Guerra giugurtina

 


 

Guerra giugurtina

 

Roma nel II secolo a.C.


 

Politica estera

 

Politica interna

II Guerra Macedonica
Vittoria di Tito Quinzio Flaminino su Filippo V a Cinoscefale

200-197
197

 

 

195

Catone è console

Guerra Siriaca
Vittoria di L.Cornelio Scipione su Antioco III a Magnesia
   Pace di Apamea

192-188
189
188

 

 

187

Catone promuove i processi contro Scipione l’Africano e il fratello Lucio

 

186

Senatusconsultum ultimum de Bacchanalibus

 

184

Catone è censore

 

181

Rogo di sette libri pitagorici

 

173

Allontanamento di due filosofi epicurei

III Guerra Macedonica
Vittoria di Lucio Emilio Paolo su Perseo a Pidna

171-168
168

 

 

167

Polibio giunge a Roma come ostaggio

 

161

Espulsione di filosofi e retori

 

155

Ambasceria di tre filosofi ateniesi (Carneade accademico, Diogene stoico e Critolao peripatetico), rimandati subito ad Atene per intervento di Catone

Rivolta di Andrisco in Macedonia
La Macedonia diventa provincia romana

149-148
148

 

Lucio Mummio distrugge Corinto
L.Cornelio Scipione Emiliano distrugge Cartagine

146

 

 

144 ca.

Panezio giunge a Roma

Attalo III di Pergamo lascia in eredità a Roma il suo regno
L.Cornelio Scipione Emiliano conquista Numanzia

133

Ti. Sempronio Gracco tribuno della plebe

 

123-121

C. Sempronio Gracco tribuno della plebe

Guerra Giugurtina

111-105

 

Guerre contro i Cimbri e i Teutoni
Mario vince i Teuttoni ad Aquae Sextiae
   Mario vince i Cimbri ai Campi Raudii

105-101
102
101

 

 

100

Tribunato di Saturnino e Glaucia

 

92

I censori fanno chiudere la scuola di retorica di L.Plozio Gallo

 


  • Cenni storici

Nel cinquantennio successivo alla vittoria di Zama (202 a.C.) Roma attua un’espansione «imperiale», che rapidamente la innalza al rango di prima potenza mondiale. Si allarga, in quest’epoca, il divario fra le diverse componenti della popolazione: l’aristocrazia trae ricchezze smisurate dai bottini delle guerre di conquista, e i commercianti vedono le proprie opportunità di guadagno accresciute dall’apertura di nuovi mercati. Il processo si rivela invece rovinoso per il ceto dei piccoli proprietari agricoli i quali, costituendo il nerbo dell’esercito, avevano fornito la base all’espansione romana in Italia: a causa del prolungarsi della loro assenza in pluriennali campagne militari, essi vedono i loro poderi divenire improduttivi, e non più competitivi rispetto ai latifondi lavorati dagli schiavi e al grano importato dalle province a basso prezzo. La proprietà terriera si concentra nelle mani di pochi latifondisti; vastissime tenute incominciano a venire sfruttate utilizzando in maniera intensiva masse di schiavi, catturati nelle frequenti guerre. I piccoli agricoltori, impoveriti, spesso sono costretti a cedere le loro terre per far fronte all’indebitamento e a immigrare a Roma, incrementando così la plebe urbana, che d’ora in poi costituirà un costante fattore di instabilità sociale.

  • Rapporto con la civiltà greca

 

I primi contatti diretti con la raffinata civiltà dei Greci e il rapido afflusso delle ricchezze da un lato mettono di fronte i Romani a un nuovo mondo pieno di possibilità esaltanti, idee affascinanti, abitudini nuove ed attraenti;  dall’altro diffondono un amore del lusso e del piacere che può sconfinare nella immoralità e nel rinnegamento, più o meno ampio, del mos maiorum.  Di fronte a questa sfida la società romana si divide in due fazioni: l’una di antiellèni, l’altra di filoellèni.

ANTIELLÈNI Vedevano nei Greci solo dei sudditi dell’impero ed erano contrari ad assimilarne la civiltà, in nome del mos maiorum.  Erano antielleni:

  • la nobiltà più conservatrice, tradizionalmente rappresentata da gentes come la Fabia e la Valeria, che si richiamava allo stretto rispet­to della costituzione, all’idolatria del costume degli antenati e ad un angusto spirito nazionalistico, che si rivelava sempre più inadeguato al nuovo impero..
  • una parte degli affaristi (di origine plebea) che preferiva non correre il rischio di dividere con i commercianti dell’Italia meridionale le possibilità che venivano offrendosi nei mercati del Mediterraneo e nella stessa Italia.
  • la plebe o gran parte di essa. La plebe era formata da piccoli proprietari agrari, artigiani, commercianti. I contadini costituivano l’esercito e avevano profittato fino ad allora delle vittorie e delle conquiste in Italia per soddisfare la loro fame di terra mediante la fondazione di colonie e la distribuzione di lotti a titolo personale: erano cives Romani rispet­tati e invidiati e non volevano dividere con nessuno i loro privilegi.

FILOELLÈNI Sostenevano la necessità di un’ampia apertura ai Greci e alla loro civiltà. Erano filoelleni:

  • la nobiltà innovatrice, rappresentata soprattutto dalle gentes Cornelia e Metella e in particolare dalla famiglia dei Corneli Scipioni e dai suoi amici nobili e in­tellettuali. Le guerre di conquista sbocciate come logica conseguenza dal trionfo su Cartagine recarono il rapido arricchi­mento di quella cerchia relativamente ristretta di famiglie di condottieri, nelle cui mani era ormai il destino della potenza romana. I grandi generali vittoriosi, al contatto con la mentalità e la cultura greco‑orien­tale, abituatisi a trattare da pari a pari coi monarchi delle dinastie succedute ad Alessandro o ad umiliarli con le sconfitte, assumevano piglio e mentalità da personaggi d’eccezione e iniziavano un processo d’allarga­mento delle forme tradizionali di vita e di pensiero. Nelle famiglie di questi grandi s’introducevano luminari della cultura greca per istruire i futuri continuatori delle glorie gentilizie, attorno ai quali si diffondeva un’atmosfera da ambiente d’eccezione, raffinato e aristocratico. Scompariva rapidamente la mentalità d’un tempo, che livellava il patrizio (pur col carico delle sue glorie gentilizie) al più modesto legionario nel rispetto umile e scrupoloso del compito affidatogli dallo stato. Ormai personaggi come Scipione l’Africano favorivano una sorta di culto della personalità, che esaltava le loro doti e li poneva al di sopra della morale e della disciplina degli uomini comuni.
  • una parte degli affaristi, spesso di origine equestre, scia­manti al seguito degli eserciti conquistatori per instaurare una fitta rete dei commerci fra Roma e l’Oriente e per prendere in appalto la riscossione delle tasse o l’esecuzione di opere pubbliche.
  • Fasi del “Circolo degli Scipioni”

 

Si definisce comunemente “Circolo degli Scipioni” l’insieme di personaggi politici, scrittori, filosofi di tendenze filoelleniche che facevano parte o orbitavano intorno alla potente famiglia degli Scipioni.
Il “circolo” si riunì dapprima intorno a Scipione l’Africano, poi ad Emilio Paolo, infine, nel momento del massimo rigoglio, intorno a Scipione Emilano.
Si ebbero così tre fasi:

 

Personaggio
principale

Avvenimenti storici

Intellettuali

I fase

Publio Cornelio Scipione Africano

fine II guerra punica (202)

Ennio
Pacuvio (nipote di Ennio)
Cecilio Stazio (amico di Ennio)
Polibio
Panezio
Lelio
Terenzio
Lucilio

II fase

Lucio Emilio Paolo (portò a Roma la biblioteca di Perseo)

Pidna (168)

III fase

Lucio Cornelio Scipione Emiliano (figlio di Emilio Paolo, adottato dagli Scipioni)

III guerra punica (146)

La fioritura di questa nuova cultura sarebbe durata pochi decenni: Scipione Emiliano sarebbe morto in maniera misteriosa in mezzo ai tumulti dell’età graccana, Polibio e Panezio sarebbero tornati in patria avviliti dall’inatteso spettacolo di disordine e di discordia offerto dallo stato romano al primo esplodere delle nuove contese di natura economica, aggravato dal diffondersi in Italia del flagello della malaria sullo scorcio del sec.II, la guerra lusitana e la guerra giugurtina avrebbero rivelato di quale avidità di potere e di ricchezza fosse capace l’aristocrazia dominante; e ben presto la vacillante supremazia della classe oligarchica soffrirà i primi colpi decisivi nel caos della guerra sociale e della guerra civile fra Mario e Silla. Ma l’ideale della Roma polibiana e paneziana sarebbe rimasto una conquista eterna dello spirito umano.

  • Caratteri del “Circolo degli Scipioni”

 

Nuovo modo di intendere i rapporti interumani:

  • Stretta amicizia al di là delle differenze sociali
  • Rispetto e considerazione degli aristocratici romani per i rappresentanti della cultura e della filosofia, sia greci che romani
  • Tolleranza etica e culturale
  • Partecipazione comune alle spedizioni militari
  • Discussioni dotte ma ambiente informale (si raccoglievano insieme conchiglie sulla spiaggia; ci si rincorreva a colpi di tovagliolo intorno alla tavola)
  • Mentalità libera e non esclusiva, aperta non solo ai Greci o a coloro che fossero politicamente esclusi dalla comunità dei Romani, ma anche agli emarginati all’interno della società romana: servi, liberti, meretrici
  • Diritto di sviluppare liberamente la propria natura individuale (è possibile anche una vita di puro studio, senza un impegno politico diretto)
  • Il recte vivere comporta anche il recte loqui: purezza e altezza di sentimenti, affinati da una quotidiana introspezione, si devono accordare con purezza e compostezza di eloquio (eliminazione di locuzioni e vocaboli plebei, stile elegante e alieno da eccessi)

D’altra parte fedeltà ad alcuni punti essenziali del mos maiorum e alle tradizioni aristocratiche:

  • Dedizione alla res publica
  • Giustificazione dell’imperialismo romano (missione universale di Roma)
  • Ideale aristocratico della gentilezza e della cortesia
  • Rispetto del decorum e delle convenienze sociali
  • Cultura di élite, dotata di valore autonomo, lontana dai gusti delle masse
  • L’humanitas

 

Il concetto di humanitas riassume in sé i principali valori su cui si basava il “Circolo” degli Scipioni e che in seguito, attraverso la rielaborazione di Cicerone, sarebbero giunti fino all’Umanesimo e al Rinascimento. Secondo la distinzione proposta dallo Heinemann, si possono cogliere, nel concetto di humanitas, tre aspetti fondamentali, fra loro intimamente legati:

  • sociale (φιλανθρωπία): comprensione, tolleranza, aiuto ai propri simili
  • culturale (παιδεία): formazione ed educazione dello spirito
  • estetico (πρέπον): cortesia dei modi, decoro, liberalità dell’animo, senso dell’equilibrio e della misura, coerenza interna ed esterna del comportamento

La diversità dei significati dell’humanitas implica necessariamente una base comune di pensiero. Questa base filosofica è la nozione di una natura umana avente caratteri specifici, comune a tutti gli uomini, pur con differenze individuali. L’humanitas consiste nello sviluppo e nella perfezione di tutto ciò che è proprio e specifico della natura umana. Il fondamento teoretico dell’humanitas riposa nella filosofia stoico‑eclettica di Panezio. L’affermazione della razionalità come essenza della natura umana, e l’identificazione della ragione umana con la ragione divina esaltano l’uomo, potenzialmente capace di uguagliare Dio, e non in una vita ultramondana, ma sulla terra stessa. Il corpo non è un ostacolo al conseguimento della perfezione, poiché contribuisce all’armonia e alla felicità dell’essere umano, ed è di valido ausilio all’attività della ragione. L’uomo ha nell’ordine cosmico un posto di privilegio, che in parte è dono divino, in quanto oltre alla ragione l’uomo ha dalla natura la voce, la statura eretta e la singolare perfezione della struttura fisica, in parte è opera dell’uomo stesso, che deve contribuire con lo sforzo personale a sviluppare quelle facoltà che in lui si trovano allo stato embrionale. Attraverso le scoperte tecniche, la ragione darà all’uomo il potere di trasformare e di dominare la natura, instaurando sulla terra il regnum hominis.

a.  La φιλανθρωπία
L’idea dell’uguaglianza di natura fra tutti gli uomini è estranea ai Greci dell’età classica, salvo le anticipazioni che si trovano in alcuni Sofisti. ed in Euripide. La forma politica chiusa della πόλις e l’acceso spirito municipalistico dei Greci sono di ostacolo al sorgere di idee universalistiche e al diffondersi di sentimenti filantropici. I Greci ignorano il principio dell’amore e del perdono verso il nemico, e ritengono anzi moralmente doveroso augurare male al nemico e vendicare le offese. Gli stessi filosofi della Grecia classica credono ad una differenza di natura fra liberi e schiavi, fra Greci e barbari.
Il principio della filantropia universale, in nome della comune umanità, prende vigore a poco a poco nel corso del quarto secolo e si afferma nettamente in età ellenistica, dopo la distruzione della πόλις e la formazione dell’impero di Alessandro, la cui eterogeneità favorisce la comprensione degli uomini e dei popoli di diversa razza. Le commedie di Menandro sono rivelatrici della diffusione dei sentimenti filantropici e umanitari, divenuti ormai popolari. Questi sentimenti trovano una sistemazione concettuale rigorosa nella filosofia cosmopolitica degli Stoici: secondo l’antica Stoà non esistono per natura differenze di razza o di condizione fra gli uomini, in quanto tutti sono partecipi della ragione, identica al λόγος divino, che costituisce l’essenza della natura umana. La comunanza di natura unisce tutti gli uomini sotto un’unica legge ed in un unico Stato universale; il vincolo sociale è un’istanza fondamentale della natura umana ed è la base della legge morale. Questa è innata in tutti gli uomini e in tutti i popoli ed è il fondamento della legislazione scritta, che non può dirsi giusta se non è conforme ad essa. L’obbedienza alla legge morale è quindi una caratteristica propria di una natura veramente umana e prescinde da ogni considerazione di pena terrena od ultraterrena. Dall’innata tendenza sociale sono sorti la vita civile, il diritto e lo stato, la cui origine quindi non è convenzionale, ma naturale.
Lo Stoicismo antico però limita praticamente il vincolo cosmopolitico di fratellanza e di assistenza a coloro che sono capaci di realizzare pienamente la legge, i sapienti e i virtuosi, e considera con disprezzo gli stolti e gli ingiusti, che costituiscono la massa dell’umanità. Inoltre la cosmopoli stoica è un’entità puramente astratta.
Invece lo Stoicismo mediano di Panezio, mentre mitiga il rigoroso distacco posto dallo Stoicismo antico fra il sapiente e il volgo, applica l’idea stoica della cosmopoli ad un sistema politico già in atto, l’impero universale di Roma, le cui tradizioni di governo offrivano un terreno propizio. I Romani infatti erano avvezzi a considerare il vinto che si sottomette non come un nemico da distruggere, ma come una persona giuridica tutelata da norme religiose e sociali, degna di rispetto e passibile di assimilazione. La clemenza di Roma verso i vinti è un’antica tradizione attestata da numerosi istituti giuridici. Sulla linea di questo costume politico di clemenza nasce nelle classi dirigenti più illuminate di Roma il concetto dell’impero come benefattore e protettore di tutte le genti, garante della giustizia e dell’ordine sociale. Gli uomini politici del circolo degli Scipioni considerano loro dovere il porre la propria opera al servizio disinteressato dello Stato e della comunità umana, ormai identificatasi con l’impero romano.
Accanto al principio cosmopolitico, si diffonde nella vita di ogni giorno l’humanitas come atteggiamento sentimentale verso il prossimo. Mentre in Panezio il dovere di solidarietà umana è ancora sottoposto a limitazioni e a classificazioni legate all’ordinamento politico e sociale (il dovere verso la patria è più forte che quello verso la comunità degli uomini), il principio dell’amore universale, della caritas humani generis, viene affermato più recisamente da Posidonio e Antioco. Per Posidonio il vincolo sociale non ha origine soltanto dalla natura comune degli uomini, ma anche dalla legge divina e cosmica della συμπάθεια. Testimonianza di questo nuovo spirito di amore è l’immagine posidoniana dell’umanità come un unico corpo, di cuii singoli uomini sono le membra: l’immagine sarà ripresa e resa celebre da San Paolo.

b.  La παιδεία
Secondo l’ideale dell’humanitas, la cultura non viene concepita come somma di conoscenze fine a se stesse, ma sempre in rapporto con l’insieme delle attività umane. Viene così superata la vecchia contrapposizione fra vita attiva e vita contemplativa, fra βίος πρακτικός e βίος θεωρητικός (anche se Panezio inclina più alla prima e Posidonio più alla seconda). La cultura ha per fine il miglioramento dell’umanità ed è tanto più degna di pregio quanto più si esplica nell’ambito della società civile. La sapienza filosofica, l’eloquenza e le altre arti hanno creato la civiltà umana, inducendo gli uomini ad unirsi in società ed ingentilendone i costumi; le applicazioni tecniche delle scoperte dell’ingegno consentono all’uomo di vincere la natura e contribuiscono al progresso dell’umanità. L’humanitas siforma accogliendo l’eredità di sapienza tramandata dagli antichi, la parola degli scrittori e dei poeti, attraverso la testimonianza delle lettere che rendono viva la voce dei tempi passati.

c.  Il πρέπον
Secondo Panezio e Antioco la natura dell’uomo esige che tutte le sue facoltà siano sviluppate, ivi comprese le facoltà del corpo; le varie facoltà e le varie tendenze istintive vanno però armonicamente contemperate e ordinate, in modo che le tendenze superiori prevalgano su quelle inferiori e le tengano a freno, e l’intero comportamento dell’uomo, sia interno che esterno, obbedisca ad una legge di armonia, di convenienza e di misura. La conoscenza di questa legge ci viene data dall’ innato senso estetico, che è uno dei tratti distintivi dell’uomo; dall’osservanza di questa legge nasce il πρέπον, il decorum (“ciò che è conveniente”): è la manifestazione esteriore dell’equilibrio interiore, ciò che suscita l’approvazione estetica delle persone educate e fornite di gusto. Il decorum esige il conseguimento dell’equilibrio interiore e la piena padronanza di se stesso, senza però costringere la natura individuale, ma anzi lasciando che essa si sviluppi spontaneamente e liberamente.
Un uomo di tal genere è definito politus, «civile», educato nello spirito, ma anche degno di ammirazione per la raffinatezza esteriore del tenore di vita, in contrapposizione alla rozzezza degli uomini selvaggi.
Tale ideale di uomo si riallaccia a quello greco dell’uomo καλὸς καὶ ἀγαθός, che unisce in sé le perfezioni intellettuali, morali e fisiche, armonicamente composte, e che caratterizza l’età di Pericle.
Se poi, oltre a sviluppare liberamente le proprie facoltà, si raggiunge un atteggiamento di indipendenza dalle cose esterne, di disinvolta superiorità sulle contingenze e sulle miserie della vita quotidiana, si realizza la virtù della liberalitas, la virtù propria dell’uomo libero.
La liberalità confina con la magnanimitas, il più alto culmine dell’humanitas. Il magnanimo è l’uomo di animo elevato, che distaccandosi dagli impulsi egoistici e dagli interessi meschini si consacra al servizio del bene comune, e compie nobili imprese per fini di giustizia e di umanità.
Da quanto detto sopra deriva che il terzo aspetto dell’humanitas è strettamente collegato ai due precedenti; infatti il libero e armonico sviluppo di tutte le attività spirituali deve poggiare sulla cultura, e deve rivolgersi alla sfera dell’attività sociale, mirando al bene del prossimo. Altrettanto chiara è la natura aristocratica dell’humanitasnel suo aspetto estetico: soltanto agli uomini delle classi dominanti, non premuti dalla necessità economica, è con­cesso di raggiungere la raffinatezza della cultura e dei modi, la liberalità del beneficare, l’indipendenza e la superiorità sulle cose esterne; essi soli possono assumersi il compito di guida dello stato e dell’umanità. L’humanitas è la proiezione dell’ideale di vita dell’aristocrazia politica di Roma. Per questo aspetto l’ideale dell’humanitas si presenta analogo, oltre che a quello greco del καλοκἀγαθός, a quello del cavaliere cortese del Medioevo, del cortegiano del Rinascimento, del gentleman inglese, tutti ideali che, per quanto siano legati ad una determinata situazione storica ed esprimano la mentalità delle classi dirigenti, si propongono di valorizzare le facoltà più nobili insite nella natura umana, e rappresentano il frutto più compiuto di civiltà giunte all’apice del loro sviluppo.

 

  • Pensatori principali

POLIBIO
Appartenente ad un’importante famiglia, impegnato nella politica e nella guida militare della Lega Achea, giunse a Roma nel 166 come ostaggio e fu accolto dalla famiglia degli Scipioni, diventando precettore e amico di Scipione l’Emiliano. Scrisse delle Storie, sostenendo che le ragioni dei trionfi di Roma erano:

  • equilibrio politico (costituzione mista: monarchica [consoli], aristocratica [senato], democratica [comitia])
  • capacità e disinteresse della classe dirigente
  • forti tradizioni civiche
  • tenacia e coraggio dei cittadini

PANEZIO
Nato a Rodi intorno al 185 a.C., Panezio studiò ad Atene e giunse a Roma verso il 144. Divenuto amico di Scipione Emiliano, compì con lui un lungo viaggio in oriente. Fu scolarca della Stoa dal 129 all’anno della morte, il 109. Facendo ricorso anche ad a elementi derivati da Platone e da Aristotele

  • attenuò gli aspetti più e ascetici e inflessibili della morale stoica
  • ridusse il determinismo originario rivalutando il libero arbitrio e l’individualità di ogni uomo;
  • trasformò l’astratta virtù stoica in un insieme articolato di doveri relativi ai diversi ruoli sociali e politici;
  • dette una base teorica all’imperialismo romano.

Per Panezio, come per gli Stoici antichi, il mondo è ordinato da un principio razionale, il  Λόγος = Dio = provvidenza (πρόνοια, in quanto agisce secondo un rigoroso finalismo) = necessità (ἀνάγκη, εἰμαρμένη), in quanto concatena in una serie irreversibile tutti i processi di causa ed effetto.  La Provvidenza (πρόνοια) divina ha creato il mondo in funzione dell’uomo (antropocentrismo), dandogli le sue superiori capacità, che l’uomo deve poi sfruttare autonomamente (aggiunge Panezio) per dominare il mondo. L’anima umana, in quanto razionale, partecipa del λόγος; esiste però (dice Panezio) anche una componente sensitiva (irrazionale), e una vegetativa; perciò il saggio non deve eliminare del tutto le passioni (l’ἀπάθεια degli Stoici antichi), dato che esse sono parte della sua natura, ma deve saperle dominare, guidandole e armonizzandole mediante il λόγος (εὐθυμία).
Il sommo bene per l’uomo consiste nel vivere secondo la propria natura, che però non è unica per tutti, ma è diversa per ogni uomo, ed è costituita da elementi simili alle maschere (πρόσωπα) portate dagli attori in scena:

  • natura umana generale (λόγος)
  • disposizione individuale tipica
  • caratteristiche determinate dalle circostanze esterne
  • caratteristiche determinate dall’attività svolta

Della natura umana generale fanno parte 4 istinti fondamentali che vanno anch’essi seguiti e danno così origine alle 4 virtù cardinali:

  • istinto di conoscere è φρόνησις (che può essere rivolta anche al puro sapere, sebbene il suo obiettivo primario sia la vita pratica)
  • istinto di prevalere è μεγαλοψυχία, magnanimitas (grandezza d’animo dell’uomo che tende ad affermare la propria personalità, mettendola al servizio della comunità)
  • istinto verso l’armonia e la misura è σωφροσύνη, prudentia (che controlla gli istinti, ma armonizza anche le virtù fra loro)
  • istinto sociale è ἐλευθεριότης, liberalitas (che comprende iustitia e beneficentia e che è la virtù prima)

Per ogni uomo, quindi, il sommo bene consiste nel compimento di un’insieme di doveri (καθήκοντα); l’ideale di perfezione, però, non si raggiunge subito, ma attraverso un processo graduale (προκοπή); in tale processo, i beni esterni non sono del tutto indifferenti (ἀδιάφορα), come dicevano gli Stoici antichi, ma ve ne sono di preferibili (προηγμένα), che contribuiscono alla felicità.
Gli uomini, in quanto partecipi del λόγος divino, sono uguali; ma ognuno ha il suo posto nella gerarchia della società, in cui può operare nel modo migliore per il benessere di tutti, obbedendo ai doveri propri della sua natura individuale. Nel loro insieme gli uomini costituiscono un’unica comunità (κοσμόπολις), retta dalla medesima legge divina (diritto naturale): essa, per Panezio, si è storicamente realizzata nell’impero romano, all’interno del quale ogni popolo deve svolgere una funzione particolare, a seconda della natura che gli è propria: la funzione dei Romani è quella del comando (giustificazione dell’imperialismo), volto però al bene comune.

 

Fonte: http://www.siena-art.com/liceo/documenti/RomaIIsec.doc

 

Guerra giugurtina

Giuseppe Guidotti
APPUNTI dalle lezioni di Storia

Le riforme dei Gracchi
Tiberio Sempronio Gracco, tribuno della plebe (162 circa 133 a.C.), cresciuto con il fratello Caio in una famiglia che, nell'attività del padre e nell'opera educatrice della madre Cornelia figlia di Scipione l'Africano, continuava la tradizione di un illuminato riformismo.

Malcontento dei proletari Latini ed Italici: gli Italici volevano per sè il diritto latino, cioè la possibilità di ottenere la cittadinanza romana trasferendosi a Roma; i Latini volevano il diritto romano, ovvero la possibilità di ottenere la cittadinanza romana pur risiedendo fuori da Roma. Tiberio Gracco, tribuno della plebe, nel 133 a.C. fece approvare la lex Agraria, che vietava l'accaparramento di terreno ed al contempo prevedeva la revisione degli appezzamenti già assegnati. I senatori, indispettiti dal provvedimento che li avrebbe fortemente danneggiati, posero il veto alla legge attraverso Marco Ottavio, il collega di Tiberio Gracco.
     Tiberio riuscì però a far deporre Marco Ottavio ed a far approvare la legge. Dopo aver organizzato un triumvirato composto da lui stesso, Gaio ed Appio Claudio, venne assassinato nel 132 a.C. da Scipione Nasica. Alla sua morte, Gaio Gracco fra il 123 ed il 122 a.C. ripropose il progetto di Tiberio: la lex agraria, la lex frumentaria a favore delle distribuzioni di grano, dei provvedimenti a favore dei militari, la lex iudiciaria, che prevedeva che la competenza dei processi per corruzione passasse dai senatori ai cavalieri, la creazione di tre nuove colonie (Iunonia) a Cartagine, la concessione della cittadinanza romana ai Latini e del diritto latino agli Italici. Il suo progetto di riforma, tuttavia, finì per scontentare un po' tutti. 
    Il senato, allarmato dal progetto di Gaio Gracco, ricorse al suo collega Livio Druso, che, riuscendo a far approvare leggi ancora più democratiche, sminuì fortemente l ruolo svolto dai Gracchi e dal loro partito. I Gracchi, per rivalsa, organizzarono delle bande armate ed il senato ebbe buon gioco nel proclamare lo stato d'assedio: i graccani furono massacrati (Gaio si fece uccidere da uno schiavo).
Fra il 103 ed il 100 a.C. Apuleio Saturnino e Glaucia tentarono nuovamente di portare a compimento il progetto di Gaio Gracco, ma furono eliminati. Infine Livio Druso il giovane nel 91 a.C., al chiaro scopo di acquisire potere personale, resuscitò il progetto di riforma dei Gracchi, ma, non riuscendo a soddisfare nessuno, venne anch'egli eliminato.
     In quegli stessi anni, oltre ai problemi che la tormentavano dall'interno, Roma dovette anche affrontare le due guerre servili: la prima, durata dal 139 al 135 a.C. fu scatenata in Sicilia dal ribelle Eunus e fu seguita da una repressione spietata da parte dei romani, crocefissero i ribelli. La seconda, durata dal 104 al 101 a.C., si propagò di nuovo in Sicilia e fu domata ancora dall'esercito.

La guerra sociale e la guerra civile: Mario e Silla
Il periodo che va dalle agitazioni gracchiane alla dominazione di Silla, segnò l'inizio della crisi che, quasi un secolo dopo, portò la repubblica aristocratica al tracollo definitivo. Le convulsioni politiche più gravi, producono una serie di dittature, guerre civili, e temporanee tregue armate, nel corso del secolo successivo.
Dopo le riforme dei Gracchi, una reazione conservatrice restituì potere al Senato, ma questo proseguì la Guerra Giugurtina del 112-105 a.C. in maniera deludente, oltre alla Guerra degli schiavi in Sicilia, e alle sconfitte da parte delle tribù germaniche, tra le quali i Cimbri, che distrussero le armate consolari ad Arausio nel 105 a.C. Roma venne salvata da Gaio Mario, che ottenne diversi incarichi consolari 103-101 a.C. e sconfisse i Teutoni ad Aquae Sextiae (102) e i Cimbri vicino a Vercellae nell'anno seguente.

 

Il partito democratico, nel 107 a.C., portò al consolato Gaio Mario, che estese il reclutamento ai nullatenenti, sia romani, sia italici e provinciali, organizzando un esercito più efficiente, ma i proletari arruolati divennero soldati di mestiere, legati più ai loro comandanti che alle istituzioni repubblicane. Mario, valendosi del proprio prestigio di generale e dell'appoggio dei suoi veterani, impose a Roma il proprio potere personale, concretatosi nell'elezione al consolato per sei anni di seguito. Gli alleati politici di Mario usarono l'esercito per minacciare il Senato e far passare delle leggi che ne riducessero il potere. Mario mise un freno ai suoi alleati e si mise egli stesso in una posizione di inferiorità.

La ribellione di Spartaco
L'agricoltura su vasta scala nella penisola italiana iniziò a dipendere dalla schiavitù con il sistema dei latifundia, e venne minacciata da una grave rivolta degli schiavi, guidata da Spartaco che durò dal 73 a.C. al 71 a.C.
Allo stesso tempo Pompeo tentava di domare l'insurrezione iberica.
Spartaco era nato da una famiglia di pastori e ridotto ben presto in pessime condizioni economiche, accettò di entrare nell'esercito romano. Tuttavia, la dura disciplina cui era obbligato e i numerosi episodi di razzismo che dovette subire all'interno della milizia, lo convinsero a disertare e a scappare. Catturato, bollato come traditore e condannato alla schiavitù, intorno al 75 a.C fu destinato a fare il gladiatore. Infatti Spartaco venne venduto a Lentulo, un organizzatore di spettacoli residente a Capua e obbligato, quindi, a combattere contro tigri, leoni e altri gladiatori solo per far divertire l'aristocrazia italica. Sopraffatto dalle improbe condizioni che Lentulo riservava a lui e ai suoi colleghi, decise di ribellarsi a questo stato di cose e nel 73 a.C. scappò dall'anfiteatro in cui era confinato.
Raccolto un esercito di 40.000 schiavi, sconfisse presso il Vesuvio il pretore Publio Varinio e il console Lucio Gellio. Il numero di ribelli crebbe rapidamente fino a 70.000, composti principalmente di schiavi Traci, Galli e Germanici.
Nel frattempo Spartaco, che aveva definitivamente rinunciato ad attaccare Roma, continuava a spingersi a Sud. Non potendo mantenere compatto un gruppo troppo numeroso, divise la sua armata in gruppi più piccoli. Uno di questi, composto da 10.000 uomini, finì sotto le grinfie delle legioni di Crasso, nominato proconsole nel 71 a.C.. E proprio da Crasso nei pressi del fiume Sele, in Lucania, fu ucciso mentre i 60.000 schiavi ribelli, fatti prigionieri, furono crocifissi dai romani lungo la via Appia.


Anche se Crasso svolse gran parte della lotta contro i ribelli, Pompeo reclamò la vittoria. Questa divenne una fonte di tensione tra i due uomini. Grazie all'appoggio dei loro eserciti, Pompeo e Crasso, ristabilito l'ordine in Spagna e in Italia, si fecero eleggere al consolato e nel 70 a.C. abrogarono la costituzione sillana, della quale erano stati dieci anni prima fautori convinti.

Il primo e il secondo triumvirato
Il mondo Romano si avviava e divenire troppo vasto e complesso per le istituzioni della Repubblica; la debolezza di quest'ultime, ed in particolare del senato (e della classe aristocratica da esso rappresentata) divenne già evidente nelle circostanze del primo triumvirato, un accordo informale con cui i tre più potenti uomini di Roma, Cesare, Crasso e Pompeo, si spartivano le sfere d'influenza e si garantivano reciproco appoggio. Dei tre, la figura di Cesare era la più emblematica dei nuovi rapporti di potere che stavano emergendo.

Era nato (nel 100 o nel 102 a.C.) nella Suburra, il quartiere piú popolare di Roma, e qui abitò fino al 63 a.C. quando, divenuto pontifex maximus (pontefice massimo), si trasferí nella Regia, nel centro dell’Urbe. La storia l’ha esaltato come geniale signore delle vittorie, lucido politico, temerario conquistatore; nel mondo intero gli uomini l’hanno identificato con l’immagine del potere (in Germania il nome di «Cesare», con la chiara indicazione di un potere assoluto, diviene kaiser, in Russia zar).
Sul piano militare non ebbe rivali, se non il ricordo di Alessandro. Differente l’età: il giovane Macedone iniziò ventenne e per tredici anni, con la furia di un uragano, travolse le contrade d’Asia fino all’India, frenato dalla stanchezza dei soldati, non dalla sazietà delle sue conquiste. Cesare di anni ne aveva quarantadue quando si lanciò nella grande cavalcata per il potere del mondo.
Dal 58 al 45 a.C.: lo stesso numero di anni (tredici) impiegati dal Macedone; solo che Alessandro aveva di fronte un impero, quello persiano, al declino; Cesare generali valenti, come Ariovisto, il comandante delle orde germaniche, che consideravano la guerra una occupazione permanente e il massimo degli onori; o come Vercingetorige, che aveva sollevato la maggior parte dei popoli delle Gallie; e ancora l’oligarchia romana nel pieno della potenza, con Gneo Pompeo Magno quale stratega e allora in fama di invincibile.
Nipote di Mario, egli aveva anche per questo aderito sin da giovane alla fazione dei populares e costruì il suo potere con le conquiste militari ed il rapporto di fedeltà personale che lo legava al suo esercito.

Nel 59 a.C. fu anche governatore della Gallia Narbonese, della Gallia Cisalpina e dell'Illiria. Come Proconsole in Gallia (58 a.C. - 49 a.C.) ingaggiò la guerra contro vari popoli, sconfiggendo gli Elvezi nel 58 a.C., i Belgi ed i Nervii nel 57 a.C. ed i Veneti nel 56 a.C.. Nel 55 a.C. tentò la prima invasione della Britannia, e nel 52 a.C. sconfisse una coalizione di Galli guidati da Vercingetorige.
Il Comandante gallico si trovava assediato ad Alesia, capitale del suo regno, mentre Cesare lo attaccava cingendo la città con una robusta palizzata. Nel frattempo un immenso esercito gallico si era radunato e marciava su Alesia per rompere l'assedio, ma Cesare, avendolo saputo, eresse una seconda palizzata per coprirsi le spalle. I Galli attaccanti furono in questo modo duramente sconfitti e Cesare assicurò a Roma il dominio sull'intera regione.

Dopo la morte di Crasso (53 a.C.), le ambizioni personali di Cesare e Pompeo si scontrarono, ma il senato preferì schierarsi con quest'ultimo, che garantiva un più forte atteggiamento di rispetto verso i privilegi senatoriali.
Lo scontro, sempre latente, si mantenne sempre entro i limiti delle tradizionali forme di governo del potere romano, fino al 49 a.C., quando il senato intimò a Cesare di rimettere il suo comando delle legioni che aveva condotto alla conquista delle Gallie, e di tornare a Roma da privato cittadino. Il 10 gennaio abbandonando gli ultimi dubbi, (“alea iacta est”), Cesare attraversò con le sue truppe il Rubicone dando inizio alla guerra civile contro la fazione opposta.
La guerra civile fu combattuta vittoriosamente da Cesare su tre fronti: il fronte greco, dove Cesare sconfisse Pompeo nella battaglia di Farsalo, il fronte africano, dove Cesare riusci ad avere la meglio sugli Optimates guidati da Catone il giovane con la decisiva battaglia di Utica, ed il fronte spagnolo, dove la battaglia decisiva avvenne a Munda sull'esercito nemico guidato dai figli di Pompeo, Gneo e Sesto.
Cesare, avuta la meglio sulla fazione avversa, assunse il titolo di dictator, assommando a se molti poteri e prerogative, quasi un preludio della figura dell'imperatore, che però egli non assumerà mai, ucciso alle idi di marzo nel 44 a.C.

 

La morte del dittatore, contrariamente alle dichiarate intenzioni dei congiurati, non portò alla restaurazione della Repubblica, ma ad nuovo periodo di scontri e di guerre civili. Questa volta però i due contendenti, Augusto e Marco Antonio, non erano i campioni di due fazioni tra di loro rivali, ma rappresentanti di due gruppi di potere che combattevano per il predominio sulla parte avversa, senza avere alcuna velleità di restaurare le Repubblica, che come istituzione storica risultava oramai superata.

 La guerra civile tra Ottaviano e Marco Antonio terminò con la Battaglia di Azio nel 31 a.C., con la quale il futuro Cesare Augusto sconfisse il rivale Marco Antonio, dando inizio, se non nelle forme sicuramente nei fatti, al periodo imperiale della storia romana.

 

Fonte: http://www.itchiavari.it/lettere/storia_1/appunti_12.doc

 

Guerra giugurtina

Queste note sono dedicate, con affetto e riconoscenza, ai carissimis discipulis egregiis clarisque iuvenibus Perusinis (ad alcuni dei quali, sempre presenti nel ricordo, in modo ovviamente speciale), che hanno sopportato continui cambiamenti di opinione nel corso di un lungo viaggio attraverso acque sconosciute...

 

BREVE PROFILO STORICO

DELLA MATEMATICA

 

(Sintesi del corso di "Storia delle Matematiche"

tenuto dal Prof. Umberto Bartocci (dall'A.A. 1977/78 all'A.A. 2002/03)

presso l'Università degli Studi di Perugia,

Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali.)

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Nell'ambito del pensiero, uno sforzo di pensare in modo ancora più originario ciò che è stato pensato alle origini non è la volontà insensata di far rivivere un passato, ma invece la lucida disponibilità a meravigliarsi di ciò che è venturo nell'origine.
Martin Heidegger (1889-1976)

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[Date le particolari finalità dello scritto, si è cercato di non appesantirlo con rimandi bibliografici eccessivamente particolareggiati, o con specificazioni troppo pedanti rispetto per esempio a datazioni incerte, etc.. Ciò nonostante, il debito nei confronti delle "fonti", peraltro naturale nel presente tipo di materia, è stato quasi sempre almeno sommariamente accennato; quelle utilizzate più di frequente (talora anche senza espliciti rimandi, ma inserendo in ogni caso le citazioni tra virgolette) sono i libri di Carl B. Boyer, Storia della matematica (I.S.E.D.I., 1976; Oscar Mondadori, 1980, 1990) e di Gino Loria, Storia delle matematiche - Dall'alba della civiltà al tramonto del secolo XIX (3 voll., Torino, 1929-33, riediti in un unico volume da Cisaplino-Goliardica, 1982); l'Enciclopedia Treccani; i libri di storia di Gabriele De Rosa (mentre le tavole geografiche provengono da: Atlanti del Mondo Antico, dell'Istituto Geografico De Agostini). Per gli stessi motivi di praticità, si è ritenuto preferibile espandere il discorso su temi e periodi presumibilmente meno noti, o più controversi, limitandolo viceversa su altri più "facili", o nei confronti dei quali era lecito supporre maggiore e corretta conoscenza da parte degli studenti, grazie alla cosiddetta "opinione ricevuta". In ogni caso, i paragrafi dedicati ad approfondimenti tecnici, epistemologici, filosofici, etc., che esulano dal filo strettamente storico del discorso, e possono essere rimandati a una lettura successiva, sono stati contrassegnati con un asterisco.
Nonostante gli inevitabili e prevedibili errori (e con la speranza che non siano poi troppo numerosi; del resto, in materie storiche non è possibile, in generale, individuarli autonomamente per via di pura "attenzione logica"), e la citata "disomogeneità", l'auspicio è che ci si sia avvicinati all'intento di costruire non solo un prontuario nel quale rintracciare rapidamente diversi "dati" (anche a puri fini di curiosità), ma soprattutto una "griglia", fattuale e interpretativa, abbastanza solida, da mettere alla prova nel tentativo di inquadrare senza contraddizioni ulteriori eventi e congetture relative a possibili "nessi di causalità".]

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0 - Premesse

0-1) Il nome del corso, Storia delle Matematiche, fa riferimento a due termini di origine greca. istoria, racconto, narrazione, investigazione, ricerca, relazione verbale o scritta su quanto è stato investigato, imparato; istorion, testimonianza, prova di fatto; istwr, una persona che sa, testimone. L'altro, proveniente dalla stessa lingua, è maqhma, studio, oggetto di studio, dalla radice del verbo manqanw, appunto: studiare, imparare. [Il significato della parola è illustrato nel modo seguente da Anatolio (vescovo di Laodicea, vissuto nella seconda metà del III secolo DC; fu anche prete ad Alessandria, dove divenne noto per la sua cultura filosofica e matematica): "Perché la matematica è chiamata così? I Peripatetici [ovvero i seguaci di Aristotele], che dicono che la retorica, la poesia e la musica popolare possono essere praticate anche senza essere studiate, ma che nessuno può capire le cose che vengono chiamate con il nome matematica senza averle prima studiate, rispondono che per questa ragione la teoria di queste cose è detta matematica".] Notiamo pure che vi compare un plurale con cui i proponenti la denominazione in oggetto volevano implicitamente alludere piuttosto alla molteplicità della disciplina, che non alla sua sostanziale unità.

0-2)* Quando si tratta di storia, appare scontato che il proposito di un autore debba essere quello di raccontare "tutta la verità, soltanto la verità", limitando il più possibile le proprie interpretazioni per lasciar parlare, così si dice, i fatti. Ma questa è una pretesa "ingenua", e per tanti motivi. Primo, per l'irrealistica aspirazione di completezza che essa sottende, sicché, dovendosi comunque operare una selezione, ecco che qui si potrebbero celare ove si voglia, come i soldati di Ulisse nel famoso cavallo, gli aborriti "aggiustamenti", funzionali a questa o a quella "moda di pensiero", o (più o meno palese) "interesse". Secondo, perché la storia non è semplice cronaca, e, pur partendo dai fatti, il compito di uno storico è piuttosto quello di ricercare, ove ve ne siano, i nessi causali tra gli eventi (ovvero, il senso di una storia), avendo costantemente presente l'osservazione di [Carl Friedrich] Nietzsche (1844-1900): "La domanda: Che cosa sarebbe successo, se non si fosse presentata questa o quest'altra cosa? viene respinta quasi concordemente, e tuttavia è proprio la domanda cardinale" (Frammenti Postumi, 1875) [Quando si tentano risposte a siffatte domande si dice che ci si sta ponendo nell'ambito di un controfattuale storico.]. Sempre in tema, citiamo ancora da [Georg Wilhelm] Hegel (1770-1831): "E' giusto esigere che la storia, quale ne sia l'argomento, racconti i fatti senza parzialità, senza pretendere di avvalorare interessi o scopi particolari. Ma tale esigenza è un luogo comune che approda a ben poco, giacché la storia di un argomento è necessariamente collegata in modo strettissimo all'idea che ci facciamo di esso. Questa fissa già in precedenza che cosa si considera importante e conveniente per l'argomento prescelto, e siffatto rapporto tra quanto è accaduto e lo scopo che ci proponiamo porta seco la selezione dei particolari da raccontare, il modo d'interpretarli, i punti di vista sotto i quali collegarli" (Lezioni sulla Storia della Filosofia).

0-3)* Non bisogna temere che quanto precede possa far scivolare, dal desiderato realismo, all'opposto estremo dello scetticismo. Per lo scettico sistematico, tutte le storie non sono che racconto, affabulazione, e autentica ingenuità sarebbe ricercare in esse il "vero". In effetti, non esistono quei criteri automatici (tanto cari ai "poveri di spirito") che aiutino a distinguere una buona storia da una cattiva, a riconoscere di un autore onestà, indipendenza, attendibilità della sua personale testimonianza o di quella delle sue fonti, assenza di "committenti" e di "pregiudizi" (da non confondere ovviamente con i giudizi che la sua attività di ricerca gli ha, provvisoriamente, consentito di stabilire), etc.. [A proposito di scetticismo, tutt'altra cosa è il dubbio metodologico di origine cartesiana, che invita a non accettare "fideisticamente" - in un cammino di ricerca verso "verità", ovviamente "parziali", che si suppone sia infine possibile raggiungere - tutto ciò che non corrisponda alla propria personale esperienza e riflessione, e aiuta a liberarsi dai condizionamenti mentali imposti dalla sottomissione al principio di autorità.] Un buon "indizio" è naturalmente costituito dall'aperta franchezza (e, quando possibile, disponibilità a una sincera rimessa in discussione) con cui uno storico riconosce esplicitamente i presupposti, le scelte, che ne ispirano l'opera, ma in ultima analisi spetta soltanto alla coscienza e alla responsabilità del lettore di orientarsi nel difficile compito di separare il grano dal loglio. Non bisogna lasciarsi scoraggiare dalle difficoltà che comporta qualsiasi approfondimento della storia (qualsiasi ricerca di una verità): come osserva Marguerite Yourcenar (scrittrice belga tra le più interessanti del secolo scorso, 1903-1987), nelle sue straordinarie Memorie di Adriano: "Tutto ci sfugge. Tutti. Anche noi stessi. La vita di mio padre la conosco meno di quella di Adriano. La mia stessa esistenza, se dovessi raccontarla per iscritto, la ricostruirei dall'esterno, a fatica, come se fosse quella d'un altro. [...] Il che non significa affatto, come si dice troppo spesso, che la verità storica sia sempre e totalmente inafferrabile; accade della verità storica né più né meno come di tutte le altre: ci si sbaglia, più o meno".

0-4) Ecco quindi che una Storia della Matematica, come preferiamo dire passando al singolare, deve prima di tutto proporsi di spiegare apertamente quale sia l'oggetto del suo studio. Si tratta soltanto della curiosità di classificare, registrare, ogni manipolazione da parte delle varie civiltà a noi note di concetti attinenti alle "arti" del contare, e del misurare (vuoi le dimensioni di forme geometriche, vuoi il tempo)? In tale accezione, matematica si trova ovunque, ma noi proponiamo qui un'interpretazione assai più restrittiva del termine: studiamo la storia della matematica non già là dove si è fatto semplice uso delle capacità "quantitative" dell'intelletto umano (collegate all'intuizione dello spazio e del tempo), ma là dove si è compiuta una "riflessione" su di esse, e sugli enti che le costituivano nell'unico modo "adeguato". La matematica intesa quindi come investigazione sulle leggi dell'intelletto (l'espressione rimanda al titolo di un'opera di Boole di cui diremo al momento opportuno) ci apparirà essere una costruzione caratteristica ed esclusiva della civiltà (dello spirito) greca(o).

0-5) E' bene chiarire meglio cosa si voglia intendere con il termine "matematica" dal punto di vista della "filosofia" dianzi accennata, che ovviamente rifiuta per esempio le moderne definizioni "circolari" di origine sociologica, le quali si rifanno al concetto - usato spesso a sproposito - di "comunità scientifica", affermando costituire il corpus delle conoscenze matematiche i risultati degli studi effettuati da quella categoria di persone individuate in un dato momento storico, e appunto in un dato "gruppo sociale", come i "matematici". Allo stesso modo, lasciamo pure al loro destino le definizioni più o meno confuse, poetiche, o empiriche (quali quelle che "vedono" la matematica dispiegata nella struttura dell'universo, o confondono la matematica con le sue applicazioni - queste possono ben essere talora, come vedremo, motivazioni per l'avanzamento della disciplina, o suo terreno di riscontro, ma non ne costituiscono la più intima essenza), oppure le definizioni di matrice filologica, giacché sapere che per i Greci matematica significava "oggetto di studio e di insegnamento" in nulla ancora ci illumina per i nostri scopi. [Per non dire poi del "valore", che oseremmo qualificare negativo più che nullo, di osservazioni del tipo: "La matematica è quella scienza che trae conclusioni necessarie" (Benjamin Peirce, vedi oltre), le quali non riescono a isolare nessuna delle caratteristiche precipue della matematica da quelle di altre discipline ad essa "simili" nel citato contesto.] Conviene piuttosto riconoscere l'esistenza di alcune "capacità" innate nell'intelletto umano (con analogia informatica, "programmi" di un PC), riconducibili tutte in ultima analisi al saper fare di conto (studio della quantità, collegata peraltro all'ordine, come si è visto nei capitoli del libro di cui questa sintesi è appendice), e di saper misurare (stabilire cioè "rapporti" tra certi enti geometrici, grandezze, uno di essi fissato come unità di misura - e proprio dal latino ratio, rapporto, vengono i termini "ragione", "razionale"). La matematica appare allora propriamente una costruzione progressiva edificata sulle due discipline note con i nomi di Aritmetica e Geometria, le quali si rifanno rispettivamente al modo con il quale il nostro intelletto concepisce il tempo (riconducibile alla sensazione dell'autocoscienza, della propria esistenza spirituale - e non al "movimento" di materia esterna, come molti filosofi hanno al contrario proposto) e lo spazio (riconducibile all'esperienza della "materia", che va di necessità pensata come immersa ed estesa nello spazio), due discipline collegate quindi ad aspetti ovviamente essenziali della condizione umana. "Al tempo corrisponde il calcolo, allo spazio la geometria ... la matematica è costituita da atti di sintesi a priori, cioè di collegamenti intuitivi e necessari che sono il fondamento della nostra visione delle cose nell'unità del tempo e dello spazio". Si tratta naturalmente di elementi della filosofia kantiana (Immanuel Kant, 1724-1804), che vengono illustrati con estrema concisione da Piero Martinetti (Kant, Feltrinelli, 1968) nel seguente modo: "Noi siamo in possesso di verità universali e necessarie che valgono per la realtà a noi nota nell'esperienza (altrimenti non sarebbero conoscenze) e che tuttavia per la loro natura ci rinviano a una fonte diversa dall'esperienza che trascende l'esperienza" [d'onde il termine trascendentale per indicare tale punto di vista, secondo cui lo spazio e il tempo sono forme a priori, "leggi" organizzative dell'intelletto, le quali vengono utilizzate dallo spirito dell'uomo nei suoi singoli atti di conoscenza - gli "oggetti" della quale si distinguono poi in quelli semplicemente attinenti alla sfera del "sensibile", cioè alla realtà quale essa "appare", o del "concettuale", in ordine alla realtà quale essa "è": da qui la famosa distinzione tra fenomeno e noumeno]. Gli atti di conoscenza sono sempre atti di sintesi condizionati dalla presenza di "elementi umani" che ne costituiscono l'indispensabile supporto, sicché non possono mai pervenire a produrre una "riproduzione ideale della realtà in un'unità logica perfetta", ma soltanto "una forma simbolica e provvisoria dell'unità". A tale concezione si rifà la citazione (Mathematischen Schriften, ed. Gerhardt, 111, 53) di [Gottfried Wilhelm] Leibniz (1646-1716) scelta come epigrafe per i nostri Elementi di Matematica, alla quale possiamo aggiungere una riflessione di Cartesio (René Descartes, 1596-1650): "Toutes les sciences, qui ont pour but la recherche de l'ordre et de la mesure se rapportent aux mathématiques" (dalle Règles utiles et claires pour la direction de l'Esprit en la recherche de la Vérité, ovvero Regulae ad directionem ingenii, pubblicate per la prima volta nella versione integrale latina soltanto nel 1701, ad Amsterdam, negli Opuscula posthuma, physica et mathematica, costituenti il volume IX dell'Opera omnia del grande filosofo). Ciò detto, bisogna allora riconoscere che è impossibile non ritrovare un uso più o meno modesto della matematica in qualsiasi società umana, ma altrettanto che non è la storia di un siffatto uso "naturale" della matematica quella che interessa in modo particolare. A noi premerà lo studio astratto delle modalità attraverso le quali si esplicano le due nominate capacità, e non il loro semplice esercizio; ovvero, lo studio delle proprietà con le quali gli enti ai quali esse fanno riferimento sono strutturati e necessitati. Orbene, ripetiamo che una matematica intesa in tale senso iniziò a svilupparsi soltanto presso i Greci (stanti le informazioni oggi disponibili), all'interno delle loro prime generali speculazioni filosofiche, che resero lo studio di essa cosa assai diversa dalla semplice formulazione di regole e procedure aventi finalità eminentemente "pratiche" (anche questa è una parola di origine greca, praxiV = azione), che troviamo diffuse anche presso civiltà precedenti e di altri luoghi.

0-6) Come discrimine tra una matematica principalmente pratica, e una che è lecito definire "razionale" (in quanto i suoi "oggetti" di studio - punti, linee, etc. - diventano puri enti del pensiero, astratti da ogni "concretezza materiale") possiamo stabilire la consapevolezza dell'irrazionale (il termine, come abbiamo spiegato altrove in questi Elementi, introduce quasi un'antinomia nel nostro discorso, ma è ormai così radicato nell'uso che è inutile proporne modifiche). Quando si misura un segmento rispetto a un altro, è ovvio che tale procedimento può essere "indeterminato", nel senso che il segmento più grande può non coincidere con nessun multiplo di un sottomultiplo del segmento più piccolo, sicché un suo risultato "finito" può riuscire sempre inesatto, solamente approssimato. Siffatta constatazione è ininfluente appunto per applicazioni concrete di procedimenti di misura (si pensi per esempio al fatto che la frazione 17/12 è una "buona" approssimazione per la radice quadrata di 2, e che il numero intero 3 lo è del numero  p - una constatazione "empirica" quest'ultima che si ritrova espressa anche nella Bibbia (Cronache II, 4-2): "Fece la vasca di metallo fuso del diametro di dieci cubiti, rotonda, alta cinque cubiti; ci voleva una corda di trenta cubiti per cingerla"), non lo è però dal punto di vista concettuale. I Greci mostrano piena consapevolezza del fatto che l'intuizione geometrica implica l'esistenza di coppie di grandezze "incommensurabili", laddove sembra che nessun'altra civiltà l'abbia mai posseduta, e tanto basta per fissare l'oggetto del nostro studio, sia dal punto di vista del suo inizio nel tempo, sia da quello del suo inizio nello spazio. [Appare opportuna la seguente citazione da Platone (Leggi, VII): "Bisogna dunque dire che i cittadini liberi debbono imparare di ciascuna di queste discipline [...] con le misurazioni, per quanto ha relazione con le lunghezze, le larghezze e le profondità, li liberano da una certa ignoranza che è diffusa in tutti gli uomini e inerisce loro, ridicola e insieme vergognosa [...] mi parve degna non di uomini, ma piuttosto di giovani maiali, e mi sono vergognato non solo per me stesso, ma anche per tutti i Greci [...] [non si deve credere] che per natura sia possibile misurare una lunghezza con una lunghezza, una larghezza con una larghezza [...] alcune di queste dimensioni sono commensurabili fra loro, ma, così, alcune lo sono, altre no [...] ci sono dei casi in cui tale operazione è da ogni punto di vista assolutamente impossibile [...] non è forse questa una di quelle cose in relazione alle quali dicevamo risultare vergognoso il non sapere, mentre non è per nulla cosa meritevole il sapere quelle che sono necessarie?"]

0-7) Un discorso analogo, oltre che per la geometria, vale anche per l'astronomia, di cui ci occuperemo estesamente per due motivi. Il primo è che in una comune accezione antica aritmetica, geometria, astronomia e musica [Le cosiddette nel Medioevo arti liberali del quadrivio, che unite alle arti liberali del trivio - logica, dialettica, retorica - venivano genericamente contrapposte alle arti meccaniche, o pratiche, o manuali, che erano alla base dei mestieri (la specificazione "liberale" ha a che fare con attività ritenute meglio confacenti alla dignità dell'uomo "libero"). Per quanto riguarda l'inserimento della musica, non a caso aritmetica, da: ariqmoV = numero, e musica hanno a comune il concetto di "ritmo", che ha del resto a che fare, in ultima istanza, con il "tempo".] venivano apparentate per comprensibili motivi. [Indebiti, però, sotto l'aspetto meramente filosofico, la matematica facendo propriamente parte, come abbiamo detto, del regno del pensiero, e non dell'osservazione della Natura, jusiV secondo i Greci, d'onde il termine "fisica" (vedi anche il punto 1-1-3); la distinzione trova piena dignità filosofica nella distinzione, sempre di origine kantiana, tra giudizi sintetici a priori e a posteriori.] Il secondo è che le applicazioni della matematica all'astronomia (e viceversa le "domande" dall'astronomia rivolte alla matematica) costituiscono un leitmotiv importante nella storia oggetto della nostra attenzione. Di fronte a un'astronomia di tipo che potremmo dire semplicemente osservativo, presente (quasi) ovunque, tutte le civiltà maggiormente evolute mostrano buone conoscenze di astronomia quantitativa, finalizzata alla misura del tempo, alla registrazione delle eclissi, etc. (gnomonica, meridiane, calendari solari, lunari, e luni-solari; anno solare e anno siderale). [Il 2000 dell'era cristiana corrispondeva al 5761 degli Ebrei, Anno Mundi, ovvero dalla "creazione del mondo", e al 1420 degli Arabi, i quali ultimi calcolano gli anni a partire dal 622 DC, se ne veda oltre il motivo, ma usano un anno esclusivamente lunare più breve del nostro, cioè di soli 360 giorni, laddove invece per esempio l'anno degli Ebrei è misto, cioè luni-solare.] Definiremo teorica l'astronomia coltivata dei Greci, che si distingue da tutte le altre perché si pone domande anche intorno alle "dimensioni" dell'universo, ovvero alle grandezze e alle distanze relative dei corpi celesti, elabora "modelli" che ne determinino posizioni e velocità, etc.. [Appare interessante ricordare invece al proposito l'atteggiamento descritto nel Libro di Giobbe (38,4-5), in cui Dio indirizza al profeta le seguenti parole: "Dov'eri tu quand'io ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la misura?"] Anche per questi aspetti la scienza greca appare un unicum. Notiamo infine che avremmo potuto introdurre una terminologia parallela a quella che proporremo nel successivo punto 0-10 per la geometria, ma che riteniamo più appropriato il termine astronomia di precisione per qualificare l'astronomia post-copernicana.

0-8) In ogni caso, anche senza voler concordare con i rimandi filosofici contenuti nei precedenti punti, appare necessario riconoscere che la matematica viene dai greci sviluppata in modo completamente nuovo e originale rispetto a quello di altre civiltà di ogni tempo e luogo, ed è sulla base di tale convinzione che faremo del popolo greco e delle sue vicende l'oggetto principale delle nostre successive investigazioni. Diciamo qualcosa di più sul problema delle matematiche pre-elleniche (o extra-elleniche) e della loro eventuale influenza sulla matematica greca. La matematica egiziana, per esempio, appare sinceramente assai minore di quel "livello minimo" che qui abbiamo proposto di prendere in considerazione, indirizzata come essa fu soprattutto alla risoluzione di casi particolari aventi per lo più finalità pratiche, sbrigate le quali non appaiono preoccupazioni (interessi) verso "dimostrazioni", o analisi di contesti generali. Ripetiamo, almeno a giudicare da quel poco che ne è rimasto documentato. [Secondo Boyer: "Gran parte delle nostre informazioni sulla matematica degli egiziani sono state ricavate dal papiro di Rhind [Henry Rhind fu l'antiquario scozzese che lo acquistò nel 1858] o di Ahmes [dal nome dello scriba che dichiaratamente lo trascrisse, intorno al 1650 AC, da un testo detto più antico di un paio di secoli] il più ampio documento matematico dell'antico Egitto; ma vi sono anche altre fonti. Oltre al papiro di Kahun [...] vi sono un papiro di Berlino dello stesso periodo, due tavolette di legno provenienti da Akhmim (Cairo) risalenti al 2000 AC circa, un rotolo di pelle contenente elenchi di frazioni con l'unità a numeratore e risalente al tardo periodo degli Hyksos, e un importante papiro, noto come il Papiro di Goleniscev o di Mosca, acquistato in Egitto nel 1893. [...] Fu scritto, con minore accuratezza dell'opera di Ahmes, da un ignoto scriba della dodicesima dinastia, ca. 1890 AC" (rimandiamo a http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/PIRAM.htm per lo studio di un caso particolare collegato).] Riprendiamo un'altra significativa informazione da Boyer: "Un atto notarile rinvenuto a Edfu, risalente a un periodo di circa 1500 anni posteriore al Papiro di Ahmes, presenta [...] la regola per trovare l'area di un quadrilatero in generale [che] consiste nel prendere il prodotto delle medie aritmetiche dei lati opposti. [...] l'autore dell'atto notarile ne derivava un corollario, secondo il quale l'area di un triangolo è uguale a metà della somma di due lati moltiplicata per la metà del terzo lato". Non sembra ci sia bisogno di alcun commento (si pensi a cosa accade in effetti facendo tendere un lato a zero, dovendosi in tal modo ottenere "al limite" la formula per l'area di un triangolo), tanto più se si tiene conto che 1500 anni dopo il papiro di Ahmes, sia che si intenda dopo la sua effettiva redazione, sia dopo quella del precedente testo che l'autore trascrisse, significa comunque un periodo a ridosso della grande "esplosione" della matematica greca. La formula in oggetto sembra poi risalire ai Babilonesi, e a un'epoca più remota, come dire che per tanto tempo non sembra sia stato compiuto alcun progresso, apportato nessun miglioramento. [Riferiamo di un'altra sorprendente e poco nota-notata "assenza" nella cultura egizia (difficilmente giustificabile unicamente con la motivazione di una "esoterica riservatezza" con cui venivano gestite le informazioni da parte della classe sacerdotale). L'unico storico egiziano di cui si abbia notizia è Manetone, vissuto peraltro ai tempi di Tolomeo I e Tolomeo II (vedi oltre). Nella sua opera Aiguptiaka egli tenta una storia dell'Egitto attingendo agli archivi sacri, che inizia con il periodo in cui i re erano degli dèi. Tale scritto è andato perduto, e oggi ne restano unicamente delle citazioni nello storico ebreo Giuseppe Flavio (37- 96 DC, rimasto famoso come esponente del "collaborazionismo" degli Ebrei con i Romani, al punto che divenne liberto di Vespasiano, e si adoperò per far accettare agli Ebrei in rivolta l'ineluttabilità di una dominazione romana; scrisse: Antichità Giudaiche, una storia del popolo ebraico, e Guerra Giudaica, in cui narra gli eventi da lui personalmente vissuti al tempo della distruzione del Tempio da parte di Tito), oltre a un'Epitome contenuta nella "cronografia" di Giorgio Sincello (storico bizantino, vissuto tra l'VIII e il IX secolo, scrisse una cronaca dalle origini del mondo fino all'imperatore Diocleziano). Per contro, dalla civiltà greca, come successivamente da quella romana, emersero numerose "storie", le principali delle quali si debbono ai ben noti nomi di: Erodoto di Alicarnasso (484-425 AC); Tucidide (Atene, 460-395 AC); Senofonte (Atene, 430-354 AC); Plutarco (Cheronea, 50-120 DC).] Tutto ciò giustifica un "giudizio" complessivo e conclusivo che presentiamo ancora con parole di Boyer: "Che i Greci abbiano preso a prestito dagli egiziani qualche nozione di matematica elementare è probabile [...] ma essi hanno certamente esagerato la misura del loro debito". [Il giudizio appare viepiù confermato dal famoso episodio narrato da Diogene Laerzio (storico greco vissuto nel III secolo DC, autore di una Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi), secondo il quale sarebbe stato proprio Talete a insegnare viceversa agli egiziani come misurare l'altezza delle piramidi analizzando quella delle loro ombre. Potremmo parlare dei primordi della teoria delle proporzioni e delle similitudini, ricordando l'enunciato di quello che chiamiamo ancora oggi "teorema di Talete", ma in realtà il metodo utilizzato da Talete nell'occasione fu di tipo "astronomico". Eseguì infatti le sue misurazioni in un giorno in cui i raggi del Sole erano inclinati di 45°, sicché l'ombra di un oggetto coincideva esattamente con la sua altezza (vedi anche il punto 1-2-5). Tralasciamo altri particolari, ma osserviamo che l'altezza di una piramide quadrata, impossibile da determinare direttamente, può essere facilmente calcolata via ripetute applicazioni del "teorema di Pitagora", sicché l'accaduto sembra confermare l'opinione che tale teorema, pur essendo noto ai Babilonesi, non lo fosse invece agli Egiziani (e invero non ne risulta traccia nei loro pochi documenti matematici pervenutici).] Terminiamo dicendo che simili osservazioni possono ripetersi sia per la matematica cinese sia per quella indiana. Di entrambe - sovente "sopravvalutate", e poi non così antiche come si crede comunemente - daremo qualche notizia nella sezione dedicata al Medioevo.

0-9) Siamo così finalmente in grado di stabilire le nostre prime biffe di riferimento [biffa = "dispositivo realizzato con appositi vetrini murati a gesso ai lembi di fenditure sui muri, per controllarne l'eventuale allargamento" - l'autore deve l'immagine al grande matematico francese Jean Dieudonné, del gruppo Bourbaki, vedi oltre, senza essere purtroppo in grado di rammentare ulteriori particolari di tale debito], tra tutte quelle che cercheremo di collocare nel vasto oceano della storia a scopo di orientamento. Fissiamo l'origine della presente investigazione intorno al 600 AC, e introduciamo una prima suddivisione fondamentale della storia della matematica (alquanto parallela alle altre usuali nella corrente storiografia) in due periodi, antico e moderno, il primo suddividendosi poi a sua volta in altri due sottoperiodi, classico (detto da alcuni greco-romano) e medievale.

0-10) E' chiaro che la predetta suddivisione (le cui motivazioni illustreremo in misura crescente procedendo nel discorso) fa riferimento, almeno per la sua prima parte, alla scelta effettuata di porre l'attenzione sulla civiltà greca. Invero, quali confini temporali assegnarle? Si tratta di una storia relativamente recente, non solo ovviamente rispetto alle grandi ere di cui ci parlano astrofisica, geologia e biologia (vedi il I riepilogo storico generale), ma anche a quanto si pensa comunemente, con riferimento a "tempi storici" (e pure questi debbono concepirsi assai "limitati", vedi ancora il citato riepilogo). E' infatti soltanto verso la metà del II millennio che dal Nord dell'Europa irrompono nel bacino del Mediterraneo le prime tribù "greche" (Elleni, Danai, Achei, Dori, Ioni,...), le quali si impongono gradatamente alla fiorente civiltà egea-cretese (detta anche minoica, con riferimento al leggendario re Minosse di Creta, il re della leggenda del Labirinto e del Minotauro). Si colloca generalmente la guerra di Troia intorno al 1200, mentre i poemi omerici risalirebbero al IX secolo, e quelli di Esiodo all'inizio del VII secolo. [Un'opinione in proposito del tutto alternativa, che corre il rischio di essere vera!, è propugnata da Felice Vinci: se ne vedano per esempio notizie nella rivista on line Episteme, elenco degli articoli alla pagina web: http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/epi-3anni.htm.] La prima Olimpiade viene datata al 776. I Greci trovarono nelle nuove terre diverse popolazioni di cultura che dobbiamo immaginare assai più avanzata della loro originale, come gli Egiziani, i Fenici, etc., dalle quali sicuramente in un primo momento appresero molto (per esempio l'uso della scrittura, per cui usarono un alfabeto di origine fenicia). Interagendo con tali civiltà conobbero una rapida evoluzione, infine superandole tutte nelle materie oggetto del nostro speciale interesse, ed ecco spiegata la biffa relativa al VI secolo AC. Abbiamo già accennato a come i Greci non si limitarono a imitare gli Egiziani nelle loro raccolte di regole eminentemente pratiche, aventi lo scopo di indicare come comportarsi nei diversi casi in cui ci si imbatteva più comunemente, ma cominciarono a fare sistematicamente della matematica un oggetto di riflessione logico-filosofica "pura", pervenendo così a porre le basi di quella che possiamo anche chiamare la geometria di precisione.

0-11) Un problema irrisolto, e forse irrisolubile: perché la matematica "razionale" si sviluppò soltanto presso i Greci? "Per caso" sembra essere una buona risposta, dato che l'evento può considerarsi alquanto improbabile (tanto è vero che non si è mai verificato altrove, a quel che ne sappiamo). Allo stesso modo, verosimilmente, è lecito supporre che siano esistiti interi "cicli" della storia dell'umanità (vale a dire, tra una catastrofe e l'altra) senza nessuna matematica razionale, per non dire senza nessuna capacità di confronto "tecnologico" con la natura. [Vedremo come della matematica pur razionale la "tecnica" sarà al tempo stesso madre e figlia, sia pure solamente nell'età moderna - anche "tecnica" proviene da una parola greca, tecnh = mestiere, lavoro, da una radice che inizialmente significava "tagliare"; il corrispondente latino è "arte", ars, da una radice che rimandava semanticamente a "incastrare", "adattare".] Ciò non toglie che sia estremamente interessante speculare sulle circostanze contingenti che possono aver favorito la nascita e l'evoluzione di tale tipo di matematica (potremmo anzi parlare direttamente di "geometria", l'aritmetica essendo, almeno apparentemente, più "facile", e rapidamente conoscibile, senza bisogno di successivi progressi). Secondo Michel Serres (Le origini della geometria, Feltrinelli, 1994): "Esistono così poche risposte a questa domanda che molti storici, per illustrare un evento tanto raro, parlano di miracolo" (poiché il termine "miracolo" presuppone implicitamente un qualche intervento di natura "volontaria", provvidenziale, ecco perché abbiamo prima usato volutamente il termine "caso"). Difficile in effetti attribuire l'invenzione del sapere "disinteressato" al fatto che la classe sacerdotale egiziana potesse permettersi i "lussi" oziosi della contemplazione pura, oppure all'istituto della schiavitù (diffuso peraltro in - quasi? - tutto il mondo antico), che altrettanti ne consentiva agli "aristocratici" greci. [Così si esprime al riguardo Aristotele, all'inizio della sua Metafisica: "le arti matematiche [classificate dal filosofo tra le scienze che non badano "né al piacere né al necessario"] si costituirono per la prima volta in Egitto, dove la casta sacerdotale poteva dedicarsi all'ozio". Val forse la pena citare anche le parole che Erodoto dedica all'usanza comune a talune civiltà di tenere in maggiore considerazione sociale coloro che si astengono dal lavoro manuale (Storie, Libro II, 167): "Se anche questo costume sia derivato ai Greci dall'Egitto, non lo posso dire con certezza.: osservo infatti che anche i Traci, gli Sciti, i Persiani, i Lidi e quasi tutti i Barbari tengono in minor conto i cittadini che esercitano le arti manuali e i loro discendenti, e stimano invece nobili coloro che se ne astengono, soprattutto quando esercitano il mestiere delle armi. Comunque sia, questo modo di vedere è stato adottato da tutti i Greci e in particolare dagli Spartani: unica eccezione i Corinzi, che meno degli altri disprezzano gli artigiani".] Peraltro, quasi auto-contraddittorio voler individuare le motivazioni dell'importante "passaggio" dal concreto all'astratto nelle particolari esigenze imposte dalle immediate necessità pratiche, quali quelle che Erodoto, discutendo di origini della geometria, ascrive precisamente agli egiziani, che dovevano rimisurare le terre dopo le periodiche inondazioni del Nilo (appunto: gh = terra, metron = misura). [Citiamo ancora dalle Storie (Libro II, 109): "Questo stesso re [Sesostri III, della XII dinastia, una delle più importanti del Medio Regno, regnò tra il 1880 e il 1840 circa], sempre al dire dei sacerdoti, suddivise il suolo fra tutti gli Egiziani, dando a ciascuno un lotto uguale, di forma quadrata, e assicurò così delle rendite al tesoro regio mediante l'imposizione di un tributo annuo. Se il fiume toglieva a qualcuno una parte del suo lotto, questi andava dal re e lo informava della cosa: e il sovrano mandava suoi incaricati a esaminare e misurare di quanto fosse stata decurtata la proprietà, perché da allora in poi fosse diminuito il tributo in proporzione della perdita. Credo che di qui abbia avuto origine la geometria, che poi passò in Grecia. L'orologio solare, lo gnomone e la suddivisione del giorno in dodici parti sono [invece] di derivazione babilonese".] Infatti, se siffatte motivazioni possono invero spiegare il sorgere dell'attenzione verso talune problematiche (potremmo anche ricordare le tesi di coloro che riconducono certi avanzamenti dell'aritmetica alle necessità fenicie del commercio), non ci possono ahimé illuminare poi sul perché esse furono successivamente trattate in quel modo che abbiamo detto "filosofico", ricollegando quindi il nostro particolare dilemma a quello generale sulle origini e lo sviluppo della filosofia greca, anch'essa così "diversa" da tutte le altre a noi note. E ciò senza tener conto, infine, del fatto che ciascuna pretesa "causa", o "concausa", è stata probabilmente innumerevoli volte presente, in altri momenti storici e in altre civiltà, senza che si verificasse l'evento che essa dovrebbe contribuire a chiarire.

I riepilogo storico generale

Alcune biffe fondamentali della storia (lineare e progressiva) secondo l'opinione corrente.

- Tra i 15 e i 20 miliardi di anni fa "nasce" l'universo.
[Teoria del Big-Bang, che si deve a una prima idea (1931) di Georges Lemaître (1894-1966), astronomo e gesuita belga, e a sviluppi successivi (1948) del fisico russo - successivamente alla rivoluzione sovietica emigrato negli Stati Uniti - George Gamow (1904-1968). Essa rappresenta la più nota delle cosmologie che si basano sulla Teoria della Relatività Generale (1917) di Albert Einstein (vedi oltre); il suo primo fondamento sperimentale consiste nelle celebrate osservazioni (1929) dell'astronomo "dilettante" (in origine era un avvocato!) americano Edwin Hubble (1889-1953), le quali avrebbero constatato un'espansione dell'universo, ascrivendo a un "effetto Doppler" il cosiddetto red shift della luce proveniente dalle galassie. Si vedano al riguardo, nella nominata Episteme, le considerazioni assai critiche di Alberto Bolognesi e Roberto Monti.]

- Intorno ai 5 miliardi di anni fa si forma il Sole, e successivamente (mezzo miliardo di anni dopo) i vari corpi del Sistema Solare, Terra ovviamente compresa.

- Circa tre miliardi di anni fa nascono sulla Terra i primi organismi viventi, batteri che si nutrono di luce.

- Un miliardo di anni fa fanno la loro apparizione organismi composti da cellule complesse.

- Trecento milioni di anni dopo gli oceani sono popolati da molteplici forme di vita, e la terra ferma da vegetali. Bizzarro notare che secondo la teoria "scientifica" corrente sia sensato scrivere cose simili: "Circa 700 milioni di anni fa i vegetali escono dalle acque e si avventurano sulla terraferma...", mah!

- Tra i 400 e i 300 milioni di anni fa incontriamo i primi vertebrati, pesci, anfibi, rettili.

- Intorno ai 200 milioni di anni fa la terra è il regno dei dinosauri (e quindi degli uccelli), i quali scompaiono circa 60 milioni di anni fa, lasciando il posto dominante ai mammiferi.

- L'apparizione dell'Homo Sapiens viene fatta risalire a non più di 50.000 anni fa, preceduta ovviamente da diversi suoi "progenitori", a volte pure apparentemente sopravvissuti in parallelo fino all'estinzione (Uomo di Neanderthal, circa 100.000 anni fa; Uomo di Cro-Magnon, circa 50.000 anni fa, etc.).

- Fino a 10.000 anni fa si immagina l'uomo ancora organizzato in piccole comunità, di non oltre qualche decina di individui, i quali vivono in caverne (15.000/10.000). La cosiddetta età della pietra si divide comunemente in (almeno) tre periodi: Paleolitico, Mesolitico, Neolitico.

- Comunque siano andate davvero certe cose, è palese che in verità ne sappiamo ben poco, così come ben poco sappiamo realmente della storia dell'uomo, quando risaliamo anche solo di pochi millenni prima dell'inizio della nostra era, che diciamo cristiana. E' opinione dello scrivente che tale situazione sia da ascriversi più ad alcune catastrofi ricorrenti sul nostro pianeta, che non alla relativa primitività dei nuclei umani che vissero in certe epoche remote (si vedano i lavori di Emilio Spedicato pubblicati nella già citata Episteme; l'autore in parola fornisce come date approssimative per le catastrofi più recenti, e importanti, l'11.000 AC - che potrebbe essere quella che vide coinvolta la mitica "Atlantide" - e il 6.000 AC). [Nel Timeo di Platone troviamo il seguente passo, assai significativo nel nostro contesto: "Allora uno dei sacerdoti assai vecchio disse: Solone, Solone, voi Greci siete sempre bambini, e non esiste un Greco vecchio ... Siete tutti giovani nelle anime: infatti in esse non avete alcuna antica opinione che provenga da una primitiva tradizione e neppure alcun insegnamento che sia canuto per l'età. E questa è la ragione. Molte sono e in molti modi sono avvenute e avverranno le perdite degli uomini, le più grandi per mezzo del fuoco e dell'acqua..."] L'ultima catastrofe in particolare è quella nota come "Diluvio di Noè", che dovette avvenire intorno al 3250, coinvolgendo una larga parte della Terra. Se così fosse, sarebbe chiaro perché, prima di una certo momento, sulle vicende storiche dell'umanità si possano fare solamente delle ipotesi, più o meno fondate. Sta di fatto che, dopo un periodo che bisogna immaginare di grande caos, di migrazioni e di ripopolazioni, è soltanto intorno ai 300 anni dopo la data citata che inizia per esempio la storia della civiltà degli Egizi, con la fondazione di Menfi da parte del primo mitico faraone Menes (il quale va quindi secondo noi ricondotto al primo secolo del III millennio, e non prima; del resto, sulla questione c'è ampio disaccordo tra gli "esperti").

- 2700 Zoser costruisce la prima piramide a Saqqara. Il cosiddetto antico regno dura fino al 2200, ed è seguito da un (primo) periodo intermedio. Vengono ricordati in modo particolare i nomi dei faraoni della IV dinastia (2600-2500), i celebri costruttori di piramidi Cheope, Chefren (al quale si dovrebbe la costruzione della Sfinge), e Micerino.

- Intorno al 2500 possiamo collocare l'epopea di Gilgamesh, re della città sumera di Uruk, raccontata in tavolette d'argilla che sono state rinvenute nella "biblioteca" di Ninive, capitale dei Babilonesi, il cui sovrano Assurbanibal regnò dal 668 al 627 (invece Hammurabi, il cui nome è rimasto famoso per l'omonimo "Codice", regnò intorno al 1800). Sempre in queste tavolette troviamo traccia di un resoconto caldeo del "diluvio", dal quale gli Ebrei, durante il periodo dell'esilio (circa 600/550), prenderanno verosimilmente lo spunto per la narrazione che compare nella Genesi. Sempre all'incirca al medesimo periodo dobbiamo far risalire l'origine e l'espansione delle civiltà dei Sumeri, degli Accadi, dei Caldei, degli Assiri, dei Babilonesi, degli Ittiti, dei Mitanni, dei Fenici, dei Persiani, etc..

- Dal 2060 al 1800 si parla di un medio regno in Egitto, al quale seguono un (secondo) periodo intermedio, e l'invasione degli Hyksos (il cui dominio sull'Egitto va dal 1660 al 1550). Si apre quindi la fase del nuovo regno, che porta la capitale a Tebe, e dura fino al 1078. Dopo un lungo terzo periodo intermedio (in cui l'Egitto appare diviso in due tronconi, facenti capo a Tebe nell'Alto Egitto, e a Menfi nel Basso Egitto, e i cui sovrani appartengono spesso a etnie diverse, quali libici, etiopi, etc.), vengono sulla scena le dinastie del tardo regno, dalla XXVI (672-525) alla XXX (380-343). Ultimo "vero" faraone può considerarsi però Psammetico III, della XXVI dinastia, il quale dovette cedere il regno al persiano Cambise (la successiva XXVII dinastia del tardo regno è in realtà persiana). Dalla XXVIII dinastia fino alla XXX l'Egitto viene nuovamente governato da egiziani, ma si può dire che il paese conosce ormai soltanto dei brevi periodi di indipendenza tra un'invasione e l'altra, fino all'ultima definitiva ai tempi di Alessandro Magno (successivamente alla cui conquista si apre l'era della dominazione dei Tolomei; la particolare "storia" di questi si concluderà con gli episodi che videro coinvolta la famosa regina Cleopatra).

- La storia degli Ebrei origina con Abramo, intorno al 1450. Giacobbe in Egitto intorno al 1330. L'esodo verso la "terra promessa" sotto la guida di Mosè avviene circa un secolo dopo. [Per ulteriori notizie sulla prima storia degli Ebrei si rimanda allo straordinario libro di Flavio Barbiero presentato ampiamente in Episteme N. 2, URL citato.] Il "tempio" viene edificato in Gerusalemme dal re Salomone intorno all'anno 1000. Questo "primo" tempio verrà distrutto dai Babilonesi nel 586. La relativa sconfitta è all'origine della deportazione i cui dolorosi echi permangono nella Bibbia (sorgente di ispirazione del Nabucco di Giuseppe Verdi). A tale evento va fatto risalire l'inizio del fenomeno della diaspora (in effetti, quando Ciro permise agli Ebrei di tornare in patria, e ricostruire il tempio, quindi il "secondo tempio", solo una parte di essi fece ritorno).

* * * * *

1 - La matematica classica

Per quanto riguarda la prima parte della storia della matematica antica, si introduce tradizionalmente una sottosuddivisione in 4 fasi, ciascuna di 300 anni, a coprire quindi un intervallo temporale di circa 1200 anni.

1-1) Il periodo ellenico: 600-300 AC

Incontriamo la civiltà greca già diffusa in "colonie" (le più famose delle quali si possono notare nella seguente cartina), sia nell'Asia Minore che in Italia meridionale.

(Figura 1)

1-1-1) La prima fase della storia della matematica con cui abbiamo a che fare prende il nome dal termine Elleni, che è uno dei nomi con cui i Greci indicavano collettivamente se stessi (l'uso dura ancor oggi), e parte dal momento in cui la matematica greca appare già avere fatto quel salto di qualità cui abbiamo precedentemente accennato. Si narra infatti come già i discepoli di Pitagora fossero a conoscenza della necessità dell'introduzione dei "numeri irrazionali" per una teoria precisa della misura, ma che riservassero questa scandalosa consapevolezza agli "iniziati" e non ai "profani" (origini di un insegnamento esoterico e di uno exoterico, collegati alla divulgazione di certe conoscenze da parte di particolari gruppi organizzati). [La spiegazione di questi due termini richiede un minimo di tempo e di attenzione. Tutto inizia al solito con la lingua greca, nella quale abbiamo una forma avverbiale o preposizionale exw, che significa fuori, all'esterno, d'onde  exwteroV, esteriore, ed exwterikoV, esterno, pubblico (fino a: straniero). Ad essa viene contrapposto un avverbio endon, che rimanda a dentro, all'interno, e da qui per esempio i nostri contrari esogeno ed endogeno - nel primo caso la x, in assenza della "x", diventa "s", fin qui tutto chiaro. Purtroppo in greco esiste anche un altro avverbio o preposizione che appartiene al medesimo ambito semantico di endon, ed è eiV, che vale dentro, in, verso, all'interno (da non confondere con eiV con l'accento circonflesso: uno, uno solo), la quale si trova pure come eisw o esw. Con l'aggiunta del suffisso teroV, con cui si forma il comparativo di maggioranza, troviamo eswteroV, interiore, riservato, intimo, o appunto eswterikoV, che fin dall'antichità fu utilizzato per contrassegnare i discepoli di Pitagora ("iniziati"), o le lezioni di Aristotele riservate al circolo più "interno" degli allievi del Liceo. Il guaio è che se si rende questo eswterikoV, che per tradizione non si può ovviamente cambiare ("endoterico" non causerebbe viceversa alcun problema!), con il nostro esoterico, ecco che il contrasto con l'opposto exwterikoV, se reso con la "s", non si coglierebbe più. Ciò costringe alle forme essoterico, oppure, forse ancora più capace di scongiurare equivoci, exoterico.]

1-1-2) Il fatto che si ascrivano le origini della geometria a Talete di Mileto (624-548), e quelle della teoria dei numeri (aritmetica) a Pitagora di Samo (580?-496?; fondò la sua celebre scuola a Crotone), che della "numerologia" faceva il perno della sua concezione del mondo, appare un ulteriore indizio della fondazione "dualista" della matematica che sosteniamo. La "setta pitagorica" esercita un forte influsso intellettuale (che permane del resto fino ad oggi, per esempio nella Massoneria). Tra i "pitagorici" si ricordano i nomi di: Filolao di Taranto (V secolo); Ippaso di Metaponto (o di Crotone, contemporaneo di Filolao) [Una leggenda attribuisce la morte di Ippaso, avvenuta in un naufragio, alla punizione divina per l'empietà di aver divulgato conoscenze riservate, quali quelle relative all'esistenza di grandezze incommensurabili!]; Archita di Taranto (discepolo di Filolao, nato nel 428).

1-1-3) Zenone di Elea (495-435), discepolo di Parmenide (pure di Elea, fu attivo intorno al 500). I suoi famosi "paradossi" possono essere interpretati come un punto di passaggio obbligato verso la comprensione dell'antinomia materiale-pensato (la stessa che viene proposta da Cartesio con i due termini res extensa, res cogitans), gli enti matematici appartenendo sicuramente al secondo ambito. ["Materiale" (o "concreto"), si preferisce qui a "reale", nella persuasione che l'esperienza del pensiero non sia per l'essere umano meno reale di quella della materia.]

1-1-4)* La dualità materiale-pensato può poi completarsi nella terna materiale-pensato-parlato, che introduce la dimensione logica del linguaggio, che pur essendo necessario per la comunicazione intersoggettiva, corrisponde ai concetti oggetto della comunicazione solo in modo ineludibilmente imperfetto: "Le language est source de malentendus" (da Le Petit Prince, di Antoine de Saint-Exupéry, 1900-1944). [Cartesio esprime il medesimo concetto osservando che "noi congiungiamo i nostri pensieri a parole che non li esprimono esattamente" (nel N. 74 dei suoi Principia..., Parte I, vedi oltre), al che potremmo aggiungere che, anche quando attraverso un processo di codifica si sia riusciti a stabilire una "decente" corrispondenza tra pensato e parlato, essa rischia di mutarsi comunque in un fraintendimento quando, nel corso di una relazione interpersonale, avvenga un processo inverso di decodifica, dal parlato (dell'altro) al pensato (proprio).] Rifiutando le tesi dei "nominalisti", o dei "logicisti" - il cui "credo" può essere riassunto nelle parole: nomina nuda tenemus [L'espressione, usata con successo da Umberto Eco (1932) per la chiusura del suo Il nome della rosa, è stata ripresa, a detta dell'autore medesimo, da De contemptu mundi, di Bernard de Morlay, un frate benedettino francese del XII secolo, che riprendeva un analogo tema del più noto filosofo medievale Pietro Abelardo (1079-1142) - il quale ultimo è peraltro forse maggiormente ricordato per i suoi sfortunati amori con Eloisa!] - ribadiamo che la matematica appare più propriamente appartenere all'ambito del "pensato", anziché a quello del "parlato", nonostante essa sia da una parte indissolubilmente legata alla veste che inerisce alla sua formulazione "logico-simbolica", attraverso appunto il linguaggio, dall'altra corrispondente (adeguata) all'esperienza sensibile. [Il (ripetuto) uso del termine "adeguato" non è casuale, in quanto rinvia opportunamente - nell'ottica dualista cui sempre qui ci atteniamo - alla nota concezione tomistica di veritas (nei suoi diversi "gradi") - ma meglio sarebbe dire scientia - come adaequatio rei et intellectus. Ecco qui ancora una volta contrapposti i due termini della cui rilevanza, a costituire gli estremi dell'esperienza umana, numerosi filosofi mostrano di avere piena e intuitiva consapevolezza. La "definizione" si trova più volte discussa nella Summa Theologiae, in particolare nella Parte I (Quaestio XVI, Articulus 2), nella quale S. Tommaso esordisce sull'argomento riferendo: "Isaac dicit, in libro De Definitionibus, quod veritas est adaequatio rei et intellectus" (l'Isaac in questione sarebbe Isaac ben Solomon Israeli, filosofo arabo-ebreo nato in Egitto, vissuto tra l'850 e il 950). Buffo è osservare marginalmente che, secondo quanto viene riportato nel sito filosofico della Stanford University, http://plato.stanford.edu/entries/truth-correspondence/: "Aquinas credits the Neoplatonist Isaac Israeli with this definition. But there is no such definition in Isaac. It originated with the Arabic philosophers Avicenna and Averroes (Tahafut, 103, 302) [vedi oltre], and was introduced to the scholastics by William of Auxerre [Guglielmo d'Auxerre (1144?-1231), filosofo e teologo, insegnò all'università di Parigi, e fu nominato da Gregorio IX membro della Commissione incaricata di "correggere" i libri fisici e metafisici di Aristotele, la cui lettura era stata proibita nel 1210 e nel 1215.]"). I due genitivi utilizzati nella formulazione citata mettono l'intelletto e la cosa=materia sullo stesso piano, ma è usuale parlare anche di una adaequatio intellectus ad rem, o di una adaequatio rei ad intellectum (quest'ultima per esempio in Nicola Cusano, vedi oltre, Compendium, 10, 34:20-21). La prima appare su due piedi più sensata, e "modesta" negli intenti, meno "antropocentrica" (sarà ben l'intelletto umano a doversi adeguare all'oggetto, e non viceversa, tanto più che l'oggetto, non essendo dotato di alcuna "volontà", non potrebbe proprio adeguarsi in alcun modo!), ma la seconda, se ben interpretata, sembra essere di stampo quasi kantiano, rimandando all'inevitabile necessità da parte dello "spirito" dell'uomo (se si trova sgradevole la parola, oggi filosoficamente desueta, se ne pensi come alla sede della voluntas, detta anche potentia, energia, vis, con l'aggiunta ovviamente del qualificativo spiritualis), di utilizzare l'intelletto nei suoi atti di conoscenza per adeguare la "cosa" a se stesso, di modo che essa possa diventargli comprensibile. Si potrebbe anche dire che l'intelletto è già in qualche senso adeguato-strutturato alla funzione richiamata, anche se non univocamente "rigido"; e che ovviamente è sempre lui ad agire, tramite una duplice azione, in cui "adegua" la cosa individuando tra le diverse sue possibilità razionali quella che meglio corrisponde alla cosa adeguata. Si invita alla riflessione su siffatte tematiche anche perché capaci di dare lumi sulla corrispondenza, per certi versi "miracolosa", tra matematica e realtà (in termini più familiari agli studenti, tra teoria e applicazioni), che Baruch Spinoza (1632-1677) "risolve" con la famosa osservazione (che può essere ancora una volta interpretata in chiave dualista, anche se questa non era l'intenzione dell'autore): "Ordo et connectio idearum idem est ac ordo et connectio rerum" (Ethica Ordine Geometrico Demonstrata, Parte II, Prop. 7).]

1-1-5) A Ippocrate di Chio (seconda metà del V secolo) Proclo (vedi 1-4-1) attribuisce degli Elementi di geometria che anticipavano di oltre un secolo quelli di Euclide. Lungo il complesso cammino che possiamo soltanto immaginare verso la vetta della matematica antica, non essendocene rimaste più tracce documentarie, troviamo la figura di Eudosso di Cnido (prima metà del IV secolo), il quale stabilisce i primi elementi della teoria delle proporzioni. Allo stesso scienziato si deve il sistema astronomico delle sfere omocentriche, detto di Eudosso-Callippo (con l'aggiunta del nome di un discepolo del primo), che, andando molto al di là delle primitive speculazioni del pensiero greco (per esempio quelle dei pitagorici), permetteva di stabilire con buona approssimazione le posizioni e i movimenti degli astri, ma falliva evidentemente in ordine alle loro relative distanze apparenti. Fu questo il "modello" scelto da Aristotele per la sua concezione del mondo, nonostante il "maestro di color che sanno" (secondo la formulazione dantesca, Inferno, IV, 131) fosse a conoscenza dei probabili limiti di esso, in ordine appunto alle variazioni delle distanze dei pianeti dalla Terra. [Pianeta è un altro termine di origine greca, planaw = andare errando, vagabondare, d'onde anche il rimando ai concetti di instabile, irregolare; in effetti i pianeti appaiono dotati di un moto a volte progressivo, a volte retrogrado, così come sono visti dallo specifico pianeta che attualmente ospita noi esseri umani.] Il sistema di Eudosso-Callippo fu successivamente criticato (si potrebbe anche dire: messo in ridicolo!) da Galileo, il quale però ingiustamente lo identificò con quello tolemaico, viceversa assai più evoluto in ordine a una efficiente descrizione dei fenomeni astronomici.

1-1-6) L'età di Socrate (Atene, 470-399); Platone (Atene, 427-347; la scuola, o meglio ginnasio - con riferimento al termine greco gumnoV, nudo, d'onde "palestra" - da lui fondata si chiamava Accademia, dal nome del quartiere di Atene, che ricordava il nome dell'eroe Academo, dov'essa era situata); Aristotele (Stagira, 384-322; la scuola di Aristotele ebbe invece il nome di Liceo, poiché sorgeva vicino al tempio di Apollo Licio, ed è detta anche Peripato, dal greco "passeggiare", perché il maestro usava filosofare passeggiando). L'atomismo di Democrito di Abdera, Tracia (vissuto tra il 450 e il 350). Una storia della geometria di Eudemo di Rodi (discepolo di Aristotele, fine IV secolo) è purtroppo andata perduta (vedi 1-4-1). In seguito alle conquiste di Alessandro Magno (356-323), che fu discepolo di Aristotele (anch'egli come il conquistatore nato in Macedonia), la cultura greca si espande verso il mondo orientale. Centro universale degli studi diviene la splendida città reale di Alessandria, fondata in Egitto, alle foci del Nilo, nel 332.

II riepilogo storico generale

Agli inizi del VI secolo AC troviamo la civiltà greca diffusa nelle celebri colonie dell'Asia Minore (Mileto, Focea, Chio, Samo, Elea, Cnido, Cos, Lemno, Bisanzio,...) e dell'Italia meridionale (Agrigento, Siracusa, Crotone, Metaponto, Sibari, Selinunte,...), presso le quali fioriscono le prime celebri scuole di filosofia. Oltre a quelli già citati nel testo, ricordiamo i nomi di: Anassimandro di Mileto (discepolo di Talete, rimasto celebre per il suo concetto di apeiron = illimitato, infinito, indeterminato; vissuto nella prima metà del VI secolo); Anassimene di Mileto (discepolo di Anassimandro); Eraclito di Efeso (vissuto intorno al 500); Anassagora di Clazomene (il "fisicissimo", V secolo).
Tra il 600 e il 500 A.C. prosperano le singole città-stato caratteristiche dell'organizzazione sociale dei Greci (quali ad esempio Atene, Corinto, Sparta, Tebe).
Nel 539 Ciro II detto il Grande (che muore nel 528) fonda l'impero persiano, la cui cupidigia si riversa subito sulle ricche colonie greche dell'Asia Minore, e successivamente sulle stesse città della penisola greca.
Nel 490 ha luogo la I guerra persiana (nel corso della quale si verifica il celebre episodio di Maratona, pianura nei pressi di Atene), condotta dalla parte dei persiani da Dario I (imperatore dal 521 al 485).
Nel 480 ha luogo la II guerra persiana, contro l'imperatore Serse (485-456), che si risolve sorprendentemente a favore dei Greci. L'episodio della difesa del passo delle Termopili da parte dello spartano Leonida, e la battaglia di Salamina (Temistocle). I persiani mantengono però il controllo sulle città greche dell'Asia Minore.
Terminate le guerre persiane, la Grecia attraversa una fase di conflitti per la supremazia tra le varie città, passati alla storia con il nome di Guerre del Peloponneso.
La prima di queste ha luogo tra il 457 e il 445, mentre la seconda, con fasi alterne, tra il 430 ed il 404, e culmina con la sconfitta di Atene. Questa città, sotto la guida di Pericle, tra il 467 e il 428, conosce uno dei periodi di suo massimo splendore.
Dopo la battaglia di Egospotami (405) Atene è costretta a rinunciare alle sue pretese egemoniche, e a subire, anche se per breve tempo, il regime cosiddetto dei 30 Tiranni imposto da Sparta (la quale si trova dal canto suo a lottare successivamente prima contro i Tebani e poi contro i Macedoni).
E' nel 358 che Filippo II, il padre di Alessandro Magno, sale al trono di Macedonia, e inizia quella politica di espansione che condurrà per la prima volta i Greci alla formazione di un'unica entità politica.
Parallelamente si sviluppa la storia dei Romani. Secondo un'antica tradizione, celebrata poi in versi da Publio Virgilio Marone (70 AC-19 AC), Roma venne fondata nel 753 AC da discendenti di un gruppo di superstiti Troiani. Il periodo iniziale della monarchia, caratterizzato tra l'altro dallo scontro con la civiltà etrusca, ha termine nel 509, anno a partire dal quale troviamo a lungo Roma organizzata come una repubblica patrizia. Il V ed il IV secolo sono principalmente rivolti alle lotte per la supremazia nel Lazio e nelle regioni vicine. Lo scontro con Brenno, e il famoso episodio delle "oche del Campidoglio", risale al 390. L'umiliazione delle "forche caudine" da parte dei Sanniti è del 321.

1-2) Il periodo ellenistico: 300-1 AC

(Vedi a parte nella Figura 2 i regni ellenistici alla morte di Alessandro Magno;
nella cartina si distingue Syene, di cui al punto 1-2-5.)

1-2-1) Ellenistico è il termine con cui si indica il periodo storico in oggetto, caratterizzato dalla diffusione della lingua e della cultura greca in tutto il bacino orientale del Mediterraneo. I 13 libri degli Elementi di Euclide di Alessandria (da non confondersi con Euclide di Megara, IV secolo, filosofo discepolo di Socrate), che insegna nella città egiziana intorno al 300, rappresentano il punto d'arrivo della lunga meditazione "ellenica" sulla geometria e i suoi fondamenti. L'opera di Euclide passerà attraverso i secoli come un modello (con parola greca, canone) di come si fa la matematica, attraverso l'uso sistematico della "dimostrazione", ottenuta mediante una catena di deduzioni logiche a partire da "premesse" (principi). Ancora agli inizi del XX secolo si trovano gli Elementi come libro di testo, ancorché modernamente commentato, utilizzato negli istituti medi superiori europei. [Diamo una breve descrizione del contenuto del testo euclideo tratta da A. Frajese, 1951 (vedi Bibliografia): "Gli Elementi di Euclide si compongono di tredici libri: un XIV e un XV libro, che si riteneva fossero parte degli Elementi, sono stati riconosciuti essere aggiunte di geometri posteriori. Nei primi quattro libri si trovano le proposizioni fondamentali della geometria piana, e precisamente nel libro I la teoria dell'uguaglianza e dell'equivalenza dei poligoni, nel libro II (assai breve) la cosiddetta algebra geometrica (secondo la denominazione di Zeuthen), nel libro III le proprietà del cerchio e nel libro IV quelle dei poligoni regolari. Il libro V è dedicato alla teoria generale delle proporzioni tra grandezze (secondo la teoria di Eudosso) e il libro VI alle applicazioni di detta teoria alla geometria piana. Seguono i libri aritmetici VII, VIII, IX, nei quali vien trattato dei numeri (interi) e delle loro proprietà. Il libro X (il più lungo di tutti) dà sotto forma geometrica una elaborata classificazione degli irrazionali risultanti da radicali quadratici, anche sovrapposti. Finalmente nei libri XI, XII, XIII viene studiata la geometria solida. L'opera di Euclide, che presuppone naturalmente quella dei predecessori, della quale rappresenta una sintesi organica, ha carattere di sistemazione critica, e venne evidentemente concepita dall'Autore con intenti eminentemente espositivi".]

1-2-2) Il metodo di esaustione di Archimede di Siracusa (287-212) - celebre anche per le sue ricerche di natura sperimentale, che appaiono però per lo più trascurate dallo spirito greco - conduce tra l'altro alla dimostrazione rigorosa delle formule relative al volume della sfera e all'area della relativa superficie.

1-2-3) La teoria delle sezioni coniche di Apollonio di Perga (262-180). I contributi di Apollonio all'astronomia: introduzione del sistema di deferenti ed epicicli, con il quale, attraverso la composizione di due moti circolari, si spiega il fenomeno delle variazioni di magnitudine apparente dei pianeti.

1-2-4) La biblioteca di Alessandria fu voluta da Tolomeo I "Soter" ("salvatore" di Rodi, primo re d'Egitto tra il 305 e il 285, che si diceva fratello dello stesso Alessandro Magno; si potrebbe dire anzi "faraone", ancorché greco, iniziatore dell'ultima dinastia della lunga storia egiziana, che si concluderà definitivamente con il suicidio di Cleopatra nel 30 AC, successivo a quello di Antonio motivato dalla sconfitta di Azio; Tolomeo I morì due anni dopo aver abdicato in favore del figlio Tolomeo II Filadelfo), e annessa a una scuola, o accademia, chiamata il Museo. L'istituzione, protetta anche dai successori del re, come il citato Tolomeo II (regnante tra il 285 e il 247, si ricorda che proprio lui volle chiamare da Gerusalemme i dotti ebrei che avrebbero dovuto procedere alla traduzione in greco della Bibbia, producendone una versione detta da allora dei Settanta, in ricordo del numero di quei sapienti), continuò a raccogliere nel corso degli anni, e a tradurre in greco quando necessario, tutti i libri che erano stati il prodotto della cultura sviluppatasi in Grecia e nei paesi del Vicino Oriente. Una seconda biblioteca si sviluppò successivamente nel tempio del "patrono" della città, "inventato" (sempre ai tempi di Tolomeo I) mediante un'apposita operazione di teurgia: il Dio Serapide (una sorta di personificazione di Apollo, che possedeva simultaneamente caratteristiche greche ed egiziane), d'onde il nome di Serapeo al suo tempio.

1-2-5) Trigonometria e misurazione (soprattutto a fini astronomici). Eratostene di Cirene (276-194), che fu uno dei bibliotecari del Museo di Alessandria, misura con notevole precisione le dimensioni della sfera terrestre, comparando l'ombra proiettata a mezzogiorno da uno gnomone a Syene (la moderna Assuan, situata circa al Tropico del Cancro, cioè il tropico del nostro emisfero boreale) con quella che si osservava ad Alessandria nella stessa ora e nello stesso giorno. [Si trattava di un solstizio d'estate, per cui l'angolo individuato dall'ombra a Syene risultava (quasi) zero, mentre quello che si osservava ad Alessandria fu valutato in un cinquantesimo dell'angolo giro, vale a dire poco più di 7 gradi, corrispondenti in modo abbastanza esatto alla differenza di latitudine tra le due località; una volta che se ne conoscesse la distanza relativa, tenuto conto anche della circostanza che si trovavano più o meno sullo stesso meridiano, il gioco era fatto. Eratostene valutò un raggio di 6300 Km - espresso naturalmente nelle unità di misura del tempo e del luogo! - sorprendentemente vicino al vero.] Per la prima volta si ha un'idea abbastanza precisa di quanto è grande la Terra, considerata da culture meno evolute come genericamente "smisurata".

1-2-6) All'astronomo Aristarco di Samo (310-230; visse la maggior parte della sua vita ad Alessandria, dove fu discepolo prediletto del filosofo peripatetico Stratone di Lampsaco, 330-270 circa, detto "il fisico", precettore del re Tolomeo II Filadelfo) viene fatta risalire, secondo una nota di Archimede, la prima concezione di una teoria eliocentrica, che non incontrò però, a quel che pare, eccessivo credito presso gli studiosi dell'epoca (esamineremo più avanti i motivi - in parte scientificamente fondati, non solo "ideologici" - della resistenza ad abbandonare l'ipotesi geocentrica). Di Aristarco ci è pervenuta un'opera nella quale si tenta una stima della distanza della Luna dalla Terra [Non con il metodo della parallasse (vedi il punto 3-2-11; si tratta di un metodo che si sarebbe pure potuto usare con buona approssimazione per un oggetto "vicino" come la Luna, e che fu in effetti successivamente utilizzato da Ipparco al medesimo scopo, effettuando misurazioni simultaneamente programmate ad Alessandria e in Ellesponto, vale a dire lo stretto dei Dardanelli), bensì attraverso la stima dell'ombra proiettata dalla Terra sulla Luna durante un'eclisse. I 60 raggi terrestri che conseguivano da tale procedura costituiscono un apprezzabile risultato, perché rappresentano, dato il valore di Eratostene, 378.000 Km, di fronte a un valore medio oggi stimato in 384.000 Km. In tale modo Aristarco riuscì anche a valutare il raggio della Luna, in 10/34esimi del raggio terrestre, vale a dire circa 1850 Km, che vanno confrontati con i 1735 oggi accettati.], e della Luna dal Sole, con il metodo della "dicotomia lunare", vedi Figura 3. [Aristarco valutò empiricamente l'angolo Luna-Terra-Sole nel momento in cui il satellite appariva esattamente al II quarto, di modo che l'angolo Terra-Luna-Sole poteva essere supposto uguale a 90°. Una stima di tale angolo pari a 87° dava per il rapporto in oggetto l'inverso del seno di 3°, cioè circa 19. Aristarco venne a determinare così un valore numerico troppo piccolo per la distanza Terra-Sole, che è in effetti 20 volte tanto, e ciò perché l'angolo di partenza è in realtà oltre 89°. Un errore iniziale "piccolo" che comporta un errore finale grande, ma il metodo utilizzato dall'antico scienziato era del tutto ragionevole. Aristarco valutò anche di conseguenza il raggio del Sole in 5,5 raggi terrestri, mentre il valore giusto è 109, ma basta confrontare tali risultati con quanto affermato nel Libro di Enoc (un apocrifo dell'Antico Testamento, di datazione incerta, da collocare comunque intorno ai primi secoli AC o DC, quindi non così antico come alcuni favoleggiano, addirittura pre-diluviano!) per apprezzare il livello raggiunto dall'astronomia greca rispetto alle altre: "la luce [del Sole] illumina sette volte più della Luna ma le  misure di ambedue sono eguali".] Gli studi astronomici conoscono un ulteriore avanzamento per merito di Ipparco di Nicea (180-125), al quale viene generalmente riconosciuta la scoperta del fenomeno della precessione degli equinozi. Con Menelao di Alessandria (prima metà del I secolo) si chiude quello che viene detto il periodo aureo della matematica greca.

(Il metodo di Aristarco per la misura del rapporto tra le distanze Terra-Sole e Terra-Luna.)
(Figura 3)

1-2-7) Nel grafico riportato nell'annessa Tavola 1 è evidenziata la temporanea eclisse della scienza ellenistica tra il I secolo AC e il I secolo DC, causata dalle particolari contingenze storico-politiche relative all'espansione della potenza militare romana - che i Greci cercarono di contrastare schierandosi dalla parte dei Cartaginesi. Le "persecuzioni" nei confronti della comunità greca di Alessandria raggiungono il culmine intorno al 146 (in esse si "distinse" il re Tolomeo VIII appena salito al trono), anno in cui vennero rase al suolo Cartagine e Corinto. Secondo lo storico romano, ma di origine greca, Polibio (208? AC-126? AC), la popolazione in parola ne uscì quasi completamente annientata. [Per approfondimenti sulla scienza ellenistica si può leggere con grande profitto il bel libro di Lucio Russo: La rivoluzione dimenticata - Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna (Feltrinelli, 1996), nel quale si illustra pure un'ipotesi assai originale sull'alto livello che si può supporre essa dovette raggiungere, ma che fu successivamente, appunto, "dimenticato".]

III riepilogo storico generale

Salito al trono di Macedonia nel 336, Alessandro volge immediatamente la sua attenzione egèmone verso il Vicino Oriente, e intraprende la vittoriosa campagna contro i Persiani, portando le proprie truppe fin nelle regioni dell'Indo. Alessandro muore giovanissimo nel 323, e alla sua morte l'enorme regno che aveva costruito torna a disperdersi in diverse unità territoriali (in Egitto la dinastia dei Tolomei; in Siria, con capitale Antiochia, quella dei Seleucidi, estendente il suo dominio pure alla Persia, almeno fino all'affermazione dello stato feudale e militare dei Parti, sotto la dinastia degli Arsacidi; in Grecia quella degli Antigonidi; e poi i regni ellenistici di Battriana, Bitinia, Pergamo, Ponto,...).
Intanto, nel III secolo, a occidente, inizia l'ormai inevitabile scontro con i Romani, e d'allora in poi la storia dei Greci diventa sostanzialmente parte di quella di Roma. Infatti, risolti i problemi nei propri immediati dintorni, Roma aveva cominciato a dar corso alla propria vocazione espansionista-imperialista, scontrandosi dapprima con i Greci, che cercavano di difendere le loro colonie nell'Italia meridionale (la guerra contro Pirro, re dell'Epiro, va dal 280 al 275), e poi con i Cartaginesi. La prima guerra punica dura dal 264 al 241, la seconda dal 218 al 202. E' durante questo secondo conflitto che si verifica la famosa invasione dell'Italia da parte di Annibale, il figlio di quell'Amilcare che aveva combattuto i Romani nella guerra precedente: 217 battaglia del Trasimeno e strategia temporeggiatrice di Quinto Fabio Massimo; 215 battaglia di Canne; 202 Publio Cornelio Scipione detto l'Africano e la battaglia di Zama. E' nel corso di tale aspro confronto che i Romani si scontrano nuovamente con i Greci, i quali con Filippo V di Macedonia avevano stretto un trattato di alleanza con i Cartaginesi: 212 assedio della città greca di Siracusa e morte di Archimede. Nonostante un tentativo diplomatico di Filippo V che dà un'illusione di pace tra le due grandi culture che caratterizzano il periodo classico, i Romani non dimenticano l'aiuto greco dato ai Cartaginesi durante la seconda guerra punica, e nel 197 Quinto Tito Flaminio schiaccia l'esercito greco a Cinocefale.
Tra il 149 ed il 146 avviene la terza e definitiva guerra punica, al termine della quale furono distrutte non solo Cartagine ma anche Corinto, che si era ribellata al dominio romano. Fine della Lega Achea.
Concluso un tale periodo vittorioso di guerre esterne, Roma comincia ad essere sconvolta da una serie di conflitti sociali interni. Dal 135 al 131 avviene la famosa rivolta degli schiavi, e alla morte dell'ultimo dei Gracchi avvenuta nel 121 si assiste alla reazione aristocratica, che caratterizza tutto il I secolo fino alla fondazione dell'Impero.
111/104 guerra giugurtina e ascesa al potere di Gaio Mario, del partito popolare.
87 Silla (che era stato eletto console l'anno prima, e aveva ottenuto la provincia d'Asia), inizia una campagna militare in oriente mettendo prima di tutto a sacco Atene. Sconfigge poi in varie battaglie le forze di Mitridate (Mitridate VI, re del Ponto, 132-63, può considerarsi uno degli ultimi "campioni" dell'ellenismo contro la potenza di Roma), con cui alla fine conclude una tregua, e fa ritorno in Italia nell'83. La guerra civile tra i partigiani di Mario e Silla, sostanzialmente iniziata nell'88, e conclusa con la fuga temporanea di Mario in Africa (Mario, rieletto poi console per la settima volta nel'86, moriva però poco dopo), si risolve in favore di Silla (82).
Ascesa di Pompeo, sue vittorie nella "guerra contro i pirati"; repressione della rivolta degli schiavi capeggiata da Spartaco (79). Pompeo conclude vittorioso anche la guerra contro Mitridate (66/63).
Cicerone e la congiura di Catilina (63). Ascesa di Giulio Cesare e sua nomina al consolato (59).
Tra il 49 ed il 45 si ha la guerra civile tra i seguaci di Cesare e quelli di Pompeo, nel corso della quale (47) Cesare si reca ad Alessandria e vi conosce la regina Cleopatra.
44 La congiura di Bruto e Cassio conduce alla morte di Cesare.
42 Sconfitta dei congiurati a Filippi e nuova guerra civile tra Marco Antonio e Gaio Ottaviano.
31 Battaglia di Azio, suicidio di Marco Antonio e di Cleopatra (30), con successiva annessione dell'Egitto. Dal 27 AC inizia l'età dell'impero.

1-3) Il periodo greco-romano: 1-300 DC

La cosiddetta Pax Romana, mentre perseguita cristiani ed Ebrei (i primi perché nemici della politica dell'impero che tollerava tutte le religioni che non avessero pretese di assolutismo, i secondi perché irriducibili all'idea di una dominazione straniera), rispetta invece i Greci, riconoscendo la loro supremazia nel campo filosofico e scientifico. Ciò rende possibile una ripresa degli studi, sempre con centro ad Alessandria, dando così origine a quello che viene denominato il periodo argenteo della matematica greca.

1-3-1) L'Introductio arithmeticae del filosofo neo-pitagorico Nicomaco di Gerasa (fine I secolo). La metrica e l'"ingegneria" di Erone d'Alessandria (circa 100). Dal De architectura del latino Vitruvio Pollione (vissuto nel I secolo) si può valutare invece quale fosse la [scarsa] "misura delle conoscenze scientifiche dei romani".

1-3-2) La geometria sferica e l'astronomia di Claudio Tolomeo (che opera ad Alessandria nella prima metà del II secolo). La sua opera "enciclopedica" in 13 libri (proprio come gli Elementi di Euclide) Sintassi Matematica passa alla storia con il nome di Almagesto datogli dagli Arabi (un nome però di origine greca, dal superlativo di megaV = grande, e quindi "l'opera - sottinteso - la più grande"). In essa l'autore coordina tutte le notizie astronomiche in suo possesso, evidentemente ereditate dalla scienza alessandrina, inserendole nel contesto dei deferenti e degli epicicli di Apollonio, riuscendo a fornire in tal modo una più che buona sistemazione della materia da un punto di vista "geocentrico" [Più preciso sarebbe però dire "geostatico". Infatti, per dare conto di quei fenomeni che oggi sappiamo, grazie a Keplero e a Newton, essere imputabili alla non circolarità delle orbite dei pianeti, Tolomeo poneva la Terra in una posizione eccentrica rispetto al centro delle orbite circolari. Un'altra correzione veniva poi effettuata attraverso l'introduzione dell'equante, un punto, ancora una volta diverso dal centro, rispetto al quale i moti erano uniformi, insomma, una serie di accorgimenti di indubbio valore.]. Dello sforzo enciclopedico di Tolomeo rimane (tra l'altro; si potrebbe citare per esempio un trattato di Ottica) anche una massiccia opera di Geografia in 8 libri, che sarà assai influente al tempo delle grandi esplorazioni geografiche. Essa non consiste semplicemente in una serie di resoconti di viaggi, come i testi descrittivi di geografia extra-scientifici, ma deve ritenersi una vero e proprio lavoro di geografia scientifica (coordinate, cartografia, misurazioni, etc., a riprendere tematiche già trattate dal grande astronomo Ipparco). [Informazioni sulle concezioni geografiche del mondo antico ci pervengono anche attraverso l'opera del greco Strabone (60 AC?-20 DC?), il quale fu attivo pure a Roma, e dall'"enciclopedista" romano Plinio il Vecchio (23 DC-79 DC; perì, come noto, durante l'eruzione del Vesuvio che distrusse Ercolano e Pompei), autore di una poderosa (37 libri) Naturalis Historia, che conobbe grande diffusione.]

1-3-3) Nei 13 libri (il numero ricorre ancora una volta!) dell'Arithmetica di Diofanto di Alessandria (III secolo) - un'opera "caratterizzata da alto grado di raffinatezza e ingegnosità matematica", che si occupa di una materia solitamente non trattata dalla matematica greca - fa la sua apparizione quella che può dirsi una matematica sincopata, abbreviata, "simbolica" (di contro alla consueta sua descrizione "retorica"). [Del vantaggio offerto alla matematica da un simbolismo adeguato diremo qualcosa nel punto 1-4-5. Si pensi tra l'altro alle difficoltà di calcolo costituite da sistemi di numerazione "macchinosi" (lo studio particolareggiato dei quali sarebbe un interessante capitolo monografico della storia della matematica), quali quelli usati dai greci o dai romani (provate a fare la divisione tra MDLXXIII e XXXII!). Un loro definitivo superamento avverrà soltanto con l'introduzione delle cifre arabo-indiane. Comunque sia, bisogna ammettere che i greci seppero brillantemente ovviare a tali ostacoli, per esempio nella stima di distanze geografiche e astronomiche.]

1-3-4) Gli 8 libri della Collezione di Pappo di Alessandria (fine III secolo), grazie ai quali abbiamo "una preziosissima documentazione storica concernente alcuni aspetti della matematica greca che altrimenti ci sarebbero rimasti sconosciuti", costituiscono l'ultima grande opera scientifica prodotta da una grande civiltà.

IV riepilogo storico generale

Gaio Ottaviano Augusto (imperatore dal 27 AC al 14 DC); Tiberio (14/37); Caligola (37/41); Claudio (41/54);. Nerone (54/68), sotto di lui avviene la prima persecuzione dei cristiani (64), in connessione con il famoso incendio di Roma; Vespasiano (69/79); Tito (79/81), figlio di Vespasiano, prosegue la guerra di sottomissione degli Ebrei intrapresa dal padre, distruggendo il tempio di Gerusalemme (70); Domiziano (81/96); Nerva (96/98); Traiano (98/117); Adriano (117/138), sotto il suo impero viene distrutta definitivamente la vecchia Gerusalemme (132); Antonino Pio (138/161); Marco Aurelio (161/180); Commodo (180/192). Alla morte di Commodo si apre quella fase di involuzione dell'impero che va sotto il nome di "autocrazia militare". E' l'esercito che decide quale debba essere il suo capo, e spesso avvengono più designazioni, o la fine del potere di un capo viene risolto da un assassinio perpetrato dagli stessi soldati. Settimio Severo (193/211) è il primo a trasformare l'impero in un vero e proprio "principato militare". Suo figlio Caracalla (211/217) è ricordato per il famoso editto (212) che estende la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell'impero. Alla morte di Caracalla ci sono ancora problemi di successione. Macrino; Eliogàbalo; Alessandro Severo (222/235) si proclama "principe al di sopra delle leggi", e terminerà ucciso dai suoi stessi soldati. Si accentuano anarchia e tentativi scissionistici. I "barbari" (Franchi, Goti, Alemanni, etc.) cominciano a premere sempre di più alle frontiere dell'impero. Il successore di Alessandro Severo, Massimino il Trace (235/238), il primo degli imperatori illirici, propone la damnatio memoriae del suo predecessore, giudicato troppo debole nella sua politica con i cristiani, e inizia un nuovo periodo di persecuzione, ma anche lui finisce ucciso dai suoi stessi soldati. Al termine del periodo di caos emerge la figura di Diocleziano (284/305), che cercando di salvare il salvabile introduce il sistema della Tetrarchia: due Augusti, uno a Occidente ed uno a Oriente, ciascuno dei quali affiancato da un Cesare. La prima tetrarchia è composta da: Massimiano (Milano), Costanzo Cloro (Treviri) - Diocleziano (Nicomedia), Galerio (Sirmio).

1-4) Il periodo dei commentatori: 300-600 DC

(Vedi a parte della Figura 4 l'impero romano ai tempi di Diocleziano.)

1-4-1) Questo periodo viene così denominato, con riferimento agli studi scientifici, per il fatto che in esso non si producono più contributi originali al sapere, ma quasi unicamente "commenti" ai testi che potevano considerarsi già allora "antichi". In un siffatto commento al primo libro degli Elementi di Euclide, fortunatamente pervenutoci insieme a numerosi altri analoghi scritti, Proclo (410-485; nato a Costantinopoli, fu attivo anche in Alessandria, ma morì in Atene, dove era divenuto capo dell'Accademia platonica) riporta alcune notizie storiche - attingendo tra l'altro dichiaratamente alla scomparsa storia di Eudemo (vedi 1-1-5), che al tempo era quindi ancora in suo possesso - venendo a costituire così l'unica fonte non frammentaria che ci consenta di avere delle informazioni sulle vicende della geometria greca dalle origini fino a Euclide e oltre.

1-4-2) L'ultimo esponente noto di livello elevato della cultura matematica alessandrina è Teone di Alessandria (che va distinto da un precedente Teone di Smirne, anch'egli un matematico e filosofo greco vissuto ai tempi di Adriano), di cui si ricordano commenti agli Elementi di Euclide, e al Trattato delle Corde contenuto nell'Almagesto di Tolomeo. La figlia di Teone, Ipazia (nata intorno al 370), essa pure matematica e filosofa, esperta di musica, viene lapidata a morte dai cristiani (incitati dal vescovo Cirillo), in quanto ritenuta un "simbolo" di paganesimo. L'anno in cui avvenne il fatto, il 415, viene da alcuni studiosi proposto come quello che può essere prescelto per segnare la fine della matematica greca. Noi preferiamo scegliere invece quale biffa convenzionale per la conclusione di un'era, e l'inizio del successivo "periodo oscuro" della matematica, il 529, anno nel quale Giustiniano, imperatore romano d'oriente, fece chiudere l'Accademia platonica di Atene e tutte le altre scuole filosofiche greche, considerate una minaccia per l'ortodossia cristiana. Gli ultimi depositari della cultura classica si disperdono in oriente. Fiorisce la leggenda relativa alla splendida "reggia di Cosroe", uno degli ultimi re persiani che volle accogliere alcuni degli esuli, rimanendo a lungo in tutto l'oriente medievale "un proverbiale modello di sapienza e giustizia" (si tratta per la precisione di Cosroe I, della dinastia iranica dei Sasanidi, che a partire dal 226 DC si era sostituita nel dominio della Persia ai Parti Arsacidi, da tempo duramente impegnati contro i Romani; Cosroe I regnò dal 531 al 579, e fu sempre acerrimo rivale dei bizantini).

1-4-3)* Una nota è doverosa a proposito della scomparsa della maggior parte dei libri del mondo antico. Nonostante vi sia chi continui a prestar fede alla notizia (di origine calunniosa) che la gran parte della biblioteca del Museo (vedi 1-2-2) finì tra le fiamme dell'incendio della flotta alessandrina provocato da Giulio Cesare nel 47 AC, la verità è che il Museo continuò a essere prospero (ovviamente tra alti e bassi, ma "nella prima età imperiale aveva avuto momenti di rinnovato splendore", ed era stato "riportato all'antico lustro [verso la metà del III secolo] dall'opera insigne del matematico Diofanto"), e che soltanto nel 270, durante un conflitto locale tra Zenobia (regina araba di Palmira, la quale aveva occupato Alessandria pretendendosi una diretta discendente di Cleopatra), e le truppe dell'imperatore Aureliano, il quartiere in cui esso era ubicato subì ingenti danni (anzi, secondo Ammiano Marcellino - storico latino di origine greca vissuto nel IV secolo - esso andò completamente distrutto), sicché poco dovette restare dell'immenso patrimonio bibliografico contenuto nella sua biblioteca. Quella del Serapeo conobbe la medesima sorte un secolo dopo, nel 391, per mano della plebe cristiana istigata dal vescovo Teofilo ("eterno nemico della pace e della virtù, uomo audace e cattivo", "che si [studiava] di distruggere i monumenti dell'idolatria" - dallo storico "illuminista" inglese Edward Gibbon, 1737-1784: Declino e caduta dell'Impero Romano). Quando gli Arabi conquistarono Alessandria nel 640 (nonostante gli strenui tentativi dei bizantini di difenderla), dei vecchi libri non era rimasto quasi più nulla, essendo stati sostituiti dagli "scritti dei padri della Chiesa, gli atti dei concili, in generale le sacre scritture". Se è vera la storia tramandata da singole fonti che i nuovi padroni della città li bruciarono per riscaldare l'acqua dei loro bagni, quei testi comunque non dovevano essere moltissimi, e soprattutto non erano più inerenti alla tradizione culturale, filosofica e scientifica, che aveva reso universale la reputazione della biblioteca nel succedersi dei secoli: "Se i ponderosi volumi dei controversisti, ariani o monofisiti, andarono veramente a riscaldare i bagni pubblici, il filosofo concederà sorridendo che in definitiva furono consacrati a beneficio dell'umanità" (ancora Gibbon). [La maggior parte delle fonti tace in effetti sul rogo in oggetto; sempre secondo Gibbon, il fatto sarebbe "in verità sorprendente", "[un']asserzione isolata di un forestiero che [ne scriveva] sei secoli dopo [...] ampiamente bilanciata dal silenzio di due annalisti anteriori, cristiani entrambi e nati in Egitto", per non dire della circostanza che per i musulmani non era "mai lecito dare alle fiamme i libri religiosi degli ebrei e dei cristiani, acquistati per diritto di guerra".] Distrutte le altre grandi biblioteche dell'antichità, quella di Pergamo, quella di Antiochia, quella di Atene (voluta da Adriano, e devastata dagli Eruli nel 267), quelle di Roma, e più tardi quelle di Bisanzio, scomparvero mano a mano dalla scena della storia le principali testimonianze del sapere antico. "Quello che alla fine è rimasto non proviene dai grandi centri, ma da luoghi marginali (i conventi) o da sporadiche copie private" (fonte generale per il presente punto: Luciano Canfora, La biblioteca scomparsa, Sellerio, 1986). Senza voler negare che il monachesimo sia stato un fenomeno che in ogni caso contribuì alla conservazione di vestigia di un'età irrimediabilmente passata, ma dubitando personalmente che lo zelo cristiano abbia voluto sistematicamente conservare libri estranei alla propria fede (alcuni dei quali sono stati rinvenuti sotto testi sacri che vi erano stati sovrascritti), riteniamo che sia proprio sul termine "private" che dovrebbe concentrarsi l'attenzione dello studioso, tenendo conto per esempio della circostanza che, oltre a quella greca, ad Alessandria era presente - ricca, autorevole, e attenta alle sollecitazioni culturali - una comunità ebraica di circa 40.000 persone. Qualsiasi possano essere state le fortunate modalità della conservazione di alcuni preziosi libri, vedremo come alcune importanti fonti di conoscenza scientifica tornarono a "illuminare" l'occidente soltanto parecchi secoli dopo gli eventi che abbiamo qui sommariamente narrato, e in seguito al loro passaggio attraverso le mani degli Arabi.

1-4-4) Data la costante esiguità degli interessi matematici (più in generale filosofico-scientifici) presso i romani, e perduta poi l'intelligenza della lingua greca in occidente, restano come documenti delle matematiche nella bassa latinità soltanto scarni compendi estremamente elementari. Marziano Capella (nato a Cartagine, vissuto nella prima metà del V secolo, fu autore di un'opera enciclopedica "mitologico-misticheggiante" in 9 libri, De Nuptiis Mercurii et Philologiae). Severino Boezio (480-524, da alcuni considerato "il più ragguardevole matematico" espresso dal mondo latino, fu anche consigliere di Teodorico; lasciò scritti di aritmetica, geometria, astronomia e musica - tutti rifacentisi in modo alquanto elementare agli antichi trattati greci - che ebbero larga diffusione nelle scuole monastiche medievali. A tale proposito vale forse la pena di rammentare che "scolastica" viene denominata la filosofia, di carattere profondamente religioso, insegnata nelle "scuole ufficiali" del medioevo latino). Aurelio Cassiodoro (490?-575; figlio di un funzionario di Teodorico, fu discepolo di Boezio, e, oltre che storico, autore di una raccolta enciclopedica di nozioni provenienti dai vari campi del sapere, destinate alle limitate esigenze culturali dei monaci). La caduta dell'impero romano d'occidente (476) accelera il processo di decadenza e di incomprensione della matematica antica. Gli ultimi nomi che si ricordano sono quelli dei "commentatori" Eutocio (V secolo; nato ad Ascalona, in Palestina, fu commentatore di Archimede e Apollonio, lasciandoci per esempio interessanti informazioni sul "problema di Delo", ovvero sui tentativi di duplicazione del cubo), e Simplicio (VI secolo; nato in Cilicia, attivo anche in Alessandria, di lui ci sono pervenuti tra l'altro preziosi commenti sulle opere fisiche di Aristotele).

1-4-5) Un notevole problema storiografico che va affrontato è quello relativo alla fine della matematica classica (si faccia un confronto con il punto 0-11). Oltre alle palesi motivazioni "esterne", invasioni barbariche e collasso politico-militare-economico-sociale dell'impero romano, non bisogna sottovalutare quelle di natura ideologica, in ordine ai rapporti con il cristianesimo, di cui diremo qualcosa nel punto seguente. Non vanno però neppure trascurate le motivazioni propriamente "interne". Il tipo di matematica, e di scienza, coltivata dai Greci, era verosimilmente pervenuta ai propri limiti. E ciò per due motivi, il primo dei quali del tutto "interno": una matematica prevalentemente retorica è troppo "difficile" per l'intelletto umano, che fatica di meno con gli "automatismi" dell'algebra, circostanza questa che diverrà palese nell'era moderna. Il secondo è invece che mancava alla scienza antica, generalmente, quel "volano" costituito dalla coppia motivazioni pratiche-riscontri pure pratici che vedremo invece all'opera con grande efficacia nel secolo delle applicazioni della matematica all'arte della navigazione. Bisogna comprendere a tale proposito che la matematica (e la scienza) dell'età classica - salvo casi particolari, quale per esempio quello di Archimede - venivano intese come attività che rientravano esclusivamente nella categoria dell'otium. [Non si dimentichi, del resto, che il termine "scuola" proviene dal greco scolh, che rimanda proprio al concetto di "ozio" (oltre a: tempo libero, riposo, quiete), etimologia della quale i moderni studenti saranno - giustamente - assai poco persuasi!] Un famoso aneddoto (riferito da Giovanni Stobeo - così chiamato dal luogo di nascita, appunto Stobi, in Macedonia - studioso vissuto nel V secolo DC, che possiamo pertanto appropriatamente inquadrare tra i "commentatori" bizantini) illustra la circostanza meglio di tante parole: "Un giovane che aveva cominciato a interessarsi di geometria con Euclide, quando ebbe imparato la prima proposizione, domandò, <Cosa ci guadagno a imparare queste cose?>. Allora Euclide chiamò uno schiavo e gli disse <Dai una monetina a costui, dato che pensa di dover guadagnare qualcosa da quello che impara>".

1-4-6) Per quanto riguarda il problema dei rapporti con la nuova "religione di stato" [Il cristianesimo viene riconosciuto da Costantino agli inizi del IV secolo subito dopo le ultime grandi persecuzioni di Diocleziano, e viene successivamente imposto a tutti i sudditi dell'impero in forza dell'editto di Tessalonica, 380.], problema con cui dovremo ancora confrontarci nel seguito, si debbono ricordare le posizioni avverse alla matematica, e alla "scienza", di Tertulliano [155-245, nato a Cartagine, filosofo e teologo, esprimente un particolare e intransigente rigore morale, che lo indusse ad abbandonare la Chiesa e a fondare infine una propria setta; nonostante ciò, continuò a esercitare una grande influenza sui "padri della Chiesa" che lo seguirono, e che costruirono con le loro opere - Patristica - una comune interpretazione del cristianesimo. "Come iniziatore del pensiero ecclesiastico Latino, egli fu fondamentale nel plasmare il vocabolario e la mentalità della Cristianità Occidentale per i successivi 1000 anni", dall'Enciclopedia Britannica], e di S. Agostino, pure di Cartagine (354-430). A Marco Minucio Felice (apologeta cristiano nato in Numidia, vissuto nel II secolo, noto per un dialogo Octavius nel quale si tenta una conciliazione tra "classicità" e messaggio cristiano) si attribuisce un'opera dal titolo esplicito Contra mathematicos, che è però andata perduta. [In effetti anche il filosofo scettico Sesto Empirico (180 DC-220 DC), aveva composto un'opera Contro i matematici, che si aggiungeva a una Contro i dogmatici, su base concettuale però del tutto diversa (una critica generale contro la possibilità di costruire "modelli teorici").] Del resto, si trovano nelle lettere di S. Paolo "ammonimenti" quali: "Noli altum sapere, sed time", "Non plus sapere quam oportet" (Romani, 11-20 e 12-3); "Scriptum est enim: Perdam sapientiam sapientium" (I Corinzi, 1-19; qui l'apostolo riprende una considerazione da Isaia, 29-14). Tra diversi possibili esempi di un siffatto contrasto ideologico, preferiamo riportarne uno che risale al tardo medioevo (dal Boncompagnus, di Boncompagno da Signa - nato verso la fine del XII secolo, insegnò grammatica e retorica a Bologna), anche per dimostrare la lunga permanenza di tali interpretazioni del cristianesimo: "Scimus enim, quod Christus non elegit philosophos nec rethores, sed preelegit simplices piscatores, qui ecclesiam suam de simplicibus non philosophis construxerunt. Perdidit enim Dominus sapientiam sapientium et scientiam scientium reprobavit, quia sapientes sunt, qui faciunt mala et operari bene ignorant. Sufficit quidem sola Spiritus sancti gratia illis, qui Ei servire peroptant".

V riepilogo storico generale

Con l'editto di Milano (313), in seguito al conflitto per la successione contro il cognato Massenzio (figlio di Massimiano; Massenzio viene sconfitto a Saxa Rubra nel 312, dopo che il futuro nuovo imperatore aveva sostituito nei labari delle legioni romane le aquile con le croci), Costantino (274-337, figlio di Costanzo Cloro) legalizza il cristianesimo. Il concilio di Nicea (325) voluto dallo stesso imperatore accentua il processo di cristianizzazione dell'impero (d'ora in avanti crescente, salvo la breve parentesi costituita da Giuliano, 361-363, detto appunto l'apostata). Con la fondazione di Costantinopoli (330) si sposta sempre più il baricentro dell'impero verso oriente. Sotto Costantino inizia anche la ricostruzione di Gerusalemme, e viene redatto il "canone" dei vangeli.
379-395 L'età dell'imperatore Teodosio. Alla sua morte avviene la definitiva scissione dell'impero in due parti separate (Arcadio ad occidente, Onorio ad oriente).
380 Editto di Tessalonica (obbligo per i sudditi dell'impero di accettare la religione cattolica secondo il credo di Nicea; riconoscimento della posizione preminente del vescovo di Roma).
401 I Goti, con a capo Alarico, scendono in Italia.
410 Alarico saccheggia Roma.
430 Sotto la pressione dei Visigoti, i Vandali si spostano in Africa. Muore S. Agostino nell'assedio di Ippona.
431 Il concilio di Efeso condanna le teorie "monofisite" (che teorizzavano un'unica natura del Cristo).
452 Incontro di Attila, capo degli Unni, con il pontefice Leone Magno.
476 Con la deposizione di Romolo Augustolo finisce l'impero romano d'occidente. L'unno Odoacre diventa "re dei barbari", "vicario" dell'imperatore d'oriente.
486 Inizio dell'espansione di Clodoveo, re dei Franchi.
488-493 Guerra tra Teodorico, re degli Ostrogoti, e Odoacre, che si conclude con la morte dell'unno. Inizio del regno di Teodorico, fino al 526. Intorno al 500 Teodorico emana un editto che intende disciplinare i rapporti giuridici tra i Romani e i Goti.
496 Conversione al cattolicesimo di Clodoveo.
506 Guerra tra i Franchi e i Goti.
527-565 Sotto l'impero di Giustiniano si ha un periodo di grande ripresa dell'impero romano d'oriente. Tra le altre cose, Giustiniano emana il Corpus Iuris, che rielabora il materiale giuridico proveniente dalla tradizione del diritto romano, con l'aggiunta di norme-correttivi di ispirazione cristiana.
535 Inizia, per opera dei generali Belisario e Narsete, la riconquista bizantina dell'Italia.
568 I Longobardi del re Alboino scendono in Italia.
589 Il re longobardo Autari sposa la cattolica Teodolinda, figlia del duca di Baviera, la quale regnerà fino al 625 (morirà poi nel 628).

 

Fonte: http://www.cartesio-episteme.net/mat/profilo1.doc

 

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