiddetta Cristianità, che vive nel tempo secondo i principi della propria fede. La Cristianità prende le armi per difendere se stessa, minacciata in Oriente dai musulmani, sia nei suoi luoghi – la Terra Santa e l’Impero bizantino – sia nei suoi membri, perseguitati e uccisi. La crociata si configura quindi come un mezzo di tutela delle terre ancora cristiane e di recupero di quelle ingiustamente sottratte ai fedeli, in particolare di quelle impreziosite dal ricordo delle vicende della Storia sacra, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento.
Questa guerra di tutta la Cristianità può essere organizzata solo da colui che ne è il capo naturale, ossia il Papa, vertice istituzionale della Chiesa, la quale comprende in sé tutta la comunità dei fedeli, anche da un punto di vista temporale, in quanto la costituisce, consacrando i Re e gli Imperatori, e la guida mediante i principi che enuncia conformemente al Vangelo. La Chiesa giustifica la guerra per il suo nobile fine altruistico e perché è imposta dall’aggressione turca, e nello stesso tempo stabilisce i tempi e i modi della lotta, sancendone la meritorietà mediante la concessione della piena remissione della pena meritata per i peccati a tutti coloro che partecipavano all’impresa (indulgenza plenaria). Fu papa Urbano II (1088-1099) il primo a bandire la crociata a Clermont Ferrand (1095). L’impresa fu un grande successo e segnò una tappa importante nella spiritualità medievale e cristiana in genere. Essa si legittimò modellandosi sull’archetipo biblico dell’Esodo, il grande pellegrinaggio in armi con cui gli Israeliti, abbandonato l’Egitto, entrarono in Palestina. Viaggio scandito da tappe sacrali, la cui più importante fu la teofania del Sinai, l’Esodo del VT fu imitato scientemente dai crociati, che si sentirono eredi degli Ebrei e Nuovo Israele, e quindi pienamente legittimati a riconquistare quella Terra Santa dalla quale erano stati espulsi politicamente i cristiani quasi cinquecento anni prima.
Questo modello operativo, desunto dalla Scrittura, congiunse in un binomio di rara potenza il pellegrinaggio e la lotta armata, la militia. L’uno e l’altra erano, dalla notte dei tempi, delle metafore della vita spirituale, concepite tuttavia separatamente. In modo particolare, la milizia era ampiamente utilizzata nella letteratura ascetica per esemplificare la lotta interiore contro il demonio e la sua alleata, la triplice concupiscenza. Tutta la vita era considerata una battaglia, da quando Giobbe si domandava retoricamente: “Nonne est militia vita hominis super terram? . Tutta la patristica, latina e greca, aveva interpretato in senso metaforico le guerre veterotestamentarie – a cominciare da quelle esodali – proprio in chiave ascetica . Con la crociata, per la prima volta la militia materiale viene accostata alla lotta contro il male. L’idea è che i nemici interni ed esterni dello spirito possano essere combattuti allo stesso titolo: quel diavolo che vessa le anime è lo stesso che perseguita i fedeli suscitando contro di essi i popoli pagani. In quest’ottica, la milizia interiore e quella esteriore non sono solo legate da un rapporto metaforico, ma sono due modi di una sola sostanza ascetica, quella della lotta spirituale. La milizia materiale ne è, appunto, l’esteriorizzazione.
Tale innovazione, se teologicamente fu possibile per il modello biblico utilizzato, implicava peraltro che il soggetto ascetico combattente fosse per forza un pellegrino. Implicitamente, era avvenuta una fondazione antropologica del nuovo stato della milizia, che aveva connesso il guerriero al santo. Com’era stato possibile?
Nella concezione cristiana – e non solo – l’uomo più santo è colui che vive nello stato monastico, in quanto, pur essendo nel mondo, non usa più i suoi beni, anzi ripudia gli elementi costitutivi della vita “normale” (affettività, averi, libertà) attraverso la professione dei consigli evangelici della povertà, della castità e dell’obbedienza. Chiamiamo liminale questo stato esistenziale, in quanto è sulla soglia tra questa e l’altra vita. San Pier Damiani raccomandava, nell’XI sec., a tutti i fedeli, per essere sicuri della salvezza di abbracciare la vita monastica. Ma naturalmente non tutti potevano aderire a quest’invito. Potevano però temporaneamente condurre una vita povera, casta e obbediente, e questo accadeva mediante il pellegrinaggio.
Atto devozionale per eccellenza, metafora del percorso verso il Cielo, il pellegrinaggio sradicava il fedele dal suo luogo natio proiettandolo verso luoghi sconosciuti; nel corso del viaggio il pellegrino era lontano dai suoi beni e dai suoi affetti e sacrificava la sua libertà all’obiettivo penitenziale prefissosi. Il suo stato di vita è quello che chiamiamo liminoide, ossia simile a quello liminale .
Ma anche il guerriero vive uno stato liminoide, perché allontanato dalla sua patria, proiettato in luoghi sconosciuti, allontanato dagli affetti e dalle sue cose, sottoposto all’autorità dei superiori. Se si fosse trovato un tramite teologico, anche lo stato guerresco sarebbe divenuto liminoide in senso ascetico. Ed è quello che era accaduto per la nascita della crociata, in ragione della quale era nata un’equazione particolare: monaco=pellegrino=guerriero. Il soldato era entrato nella sfera del sacro, in quanto soldato. Questa trasformazione della devozione e questa commistione con la violenza sono stati possibili, oltre che per la religiosizzazione del conflitto,  per la forte tendenza della pietà popolare alla materializzazione (che facilità l’esteriorizzazione della lotta ascetica) e per il clima psicologico dominante, di senso di colpa collettivo. Infatti la società dell’epoca, cristiana eppur guerriera, non sapeva come incanalare tutta la violenza che la corrodeva, e trovò nella crociata uno sfogo alla sua frustrazione. In tale prospettiva, se volessimo utilizzare qualche elemento spicciolo di psicoanalisi junghiana come mezzo di analisi storica, potremmo dire che l’invenzione delle Crociate è servita ad incanalare la libido della violenza presente nell’inconscio collettivo verso una nuova funzione psichica e quindi storica: non più la soddisfazione dell’istinto in contrasto con la coscienza morale collettiva, né lo sforzo innaturale di una assoluta repressione, impossibile a realizzarsi, ma la liberazione dello slancio positivo insito nell’energia psichica verso un nuovo progetto, in cui la violenza non fosse più avvertita come distruttiva .
Liberata Gerusalemme, la crociata era virtualmente finita. Tuttavia gli Stati crociati scaturiti dall’impresa (il Regno di Gerusalemme, il Principato di Antiochia, la Contea di Tripoli, la Contea di Edessa) avevano disperato bisogno di soldati che li difendessero, essendo troppo pochi i crociati che li avevano fondati e che ora erano divenuti stanziali, e non potendosi fare pieno affidamento sui cristiani d’Oriente, ostili spesso al dominio latino e alla sua politica ecclesiastica. Si cercò di mantenere viva l’ispirazione del movimento crociato, incoraggiando la prosecuzione dei pellegrinaggi armati concepiti come la continuazione della Prima crociata, in quanto indispensabili per mantenere la conquista fatta. Si verificò cioè una sorta di Crociata perpetua, che manifestava una spiritualità guerriera permanente e collettiva.
Ma la forza di quest’idea non era sufficiente, e la carenza di uomini era cronica. Fu in questo contesto che avvennero importanti cambiamenti ideologici. Con la fine della Prima crociata e con gli scarsi successi pratici della Crociata perpetua, il rapporto tra le due militiae si modificò. Terminata l’impresa, la figura di mediazione del pellegrino venne meno, e rimase solo stabile la ormai acclarata identità formale tra lotta interiore ed esteriore; in una Terra Santa conquistata ma non ben difesa potè avere fortuna una nuova figura spirituale, quella del guerriero di Cristo in servizio permanente, che professava ad un tempo i consigli evangelici e l’uso delle armi. Questo guerriero era stanziale come i crociati vincitori, ma aveva una connotazione diversa da quella del semplice cavaliere. Questi combatteva secondo un codice etico suo proprio, mentre il miles che fa professione monastica combatteva solo per Cristo, in una vocazione stabile nella quale la lotta interiore ed esteriore coincidevano a perfezione. In questo nuovo stato di vita, l’essenziale era proprio la lotta armata, concepita contro dei nemici che erano visti come l’ipostatizzazione di un male metafisico, ossia come agenti del demonio. L’uso delle armi era essenziale per questa vocazione, in quanto era l’elemento di specificità della lotta, esteriore ma sempre spirituale, perché non dettata da motivi secolari. La professione dei consigli evangelici veniva a consacrare questa scelta di fondo, conferendole il carisma monastico. Per questo, al di là della dizione ibrida di “ordine monastico-cavalleresco”, sintagma più proprio per definire questo fenomeno è milizia monastica, dove monastico è attributo del sostantivo milizia. Non tanto un monachesimo guerriero, perché in esso sarebbe fondamentale lo stato monastico con le sue proibizioni rituali – come per esempio accade in Oriente, dove i monaci Shao-Lin sono combattenti, ma senz’armi, proprio perché non ne possono portare, e le surrogano con arti particolari, non a caso dette marziali – ma appunto una milizia, una militanza – con tanto di armi – che però impone a chi la sostiene la perfezione virtuosa, proprio per consacrarsi a tale scopo in modo esclusivo. Ciò che nella storia della Cristianità precedente era stato solo un insieme di rare ma significative eccezioni, vissute da personalità guerriere con una particolare propensione ascetica, ora nei novi milites si istituzionalizza.
Il testo medievale che più di tutti ci permette di comprendere il significato che essa ebbe per i contemporanei è il De Laude Novae Militiae ad Milites Templi Liber di San Bernardo di Chiaravalle , in cui il grande Dottore fornisce una giustificazione teorica alla nuova professione monastica. Il trattato fu scritto da Bernardo probabilmente tra il 1132 e il 1135, in onore dei Cavalieri Templari, ma contiene dottrine valide per tutti gli Ordini simili.
Ma come è stato possibile che la militia, fino a qualche decennio prima inconciliabile con l’ascesi venisse assimilata direttamente al monachesimo? Posta la premessa dell’indispensabile fioritura della cavalleria stessa, ormai all’apice, diremo che anzitutto l’esperienza della Crociata fu in questo senso fondamentale, in quanto era stata la meta a rendere santa l’impresa. Una volta raggiunta questa meta, in una visione anagogica, essa cessa di essere solo un luogo di pellegrinaggio per divenire una sorta di enorme eremo, presso il quale si può vivere stabilmente da monaci. La Terra Santa, enorme santuario e monastero indifeso, merita pellegrini e monaci armati.
Una seconda ragione del fecondo incontro tra milizia e monachesimo si rintraccia nella proliferazione di Ordini e congregazioni religiose in questo periodo, tutte, tra l’altro, inclini a concepire il proprio servizio ecclesiale come una battaglia.
San Bernardo dà la legittimazione morale della lotta condotta dai cavalieri, impostando la questione della loro etica. La falsariga della sua riflessione teologica era impostata sulla scorta dei due principi classici delle crociate: l’allargamento della nozione di legittima difesa e l’identificazione della Cristianità con un corpo socio-politico autosufficiente, mediante cui la Chiesa stessa potesse dirigere le imprese belliche. Tuttavia si ponevano alcuni quesiti nuovi. Il primo in assoluto era questo: come potevano lecitamente dei monaci prendere le armi, senza rinnegare lo spirito monastico, non solo cristiano, ma anche religioso in genere? La verità è che, come già ho detto, gli ordini monastico-cavallereschi non erano un monachesimo in armi, ma un’armata che volontariamente professava i voti monastici. L’essenziale della loro vocazione sta proprio nell’uso delle armi, ma essi, per distinguersi dai crociati, e ancor più dai cavalieri comuni, decidono di perseguire la perfezione cristiana nella professione dei consigli evangelici, che sono dunque attributi del soggetto che si va a costituire, non elementi costitutivi della sua realtà sostanziale.
La seconda questione che sorgeva spontanea è questa: la guerra dei nuovi milites, a cui essi si consacrano per la vita, divenne santa? Come si conciliava con la concezione tradizionale della guerra giusta, per cui essa – che pure è sempre un male – diviene lecita solo a causa di circostanze esterne? Il testo liberava anche da questa perplessità: si evinceva chiaramente che la guerra non è in sé un bene, né che fosse il mezzo migliore per trattare con gli infedeli; ma siccome questi erano ostinati nel perpetrare i loro attacchi ai legittimi possedimenti cristiani, e siccome l’inattività avrebbe prodotto il male peggiore della soggezione dei battezzati ai loro nemici, essendo peraltro al di fuori delle categorie mentali dell’epoca il concetto di trattativa, anche perché nessuna delle due parti era attrezzata mentalmente per recepire a fondo le ragioni dell’altro, ecco che il conflitto diveniva lecito, ossia giusto. Ciò corrisponde praticamente ai punti qualificanti della dottrina della guerra giusta così come sono, ancora oggi, elencati nel Catechismo della Chiesa Cattolica . Questi punti qualificanti, spostati in un’ottica di solidarietà pancristiana, facevano dei nuovi cavalieri una sorta di milizia volontaria per la sicurezza dei Luoghi Santi, e della loro vocazione permanente, ben consapevole dell’ineluttabilità del conflitto con l’Islam, una sorta di perpetuo servizio alla causa della pace, intesa come giusto ordine. In poche parole, la concezione medievale della guerra solidaristica con i cristiani d’Oriente è stata l’antesignana della visione contemporanea del conflitto umanitario, che ne costituisce la versione laicizzata.
C’è ancora oggi dibattito sulla controversa parola malicidium, usata da Bernardo per indicare l’omicidio dell’infedele. Enucleata dal contesto sembrava voler oggettivare il male in esseri sussistenti, la cui eliminazione è dunque l’annullamento ontologico della negatività. Eppure il testo era assai chiaro, e mostrava non la volontà di esortare ad una cruenta strage indifferenziata, volta ad estirpare la zizzania dal mondo, contrariamente al detto evangelico, ma a rassicurare chi, nell’uccisione del nemico, vedeva appunto il peccato di omicidio. Non è la morte per la morte che veniva cercata dal milite fedele, ma la giustizia e la pace, di cui egli è garante e campione. Il soldato di Cristo facava giustizia in nome di Dio – in fondo non più di quanto oggi un corpo di spedizione internazionale non lo faccia in nome di valori umanitari – e difende gli inermi. Malicida dunque non in senso estensivo, ma restrittivo – in quanto il Saraceno non era ucciso se non per determinati motivi – e non in senso ontologico, ma morale.
Questa concezione appare oggi molto diversa da quella islamica, che pure le stava di fronte e probabilmente la influenzò. Se anche il Cristianesimo assunse una valenza guerriera che addirittura si alimentò della linfa del monachesimo – fenomeno inerme per eccellenza – lo fece in modo contingente, non essendoci nulla, nella sua dottrina costitutiva, che facesse della guerra un precetto permanente, a differenza di quanto avviene nel Corano, dove la Jihad (che è innanzi tutto una lotta interiore, e poi uno sforzo di annientare la potenza politica del nemico, concepito analogicamente – ed erroneamente –anch’esso come una Umma)è tuttavia un principio incancellabile. In questo senso, anche le equiparazioni fatte a cuor leggero tra il moderno revanchismo militarista di ampie plaghe del mondo musulmano con la fenomenologia delle crociate e della milizia monastica, sono senz’altro da valutarsi come in gran parte erronee, in quanto propense a confondere il fenomenico con l’essenziale.
In ogni caso, la milizia monastica in quanto tale consacrò l’idea della nobiltà della guerra per la Terra Santa in modo definitivo, avendo mostrato che, oltre alla crociata come fenomeno perpetuo a cui ciclicamente tutti possono partecipare, vi era un’altra forma di lotta possibile, in cui solo alcuni per sempre si consacravano al conflitto. La milizia monastica diveniva, per così dire, l’avanguardia cosciente dello spirito crociato, e il suo modello permanente nella santificazione guerriera.

 

LA STORIA DELL’ORDINE EQUESTRE DEL SANTO SEPOLCRO

In questo contesto, in questo ribollire di idee nacque l’Ordine del Santo Sepolcro. Ricostruirne dettagliatamente le vicende originarie è difficile, mancando un cartulario medievale dell’Ordine stesso. Tuttavia alcuni punti fermi possono essere messi .
La tradizione vuole che il fondatore dell’Ordine sia stato Goffredo di Buglione (1099-1100), il primo sovrano della Gerusalemme liberata dai musulmani, che resse col titolo di Difensore del Santo Sepolcro. Di certo, se qualche struttura militare fu da lui fondata in relazione al Santo Sepolcro, si trattò di una sorta di guardia d’onore. Era troppo presto per una fondazione paramonastica. Peraltro, non vi è alcuna prova che tale fondazione sia avvenuta. E se accadde dovette essere ampiamente modificata e trasformata in seguito, per divenire come la conosciamo. O forse si trattò di un anacronismo volto a nobilitare al massimo le origini del pur prestigioso Ordine.
Un’altra tradizione che non ha riscontro verte sulla concessione, da parte del re di Gerusalemme Baldovino I di Fiandra (1100-1118), del privilegio d’investitura dei cavalieri al patriarca latino della città, Dagoberto da Pisa, nel 1103. Appare tuttavia difficile che tale privilegio sia stato concesso realmente, dati i forti contrasti politici che opponevano il sovrano al Patriarca. Questi aveva tentato di impadronirsi dello Stato alla morte di Goffredo, per trasformarlo in una teocrazia, ma i baroni avevano scelto il fratello dello scomparso, appunto Baldovino, come sovrano, e questi non aveva esitato ad assumere il titolo regio. In effetti, concedere al Patriarca i diritti d’investitura significava creare i presupposti per la formazione di una milizia sotto il suo controllo. Credo pertanto che tale tradizione sia da respingersi, e che sia nata solo per retrodatare autorevolmente la posizione di prestigio e autorità del Patriarca in seno all’Ordine, se non addirittura per marcare la differenza tra questo e i cavalieri che, come vedremo, verranno investiti dalla Custodia di Terra Santa.
In ogni caso, in un anno imprecisato del XII sec., agli inizi del secolo, furono fondati i Canonici Regolari del Santo Sepolcro, che seguivano la Regola di Sant’Agostino, e che erano tra i tanti canonici dell’epoca, ma i soli che officiavano presso l’ultimo soggiorno mortale del Cristo. Per tale privilegio spirituale, le vocazioni fiorirono e la devozione popolare crebbe: i Canonici si moltiplicarono, i lasciti e le pie offerte li arricchirono, e le loro fondazioni pullularono in Europa.
All’inizio, di certo i Canonici furono solo dei regolari. Il ramo militare si innestò in seguito, ma in un momento imprecisato. Già tuttavia dal 1114 – presumibilmente non molto dopo la nascita della comunità – singoli cavalieri sono attestati tra le fila dei Canonici; essi formulavano il voto di obbedienza al Priore del Santo Sepolcro, trascorrevano la vita in preghiera e aspettavano il momento di combattere per la difesa dei Luoghi Santi. Tale momento, tuttavia, spesso non arrivava: infatti molti di questi guerrieri si aggregavano alla famiglia religiosa in tarda età, non più adatta alla lotta, ma certo prossima alla morte, alla quale si preparavano dunque con l’ascesi. In ogni caso, questi associati ai Canonici si inserivano a titolo personale, almeno fino a questa data. Questa prassi, invalsa molto presto, costituì l’antecedente immediato della nascita della milizia monastica in quanto tale. Bisogna dunque postdatare l’istituzione dell’Ordine al 1114, senza scendere oltre il 1155.
In quell’anno infatti papa Adriano IV (1154-1159), l’unico pontefice inglese fino ad oggi e il primo il cui nome entra nella nostra storia, scrivendo al conte di Barcellona, Raimondo, cita tre ordini, dei quali due erano, a quella data, inequivocabilmente militari: i Templari – nati nel 1118 – gli Ospedalieri – divenuti cavalieri dal 1126 in Spagna e nel 1137 in Oriente – e naturalmente quello del Santo Sepolcro. Sebbene la funzione militare non sia esplicitamente menzionata per quest’ultimo, l’associazione agli altri due Ordini cavallereschi la suppone e la postula. Peraltro, lascia intendere che i Cavalieri del Santo Sepolcro fossero combattenti anche in Spagna.
Infatti in questo lasso di tempo i Canonici – con il loro ramo femminile nato subito dopo – si erano diffusi ovunque: priorati, chiese e fondazioni conventuali sorgevano, tra gli altri luoghi, in Spagna – come già detto- Sicilia, Germania, Polonia, Inghilterra, Fiandre e naturalmente in Italia. Molti di questi paesi erano la frontiera su cui si combatteva per la fede: da Barcellona a Gerusalemme, passando per il Mediterraneo centrale, infuriavano le guerre per la riscossa contro i musulmani. La Germania e la Polonia erano in lotta contro gli Slavi infedeli.
Tuttavia l’Ordine mancava di una struttura unitaria, e sembrava più simile alla somma di molte congregazioni autonome, simile in questo alla tradizione monastica. Ogni nazione o quasi aveva i suoi gerarchi, e i titoli di Gran Priore, di Generale o di Maestro erano portati da vari dignitari in Europa. Il Priore di Perugia era il capo dei Cavalieri del Santo Sepolcro in Italia, quello di Miechow in Polonia, e via di questo passo.
Per trovare una esplicita menzione delle funzioni militari dell’Ordine bisogna aspettare al 1291, quando le fonti la attestano chiaramente. Ma questo è l’anno della caduta di San Giovanni d’Acri, ossia della fine dell’età crociata. Chiaramente l’attività militare era vecchia di quasi duecento anni. Ma la peculiare struttura dell’Ordine e la sua frammentazione interna deve averlo rallentato nelle trasformazioni, che probabilmente non avvennero tutte contemporaneamente nelle varie parti del mondo, e ciò deve aver reso difficile sia la recezione della sua storia nelle fonti sia la nascita di un’agiografia e di una storiografia ufficiali dei Cavalieri del Santo Sepolcro, a differenza dei Templari e degli Ospedalieri. La stessa denominazione, rimasta di “Canonici del Santo Sepolcro”, attesta che il ceppo equestre si innestò sul tronco regolare senza mai soppiantarlo del tutto, anzi rimanendone fagocitato.
Non a caso papa Clemente VI (1342-1352), istituendo la Custodia di Terra Santa e affidandola ai Francescani nel 1312, introdusse un elemento concorrenziale all’Ordine proprio in relazione all’investitura dei Cavalieri. Il quarto papa avignonese concesse infatti ai Custodi il privilegio d’investirli presso il Santo Sepolcro. Segno che la dimensione equestre dei Canonici non era ancora percepita come esclusiva: si poteva essere cavalieri del Sepolcro di Cristo in modi differenti. Molti degli investiti infatti non emisero mai alcun voto, e altrettanti entrarono nell’Ordine solo con impegni provvisori. La Custodia fu realmente istituita negli anni ’30, e creò moltissimi cavalieri, con un vero e proprio rito tradizionale, la cui massima fioritura avvenne tra il 1336 e il 1498, quando centinaia di cavalieri furono così creati. Si trattava di un rituale da cui ben presto scomparve ogni significato revanchista, incompatibile col perdurante dominio della Sublime Porta su Gerusalemme. Il privilegio d’investitura fu confermato ancora, in pieno Rinascimento, dal mediceo Leone X (1513-1521) nel 1516 – il quale ancora vagheggiava una crociata antiturca - da Pio IV (1560-1565) nel 1561 – in un momento di rinato fervore antiturco che di lì a pochi anni avrebbe trionfato a Lepanto - e da Benedetto XIV (1740-1758) nel 1746, nonostante il clima più tollerante dell’Illuminismo, alle cui sirene volterriane neanche Papa Lambertini era insensibile. La maggior parte degli investiti erano di nobili natali, ma solo nel 1642 Urbano VIII (1623-1644) aveva imposto l’aristocrazia come requisito indispensabile per divenire cavalieri, nel clima barocco e spagnolesco della Controriforma.
Tornando alla storia istituzionale dell’Ordine, notiamo che nel 1459, ai tempi di papa Pio II (1458-1464), a causa dell’incipiente decadenza dovuta alla fine dello spirito crociato – nonostante l’inesorabile avanzata turca nei Balcani e i generosi piani crociati dello stesso pontefice Piccolomini- ci fu un primo tentativo di accorpare i Canonici del Santo Sepolcro ad un’altra famiglia religiosa, l’Ordine di Nostra Signora di Betlemme. Ma la manovra fu sventata e l’indipendenza dei Canonici sopravvisse fino al 1489.
In quell’anno papa Innocenzo VIII (1484-1492) emanò una bolla in cui il nostro Ordine e quello di S.Lazzaro – anch’esso militare e benemerito nell’assistenza dei lebbrosi – furono accorpati a quello dei Giovanniti – ormai detti Cavalieri di Rodi, dove si erano acquartierati – e il loro Gran Maestro fu insignito del medesimo titolo degli altri due istituti. La scelta innocenziana era dettata da una duplice necessità politica: quella di serrare le fila dei pochi Cavalieri disponibili alla lotta contro i Turchi, il cui espansionismo minacciava anche l’Italia – è di quegli anni il tremendo Sacco di Otranto – e quella di mantenere i rapporti preferenziali tra Santa Sede e Gran Magistero giovannita. Il Gran Maestro, infatti, aveva consegnato al Papa il fratello del sultano ottomano Bayazid II (1481-1512), Jem, che mirava al trono turco. Questi, per sfuggire al sultano, era fuggito a Rodi, e il Gran Maestro lo consegnò a Innocenzo VIII, in cambio dell’egemonia sugli altri Ordini monastico-cavallereschi, del galero cardinalizio e molti altri favori, Fu così che il Papa, ben lieto di accogliere a Roma un ostaggio che lo tutelasse da ogni attacco ottomano, concluse col sultano un trattato in cui s’impegnava a tenere Jem confinato a Roma, in cambio di quarantamila ducati annui e della Santa Lancia di Longino. L’indipendenza dei Canonici era divenuta merce di scambio della contraddittoria politica papale.
Tuttavia l’unione fu operativa solo in Italia, e infatti il Gran Maestro giovannita potè assumere solo il titolo del suo omologo perugino, estendendo il suo dominio sulla sola congregazione italiana dei Canonici. I beni ingenti furono incamerati, ma oltralpe la reazione fu decisa.
Già l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo (1493-1509) chiese a papa Alessandro VI (1492-1503) che confermasse l’indipendenza dei Canonici in Germania, e il Borgia glielo concesse.
Leone X confermò a sua volta l’indipendenza dei Priori spagnoli nel 1510 e nel 1513, nel quadro delle ottime relazioni da lui coltivate con quella nazione.
In Polonia poi il Priorato di Miechow mantenne sempre la sua sostanziale indipendenza.
In questa situazione così difficile e frammentaria, la tradizione dei Canonici sopravvisse integra solo in Francia e Spagna, ma non senza alterne vicende.
In Francia il decreto di unione non divenne mai operativo. Furono proprio i Canonici e i Cavalieri francesi, nel XVI sec., a far risalire la fondazione dell’Ordine a Goffredo di Buglione. Ciò favorì una forte coscienza di sé in questi guerrieri. Ma, nel clima delle guerre controriformiste e antiprotestanti, re Enrico III di Valois (1574-1589) confermò l’unione innocenziana estendendola al suo regno (1574).
Il contraccolpo fu duro: i cavalieri francesi erano i più numerosi, ed erano assai sensibili alla causa dell’Oriente cristiano. Fino al 1560 il 90% dei cavalieri furono francesi, e nel 1511 il Re Cristianissimo aveva concluso con la Porta un accordo che gli dava la tutela dei Luoghi Santi. Perciò ben presto, sulle ceneri dell’Ordine dei Canonici, i cavalieri tentarono di restaurare la propria indipendenza, fondando una famiglia equestre e non più monastica. Nel 1615, infatti, essi si diedero un Gran Maestro, nella persona di Carlo di Gonzaga – Nevers, destinato a diventare Duca di Mantova nel 1631. Il Nevers fu un Gran Maestro abile e intraprendente, che infastidì per questo non poco i Giovanniti. Questi, richiamandosi all’unione innocenziana e ai decreti di Enrico III, costrinsero Carlo ad abdicare, confondendo volontariamente gli antichi Canonici con i neo(ri)nati Cavalieri.
Tuttavia la volontà d’indipendenza dei Cavalieri continuava a fremere. Fu attraverso un’altra filiazione degli antichi Canonici che essa tornò a nuova vita. Nel 1317 Ludovico I di Borbone, conte di Clermont, aveva fondato una Confraternita del Santo Sepolcro, detta di Rue-Saint-Denis, a Parigi, che era ovviamente sopravvissuta ai Canonici, da cui era indipendente. Quando la Confraternita borbonica fu unita all’Ordine di Nostra Signora del Carmelo nel 1672, quella che sembrava l’ultima frontiera dell’indipendenza dei Cavalieri fu preservata con la fondazione immediata di una nuova Confraternita del Santo Sepolcro, detta dei Cordiglieri, in cui confluirono coloro che non volevano essere fagocitati dall’Ordine del Carmelo.
La Confraternita raccolse l’eredità equestre delle istituzioni precedenti, divenne Arciconfraternita, fu confermata da Luigi XIV (1643-1715) nel 1700 – che non era insensibile alle chimere delle crociate – e da papa Benedetto XIII (1724-1730) nel 1726. La scelta del 1700 come anno di conferma regia, a settecento anni dalla presunta fondazione dei Canonici da parte di Goffredo, non lasciava dubbi sulla volontà di appropriarsi, da parte della Corona e dell’Arciconfraternita, di quel retaggio spirituale e morale. Fino al 1739, i membri europei degli Ordini monastico-cavallereschi furono al 50% francesi.
Nel 1771, sotto Luigi XV (1715-1774), furono pubblicate le Regole e nel 1775, ai tempi di Luigi XVI (1774-1793), gli Antichi Statuti, retrodatati addirittura al 1149, e da cui si evinceva, in modo mistificatorio, che il Gran Maestro dell’Ordine era stato, dalle origini, il Re francese. Il connubio tra Monarchia borbonica e Cavalieri era completo, e la canonizzazione delle origini, ricondotte al filone mistico-guerresco della Seconda crociata, di Luigi VII (1137-1180) e di San Bernardo, era terminata.
L’abbraccio con i Gigli di San Luigi si rivelò ben presto controproducente, in seguito allo scoppio della Rivoluzione Francese. L’Assemblea Costituente soppresse moltissimi enti ecclesiastici, compresa l’Arciconfraternita, nel 1791.
Nella Restaurazione, i Cavalieri tornarono a nuova vita, e nel fervore romantico per il Medioevo cavalleresco i francesi tornarono a dare il 51% dei membri di tutti gli Ordini equestri cattolici del Continente, fino al 1848. Ma i forti contrasti giuridici con altri risorti istituti religiosi e soprattutto con la Custodia di Terra Santa spinsero il Governo di Luigi XVIII (1814-1824) a  sopprimere ben presto l’Arciconfraternita, perché mai tornata ad essere legalmente riconosciuta.
La storia spagnola dei Cavalieri, dalla confermata indipendenza da parte di Leone X, giunge invece fino alla rinascita contemporanea dell’Ordine del Santo Sepolcro senza soluzione di continuità. Nel corso dei secc. XII-XIII esso partecipò alla Reconquista e ricevette ampi privilegi. Sopravvissuto all’unione innocenziana e costituito in Arciconfraternita, il gruppo dei Cavalieri spagnoli trovò in re Filippo II d’Asburgo (1556-1598), assertore indefesso dell’ideale crociato e controriformista, un grande alleato. Questi tentò invano di trasformare l’Arciconfraternita in Ordine, assumendo nel 1558 il titolo di Gran Mestro offertogli dai Cavalieri delle Fiandre, a loro volta in prima linea nella lotta contro i Calvinisti. Filippo vagheggiava una crociata, ma il gran maestro dell’Ordine dei Giovanniti - ormai insediati a Malta – Jean de Parisot La Vallette (1557-1568), dinanzi alla prospettiva della dispersione delle forze nella lotta contro i Turchi – contro i quali egli fu sempre impegnatissimo-  si oppose al progetto regio, e grazie all’appoggio di Pio IV, anch’egli preoccupato dell’attivismo spagnolo, riuscì a far sì che il sovrano abdicasse al magistero.
Perché la storia dell’Arciconfraternita registri in Spagna un altro evento di rilievo bisogna aspettare al 1892, quando, essendo stato ricostituito l’Ordine da Pio IX (1846-1878) come vedremo, rinasce il Capitolo dei Cavalieri dell’Ordine stesso in Spagna. Sarà poi nel 1905 che Alfonso XIII di Borbone (1902-1931) riceverà il titolo di Gran Balivo d’Onore e Protettore dell’Ordine; ma ormai le vicende che dobbiamo seguire riguardano una storia ritornata europea e mondiale. In relazione alla Spagna, va solo aggiunto che fino ad oggi le due luogotenenze del Paese reclutano cavalieri solo tra i nobili, e che lo stesso Re Juan Carlos e diversi principi ne fanno parte.
L’Ordine contemporaneo, completamente equestre e dedito alla difesa della Terra Santa in modo incruento, nasce per volontà, come dicevamo, di Pio IX. Il Beato lo istituì nel 1847, come Ordine cavalleresco della Santa Chiesa Romana. Lo stesso Papa, nel quadro di molteplici iniziative volte a potenziare la Chiesa in Oriente, avendo restaurato il Patriarcato latino di Gerusalemme, affidò al suo titolare non solo la Custodia di Terra Santa, ma anche l’incarico di investire i Cavalieri del Santo Sepolcro e di guidarne l’Ordine. Nel 1868, poi, nel bel mezzo del fervore ultramontano che caratterizzò l’ultima decade del suo papato, Pio IX conferì al Patriarca il titolo di Amministratore e Rettore dell’Ordine in nome della Santa Sede. Papa Mastai fissò come requisiti per il reclutamento la vita intemerata e lo zelo per le opere cristiane nella Palestina.
Papa Leone XIII (1878-1903) introdusse nella struttura dell’Ordine una novità, che mai era esistita in istituzioni di questo tipo sottoposte alla Santa Sede: una sezione femminile di Dame, divisa in tre classi insignite anch’esse della Croce.
San Pio X (1903-1914), pieno di zelo per i Luoghi Santi, volle onorarli tramite i Cavalieri, e inserì il loro Ordine subito dopo quello di San Silvestro nell’elenco di quelli riservati alla provvigione papale (1906). Lo stesso anno restaurò il Gran Magistero, che naturalmente era unico per tutto il mondo, e lo conferì al Patriarca latino di Gerusalemme. Non pago, decise addirittura di assumere tale titolo per sé nel 1907, mentre nominò il Patriarca Luogotenente Generale e il Re di Spagna – come dicevo – Gran Balivo d’Onore. Conferì all’Ordine le qualifiche di Sacro e Militare, e lo divise in undici Luogotenenze (oggi naturalmente sono molte di più, anche in Paesi non cattolici).
Dopo Benedetto XV (1914-1922), che mantenne per sé il Gran Magistero, papa Pio XI (1922-1939) decise di ritoccare l’organizzazione dei Cavalieri, rinunciando al titolo magistrale e nominando il Patriarca Amministratore e Capo Perpetuo (1928) della famiglia del Santo Sepolcro, a cui conferì ufficialmente i titoli di Sacro e Militare (1931). Lo stesso anno prese l’Ordine sotto la protezione del Papato e abolì il titolo di Balivo – avendo abdicato Alfonso XIII in Spagna per la vittoria delle sinistre anticristiane. Papa Ratti divise i Cavalieri in quattro classi, completando così la sua ristrutturazione.
Papa Pio XII (1939-1958) diede ai Cavalieri un Protettore nella persona del cardinale Nicola Canali, influente dignitario della Curia sin dal papato precedente (1940). Nel 1949 poi ripristinò il Gran Magistero per lo stesso porporato, iniziando una serie di capi dell’Ordine tutti cardinali. Conferì altresì il titolo di Gran Priore al Patriarca latino di Gerusalemme. L’Ordine divenne un ente legale di diritto internazionale, con sede a Roma a Sant’Onofrio.
Nicola Canali mantenne il Magistero fino al 1961, anno della sua morte. Il Beato Giovanni XXIII (1958-1963) gli diede come successore il cardinale Eugenio Gabriele Gervasio Tisserant, decano del Sacro Collegio e grande erudito.
Paolo VI (1963-1978) rimpiazzò Tisserant – morto nel 1972- con il cardinale Maximilien de Furstenberg. Nel 1976, nel quadro di riforma generale che caratterizzò il suo pontificato, Paolo VI abolì le qualifiche di Sacro e Militare per l’Ordine, restituendogli il vecchio titolo di Equestre, per poi approvare i nuovi Statuti nel 1977.
Essi ribadirono l’obbligo per i membri di una vita santa e del sostegno alla Terra Santa, ma confermarono esplicitamente che non erano tenuti ai voti monastici dei Cavalieri di Malta. Per essi, l’Ordine era diviso in tre classi: i Cavalieri del Collare (in numero di dodici); i Cavalieri (di Gran Croce, Grand’Ufficiale, Commendatori e semplici); le Dame (di Gran Croce, Commendatrici con Stella, Commendatrici e semplici).
Nel 1989, morto il cardinale de Furstenberg l’anno precedente, papa Giovanni Paolo II (1978-2005) insignì del Gran Magistero il cardinale Giuseppe Caprio, già distinto esponente della sua Curia. Morto Caprio nel 1995, papa Wojtyla lo sostituì con il cardinale Carlo Furno nel 1996.
Questi ha mantenuto il suo incarico anche sotto S.S.Benedetto XVI. Accanto al Gran Maestro, il patriarca di Gerusalemme Michel Sabbah ricopre, come da costituzione, il ruolo di Gran Priore.
L’Ordine, diffuso in tutto il mondo, mantiene vivo il suo impegno e alto il suo prestigio, ed è benemerito per le sue nobili opere di carità nella Terra Santa. Il suo lascito morale è rimasto intatto nei secoli e continua a crescere.

 


Le preghiere, anche liturgiche, per le guerre regie contro i barbari pagani ben rispecchiano un sentire comune, analogo a quello dell’età crociata, contro i nemici, ma ancora la lotta contro l’Infedele è percepita come una competenza dello Stato, e quindi non si presta – come abbiamo detto per Bisanzio – allo sviluppo di un movimento crociato ante litteram. La professione delle armi è ancora una condizione secolare, non assimilabile a quella sacrale dei monaci o dei pellegrini – questi ultimi peraltro non ancora numerosi all’epoca come lo saranno ai tempi di Urbano II – e quindi non si tenta ancora di assimilare le due militiae in un unico modello. Per gli antecedenti del movimento crociato nella tradizione liturgico-militare carolingia cfr. M. McCORMICK, Liturgie et guerre des Carolingiens à la première Croisade, in AA.VV., Militia Christi e crociata nell’XI e XII sec., Atti della Undecima Settimana Internazionale di Studio della Mendola, 28 agosto – 1 settembre 1989, Milano 1999, pp. 209-238.

Gb 7,1:

Cfr. p. es. RABANO MAURO, De universo libri XXII, XVI, 3, in PL CXI, Parigi 1852, coll. 9-613, in partic. 451, dove si legge: milites Christi illi esse dicuntur qui contra diabolum pugnant et contra vitia fortiter dimicant; oppure PIER DAMIANI, nel De exaltatione sanctae crucis (ed. G. LUCCHESI, in CC Cont. Med. 57, Tournai 1973, pp. 292- 305, in partic. p. 294), così si esprime: “Redemptor noster, qui non venit mittere pacem sed gladium, lorica carnis accinctus, in huius mundi campum praeliaturus accessit, et, vexillum praeferens crucis, omnium sibi resistentium colla calcavit. Sic, sic videlicet potens noster in praelio et hostiles quandoque acies ad sua signa convertit, et non solum mortem, sed et ipsum mortis principem usque ad inferna persecutus extinxit.”Pudeat ergo te, o miles Christi, peritura in hoc saeculo facultate ditescere, ne in futuro cogaris nudus, et inops perpetuo mendicare. In talis quippe militiae arma iurasti, quae nudos et agiles expetit bellatores; onustos autem atque in Deo segnes a castrorum excubiis donativi arcet immunes…In bellicosa scilicet acie, inerti pecuniae non tuto servitur, ubi constipatis cuneis assidua dimicatione confligitur. Non ille solidorum summam securus enumerat, qui circumfusa telorum multitudinem telorum missilia indesinenter expectat.” (in De contemptu saeculi, 5, in PL CXLV, Parigi 1853, coll. 251-292, in partic. 255 D); leggiamo inoltre nella Glossa ordinaria a proposito di Es 17: “Tu ergo cum coeperis manducare manna, panem coelestem verbi Dei, et bibere aquam de petra, cumque ad interiora doctrinae spiritualis accesserit, expecta pugnam, prepara te ad bellum. Quia cum lex mastice intelligitur, passio Christi spiritualiter pensatur, diabolus vincitur et fugatur. Cum autem remittuntur manus, id est, praecepta legis minus studiose exercentur, hostis victor insequitur” (WALAFRIDO STRABONE, Glossa ordinaria, in PL CXIII – CXIV (coll. 9-752), Parigi 1879, in partic. PL CXIV, col. 242 C); ancora, AMBROGIO AUTPERTO nel De transfiguratione, 11 dice: “Sed nec illud silentio praetereundum existimo, quod in eremo Moyses, in eremo Helias, in eremo ieiuniat et Dominus. Per quod nimirum huius vitae peregrinatio designatur, in qua sicut beatus Job indicat, vita hominis temptatio esse probatur (ed. R. WEBER, CC Cont. Med., 27 B, Tournai 1979, pp. 1005-1024, in partic. p. 1013).” L’autore sa utilizzare anche il linguaggio militare: “Contra quas scilicet principales inimici temptationes, cotidie cum Christo dimicat, cotidie in Christo Ecclesia vincit (Expositio in Apocalypsim, II, ed. WEBER, CC Cont. Med., 27, Tournai 1975, p. 122),” Sul rapporto conflittuale e controverso tra le due militiae si vedano, tra le innumerevoli opere, A. HARNACK, Militia Christi. Die Christliche Religion und der Soldatenstand in den ersten drei Jahrhunderten, Tubinga 1905; H. DELEHAYE, Les légendes grecques des saints militaires, Parigi 1909 ; H.SECRÈTAN, Le Christianisme des premiers siécles et le service militaire, in “Revue de théologie protestante” 2 (1914), pp. 345-365; J.-M. HORNUS, Evangile et labarum. Etude sur l’attitude du christianisme primitif devant les problèmes de l’État, de la guerre et de la violence, Ginevra 1960, pp. 95-120 ; L.HOFFMANN, Militia Christi, in “Theologische Zeitschrift”, 63 (1964), pp. 76-92; F. CARDINI, Alle radici della cavalleria medievale, Firenze 1981, pp. 181-202; J. FLORI, l’idéologie du glaive. Prehistoire de la chevalerie, Genève 1983, pp. 9-14 ; V.BUCHEIT, “Militia Christi” und Triumph des Martyrers, in AA.VV., Kontinuität und Wandel. Festschrift Franco Munari, Hildesheim 1986, pp. 273-287: A. VAUCHEZ, Les laïcs au Moyen Age. Pratiques et expériences religieuses, Parigi 1987, pp. 61-76; I DEUG-SU, Note sull’agiografia del secolo X e la santità laicale, in “StudMed”, 30 (1989), pp. 143-161; A. BARBERO, Santi laici e guerrieri. le trasformazioni di un modello nell’agiografia altomedievale, in AA.VV., Modelli di santità e modelli di comportamento. Contrasti, intersezioni, complementarità, Torino 1994, pp. 125-140; J.LECLERCQ, “Militare Deo” dans la tradition patristique et monastique, e  R.GRÉGOIRE, Esegesi biblica e “Militia Christi”, in Militia Christi cit., pp. 3-20, 21-48. Cfr. la bibliografia in J.AUER, Militia Christi, in “DSAM”, X, Parigi 1980, coll. 1210-1223.

Cfr. V. e E. TURNER, Il pellegrinaggio, Lecce 1997, pp. 49-52 (tit. or.: Image and Pilgrimage in Christian Culture, New York 1978). Sull’antropologia del pellegrinaggio in genere si vedano M.LEMIRE, Le mythe de la terre paternelle, in AA.VV., Le merveilleux. Deuxième colloqui sur les religions populaires, 1971, Quèbec 1973, pp. 50-82; V. TURNER, Passages, Margines and Poverty: Religious Symbols of Communitas, in “Worship” 46 (1972), pp. 399-410; ID., Pilgrimage and Communitas, in “Studia Missionalia” 23 (1974); S.SPINSANTI, Psicologia del Pellegrinaggio, in Pellegrinaggio e religiosità popolare, a cura di L. SARTORI, Padova 1983, pp.114-123; A.N.TERRIN, Il pellegrinaggio in chiave fenomenologico-religiosa, ivi, pp.88-113.

Intesa nel senso datole da Jung come energia psichica. Sull’applicazione di elementi psicoanalitici alla storia, religiosa in particolare, cfr. A.VERGOTE, Psicologia religiosa, Roma 1979; S.ROSE, Il cervello e la coscienza, Milano 1973; C.G.JUNG, Realtà dell’anima, Torino 1963; ID., Simboli della trasformazione, Torino 1970; C.BAUDOUIN, Psicanalisi del simbolo religioso, Roma 1960; J.HILLMAN, Insearch:Psicology and Religion, Londra 1967; L.BEIRNEART, Esperienza cristiana e psicologia, Torino 1965.

  La trattazione fino a questo punto si è svolta lungo la falsariga delle ricerche da me sviluppate nel primo capitolo della prima parte del mio libro Le Parole della Prima Crociata, Lecce 2004.

In PL CLXXXII, 921-949. Altra ed. in Ouvres complètes de S.Bernard, a cura di M.CHARPENTIER, voll. I-IV, Parigi 1865-1867, e in Sancti Bernardi Opera (OSB), edd. J.LECLERCQ, C.H.TALBOT, H.M.ROCHAIS, voll. I-VI, Roma 1957 ss.

Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 1992, n. 2309, pp. 566-567.

Cfr. sull’arg. F. PASINI FRASSONI, Histoire de l'Ordre Militaire du Saint Sepulchre de Jérusalem, Pisa 1888; ID., C.A. BERTINI, C. DE ODRIOZOLA, Histoire de l’ordre Militaire du Saint-Sépulcre de Jérusalem, Roma 1911; A.COURET, Notice historique sur l’Ordre du Saint-Sépulcre de Jérusalem depuis son origine jusqu’à nos jours (1099-1905), Parigi, 1905; A.MAUROY, L’Ordre du St.-Sépulcre de Jérusalem, St.-Lô 1909 ; L.DRESSAIRE, L’Ordre de Chevaliers du Saint-Sépulcre, J 4 1910 ; AA.VV., L’Ordre du St. Sépulcre de Jérusalem, fondé par Godefroid de Bouillon, in RCA XII (1914); V.CRAMER, Der Ritterorden vom Heilingen Grabe von den Kreuzzugen bis zur Gegenwart, in PDVHL 46/48, Colonia 1952; J.-P.DE GENNES, Les Chevaliers du Saint-Sepulcre de Jérusalem, Parigi 1995 ;

 

Fonte: http://www.diocesisansevero.it/cavalieriss/relazione%20Sibilio%202006.doc

 

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