Storia Unione Europea

 

 

 

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Storia Unione Europea

 

STORIA DELL’UNIONE EUROPEA.

 

CAPITOLO PRIMO: I TRATTATI ISTITUTIVI E GLI SVILUPPI DELL’INTEGRAZIONE EUROPEA.

 

SOMMARIO PRIMO CAPITOLO: 1. La dichiarazione Schuman e la nascita della CECA. – 2. Il progetto CED ed il suo fallimento. – 3. Dall’incontro di Messina ai Trattati di Roma. – 4. Il periodo transitorio (1957-1969). – 5. Il Trattato di Lussemburgo del 1970 e i nuovi poteri del Parlamento Europeo. La Corte dei Conti. – 6. L’adesione di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca. – 7. L’elezione a suffragio universale del Parlamento Europeo. – 8. L’adesione di Grecia, Spagna e Portogallo.

 

1. LA DICHIARAZIONE SCHUMAN E LA NASCITA DELLA CECA.

A) La dichiarazione Schuman.

Il 9 maggio 1950 (giorno che in seguito sarà indicato come festa dell’Unione europea) l’allora ministro degli esteri francese Robert Schuman rendeva pubblica una dichiarazione con la quale proponeva di “mettere l’intera produzione francese e tedesca del carbone e dell’acciaio sotto una comune Alta Autorità, nel quadro di un’organizzazione alla quale possono aderire gli altri Paesi europei”.

Letta ad oltre cinquant’anni di distanza potrebbe sembrare una proposta banale, poco più di un accordo di produzione commerciale tra due stati. In realtà essa si fondava su un ragionamento che in seguito si sarebbe rivelato rivoluzionario.

Per capire il senso della proposta francese, infatti, si deve ricordare che lo sfruttamento dei ricchi giacimenti di carbone e di acciaio della Ruhr e della Saar era stato in passato spesso motivo di guerre tra la Francia e la Germania. Inoltre, a cinque anni dalla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati occidentali volevano evitare ciò che era successo dopo la prima guerra mondiale, vale a dire un nuovo isolamento della Germania, anche nell’ottica di contrastare l’affermarsi del blocco sovietico nell’Europa centro-orientale.

L’esperienza che si voleva realizzare con la costruzione dell’unione carbo-siderurgica era del tutto originale; a differenza delle altre organizzazioni, in questo caso si trattava di cedere un pezzo di sovranità dello Stato (anche se in un settore limitato) ad un altro organismo, che avrebbe gestito in modo autonomo la politica comune nel settore. Si inaugurava in questo modo quello che in seguito sarebbe stato individuato come approccio funzionalista al processo di integrazione europeo. Secondo i funzionalismi, infatti, l’integrazione europea doveva attuarsi attraverso il graduale trasferimento di compiti e funzioni in settori ben determinati a istituzioni indipendenti dagli Stati, capaci di gestire in modo autonomo le risorse comuni.

L’idea di inaugurare una terza via alla collaborazione tra gli Stati europei nasceva dalla constatazione dell’estrema difficoltà di avviare nell’immediato dopoguerra una cooperazione a tutto campo, con l’obiettivo di giungere ad una vera e propria unione di tipo federale; l’unica alternativa alla non collaborazione poteva essere soltanto una collaborazione settoriale.

In realtà il modello funzionalista può essere visto come una tappa intermedia verso una unione di tipo federale; l’idea di fondo è che l’integrazione settoriale determina inevitabilmente una cooperazione anche in settori strettamente collegati e in ultima analisi porta ad un sempre più esteso passaggio di competenze dagli organismi nazionali a quelli sopranazionali.

La favorevole accoglienza alla proposta Schuman, che nel frattempo aveva ricevuto anche l’adesione dell’Italia, del Belgio, del Lussemburgo e dei Paesi Bassi, portò alla firma del Trattato di Parigi del 18 gennaio 1951 con il quale fu creata la Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio (CECA).

 

B) La Nascita della Ceca.

Il 18 aprile 1951 a Parigi i sei paesi aderenti firmarono vari atti comprendenti il Trattato istitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), un protocollo sui privilegi e le immunità della Comunità, un protocollo sullo statuto della Corte di Giustizia ed un protocollo sulle relazioni con il Consiglio d’Europa; il trattato entrò in vigore il 23 luglio 1952.

Vennero in tal modo gettate le basi dell’Europa comunitaria, intesa come aggregazione associativa tra Stati con possibilità di espansione, di potenziamento di stabilizzazione e, nel tempo, di integrazione con vincoli sempre più stretti.

La CECA rappresentava non solo la prima reazione concreta alle forze disintegratici scatenate dalla guerra, ma anche la prima ricerca del benessere del singolo Stato nazionale nello sviluppo della Comunità europea non ché una embrionale reazione alle politiche di rigido isolamento.

Questa istituzione faceva sì che ciascuno degli Stati aderenti abdicasse alla propria sovranità in un settore limitato (quello carbo-siderurgico), conservando peraltro inalterate le proprie prerogative in altri settori. Di qui la sua configurazione come struttura sopranazionale e non già internazionale, dotata di poteri propri e di una propria Assemblea munita di poteri consultivi e di controllo politico, decisamente più consistenti di quelli accordati agli organi del Consiglio d’Europa.

All’Alta Autorità era affidato non solo il potere esecutivo, ma anche il potere normativo nei confronti degli Stati membri, delle imprese e delle associazioni di imprese di produzione e di distribuzione di prodotti carbosiderurgici.

Al Consiglio dei ministri (composto da rappresentanti dei governi di ciascuno Stato membro) spettavano compiti consultivi: lo stesso esprimeva infatti pareri vincolati sulle proposte avanzate dall’Alta Autorità.

Alla Corte di Giustizia veniva assegnato il potere giurisdizionale, con il compito specifico di interpretare e di vigilare sulla corretta applicazione delle norme del diritto comunitario contenute nel Trattato istitutivo della CECA.

La Comunità non solo venne riconosciuta, fin dalla sua istituzione, come ente sopranazionale, ma anche come ente dotato di propria personalità giuridica a livello internazionale, e come primo nucleo della futura federazione europea.

Come tale essa ottenne il riconoscimento di molti Stati, primi fra tutti gli Stati Uniti che nel 1952 nominarono il primo ambasciatore (William C. Thomlinson) presso la Comunità.

 

La nascita della CECA ha costituito il punto d’arrivo di un compromesso tra i fautori della integrale unificazione del continente e coloro che, invece, non avrebbero tollerato una eccessiva ingerenza nella propria sfera di sovranità territoriale. Al riguardo nel corso degli anni si sono delineate tre diverse posizioni:

  1. la tesi dei federalisti. Il loro obiettivo era quello di creare uno Stato federale europeo che, pur rispettando le singole identità nazionali, fosse in grado di instaurare una vera coesione tra i popoli europei ed evitare un futuro il ripetersi dei conflitti che fino ad allora avevano ridotto il continente europeo ad un campo di battaglia. Pur nella diversità di sfumature, l’idea di fondo dei federalisti europei era quella di “scavalcare” lo Stato nazionale, ritenuto il principale fattore di attrito che aveva portato a due sanguinose guerre mondiali, attraverso l’istituzione di una autorità politica dotata di poteri gerarchicamente sovraordinati a quelli dei singoli Stati membri; in pratica si trattava di istituire un’organizzazione più vicina al modello di uno Stato federale che non un organismo internazionale che ricalcasse il classico modello della cooperazione intergovernativa. Chiaramente gli organismi comuni (federali) avrebbero dovuto essere espressione dei popoli europei (attraverso l’elezione a suffragio universale) e non dei governi nazionali;
  2. la tesi avanzata dai confederalisti, secondo la quale la cooperazione in ambito europeo doveva ricalcare sostanzialmente un modello di cooperazione intergovernativa, che lasciasse intatte tutte le prerogative sovrane dei singoli Stati aderenti. Questi ultimi, infatti, pur potendo attribuire, anche in via esclusiva, determinate competenze ad un organismo confederale e rinunciare di fatto alla propria sovranità in determinate materie, restavano comunque i soli legittimati ad esprimere la volontà comune e a determinare, di comune accordo, l’indirizzo da imprimere al processo di cooperazione. Alla concezione confederalista sono sottesi due importanti corollari:
    • in primo luogo la collaborazione tra gli Stati deve instaurarsi e può proseguire soltanto se tra i membri vi è una volontà comune, rendendo di fatto indispensabile l’unanimità dei consensi;
    • in secondo luogo gli organismi comuni istituiti dagli Stati membri devono avere come unico compito quello di gestire le politiche comuni, esulando dalle loro prerogative la possibilità di svolgere attività indipendenti senza l’avallo dei paesi aderenti.

La tesi di una costruzione europea di tipo confederale fu propugnata soprattutto da Winston Churchill e da Charles De Grulle. I britannici non hanno mai nascosto il loro timore di una eccessiva autonomia delle istituzioni comunitarie rispetto agli Stati membri; per questo motivo si rifiutarono di aderire inizialmente alle Comunità e anche dopo hanno sempre tenuto un atteggiamento estremamente critico. Per il Presidente francese la preminenza della volontà degli Stati membri rispetto a quella degli organismi comunitari è stata una costante di tutto il periodo in cui rimase in carica e fu alla base della c.d. crisi della sedia vuota.

  1. la tesi (che si colloca in una posizione intermedia tra i due orientamenti precedenti, detta funzionalista. Secondo i sostenitori di questa tesi, l’integrazione europea doveva attuarsi attraverso il graduale trasferimento di compiti e funzioni in settori ben determinati a istituzioni indipendenti dagli Stati, capaci di gestire in modo autonomo le risorse comuni (cd. sector by sector approach). L’idea di inaugurare una terza via alla collaborazione tra gli Stati europei nasceva dalla constatazione dell’estrema difficoltà di avviare nell’immediato dopoguerra una cooperazione a tutto campo, con l’obiettivo di giungere in futuro ad una vera e propria unione di tipo federale. L’unica alternativa alla non collaborazione poteva essere soltanto una collaborazione settoriale, come in effetti avvenne con la creazione nel 1951 della CECA e dell’Euratom (cd. Comunità di settore).

In realtà il modello funzionalista può essere visto come una tappo intermedia verso una unione di tipo federale; l’idea di fondo è che l’integrazione settoriale determina inevitabilmente una cooperazione anche in settori strettamente collegati e in ultima analisi porta ad un sempre più esteso passaggio di competenze dagli organismi nazionali a quelli sopranazionali (il cd. spillover).

I maggiori esponenti della teoria funzionalista furono Jean Monnet e Robert Schuman, convinti sostenitori della nascita di una organizzazione che mettesse in comune le risorse carbosiderurgiche degli Stati membri (la futura CECA).

 

 

2. IL PROGETTO CED ED IL SUO FALLIMENTO.

Il modello CECA esercitò la sua prima influenza nel settore militare. Infatti, in seguito allo scoppio della guerra in Corea, che aumentò il timore di una sempre più profonda divisione del mondo in due blocchi contrapposti, prese vita il progetto di una Comunità militare europea sul modello della CECA.

Tale progetto, che prevedeva l’istituzione di una Comunità europea di difesa (CED), incontrò numerose difficoltà soprattutto per il contrasto legato al riarmo della Germania, ostacolato dalla Francia e favorito dagli Stati Uniti, nel quadro della ricostruzione della efficienza militare occidentale.

Il trattato per l’istituzione della CED venne firmato il 27 maggio 1952 e, in attesa della ratifica da parte dei Parlamenti nazionali, i compiti previsti dall’art. 38 vennero affidati all’Assemblea della CECA.

 

Il trattato prevedeva l’integrazione dei corpi d’armata degli originari sei Stati membri sottoposti al comando di un Commissariato, nominato di comune accordo dai governi degli stati membri ed investito di poteri di azione e di controllo.

Esso sarebbe stato assistito nel suo operato da un’Assemblea e da un Consiglio dei ministri, mentre la Corte di giustizia della CECA lo avrebbe controllato.

 

Tuttavia, sia per la mancata ratifica da parte del Parlamento francese, malgrado le pressioni statunitensi, sia per le ostilità della Gran Bretagna, contraria a qualsiasi accordo continentale a sei che la escludesse, il progetto CED non trovò possibilità di attuazione.

In ogni caso l’esperienza positiva della CECA e il crescente entusiasmo dell’opinione pubblica europea  intorno ai primi dibattiti su un progetto relativo all’istituzione di un mercato comune, diedero nuovo slancio al processo di integrazione.

 

3. DALL’INCONTRO DI MESSINA AI TRATTATI DI ROMA.

In linea col contesto prima visto, ebbe luogo lo storico incontro di Messina fra i ministri degli esteri dei paesi membri della CECA.

A Messina (1° giugno 1955) vennero delineate le tappe del processo d’integrazione europea prendendo come base due campi che si consideravano interdipendenti, quello del mercato comune e quello dell’energia nucleare.

Dopo travagliate vicende si sarebbe poi giunti all’accoglimento di due progetti relativi rispettivamente all’uno ed all’altro dei due campi. Venne deciso, inoltre, di costituire un Comitato di delegati governativi, presieduto dal ministro degli esteri belga Paul Henri Spaak, con il compito di esaminare, perfezionare e trasformare in strumenti concreti le direttive e le idee scaturite dalla conferenza.

 

In sostanza, a Messina si abbandonò la precedente politica d’integrazione europea per settori (cui restava fedele soltanto la Francia) e si cominciò ad operare in vista della cd. integrazione orizzontale, cioè l’unione economica dell’Europa nel suo insieme da realizzare mediante la creazione di un mercato comune in cui avrebbero avuto libera circolazione i vari fattori della produzione (lavoro, capitali, merci e servizi).

Il 30 maggio 1956 i ministri degli esteri dei sei paesi membri della CECA si riunirono a Venezia per negoziare la trasformazione del cd. rapporto Spaak in veri e propri trattati. Tale rapporto, infatti, già precedentemente approvato dall’Assemblea della Comunità carbo-siderurgica, proponeva l’istituzione di una Comunità economica europea (CEE) e di una Comunità europea per l’energia atomica (CEEA/Euratom). I negoziati si protrassero fino al febbraio del 1957 (Conferenze di Bruxelles e Parigi) e, finalmente, il 25 marzo dello stesso anno si giunse alla firma a Roma dei Trattati istitutivi della CEE e dell’Euratom; i due trattati entrarono in vigore il 1° gennaio 1958.

 

A causa del rilievo prevalente della Comunità economica europea rispetto alle altre comunità settoriali, la trattazione che segue sarà incentrata in particolare sulla CEE. Il ruolo preponderante assunto da quest’ultima è stato in seguito sottolineato anche dal Trattato di Maastricht che ne ha mutato la denominazione in Comunità Europea (CE), tout court.

 

 

Mentre il Trattato CECA prevedeva l’instaurazione di un’area di libero scambio limitatamente al settore del carbone e dell’acciaio (che implica l’abolizione dei dazi doganali interni e la soppressione di qualunque limitazione all’importazione e all’esportazione di tali prodotti tra gli Stati membri), i Trattati CEE ed Euratom gettavano le basi per la creazione di un’unione doganale, che implica anche l’adozione di una tariffa doganale comune nei confronti dei paesi terzi, in aggiunta alle misure prima citate.

L’obiettivo dell’instaurazione dell’unione doganale fu raggiunto nel 1968 allorché fu fissata una tariffa doganale comune (TDC); dopo questa data tutti gli sforzi dei paesi membri furono indirizzati alla realizzazione di una unione economica, cioè di uno spazio interno in cui fosse assicurata la piena libertà di circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e delle persone, nonché il perseguimento di politiche economiche comuni.

 

4. IL PERIODO TRANSITORIO (1957-1969).

A) I primi passi, gli accordi di associazione, l’EFTA.

I trattati di Roma furono approvati dai Parlamenti nazionali dei sei paesi firmatari con larghe maggioranze nel giro di pochi mesi. Tuttavia, si evitò di prevedere l’immediata instaurazione del mercato comune e si optò per la realizzazione graduale dello stesso.

Venne previsto un periodo transitorio, scaglionato in tre tappe, ciascuna della durata di quattro anni, nel corso delle quali l’integrazione economica si sarebbe attuata progressivamente. Inizialmente si cominciò con l’adozione di misure economiche, finanziarie e monetarie necessarie a ravvicinare le legislazioni dei vari Stati al fine di fronteggiare la nuova realtà del mercato comune.

Già nel 1960 cominciarono a palesarsi gli effetti positivi sulle economie nazionali della riduzione dei dazi e delle barriere doganali.

Nello stesso periodo (1960) un gruppo di altri sette paesi europei guidati dalla Gran Bretagna si andavano organizzando nell’EFTA (European Free Trade Association), un’area di libero scambio limitata per lo più ai prodotti industriali.

L’adesione all’EFTA permetteva alla Gran Bretagna di mantenere la sua posizione di privilegio negli scambi commerciali con il Commonwealth in una misura che non sarebbe stata possibile qualora fosse entrata a far parte della Comunità.

Eppure proprio in quegli anni il governo inglese stava cominciando a rivedere le sue posizioni relativamente alla sua adesione. Nell’estate del 1961 il governo MacMillan presentò la propria candidatura alla Comunità.

La richiesta dell’adesione della Gran Bretagna si scontrò con l’opposizione del governo francese del generale De Grulle. Tale opposizione non era dovuta tanto a considerazioni di carattere economico o all’oggettiva difficoltà di raggiungere un compromesso tra le regole del mercato e le richieste britanniche (incentrate intorno alla preoccupazione di conservare i legami preferenziali con il Commonwealth): il vero motivo del veto francese era, invece, il carattere politico. La Francia, infatti, oltre a considerare la Gran Bretagna una specie di “quinta colonna” della penetrazione economica degli USA in Europea, temeva di perdere la sua posizione preminente sugli orientamenti relativi alla politica comunitaria.

 

 

B) La crisi del ’65 e l’allontanamento della Francia.

Una crisi scoppiò nel ’65 allorché la Commissione propose l’istituzione di un bilancio autonomo della Comunità (da finanziare non più con i contributi versati dagli Stati membri, bensì con i versamenti dei prelievi e dei diritti doganali), ed un rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo. La reazione della Francia fu estremamente dura e portò i transalpini a disertare i lavori della Comunità.

Dopo che il ministro degli esteri francese Couve de Murville oppose un netto rifiuto alle proposte della Commissione, il governo francese inaugurò quella che poi sarò definita la politica della sedia vuota, cioè della assenza e boicottaggio di tutte le sedute degli organi comunitari, con conseguente arresto (per ben sette mesi) dell’attività della Comunità nonostante i tentativi dei cinque paesi membri di far funzionare ugualmente le strutture comunitarie e di raggiungere un accordo con la Francia. Dal momento che, prima dell’entrata in vigore dell’Atto Unico, l’unanimità costituiva la regola e la maggioranza l’eccezione si può ben comprendere come il potere decisionale degli organi comunitari fosse così paralizzato.

 

 

La situazione si sbloccò nel dicembre dello stesso anno, a seguito del parziale insuccesso elettorale di De Grulle ed anche perché i sette mesi di linea dura francese erano stati in sostanza avari di risultati.

 

C) L’incontro di Lussemburgo e la ripresa.

Il 29 gennaio 1966 i ministri degli estri dei sei paesi membri si incontrarono a Lussemburgo e riuscirono a raggiungere un’intesa che pose fine alla crisi.

In quella sede si decise che il principio dell’unanimità avrebbe sostituito il criterio del voto a maggioranza in seno al Consiglio tutte le volte in cui sarebbero stati in gioco interessi molto importanti anche per uno solo degli Stati membri (cd. compromesso di Lussemburgo). Si evitò, peraltro, di specificare chiaramente quali interessi nazionali potevano essere definiti come “molto importanti”, lasciando in tal modo agli Stati un ampio margine di libertà di scelta.

I francesi non riuscirono, però, ad ottenere quel ridimensionamento dei poteri della Commissione da essi auspicato e sul quale aveva a lungo insistito Couve de Murville.

L’accordo raggiunto a Lussemburgo costituì la tangibile prova del fatto che, nonostante l’esistenza di un persistente disaccordo tra i paesi membri su numerose questioni, prevaleva, comunque, una volontà “europea” comune, tale da consentire alla Comunità la piena ripresa del suo cammino.

 

D) La fusione degli esecutivi.

Nel luglio 1967 entrò in vigore il Trattato di Bruxelles sulla fusione degli esecutivi, firmato nell’aprile del 1965, due mesi prima dell’inizio della crisi della sedia vuota.

Il trattato sulla “fusione degli esecutivi” prevedeva l’istituzione di un Consiglio Unico e di una Commissione unica per le Comunità europee, segnando, così, un ulteriore passo avanti nel processo d’integrazione.

La fusione era, però, soltanto di carattere organico, poiché permanevano tre ordinamenti distinti e ciascuna istituzione conservava, rispetto alle singole Comunità, le competenze che le erano state attribuite dai trattati istitutivi.

Di non minore importanza è stata la riunificazione, in un unico atto, del bilancio amministrativo delle tre Comunità, ad opera del Trattato del 1965.

 

5. IL TRATTATO DI LUSSEMBURGO DEL 1970 E I NUOVI POTERI DEL PARLAMENTO EUROPEO. LA CORTE DEI CONTI.

 

A) La Commissione Rey e il programma 1969-1972.

Primo presidente della Commissione, dopo la fusione degli esecutivi, fu Jean Rey, cui spetto il difficile compito di uscire dalla crisi, acuita dalla rinnovata domanda della Gran Bretagna di adesione alla Comunità, e di proseguire nel programma di integrazione europea. Jean Rey fronteggio con successo il suo compito dando nuovo slancio alla politica agricola comune (piano Mansholt) ed eliminando i residui ostacoli tariffari all’unione doganale.

 

B) Il vertice dell’Aja e la nuova politica francese.

Il vertice dell’Aja, del dicembre 1969, tenutosi poco prima dello scadere del periodo transitorio (31 dicembre 1969), segnò la fine del gallismo relativamente alle questioni comunitarie.

Infatti, il nuovo presidente francese Pompidou adottò un atteggiamento più conciliante in merito al problema dell’ingresso della Gran Bretagna e degli altri paesi candidati della Comunità. Inoltre il governo francese, facendo propria la posizione espressa dal cancelliere tedesco Willy Brandt, propose urgenti e concrete misure per l’unione monetaria, per il coordinamento delle politiche economiche a breve e medio termine e per la concentrazione delle politiche sociali.

Dalla linea di sostanziale armonia scaturirono gli Accordi sul finanziamento della politica agricola comune; una intesa di massima sulla assegnazione alla Comunità di risorse proprie a partire dal 1978, ed il rafforzamento dei poteri di bilancio del Parlamento europeo, sino ad allora ad una semplice funzione consultiva. Fu inoltre consacrato (nello stesso vertice) il carattere irreversibile dell’opera della Comunità europea nel senso di un’attuazione progressiva delle stesse e della definitività delle riforme attuate (cd. acquis communautaire).

 

C) La nuova politica finanziaria e la Corte dei conti.

Il 21 aprile 1970 venne raggiunto a Lussemburgo un accordo definitivo per la realizzazione di quella sostituzione dei contributi finanziari degli Stati membri con risorse proprie della Comunitàconcordata all’indomani del vertice dell’Aja. In tal modo si conferiva alla Comunità una solida autonomia finanziaria che costituiva il necessario presupposto per la sua indipendenza dai poteri nazionali.

Nel precedente sistema, infatti, era latente un certo grado di insoddisfazione, dato che ogni Stato era chiamato a contribuire in percentuale alla sua capacità contributiva, nonché al suo peso politico. Gli Stati più agiati, i cd. pagatori netti, pur versando contributi maggiori, ricevevano in saldo cifre di minore entità, per compensare lo squilibrio con gli altri Stati. Col sistema delle risorse proprie, invece, la Comunità poteva disporre di un proprio budget costituito da determinate voci di imposta. Il giorno successivo fu ratificato, sempre a Lussemburgo, il Trattato sull’ampliamento dei poteri del Parlamento in materia finanziaria, dando attuazione alle disposizioni previste dall’art. 201 del Trattato CEE in materia.

 

 

Il nuovo indirizzo della politica finanziaria comunitaria e le nuove attribuzioni delle istituzioni comunitarie resero anche necessaria l’istituzione di una Corte dei Conti comunitaria (che sarebbe entrata in funzione nel 1977), subentrata alla precedente Commissione di controllo del bilancio.

 

6. L’ADESIONE DI GRAN BRETAGNA, IRLANDA E DANIMARCA.

Nel maggio 1967 i governi inglese, irlandese e danese inoltrarono nuove domande di adesione alle Comunità.

Verso la fine di quell’anno il confronto fra i sei si era arenato e non si era riusciti a raggiungere alcun accordo. Successivamente, grazie al mutato atteggiamento francese, si giunse (giugno 1970) a veri e propri negoziati, in vista anche di un’eventuale adesione della Norvegia.

Il 22 gennaio 1972, nel palazzo di Egmont a Bruxelles i “Dieci” (i 6 membri originari, più Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca e Norvegia) firmarono gli atti di adesione.

Tuttavia il 26 settembre dello stesso anno essi si ridussero a nove per il rifiuto che il governo norvegese fu costretto ad annunciare (in seguito all’esito negativo d’un referendum popolare interno) in merito all’adesione del paese scandinavo alle Comunità.

Diversamente il 1° gennaio 1973 Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca, in seguito ai responsi popolari favorevoli, entrarono a far parte delle Comunità.

 

7. L’ELEZIONE A SUFFRAGIO UNIVERSALE DEL PARLAMENTO EUROPEO.

Sin dal maggio 1960 era stato preso in esame, a livello comunitario, un progetto per l’attuazione dell’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo, così come previsto dall’art. 138 (ora 190) del trattato istitutivo. Eppure, fu soltanto nel corso della riunione del Consiglio europeo tenutasi a Roma il 1° dicembre 1975, che i capi di Stato e di governo dei paesi membri riuscirono ad accordarsi definitivamente sulla data della prima elezione a suffragio universale diretto del Parlamento Europeo, che venne fissata per la primavera del 1978.

In linea generale l’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento può essere considerata un passo avanti verso l’integrazione europea, sia per le ripercussioni che tale riforma ebbe sull’opinione pubblica dei paesi membri, sia per il nuovo vigore dato a tale istituzione dalla presenza di un mandato diretto da parte dell’elettorato degli Stati europei.

 

8. L’ADESIONE DI GRECIA, SPAGNA E PORTOGALLO.

Nel 1974 caddero due regimi autoritari dell’Europa mediterranea: quello portoghese, in seguito alla rivoluzione dei garofani, e quello greco sulla spinta della crisi di Cipro. Inoltre tra i 1975 e il 1978 si compì il processo di democratizzazione della Spagna dopo quasi quaranta anni di dittatura. Il ritorno dei paesi europei mediterranei alla democrazia aprì le prospettive per un loro ingresso nella Comunità europea.

La Grecia aveva presentato domanda di adesione alla Comunità nel luglio 1976; il Portogallo nel marzo 1977 e la Spagna nel luglio dello stesso anno.

L’allargamento della Comunità ai Paesi del Mediterraneo offriva nuove prospettive di sviluppo all’Unione europea; essa, però, presentava notevoli problemi in quanto si temeva potesse alterare i delicati equilibri politici e commerciali esistenti tra i paesi della Comunità, in particolare nel settore agricolo.

 

Interessante al riguardo fu l’evoluzione della posizione dell’Italia. Inizialmente, infatti, allorché venne prospettata la possibilità di una adesione dei Paesi mediterranei alla Comunità, nel nostro Paese da più parti vennero avanzati dei timori circa le conseguenze negative per la nostra agricoltura da tale evento. Si temeva fortemente la concorrenza, in particolare quella spagnola, in settori quali ola produzione di olio, di vino, di agrumi ed in generale di alberi da frutta.

Tuttavia nel corso degli anni ’80 la posizione del nostro governo si è progressivamente evoluta verso una sempre più ferma adesione alla prospettiva di allargamento della Comunità ai Paesi dell’Europa meridionale. In particolare, nel caso dell’adesione della Spagna e del Portogallo la mediazione svolta dal nostro governo nel tentativo di ridurre la resistenza francese è stata decisiva.

 

 

La Grecia è entrata a far parte della Comunità dal 1° gennaio 1981, la Spagna e il Portogallo dal 1° gennaio 1986.

 

 

CAPITOLO SECONDO: DALL’UNIONE ECONOMIA ALL’UNIONE MONETARIA.

 

SOMMARIO CAPITOLO SECONDO: 1. Il Libro Bianco per il completamento del mercato interno. – 2. L’Atto Unico europeo. – 3. Il mercato unico europeo. – 4. Il trattato di Maastricht. – 5. L’adesione della Finlandia, dell’Austria e della Svezia. – 6. Il Trattato di Amsterdam. – 7. Il Trattato di Nizza. – 8. L’unione monetaria e l’introduzione dell’euro.

 

1. IL LIBRO BIANCO PER IL COMPLETAMENTO DEL MERCATO INTERNO.

Con il raggiungimento dell’originario obiettivo dell’unione doganale e l’ampliamento ad altri Paesi europei, si rese necessaria, a partire della metà degli anni ’80, una completa revisione della struttura e degli obiettivi della Comunità.

Dopo la crisi mondiale che caratterizzò gli anni settanta ed il rallentamento del processo d’integrazione comunitario che ne seguì, era ormai unanimemente avvertita l’esigenza di ridare nuovo slancio e vigore alla cooperazione europea.

L’impulso decisivo venne dalla Commissione presieduta da J. Delors, che nel giugno 1985 presentò un Libro bianco per il completamento del mercato interno. In questo documento venivano analizzati tutti gli ostacoli che si frapponevano ad una completa realizzazione dell’unione economica tra gli Stati della Comunità e si avanzavano proposte volte a superare tali ostacoli.

In particolare i tre obiettivi principali del programma erano:

  1. integrare i mercati nazionalidella Comunità per trasformarli in un immenso mercato unico;
  2. rendere questo mercato unico un mercato in espansione, estremamente dinamico;
  3. garantire la necessaria flessibilità, al fine di canalizzare al meglio le risorse umane, materiali e finanziarie verso i settori di utilizzazione ottimali.

 

2. L’ATTO UNICO EUROPEO.

I problemi e le soluzioni individuate nel Libro bianco costituirono la base della Conferenza intergovernativa che si riunì a Lussemburgo il 9 settembre 1985 e nella quale furono predisposte le strategie per il rilancio del processo di integrazione europeo.

I lavori della Conferenza, infatti, ebbero termine a Bruxelles il 28 febbraio 1986 con l’adozione dell’Atto Unico Europeo, entrato successivamente in vigore il 1° luglio 1987 a seguito della ratifica dei parlamenti degli Stati membri.

In Italia l’Atto in parola è stato ratificato e reso esecutivo con la L. 23 dicembre 1986 n. 909.

L’obiettivo più importante dell’Atto Unico era la realizzazione entro il 31 dicembre 1992 del mercato unico, cioè di uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali.

Affinché il grande mercato interno potesse sfociare in un “autentico spazio economico e sociale comune, basato sulla solidarietà e dominato dalle regole del mercato ma al tempo stesso dalla cooperazione tra le istituzioni politiche e le parti sociale” era necessario il raggiungimento di una convergenza economica, e l’applicazione di politiche di accompagnamento (21° Rel. Gen. CE).

Altre disposizioni contenute nell’Atto Unico Europeo: modifiche istituzionali, nuove politiche, cooperazione europea.

 

3. IL MERCATO UNICO EUROPEO.

Il periodo che va dall’entrata in vigore dell’Atto Unico europeo alla fatidica data del 1° gennaio 1993, fissata per l’avvio del mercato unico, è stato un periodo di intensa attività per gli organi comunitari. La necessità di procedere ad una completa armonizzazione delle diverse legislazioni degli Stati membri, al fine di eliminare tutte le barriere (fisiche, tecniche e fiscali) che si frapponevano al processo di integrazione comunitaria, ah reso necessario un lungo e paziente lavoro da parte della Commissione. Nonostante le inevitabili difficoltà l’obiettivo è stato comunque centrato e, a partire dal 1° gennaio 1993, tra i Paesi membri della Comunità europea sono cadute tutti gli ostacoli di natura burocratica e tariffaria che ostacolavano la circolazione dei beni e dei servizi tra gli Stati membri.

Il laborioso ed interessante lavorio finalizzato al completamento del mercato unico è proseguito parallelamente ad un’intensa attività volta a creare le basi per delineare le future tappe dell’integrazione comunitaria. Preso atto dell’imminente raggiungimento dell’obiettivo 1993, le istituzioni comunitarie hanno avviato già dal 1988 i contatti che poi sarebbero sfociati nella firma del Trattato di Maastricht, che ancora una volta sottolinea l’ottica nella quale si muove il processo di integrazione della Comunità: periodicamente vengono fissate delle scadenze, raggiunte le quali, si passa ad una nuova fase di collaborazione e vengono delineati nuovi e più ambiziosi traguardi. Quello del Trattato di Maastricht ha portato ad una completa unione economica e monetaria.

 

4. IL TRATTATO DI MAASTRICHT.

A) Generalità.

Con la firma del Trattato di Maastricht (ufficialmente noto come Trattato sull’Unione Europea o TUE) è stata inaugurata una nuova fase del progetto di integrazione europea, avviando la costruzione di una vera federazione (nonostante l’ambigua denominazione di Unione europea voluta da alcuni Stati) e mettendo in moto un processo le cui conseguenze saranno rilevanti sia per quanto riguarda i rapporti dell’Europa con il resto del mondo, sia per quanto riguarda l’ordine interno europeo.

La portata estremamente innovativa di questo trattato è implicitamente confermato dal travagliato processo di ratifica che più volte ha fatto temere un completo abbandono del progetto. Esso è stato, infatti, agevolmente ratificato in Italia, Paesi Bassi, Portogallo, Grecia, Spagna, Belgio, Lussemburgo ed Irlanda, mentre ha incontrato notevoli opposizioni in altre Stati. In Francia è stato sottoposto a referendum ed è passato solo di stretta misura (51,4% dei voti a favore). In Gran Bretagna è stato approvato soltanto dopo che il governo ha posto la questione di fiducia. Il Parlamento tedesco ha ratificato il trattato già nel dicembre 1992, ma ha dovuto attendere una pronuncia della Corte Costituzionale prima di poter depositare (ultimo Stato) la propria ratifica. Le maggiori opposizioni sono però venute dalla Danimarca che con un primo referendum ha bocciato il trattato: dopo aver ottenuto delle deroghe, si è svolta una seconda consultazione referendaria che questa volta ha ottenuto esito positivo. Il trattato è entrato in vigore il 1° novembre 1993.

 

 

B) I pilastri dell’Unione Europea.

La struttura dell’Unione Europea, così come delineata dal Trattato di Maastricht, è una struttura tripolare. I tre pilastri che compongono il figurato tempio dell’Unione sono:

  1. la dimensione comunitaria, disciplinata dalle disposizioni contenute nei Trattati istitutivi delle Comunità europee (cd. primo pilastro);
  2. la politica estera e di sicurezza comune (PESC) disciplinata dal titolo V del TUE (cd. secondo pilastro);
  3. la cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni (CGAI) contemplata dal titolo VI del Trattato sull’Unione europea, divenuta, in seguito alle modifiche introdotte dal Trattato di Amsterdam, cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale e che costituisce il terzo pilastro dell’Unione.

 

La struttura a tempio è il risultato di un compromesso faticosamente raggiunto fra le volontà contrapposte degli Stati membri al momento della firma del Trattato di Maastricht. In quell’occasione alcuni Stati, temendo che una netta separazione potesse provocare la disgregazione della costruzione europea, propendevano per l’inserimento delle tre colonne in un testo giuridico unitario, assimilando di fatto le nuove politiche a quelle già previste dai trattati originari. Altri sostenevano invece la necessità di salvaguardare il potere decisionale degli Stati membri nei settori della politica estera nonché degli affari interni e della giustizia. Il risultato finale fu questa anomala struttura che attribuisce alle diverse  istituzioni ruoli diversi a seconda del pilastro in cui operano.

La principale differenza tra i tre pilastri è data dal fatto che per le politiche avviate nell’ambito del primo pilastro si applica il cd. metodo comunitario, che marginalizza il ruolo dei governi nazionali a favore delle istituzioni europee. I governi degli Stati membri, infatti, possono intervenire soltanto nelle forme e secondo le procedure previste dai trattati, bilanciando il loro ruolo con quello delle altre istituzioni; ciò vuol dire, ad esempio, che nessun atto può essere adottato nell’ambito del primo pilastro dal Consiglio dell’Unione, istituzione che più direttamente ripresenta gli interessi degli Stati membri, senza la preventiva iniziativa legislativa della Commissione europea; i trattati istitutivi, infatti, riservano l’iniziativa legislativa alla sola Commissione che esercita in tal modo una sorta di controllo a priori sull’attività legislativa comunitaria.

La collaborazione nell’ambito degli altri due pilastri è invece di carattere tipicamente intergovernativa, attribuendo tutto il potere decisionale agli Stati membri. Gli strumenti tipici della cooperazione nell’ambito del secondo e del terzo pilastro sono i principi e gli orientamenti generali, le strategie comuni, le azioni comuni, le posizioni comuni, la cooperazione sistematica, le decisioni-quadro e le decisioni, tutti scarsamente vincolanti per gli Stati membri e comunque quasi sempre adottabili soltanto all’unanimità. L’unico atto veramente vincolante, previsto soltanto nell’ambito della cooperazione del terzo pilastro, è la convenzione internazionale che però impegna lo Stato soltanto nel momento in cui ha ricevuto la ratifica; non a caso quasi tutte le convenzioni elaborate sulla base della cooperazione in materia di giustizia e affari interni non sono ancora entrate in vigore.

 

C) La struttura del trattato.

Il trattato che è stato firmato a Maastricht costituisce un coacervo di disposizioni, alcune delle quali sono di portata estremamente innovativa. Allo stesso trattato sono aggiunti vari protocolli e dichiarazioni, tra cui spiccano i due protocolli che definiscono lo statuto del Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC), dell’Istituto monetario europeo (IME) E DELLA Banca Centrale Europea (BCE). In particolare il trattato è articolato nelle seguenti sezioni:

  • disposizioni comuni (titolo I). Questa prima sezione definisce le linee guida che ispirano l’azione comunitaria, il cui compito è quello di organizzare in modo coerente e solidale le relazioni tra gli Stati membri ed i loro popoli.

Nell’art. 2 sono delineati gli obiettivi che si prefigge l’Unione:

promuovere un progresso economico e sociale equilibrato, mediante la creazione di uno spazio senza frontiere interne, il rafforzamento della coesione economica e sociale e l’instaurazione di una unione economica e monetaria che comporti, a termine, una moneta unica;

attuare una politica estera e di sicurezza comune e definire a termine una politica di difesa comune che potrebbe, successivamente, condurre ad una difesa comune;

rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini degli Stati membri mediante l’istituzione di una cittadinanza dell’Unione;

sviluppare una stretta coesione nel settore della giustizia e degli affari interni.

 

  • modifiche al Trattato CEE (titolo II). Questa sezione rappresenta la parte più innovativa dell’intero Trattato di Maastricht a cominciare dall’alto valore simbolico da attribuire alla disposizione che sostituisce l’espressione “Comunità Economica Europea” con “Comunità Europea” in tutto il Trattato di Roma del 1957. La modifica è un evidente segnale della volontà di non limitare più l’azione della Comunità alle sole relazioni economiche ma di estenderla anche ad altri campi finora considerati di esclusiva competenza degli Stati membri.

Principi fondamentali di questa parte del trattato sono:

  1. l’instaurazione di una unione economica e monetaria;
  2. l’istituzione di una cittadinanza europea;
  3. l’affermazione del principio di sussidiarità, secondo il quale la comunità, nelle materie che non sono di sua esclusiva competenza, può intervenire soltanto qualora gli Stati membri non possono agire o quando è preferibile procedere ad un’azione comune;
  4. l’ampliamento delle politiche poste in essere dalla Comunità (in particolare, industria, sanità pubblica, educazione e cultura);
  5. la revisione dei poteri attribuiti ad alcuni organi comunitari ed, in particolare, l’ampliamento delle funzioni del Parlamento europeo;

 

  • modifiche ai Trattati CECA ed Euratom (titoli III e IV). Le disposizioni contenute in questi due titoli si limitano ad estendere anche ai Trattati CECA ed Euratom le modifiche già previste per il Trattato CEE;
  • disposizioni relative alla politica estera e di sicurezza comune (titolo V). Rappresenta una delle novità più importanti del Trattato di Maastricht ed è il risultato finale dei lunghi negoziati intrapresi nell’ambito della conferenza intergovernativa convocata nel 1990. Le disposizioni contenute in questo titolo non introducono alcuna modifica ai Trattati istitutivi delle Comunità europee;
  • disposizioni relative alla cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale (titolo VI). L’apertura delle frontiere tra i Paesi comunitari a partire dal 1° gennaio 1993 ha inevitabilmente imposto un notevole ridimensionamento delle possibilità di controllo frontaliere. Al fine di realizzare una più efficace cooperazione in questo settore con il Trattato di Maastricht si è deciso di delineare alcune strategie comuni tra gli Stati membri, tra cui rientra anche la costituzione di un Ufficio europeo di polizia (Europol). Tuttavia molte delle disposizioni contenute in questo titolo (che originariamente era denominato cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni) sono state comunitarizzate con il Trattato di Amsterdam;
  • disposizioni su una cooperazione rafforzata (titolo VII). Non era previsto dall’originario Trattato di Maastricht, ma è stato aggiunto dal Trattato di Amsterdam. Prevede la possibilità che alcuni Stati membri possano perseguire autonomamente determinate politiche quando non è possibile raggiungere l’unanimità;
  • disposizioni finali (titolo VIII). Oltre all’art. 49, che disciplina la procedura per l’adesione di nuovi Stati, la disposizione più importante (ora abrogata) era quella che prevedeva la convocazione, entro il 1996, di una conferenza intergovernativa per apportare eventuali modifiche al trattato: da questa norma è nato il Trattato di Amsterdam.

 

5. L’ADESIONE DELLA FINLANDIA, DELL’AUSTRIA E DELLA SVEZIA.

Nel corso del 1993 le istituzioni comunitarie hanno avviato una serie di negoziati con quattro paesi che avevano da tempo fatto richiesta di adesione all’Unione Europea: l’Austria, la Finlandia, la Svezia e la Norvegia. Dopo aver ottenuto l’assenso del Consiglio, del Parlamento e della Commissione, le trattative per l’ampliamento della Comunità sono state ufficialmente avviate l’11 dicembre 1993.

Dopo una crisi scoppiata tra i Paesi membri relativamente alla questione della maggioranza in seno al Consiglio dell’Unione (risolta con il compromesso di Ioannina) l’atto di adesione è stato ufficialmente siglato il 24 giugno 1994 e successivamente sottoposto alla ratifica degli Stati già membri (in Italia ciò è avvenuto con L. 14-12-1994, n. 686) ed in quelli che dovevano aderire.

In quest’ultimo caso la ratifica era subordinata al voto favorevole espresso dai cittadini tramite una consultazione referendaria, che ha dato esito positivo in Austria, Svezia e Finlandia: in Norvegia, invece, il referendum tenutosi il 28 novembre 1994 ha portato ad una nuova bocciatura (dopo quella del 1972) della possibile adesione all’Unione Europea.

Dal 1° gennaio 1995 gli Stati membri sono passati da 12 a 15.

 

6. IL TRATTATO DI AMSTERDAM.

A) La conferenza intergovernativa e l’approvazione del trattato.

Come era stato stabilito dalle disposizioni finali del Trattato di Maastricht, il 29 marzo 1996 i capi di Stato e di governo degli Stati membri si sono riuniti per fare il punto della situazione e proporre alcune modifiche al trattato.

A conclusione del Consiglio europeo di Amsterdam del 18 giugno 1997 è stato raggiunto un accordo su un nuovo trattato per l’Europa.

Frutto dei lavori svolti dalla conferenza intergovernativa (CIG) dal marzo 1996 al giugno 1997 il trattato di Amsterdam è stato ufficialmente firmato il 2 ottobre 1997 ed è entrato in vigore il 1° maggio 1999.

Il nuovo trattato ha introdotto sostanziali modifiche ed integrazioni ai trattati delle Comunità europee ed al Trattato sull’Unione in vista dell’allargamento della CE verso i Paesi dell’Europa orientale.

B) Le modifiche al primo pilastro.

La più importante novità introdotta dal Trattato di Amsterdam nell’ambito delle politiche comunitarie è sicuramente l’impegno assunto per la promozione di un più alto livello occupazionale; nel Trattato istitutivo della Comunità europea è stato aggiunto un nuovo titolo interamente dedicato alle problematiche occupazionali, con il quale, pur ribadendo che la responsabilità in materia di occupazione è posta principalmente a carico degli Stati membri, si tenta di introdurre un coordinamento anche a livello europeo.

Un altro capitolo dedicato al mondo del lavoro è quello relativo alla politica sociale, finora relegata in un protocollo allegato al Trattato sull’Unione e che ora entra a far parte a pieno titolo delle politiche comuni, essendo cadute tutte le obiezioni britanniche.

Altre modifiche hanno riguardato la politica ambientale, la sanità pubblica e la tutela dei consumatori.

Per quel che riguarda le modifiche istituzionali, esse rappresentano indubbiamente un campo nel quale con il Trattato di Amsterdam non sono stati raggiunti risultati particolarmente incoraggianti.

Ciononostante alcune novità sono state inserite nel testo del nuovo accordo:

  • il Parlamento europeo diventa un vero e proprio co-legislatore dell’Unione, dal momento che la procedura di codecisione, introdotta dal Trattato di Maastricht, trova una generalizzata applicazione, con la sola eccezione delle questioni concernenti l’unione economica e monetaria, per la quale continuerà ad applicarsi la procedura di cooperazione;
  • allo scopo di snellire il processo decisionale le ipotesi nelle quali il Consiglio vota a maggioranza qualificata (e non all’unanimità) sono estese anche ad altre settori, in particolare orientamenti e misure d’incentivazione in materia di occupazione, sanità pubblica, ricerca e sviluppo tecnologico, ecc.,
  • il Presidente della Commissione assume un ruolo sempre più incisivo, come figura di guida e impulso dell’operato dell’intero organo.

 

C) Le modifiche al secondo pilastro.

Gli scarsi risultati raggiunti nel campo della politica estera e di sicurezza comune costituisce indubbiamente uno dei maggiori fallimenti del Trattato di Amsterdam. Sebbene estremamente limitate rispetto alle iniziali aspettative, non mancano comunque anche in questo settore rilevanti novità. In particolare:

  • è previsto che l’Unione possa adottare strategie comuni per le azioni da intraprendere nell’ambito della politica estera, fissando gli obiettivi, la durata e i mezzi che gli Stati membri devono mettere a disposizione per il perseguimento dell’azione fissata;
  • viene introdotto il principio dell’astensione costruttiva, che potrebbe consentire una più efficace azione da parte degli Stati membri;
  • tra le priorità dell’azione comunitaria rientrano le missioni umanitarie, di soccorso e di mantenimento della pace, secondo le indicazioni contenute nella dichiarazione di Petersberg;
  • viene creata una cellula di programmazione politica e di tempestivo allarme, che avrà il compito di individuare le zone di conflitto potenziale e anticipare eventuali situazioni di crisi.

 

D) Le modifiche al terzo pilastro.

Le più importanti novità del Trattato di Amsterdam sono sicuramente quelle che hanno radicalmente trasformato la cooperazione in materia di giustizia e affari interni. Coerentemente con un’indicazione già contenuta nel Trattato di Maastricht, quasi tutti i settori che rientravano nell’ambito del terzo pilastro sono ora stati trasferiti nel primo pilastro, comunitarizzando materie che in precedenza erano trattate esclusivamente in ambito intergovernativo (rilascio di visti, concessione di asilo, azione comune in materia di immigrazione, cooperazione doganale, cooperazione giudiziaria in materia civile e più in generale tutte le questioni attinenti alla libera circolazione delle persone).

In seguito al completamento del processo di comunitarizzazione, nell’ambito del terzo pilastro restano soltanto le disposizioni concernenti:

la cooperazione tra le forze di polizia, le autorità doganali e le altre autorità competenti degli Stati membri;

la cooperazione giudiziaria in materia penale, in particolare per quanto riguarda l’esecuzione di sentenze di altri Stati, la facilitazione dell’estradizione e la prevenzione dei conflitti di giurisdizione;

la progressiva adozione di misure per la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e delle sanzioni, per quanto riguarda la criminalità organizzata, il terrorismo e il traffico illecito di stupefacenti.

La radicale modifica delle disposizioni contenute nel titolo VI del Trattato sull’Unione europea si riflette anche nella nuova denominazione introdotta dal Trattato di Amsterdam: non più cooperazione in materia di giustizia e affari interni, ma cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale.

 

E) La cooperazione rafforzata.

La possibilità che per alcune politiche il processo di integrazione europea proceda secondo ritmi e scadenze diverse da Stato a Stato è ormai un fatto acquisito in ambito comunitario; negli ultimi anni si sono moltiplicati i casi in cui uno o più membri dell’Unione non hanno partecipato all’attuazione di determinate politiche sia per cause oggettive (è, ad esempio, il caso della Grecia, fino al 31 dicembre 2000, rispetto all’unione monetaria) che per una decisione autonoma (è, ad esempio, il caso della Danimarca e della Gran Bretagna sempre rispetto all’unione monetaria).

La novità del Trattato di Amsterdam è quella di aver in qualche modo istituzionalizzato la facoltà di procedere ad una integrazione differenziata, attraverso il meccanismo della cooperazione rafforzata; in pratica si sancisce il diritto per quegli Stati membri che intendono perseguire determinate politiche comuni a procedere anche in assenza di una volontà comune di tutti i membri.

L’idea sottesa all’affermazione del principio della cooperazione rafforzata è chiara; si tenta infatti di legare il processo di integrazione europea al ritmo imposto dagli Stati più dinamici, superando le difficoltà frapposte dai Paesi meno entusiasti. È altrettanto chiaro però che un utilizzo indiscriminato di tale facoltà potrebbe accentuare ulteriormente il divario tra gli Stati membri e creare non pochi problemi di ordine politico e giuridico. Il rischio è quello di favorire quel fenomeno che nel linguaggio comunitario viene definito Europa à la carte, intendendosi con tale espressione la possibilità che ciascuno Stato membro decida di partecipare soltanto alle politiche di suo interesse, perdendo di vista la globalità del processo di integrazione.

 

F) Semplificazione e codificazione dei trattati.

Nel corso degli anni i Trattati istitutivi delle Comunità europee sono stati più volte modificati sia dai vari atti approvati successivamente (Trattato sulla fusione degli esecutivi, Atto Unico europeo, Trattato di Maastricht, lo stesso Trattato di Amsterdam, ecc.) che dai diversi trattati di adesione; inoltre molte delle disposizioni approvate negli anni ’50 risultavano ormai del tutto superate, come ad esempio quelle che disciplinavano nel dettaglio le varie fasi dell’unione doganale.

Con il Trattato di Amsterdam si è proceduto ad un’opera di razionalizzazione e semplificazione di questo groviglio di disposizioni; la seconda parte del nuovo trattato è interamente dedicata a questa operazione. Con gli articoli 6, 7 e 8 sono state abrogate tutte le disposizioni ormai obsolete e sono stati corretti tutti gli errori puramente formali presenti nei trattati istitutivi, mentre con l’articolo 12 è stata introdotta una nuova numerazione degli articoli secondo tabelle di corrispondenza allegate al Trattato di Amsterdam, con conseguente adattamento di tutti i riferimenti incrociati; quest’opera di semplificazione ha portato alla stesura di una versione consolidata del Trattato di Maastricht e del Trattato istitutivo della Comunità europea.

 

7. IL TRATTATO DI NIZZA.

Uno dei nodi irrisolti con l’approvazione del Trattato di Amsterdam era il nuovo assetto istituzionale da dare all’Unione europea in previsione del futuro allargamento che porterà ad un’Europa con 27 (o 28) Stati membri.

Il problema era quello di dotare le istituzioni comunitarie di procedure decisionali più semplici ed efficaci. Con l’attuale iter, infatti, spesso l’adozione degli atti in determinati settori risulta un’operazione laboriosa, a causa degli ostracismi dei diversi Stati membri; con una Unione allargata si potrebbe arrivare alla completa paralisi del processo di integrazione.

Proprio per dare una risposta a questi problemi il 14 febbraio 2000 è stata convocata una nuova conferenza intergovernativa, incaricata di elaborare una bozza di trattato contenente le necessarie modifiche istituzionali in vista dell’allargamento dell’Unione. I lavori si sono conclusi nel corso del Consiglio europeo del 7-9 dicembre 2000 e gli Stati membri hanno potuto ufficialmente procedere alla firma del Trattato di Nizza il 26 febbraio 2001.

Il nuovo testo apporta ai trattati preesistenti modifiche estremamente tecniche, ma indispensabili per delineare il nuovo equilibrio istituzionale dell’Unione. A differenza dei precedenti trattati non fissa nessun obiettivo di ampio respiro (come poteva essere la realizzazione dell’unione doganale per il Trattato di Roma, il mercato interno per l’Atto Unico o la moneta unica per il Trattato di Maastricht) ma delinea un quadro istituzionale dell’Unione che le consenta di assorbire il più grande allargamento della sua storia.

Tra le novità più significative introdotte dal trattato ricordiamo:

  • la nuova ripartizione del numero di rappresentanti degli Stati membri nelle istituzioni e negli organi comunitari (Parlamento, Commissione, Consiglio economico e sociale, Comitato delle Regioni), in vista dell’allargamento dell’Unione. Per il Consiglio, invece, è stata introdotta una nuova ponderazione dei voti;
  • l’ampliamento dei poteri del Presidente dell’a Commissione europea, che ora si vede attribuito un vero e proprio potere direttivo sul collegio, con la possibilità di decidere sulla struttura interna, sulla nomina dei vicepresidenti e con la facoltà di richiedere le dimissioni di un Commissario;
  • una drastica riduzione dei casi in cui il Consiglio deve deliberare all’unanimità. Con il nuovo trattato la regola per l’adozione delle decisioni in seno al Consiglio è costituita dalla votazione a maggioranza qualificata, mentre restano residuali le ipotesi di votazione con il consenso di tutti gli Stati membri;
  • le modifiche all’ordinamento giudiziario comunitario. Per poter assorbire l’aumentato carico di lavoro la competenza del Tribunale di primo grado è estesa anche ad altre materie in precedenza di esclusiva competenza della Corte. In pratica si viene a creare un vero e proprio doppio grado di giurisdizione tra il Tribunale e la Corte. Sempre nell’ottica dello snellimento, è stato introdotto un nuovo articolo che fornisce la base giuridica per la creazione di sezioni giurisdizionali specializzate incaricate di esercitare, in settori specifici, le competenze giurisdizionali previste dal trattato. In quest’ultima ipotesi il Tribunale di primo grado diventerebbe una giurisdizione di appello;
  • l’introduzione di una procedura di preavviso nel caso in cui siano constate violazioni dei diritti fondamentali da parte di uno Stato membro. Prima di adottare decisioni gravi, infatti, il Consiglio può, dopo aver sentito lo Stato interessato, rivolgergli appropriate raccomandazioni;
  • uno snellimento delle procedure per poter procedere ad una cooperazione rafforzata, attraverso la soppressione del diritto di veto in precedenza attribuito agli Stati membri.

 

8. L’UNIONE MONETARIA E L’INTRODUZIONE DELL’EURO.

La realizzazione dell’unione economica e monetaria rappresenta uno degli obiettivi più significativi del Trattato di Maastricht. Quest’ultimo, riprendendo le indicazioni contenute nel rapporto Delors, ha scandito il processo di integrazione monetaria attraverso fasi successive che sono culminate nell’adozione di una moneta unica europea, l’euro.

Durante la prima fase, che ha avuto inizio il 1° luglio 1990 e si è conclusa nel 1993, è stato completamente liberalizzato il movimento dei capitali con la conseguente necessità di un maggiore coordinamento tra le politiche monetarie degli Stati membri, obiettivo principale della seconda fase.

Dal 1° gennaio 1994 al 31 dicembre 1998, infatti, gli Stati membri hanno cercato di far convergere le loro economie attraverso il rispetto di quattro criteri stabiliti dal protocollo allegato al Trattato di Maastricht: inflazione, finanze pubbliche, tassi d’interesse e moneta nazionale. Il controllo del rispetto dei parametri stabiliti dal trattato è stato affidato ad un istituto ad hoc, l’IME, che il 25 marzo 1998 ha pubblicato un rapporto sullo stato di convergenza fra i paesi dell’Unione.

Sulla base di questo documento, unitamente alla relazione della Commissione europea che ha raccomandato al Consiglio i Paesi che a suo giudizio hanno soddisfatto i criteri di convergenza, durante il vertice dei Capi di Stato e di governo tenutosi a Bruxelles dall’1 al 2 maggio 1998 sono stati scelti gli Stati che potevano adottare la moneta unica sin dall’inizio della terza fase. Nella stessa sede si è proceduto anche alla nomina del Presidente della BCE e alla fissazione dei tassi di cambio bilaterali tra le monete degli Stati partecipanti.

La terza fase dell’UEM è iniziata il 1° gennaio 1999 con la fissazione dei tassi di cambio irrevocabili tra l’euro e le valute partecipanti. Da quella data è partita una lunga fase di transizione che si è conclusa il 1° gennaio 2002 quando la nuova moneta è entrata materialmente in circolazione.

 

9. L’ALLARGAMENTO.

A partire dal 1° maggio 2004 l’Unione europea è passata da quindici membri a venticinque, con un cambiamento destinato a modificare non solo l’aspetto dell’Unione stessa, ma anche la percezione dell’Europa come realtà economica e geopolitica. Nulla di simile era successo con gli allargamenti preceddenti. Il primo di essi, nel gennaio 1973, aveva visto la CEE passare dai sei stati fondatori a nove membri: Regno Unito, Irlanda e Danimarca (la Norvegia, che aveva aderito in un primo tempo, poi rinunciò dopo un referendum popolare) aumentavano le potenzialità commerciali della Comunità rendendola di fatto la prima potenza commerciale mondiale: su un totale mondiale di 300.000 milioni di dollari di scambi commerciali, la nuova CEE da sola ne rappresentava ben 112.000 milioni, diventando il primo mercante del pianeta. Tuttavia la sorpresa in quel caso era minore: si trattava di un allargamento a lungo atteso, fermato per ben due volte dal veto di Charles de Grulle all’ingresso della Gran Bretagna nella CEE (nel 1963 e nel 1967), ma destinato comunque a giungere in porto. Neppure i successivi allargamenti (Grecia nel 1981 e Spagna e Portogallo nel 1986) avevano squilibrato troppo le dinamiche interne della Comunità, ridimensionando semmai il ruolo delle produzioni agricole nordiche a favore di quelle più propriamente mediterranee. Tali allargamenti erano stati assorbiti agevolmente dalla Comunità, anche se si trattava di paesi meno sviluppati degli altri membri. Ancora meno problemi sono stati causati dall’ingresso di Austria, Svezia e Finlandia nel 1995, ponendo termine alla farsa della neutralità austriaca, prodotto della seconda guerra mondiale, e inserendo i paesi scandinavi nel circuito commerciale continentale a pieno titolo. Infine –lo consideriamo un “allargamento” anche se sui generis- nel 1989-1990 si è avuta la riunificazione tedesca, con un’area paragonabile a 5 volte il Belgio che è ritornata a far parte della Repubblica federale di Germania ponendo fine alla divisione del 1948-49.

 Ma stavolta si tratta di qualcosa di diverso, un evento “storico” non solo a parole. I dieci paesi si sono presentati alla porta dell’Unione europea con un fardello di problemi e di sottosviluppo neppure lontanamente paragonabile a quello a suo tempo affrontato dal Piano Marshall statunitense, lanciato nel 1947 per salvare il continente dalle conseguenze della guerra. I nuovi arrivati non sono fattori di rafforzamento commerciale-economico dell’Unione, come nel caso degli allargamenti precedenti: hanno da chiedere più di quanto non possano dare. Se si prendono come termine di paragone i dati 1999 del PIL pro capite dei quindici paesi membri, ponendo il valore medio a 100, si vede che i quindici dell’Unione si collocano in un range che va dal 189 del Lussemburgo al 66 della Grecia, con solo tre paesi al di sotto della media: Spagna (84), Portogallo (69) e, appunto, la Grecia. I nuovi entrati sono in una condizione ben differente: Lettonia, Lituania e Polonia stanno intorno al 30, Estonia e Slovacchia intorno al 40, Malta, Ungheria e Repubblica Ceca dal 55 al 60 e solo Cipro e Slovenia sopra il 70.

Al di là delle cifre nude e crude e considerando comunque i limiti di ogni calcolo statistico, questo significa in altre parole che il compito principale dell’Unione nei prossimi anni sarà [fu] di raddoppiare il reddito di circa ottanta milioni di persone, garantendo allo stesso tempo che tale aumento non si traduca in sperequazioni, nuove ingiustizie, la creazione di caste di nuovi ricchi e di masse di vecchi poveri, solo meno poveri rispetto alle condizioni sperimentate durante gli anni del socialismo reale.

Purtroppo, l’esperienza insegna che il passaggio dal socialismo reale al “capitalismo reale” non sempre è garanzia di maggiore giustizia sociale e di aumento del tenore di vita; un aumento di benessere è sempre indubbio ma il più delle volte, come nella Russia e in alcuni paesi già parte dell’ex Unione Sovietica, esso si è concentrato nelle mani di pochi abili, fortunati, furbi o profittatori, toccando solo marginalmente il sistema economico nel suo complesso e introducendo lentamente e a fatica quelle elementari regole di tutela e di garanzia dei cittadini lavoratori che sono una delle conquiste principali dell’Europa occidentale.

La Commissione, vero motore e artefice principale dell’allargamento, sin dai tempi di Jacques Delors e poi con Romano Prodi, ha più volte richiamato il principio della tutela dei diritti politici ed economici, ponendolo come uno dei presupposti fondamentali per dare il via all’ingresso di un candidato nell’Unione. Monitorando una serie di parametri applicati alla realtà dei paesi candidati, l’adesione diventa un cammino a tappe, rappresentato da tante caselle che vanno spuntate prima di poter entrare a far parte dell’Unione a pieno titolo.

L’allargamento incide direttamente non solo sulla composizione dell’Unione e sugli equilibri istituzionali ma anche sulle politiche di coesione e sugli aiuti strutturali ai quali siamo abituati dagli anni ’80 in poi: in altre parole, si tratta di quegli interventi che hanno permesso a paesi come la Spagna e il Portogallo di colmare il loro deficit di sviluppo nel giro di una decina di anni e hanno portato nel Meridione italiano una grande quantità di contributi non sempre impegnati in maniera oculata o convincente; sono i contributi del Fondo sociale europeo; i sostegni alla formazione e all’aggiornamento; i fondamentali contributi agricoli per mantenere i prezzi delle produzioni europee artificiosamente alti e redditizi per gli agricoltori francesi e tedeschi e olandesi. Tutto questo sistema complesso e frutto di innumerevoli negoziati e confronti verrà riorganizzato, ed è logico che sia così: se fino a oggi il limite di reddito medio di una regione o di un’area depressa per accedere ai contributi europei è stato del 75% rispetto alla media europea, è chiaro che l’arrivo di paesi che si presentano con redditi pari al 30 o al 40% della media ridisegna i valori verso il basso e fa diventare improvvisamente ricco, in termini relativi, chi prima era arretrato.

Questo apre dei fronti di discussione e propone il tema della solidarietà attiva all’interno dell’Unione verso paesi interi con carenze importanti nello sviluppo.

Allo stesso modo si presenta il problema del costo intrinseco per ovviare ai danni del passato. Basti pensare solo all’inquinamento, con paesi come la Romania o la Polonia che presentano aree industriali che sono vere e proprie bombe ecologiche. Per non parlare dei ritardi nel campo della formazione scolastica e accademica, della necessità di differenziare le produzioni industriali portando alla chiusura di quelle poco convenienti –producendo quindi ulteriore disoccupazione che va assorbita e affrontata da chi impone la chiusura, non da chi la subisce. Si tratta di mutamenti che ogni paese della CEE ha vissuto a suo tempo (ad esempio, la vicenda della siderurgia in Italia o il trauma della chiusura delle miniere di carbone in Gran Bretagna nel 1980-1990), ma diluendoli in tempi relativamente lunghi. Nei paesi appena entrati invece, proprio per la dimensione dei problemi e per la drasticità degli interventi richiesti dalla situazione, vi sarà meno tempo per assorbire i traumi, e meno tempo anche in Occidente per intervenire in maniera efficace. Questo vale a maggior ragione per altri due paesi che sono in predicato per l’adesione cioè la veterana Turchia e la Croazia.

Tutto questo non mette in discussione il processo di integrazione, ma deve contribuire a renderlo un processo responsabile e non ubbidiente solo alle leggi del clamore politico o della “storia che si deve fare”. Non sta scritto da nessuna parte che il processo di integrazione europea dall’Atlantico agli Urali sia una necessità storica; come ogni processo evolutivo esso ha delle leggi che si formano via via che il processo si compie e un costo totale che si può quantificare solo ogni volta che una fase si è conclusa e si fa un primo bilancio delle perdite e dei guadagni. Esso risponde a degli interessi che non sono solo economici, e non deve ubbidire solo a leggi di mercato; coinvolge riferimenti culturali, come le lingue, provoca un confronto tra sistemi giuridico-sociali e soprattutto mette in gioco quell’agire impalpabile che in modo conscio o inconscio si manifesta in ciascuno di noi nel valutare ciò che gli accade intorno: l’esperienza, il vissuto personale, la conoscenza diretta. Su quest’ultimo punto di vista, non si può dire che la media dei cittadini dell’Unione abbia una conoscenza approfondita dei nuovi arrivati: in media solo il 34% dei cittadini dei “quindici” dichiara di conoscere almeno uno dei nuovi paesi dell’UE. Si va dall’81% degli austriaci –evidentemente favoriti dalla vicinanza dell’Ungheria- all’8% dei portoghesi. L’Italia, paese europeista per definizione, si pone al 21%, come i francesi. Pare incredibile che a dieci anni dalla caduta del muro di Berlino, 8 italiani su dieci non abbiano mai visitato un paese di quella che una volta si chiamava l’Europa “oltre-cortina”. La Commissione però tranquillizza e invita al confronto: “L’ignoto è spesso fonte di preoccupazioni. Incontrare i nostri vicini ci dimostrerà che essi sono più simili a noi di quanto immaginiamo, in termini di speranze e di aspirazioni.

 

10. I “PRINCIPI COSTITUZIONALI” DELL’UNIONE.

Anche per la nuova dimensione dell’Unione, ha un senso domandarsi qual è il suo ethos ideale. Quali i diritti fondamentali, i doveri e gli obiettivi proclamati nei trattati che, dal 1957 in poi, hanno segnato la marcia dell’integrazione comunitari e che infine sono stati integrati, prima in una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, quindi nel progetto di trattato istitutivo della Costituzione europea.

Sotto questo profilo, la CEE che era succeduta alla CECA nel 1957 presentava delle novità di rilievo rispetto alle costruzioni istituzionali che solitamente scaturivano dai trattati internazionali. Prima di tutto, essa non prevedeva una scadenza, ma aveva durata illimitata; i suoi obiettivi erano principalmente quelli di instaurare un mercato comune tra i sei paesi firmatari, ispirato ai principi di un’economica aperta e in libera concorrenza, attraverso il rispetto di quattro libertà fondamentali, la libertà di circolazione delle merci, dei servizi, delle persone e dei capitali. Più in generale però, ci si proponeva di favorire “uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche nell’insieme della Comunità, un’espansione continua ed equilibrata, una stabilità accresciuta, un miglioramento sempre più rapido del tenore di vita e più strette relazioni fra gli stati che a essa partecipano” (art. 2 Trattato CEE). Come si vede, non si trattava solo di enunciazioni relative all’ambito economico, ma anche di un più generale “programma” di promozione del benessere delle popolazioni europee. Bisognava però attendere la firma dell’Atto unico e soprattutto del Trattato di Maastricht perché nei principi ispiratori entrassero anche “valori” più strettamente attinenti alla sfera della politica.

Il preambolo dell’Atto unico parla infatti per la prima volta di “Unione Europea”, di cooperazione in politica estera, di promozione della democrazia all’interno dei paesi membri, di difesa dei diritti umani, di libertà, uguaglianza e giustizia sociale. Tali valori positivi sono accostati poi a un altro principio, che non è quasi mai ricordato a questo proposito: quello dell’”indipendenza” dell’Europa, intesa come una realtà politica unitaria, e non più come un insieme di stati che devono difendere, separatamente, la propria indipendenza.

Questo rivolgersi anche ai valori della politica, prima assenti, poi corollario, e infine funzione dell’integrazione economica, è stato definitivamente sancito nel Trattato di Maastricht. Esso infatti considera acquisiti i risultati dell’integrazione economica, da approfondire con il raggiungimento della completa unione economica e monetaria, per rivolgersi quindi a valori come “l’identità europea” sulla scena internazionale, la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dell’Unione mediante una cittadinanza comune, la considerazione dell’Unione come “spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alla frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest’ultima”. Inoltre, altro punto fondamentale nel Trattato di Maastricht, è l’affermazione del principio della sussidiarietà, secondo il quale ogni problema va affrontato al livello di governo più “basso” possibile, cioè il più vicino ai cittadini, sottolineando così il valore e il rispetto delle autonomie “primarie” (enti locali, regioni, stati membri) nel processo decisionale.

Questi “principi costituzionali”, dal Trattato di Roma a quello di Nizza, hanno avuto tuttavia un’applicazione diversificata. Ad esempio, il principio della cittadinanza comune attende ancora di essere realizzato in tutte le sue implicazioni, ma già da adesso ogni cittadino di un paese dell’Unione è garantito dalle rappresentanze consolari e diplomatiche degli altri paesi membri, qualora si trovi all’estero senza la protezione diplomatica del proprio paese; sono invece lontani altri aspetti connessi alla parola “cittadinanza”: il pagamento delle imposte direttamente all’Unione oltre che al proprio paese, oppure un servizio militare europeo. L’approvazione della Carta dei diritti dell’Unione europea, presentata durante il vertice di Nizza, nel 2001, non ha modificato di molto la situazione dei “diritti politici” dei cittadini dell’Unione: raccogliere in un testo i “diritti” comunemente garantiti nelle costituzioni occidentali (libertà di movimento, diritto alla salute, diritto al lavoro, ecc.) è stato considerato un passo molto importante per creare un preambolo della futura Carta costituzionale dell’Unione, ma tale riconoscimento ha un valore puramente simbolico. La Carta è quindi destinata –come parte II della Costituzione dell’Europa- ad avere un senso solo all’interno di un testo più organico e complessivo.

Il trattato costituzionale, attualmente in fase di stand by dopo la bocciatura dei referendum in Francia e nei Paesi Bassi, ha totalmente recepito i “diritti dell’Unione” indicati nella Carta e ne ha ampliato la portata, aprendosi con la definizione dei principi dell’Unione: “il valore della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, […] i diritti delle persone appartenenti a una minoranza. […] in una società fondata sul pluralismo, sulla non discriminazione, sulla tolleranza, sulla giustizia, sulla solidarietà e sulla parità tra donne e uomini” (art. I-1 del Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa). Se il Trattato venisse ratificato, il quadro di riferimento per la tutela dei diritto fondamentali potrà dirsi maturo e pressoché completo.

Sotto un altro aspetto, quello economico, è completamente assicurata la libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone, anche grazie all’acquisizione della Convenzione di Schengen (1995) nell’insieme della legislazione dell’Unione. Questi accordi, sottoscritti nel tempo da Austria, Belgio, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, definiscono un sistema di cooperazione articolato che prevede tra l’altro la cooperazione tra polizie; concretamente, per i cittadini dei paesi aderenti, ha significato la progressiva eliminazione di ogni controllo tra le frontiere interne: oggi essi possono spostarsi tra gli stati membri con la stessa semplicità con la quale si spostano all’interno del proprio paese. Tuttavia, anche in questo ambito rimangono ancora notevoli incertezze e ritardi sul controllo contro i traffici internazionali e il crimine organizzato.

Nel caso dei principi enunciati dai trattati istitutivi dell’Unione (da Maastricht in poi), si assiste in definitiva a una riedizione aggiornata di quella distinzione che segnò i primi anni di vita della Costituzione italiana: la divisione in norme “precettive” e norme “programmatiche”, cioè in norme che vincolano a un comportamento e altre che possono essere tenute come “principio generale”, in attesa di un’applicazione concreta. Cittadinanza europea, libera circolazione, equità, giustizia sociale, spazio di libertà sono affermazioni impegnative, che l’Unione cerca di attuare non di rado scontrandosi con i vincoli imposti dalle legislazioni nazionali e da strutture sociali diverse e complesse. Se mai è esistita una Costituzione in divenire, questa è quindi quella europea, che si sviluppa attraverso il consolidamento della “doppia appartenenza e fedeltà” dei cittadini alle istituzioni nazionali e a quelle comunitarie, in un bilancio che fa segnare ancora molti punti a favore della dimensione nazionale: almeno fino a che, per esempio, non diverrà prassi comune da parte dei cittadini rivolgersi agli organi giurisdizionali dell’Unione nel caso di violazioni di norme dei trattati europei e almeno finché le istituzioni comunitarie verranno considerate non un mondo lontano ma elementi decisivi nel determinare le nostre condizioni di vita.

 

FINE.

 

 

 

LIBRO: L’UNIONE EUROPEA.

 

CAP. 1: UN PO’ DI STORIA DAL 1945 A OGGI.

 

La ricostruzione all’ombra degli USA.

L’Europa che si sveglia tra le macerie del maggio 1945 è molto diversa dall’orgoglioso insieme di stati nazionali che aveva dato il via, nel settembre 1939, al secondo grande conflitto mondiale combattuto in meno di trent’anni sul suolo europeo. La Germania era divisa in due zone d’occupazione, una controllata dia sovietici (che darà vita nel 1949 alla Repubblica democratica tedesca) e un’altra sotto il controllo degli Alleati occidentali (che sempre nello stesso anno diverrà la Repubblica federale tedesca); le strutture industriali e civili erano state letteralmente rase al suolo e, in confronto con essa, altri paesi come l’Italia e la Francia registravano danni relativamente lievi, ma erano rimasti ben più colpiti dalle tragiche vicende della guerra civile interna. Come conseguenza di tutto questo, sembrava si fosse avverata la profezia politica che il francese Alexis de Tocqueville aveva avanzato un secolo prima: il centro politico e militare del mondo non era più il vecchio continente, ma era più o meno equamente diviso tra due nuovi soggetti: gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica.

L’Europa si scopre povera, affamata, percorsa da fiammate di risentimento e di odio verso la Germania, con masse di militari da inserire nella vita civile, con il pesante fardello di anni e anni di economia di guerra. Grande fame: non esiste altra espressione per descrivere lo stato dell’Europa “anno zero”. E accanto alla grande fame la grande paura: la pressione espansionistica dell’Unione Sovietica, giocata strategicamente sia sul piano militare sia su quello ideologico. Nel 1945 tutto portava a credere che l’espansione verso ovest dell’URSS non si sarebbe fermata ai vecchi confini del 1939, ma sarebbe andata ben oltre (gli scenari strategici dei wargames elaborati nel 1950 dai generali statunitensi della NATO, davano per scontata la perdita, in caso di conflitto con l’URSS e i suoi alleati, di tutta la Germania e della Renania, nonché della Valle Padana).

Di fronte a tale minaccia, gli Stati Uniti sostituirono rapidamente la Gran Bretagna nel ruolo di tutori dell’ordine europeo. Ma mentre la Gran Bretagna aveva per anni sviluppato una politica europea basata sulla creazione e il mantenimento dell’equilibrio tra le potenze continentali, gli USA non avevano una politica europea di lunga tradizione e si trovarono poco preparati di fronte alla pesante responsabilità di organizzare la difesa del continente.

L’idea di unificare l’Europa politicamente ed economicamente, che aveva avuto durante la guerra e la resistenza i suoi profeti e i suoi progetti, parve essere in quel momento una scelta a portata di mano. Le numerose tendenze antifasciste che avevano proposto l’unificazione dell’Europa erano diffuse in tutti i paesi del continente e avevano coerentemente lottato non solo per l’abbattimento del totalitarismo europeo, ma anche per l’unificazione del continente quale unico antidoto al risorgere dei fascismi. Per l’Italia basti ricordare Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, due antifascisti con matrici politiche diverse (Spinelli, un ex comunista espulso nel ’37 dal PCI perché critico verso lo stalinismo; Rossi, uno degli esponenti più in vista del movimento socialista liberale “Giustizia e Libertà” di Carlo Rosselli e Gaetano Salvemini). Essi, durante la loro detenzione nell’isola di Ventotene, avevano scritto il documento per un’Europa federale che poi diverrà noto come Manifesto di Ventotene (1941). In Francia si pronunciarono apertamente per la federazione europea personaggi come Albert Camùs ed Emmanuel Mournier, nonché gran parte del socialismo moderato, riuniti entrambi nel Comité Français pour la Fédération Européenne; in Inghilterra poi era sorto sin dagli anni ’30 un vivace movimento intellettuale –Federal Union- che aveva riflettuto a fondo sul problema del federalismo europeo e l’idea trovava una buona accoglienza anche in settori del Labour Party. Altri movimenti e tendenze europeiste esistevano in Olanda, Norvegia, Danimarca, Polonia, persino nella piccola Albania (due albanesi confinati dal fascismo a Ventotene, Stavo Skendi e Lazar Fundo, presero parte attiva alle discussioni che precedettero la stesura del Manifesto di Ventotene). Immediatamente dopo la guerra anche gli stessi Stati Uniti, gli unici reali vincitori del conflitto, si pronunciarono, con una mozione del Congresso, a favore degli “Stati Uniti d’Europa” quale formula per il riordino postbellico del continente.

La riorganizzazione dell’Europa però non seguì la via del federalismo (che prevede, per dirla in breve, che ogni stato abdichi a una parte dei suoi poteri sovrani in materia di politica estera, difesa, moneta, politica economica, a favore della federazione, la quale li gestisce in maniera esclusiva), ma si basò sulla ricostruzione istituzionale degli stati nazionali preesistenti al conflitto, gelosi custodi delle loro prerogative. Questo fu dovuto sia alla tradizione storica europea (che aveva sì visto tentativi di unificazione politica, ma frutto esclusivamente di manovre da parte di uno stato per imporre la sua egemonia su tutto il continente), sia soprattutto alla resistenza degli apparati burocratici e politici nazionali, che ritennero l’idea dell’unificazione europea un salto nel buoi, un passo affrettato e preferirono continuare a mantenere i consueti punti di riferimento.

La situazione postbellica e il sorgere della guerra fredda misero ben presto in chiaro che u’Europa priva di istituzioni comuni e basata unicamente sugli stati era un progetto impraticabile, forse quanto l’idealismo rimproverato a chi sperava di unificare immediatamente il continente dopo la sconfitta della Germania. Gli Stati Uniti furono i primi a rendersene conto. Favorevoli all’unificazione economica dell’Europa, essi la vedevano anche come l’unico mezzo per bilanciare la pressione espansionistica dell’URSS e quindi, per tutto il periodo 1945-1954, essi furono entusiasti sostenitori dei primi tentativi di integrazione settoriale che gli stati europei misero in cantiere. Lo stesso Piano Marshall, annunciato nel giugno ’47 dal Segretario di stato americano, aveva come obiettivo quello di favorire l’integrazione economica dell’Europa e, in prospettiva, quella politica. L’intento del piano statunitense era squisitamente politico. Un’Europa impoverita sarebbe stata facile preda di movimenti insurrezionali comunisti o fiancheggiatori, e gli USA erano ormai coscienti di quanto la loro stabilità economica e prosperità dipendessero dalla mancanza di tensioni nel Vecchio Continente e da un sistema commerciale internazionale libero da protezionismi. Il Piano Marshall prevedeva quindi la fornitura ai paesi europei da parte degli USA di beni che andavano dagli indumenti alle derrate alimentari (più del 50% delle importazioni previste per il quadriennio 1948-52) e per il restante combustibili, fertilizzanti, attrezzature industriali, mezzi di trasporto. Il tutto per un ammontare previsto oscillante tra i 20.024 e i 22.686 milioni di dollari a prezzi correnti. Tale imponente massa di importazioni necessarie per la ripresa dell’Europa sarebbe stata fornita solo in parte con la formula del prestito; la maggior parte era prevista sotto forma di grants in aid, vale a dire assegnazioni gratuite contro precisi impegni sul loro utilizzo, la formula che era stata alla base degli interventi del New Deal rooseveltiano.

Non mancava certamente nel Piano Marshall una vena filantropica (che alcuni hanno poi enfatizzato), ma soprattutto vi era un interesse preciso alla stabilità del sistema europeo nella parte sotto l’influenza degli Alleati angloamericani. E stabilità voleva dire efficienza nella gestione degli aiuti. E tale efficienza non poteva essere raggiunta se non coordinando e armonizzando strettamente le economie dei sedici paesi che aderirono all’iniziativa americana. Si ponevano insomma le basi per un’unificazione economica dell’Europa.

La risposta europea fu deludente. I sedici paesi interessati al Piano si riunirono in Conferenza a Parigi e furono estremamente chiari nell’esporre la sommatoria delle necessità materiali per la loro ricostruzione. Ma furono molto meno decisi sul piano della risposta “politica” al nocciolo della proposta statunitense. Se unificare le economie voleva dire rinunciare a porzioni importanti di sovranità, gli stati europei non ne volevano sapere. Le diplomazie preferivano rimanere sul piano della collaborazione tra stati sovrani, con concessioni verbali al “comune interesse” ma poco più.

La minaccia sovietica e la necessità di superare le contrapposizioni tra gli stati europei, che avevano portato a due guerre mondiali, si incaricarono di spingere nella direzione auspicata dagli Stati Uniti. Già nel settembre 1946 Churchill aveva pronunciato all’Università di Zurigo un discorso che era un appello alla “riconciliazione” franco-tedesca e un invito alla costruzione degli Stati Uniti d’Europa. Nel dicembre q946 era sorta a Parigi l’Unione europea dei federalisti (UEF) che riuniva i movimenti federalisti dell’Europa occidentale. Tra le forze politiche le iniziative si erano moltiplicate dal maggio al giugno del 1947: Winston Churchill fondava in Gran Bretagna lo United Europe Movement, di tendenza moderata, che propugnava una collaborazione intergovernativa più che una vera e propria unione; nello stesso anno nasceva anche il Consiglio francese per l’Europa unita, promosso da René Courtin, anch’esso comunque avverso al federalismo, e a Liegi (1° giugno ’47) venivano fondate le Nouvelles équipes internationales, movimento democratico-cristiano vicino al federalismo. Neppure i socialisti stettero a guardare, e sempre nel messe di giugno ’47 costituirono a Montrouge il Movimento per gli Stati Uniti socialisti d’Europa (che l’anno seguente diventerà Movimento socialista per gli Stati Uniti d’Europa). Buoni ultimi i federalisti tedeschi, che nell’agosto dello stesso anno crearono il movimento Europa Bund.

Tutti questi movimenti, sia quelli federalisti sia quelli unionisti (per unionisti si intendono, con un qualche equivoco nel nome, i sostenitori della collaborazione tra i governi senza nessuna concessione all’idea di cedere sovranità) si riunirono alla fine dell’anno nel Cimue –Comitato internazionale di coordinamento dei movimenti per l’Europa unita- e lo stesso Comitato fu l’organizzatore, dal 7 all’11 maggio 1948, del “Congresso dell’Europa” all’Aja, che riunì ottocento delegati di diciannove paesi. Fu una solenne manifestazione europeista, abile regista Winston Churchill, che mise in luce la diffusione dell’ideale di un’Europa unita, ma soprattutto rese palese il confronto fra le varie tendenze:

  1. quella federalista, che aveva negli italiani un importante esponente nel fondatore del Movimento federalista europeo italiano, Altiero Spinelli,
  2. quella funzionalista – unire gradualmente settori singoli dell’economia per giungere al risultato auspicato dai federalisti, gli Stati Uniti d’Europa;
  3. e infine gli unionisti, che vedevano l’Europa come un insieme di entità sovrane che tali dovevano restare.

Si trattò del primo incontro postbellico tra le tendenze europeiste maturate negli ultimi venti anni; incontro che si affiancava alle contemporanee iniziative diplomatiche per la collaborazione intereuropea (nascita dell’Unione occidentale –Patto di Bruxelles- tra Belgio, Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi e Lussemburgo nel marzo 1948; nascita dell’Oece –Organizzazione europea di cooperazione economica- per la gestione degli aiuti Marshall nell’aprile dello stesso anno).

Il primo “parto” dei governi e dei movimenti europeisti fu poco più che simbolico: dietro la pressione degli europeisti moderati alla Churchill e con la benedizione dei governi dell’Unione occidentale, nel maggio 1949 venne firmato a Londra lo statuto del Consiglio d’Europa, organismo consultivo dotato di un’Assemblea parlamentare, esistente tuttora come arena oratoria sui valori e sulla “cultura” europei e forte, allora, della partecipazione di dodici paesi del continente. Si trattava –e si tratta- di un organo sostanzialmente impotente, ancora meno impegnativo della vecchia Società delle Nazioni (che almeno aveva i mezzi per imporre sanzioni economiche, comunque di dubbia efficacia). La sovranità degli stati europei non veniva intaccata affatto.

Se pure queste iniziative indicavano l’esistenza di un “bisogno” di europeismo, esse non fecero fare molti passi avanti alla causa dell’unificazione europea. Fu di fatto la pressione della guerra fredda e la necessità di eliminare le occasioni di contrasto tra i paesi europei a far superare una fase caratterizzata unicamente da realizzazioni istituzionali più simboliche che efficaci, e a preparare il terreno per la nascita delle prime istituzioni sopranazionali. Da parte americana vi era un notevole interesse a favorire l’unificazione economica dello spazio europeo, ma anche gli europei stessi si mossero verso forme di integrazione economica dettate, più che dall’ideale di un’Europa unita (sempre comunque presente come riferimento ideologico necessario), dalla necessità di evitare nuovi possibili motivi di scontro tra Francia e Germania. L’iniziativa partì dalla Francia, e fu rivolta alla messa in comune della produzione e del commercio del carbone e dell’acciaio.

 

Dal carbone all’Europa.

L’idea, maturata dalla mente del diplomatico francese Jean Monnet, era semplice ma geniale: porre la produzione e il commercio del carbone e dell’acciaio sotto il controllo di un’autorità sopranazionale indipendente dai governi degli stati partecipanti.

Questo progetto doveva dare risposta alle questioni aperte nei due paesi principali (nonché a pressioni statunitensi):

  1. la crisi tra Francia e Germania per lo statuto della regione della Saar, il cui destino era ancora in bilico dopo la fine delle ostilità (essa tornerà definitivamente alla Germania solo nel 1955);
  2. la ricostruzione tedesca ed europea che richiedeva un aumento delle quote di produzione di carbone e acciaio tedeschi (quote che la Francia sapeva bene che sarebbero state imposte dagli USA);
  3. il problema di un riarmo della Germania che si fece ancora più pressante con lo scoppio della guerra di Corea nel giugno 1950;
  4. la possibilità francese di imporre un controllo sulla Ruhr in maniera pacifica e senza il ricorso alla forza militare;
  5. il desiderio della Germania di essere reinserita nello scenario europeo come stato fra pari, e non come entità sotto osservazione;
  6. infine, ma non ultimo, la prosaica valutazione francese del rapporto costi/benefici di un’azione concertata e volontaria di integrazione rispetto a una situazione latente di permanente conflitto.

Quando il progetto del ministro degli Esteri francese Schuman, che traduceva la proposta di Jean Monnet, venne presentato nel salone dell’orologio del Quai d’Orsay il 9 maggio 1950, sembrò cominciare una nuova era nella storia europea. Per la prima volta i due nemici storici in Europa accettavano volontariamente di rinunciare agli strumenti per sostenere un’economia di guerra e fare una politica estera offensiva: controllare in comune la produzione e il commercio del carbone e dell’acciaio significava sostanzialmente questo. L’Italia e i tre paesi del Benelux (Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo) accettarono immediatamente di negoziare sulla base della dichiarazione Schuman. La Gran Bretagna invece rifiutò, affermando per bocca di Churchill che il governo di Sua Maestà non avrebbe mai accettato interferenze sopranazionali nella sua sfera sovrana, soprattutto per quanto riguardava la politica industriale ed economica.

La Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA, costituita nel 1951 con il Trattato di Parigi e composta dai paesi del Benelux, da Francia, Italia e Repubblica federale tedesca), nasceva con un’Alta autorità, che la gestiva di fatto, un’Assemblea parlamentare (i cui 78 membri erano nominati dai Parlamenti nazionali dei paesi partecipanti), una Corte di Giustizia, un Consiglio dei ministri che fungeva da collegamento tra i governi nazionali e l’Alta autorità, e infine un Consiglio consultivo di 51 membri, con rappresentanti dei sindacati, dei produttori e dei consumatori. Il primo presidente dell’Alta Autorità della CECA fu Jean Monnet, riconoscimento al suo ruolo nella nascita di questa Europa dei Sei. Lo schema di ripartizione dei poteri e delle funzioni adottato per la CECA, diverrà un punto di riferimento per ogni successiva realizzazione della Comunità e per i nuovi organismi che sorsero negli anni successivi.

Le reazioni alla CECA furono varie, ma sicuramente opposti a essa furono da un lato i comunisti e i socialisti, dall’altro i trusts dei grossi produttori europei che temevano di vedere penalizzata la possibilità di far risorgere cartelli europei per il controllo della produzione e dei prezzi.

 

L’impossibile esercito europeo.

Sia la CECA sia la successiva Comunità europea di difesa (CED), sembravano stabilire un nesso necessario tra il procedimento funzionalista (come si è detto, la “tecnica del carciofo”: foglia dopo foglia per arrivare al cuore) e il risultato finale della federazione europea. Dopo il carbone e l’acciaio, la situazione internazionale pose all’ordine del giorno la “foglia” successiva: il problema della difesa del continente. Proprio mentre cominciavano a Parigi i negoziati per la CECA, le truppe comuniste nordcoreane invadevano la Corea del Sud. Cominciava una guerra che sembrava la prova generale di quello che sarebbe potuto succedere in Germania, con la parte occidentale invasa dalle truppe tedesco-orientali e sovietiche. Anche se era già partita l’organizzazione delle forze della NATO (il Tratato del Nord Atlantico era stato firmato a Washington il 4 aprile 1949) era evidente che senza il riarmo della Germania ovest ogni difesa dell’Europa occidentale sarebbe stata impossibile.

Furono ancora i francesi, sotto la pressione statunitense che richiedeva l’immediato riarmo di almeno dieci divisioni tedesche, a tentare di nuovo la via funzionalista. Il 24 ottobre 1950 il presidente del Consiglio René Pleven sottopose all’Assemblea nazionale francese un progetto di Comunità europea di difesa che avrebbe dovuto coinvolgere gli stessi sei stati impegnati nella negoziazione del Trattato CECA. Il progetto prevedeva la nascita di un esercito integrato, sostenuto da un bilancio comune e sotto un comando unico. Era, nelle intenzioni del Primo ministro francese, l’unica via per evitare un riarmo tedesco incontrollato; nello stesso tempo si ponevano le future forze armate tedesche sotto un controllo ben più vasto e vincolante, evitando così il rinascere di uno Stato Maggiore tedesco indipendente.

Dopo qualche incertezza, anche gli Stati Uniti accettarono il progetto della CED e il Trattato venne firmato il 27 maggio del 1952 a Parigi. La CED, contrariamente alla CECA, toccava un ambito estremamente delicato e sensibile per l’integrità della sovranità degli stati partecipanti: unificare le forze armate dei Sei, significava anche stabilire la nascita di un potere politico responsabile di tale forza miliare, e quindi in grado di gestire una politica estera e una politica di bilancio autonoma. I movimenti europeisti federalisti furono particolarmente abili (l’italiano Spinelli in testa) a evidenziare questo legame non insignificante e la loro influenza sui negoziatori si fece sentire in più di un’occasione. In particolare il democristiano Alcide De Gasperi fu tra i più attivi nel richiedere ai colleghi europei l’inserimento nel Trattato della CED di un articolo (l’art. 38) che prevedesse l’elaborazione di uno statuto per una futura Comunità politica europea da affiancare alla CED come necessario quadro istituzionale dell’esercito unico. Tale statuto (all’epoca si evitò di parlare di “costituzione”, anche se di fatto di questo si trattava) sarebbe stato elaborato dall’unica assemblea parlamentare in funzione tra i sei paesi interessati alla CED, quella della CECA, integrata da nove membri per ottemperare ai dettami dello stesso Trattato della Comunità di difesa.

L’incarico all’Assemblea della CECA allargata (che prese il nome di Assemblea ad hoc: ancora una volta si evitò di parlare di “Assemblea costituente”) venne formalizzato dai ministri degli Esteri dei Sei il 10 settembre 1952. In sei mesi esatti il progetto era pronto, e infatti il 9 marzo il belga Paul Henri Spaak consegnò nelle mani di Georges Bidault, presidente del Consiglio dei ministri della CECA, il progetto di statuto per la Comunità politica europea.

Il progetto di statuto segnava il punto più alto della fase “federalista/funzionalista” dell’integrazione europea. Veniva previsto un nuovo soggetto istituzionale, la Comunità politica europea (CPE), di natura pre-federale, che solo la ratifica del Trattato CED avrebbe potuto mettere in funzione e trasformare in senso pienamente federale. E tale ratifica, come si à già ricordato, mancò, sia per l’inerzia italiana sia per le opposizioni francesi.

Anche i contemporanei mutamenti nello scenario politico internazionale contribuirono al fallimento di questo tentativo. Il 5 marzo del ’53 moriva Stalin, giusto cinque giorni prima che il progetto di statuto per la CPE venisse consegnato ai governi da Spaak. Si registrò immediatamente un certo affievolirsi della tensione tra i due blocchi, fino ad allora altissima, e cominciò una fase di studio in attesa della transizione russa, durante la quale sembrò possibile risolvere i problemi della convivenza est-ovest con l’usuale strumento delle conferenze diplomatiche. Ma cominciò anche il ripensamento francese su tutto il discorso CED/CPE. Ratificare il Trattato CED, e dare quindi via libera al Trattato sulla Comunità politica europea, significava perdere la sovranità sulle forze armate, dare vita a un organismo nuovo e inusuale per la storia europea. Molti parlarono di “salto nel buio”.

Il governo di Mendès-Frances non ebbe il coraggio (o la volontà) di fare della questione della ratifica la via obbligata della sua politica estera, e la CED divenne bersaglio sia dell’opposizione comunista francese, che seguiva pedissequamente il copione sovietico, sia delle forze scioviniste interne che tremavano all’ipotesi della perdita della sovranità sulle forze armate nazionali. Il momentaneo rilassamento della tensione internazionale seguito alla morte di Stalin e alla lotta per la sua successione, ma allo stesso tempo l’andamento catastrofico delle operazioni militari in Indovina (l’annientamento dell’importante base francese di Dien Bien Phu da parte delle forze del generale Giap, è della primavera), contribuirono grandemente a questa involuzione.

Alla fine di agosto il nuovo presidente del Consiglio francese si ritrovava così tra le mani la patata bollente della CED, stretto tra l’incudine delle opposizioni interne e il martello dello spettro di un riarmo tedesco incontrollato. Mendès-Frances scelse la via della tergiversazione. Dal 19 al 22 agosto incontrò a Bruxelles gli alleati e partner della CED, presentando una serie di emendamenti al trattato che, se accettati, avrebbero snaturato grandemente tutta la portata della Comunità europea di difesa. Veniva richiesta una dilazione di otto anni all’entrata in funzione degli organismi sopranazionali previsti, e soprattutto si richiedeva che l’integrazione militare fosse limitata solo al territorio tedesco. Su queste basi, e sul conseguente irrigidimento della diplomazia americana, indisponibile a ogni ritardo per paura dei sovietici, si giunse al voto del Parlamento francese il 30 agosto 1954.

Quel giorno l’Assemblea nazionale francese di Palazzo Borbone decideva di rinviare sine die il voto di ratifica del Trattato CED (già ratificato dalla Germania e dai tre paesi del Benelux), condannando così tutto il lavoro fatto dal 1950 fino a quella data e facendo sparire la politica estera e di difesa comune dall’orizzonte europeo per decenni. Il risultato immediato fu che la minacciata agonizing reappraisal (revisione angosciosa) della loro politica europea, portò gli Stati Uniti a riconsiderare le alleanze in Europa facendo della Germania il proprio partner principale, a scapito della Francia, consentendo così la rinascita di uno Stato Maggiore tedesco. Ciò che aveva ispirato il progetto della CED, quello che con esso si intendeva evitare, si verificava ora in tutta la sua potenziale pericolosità per Parigi.

Da parte sua l’Italia, scomparso De Gasperi nel 1954, mise in scena con il presidente del Consiglio Pella un piccolo ricatto, subordinando la ratifica italiana alla risoluzione della questione di Trieste contesa dagli jugoslavi. La cautela interessata dell’Italia influì anche sulla mancata ratifica francese. Cominciava la stagione di quello che è stato definito “l’imperialismo su invito” degli Stati Uniti, posti dall’inerzia europea nella condizione di svolgere un ruolo molto più penetrante e pervasivo sulle politiche interne dei paesi occidentali, proprio al fine di garantire la difesa della parte di Europa sotto la loro influenza. Pochi episodi come questo della CED mostrano in tutta la loro evidenza il declino e il velleitarismo che animavano le politiche estere degli stati nazionali europei. Ma soprattutto falliva l’approccio “istituzionale” dell’integrazione europea. Di lì a pochi anni, con i rilancio europeo della Conferenza di Messina (1955) e la successiva nascita (Trattati di Roma, 25 marzo 1957) della comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea per l’energia atomica (CEEA, meglio nota come Euratom), avrebbe preso definitivamente piede il metodo economico dell’integrazione, basato sull’abbattimento delle barriere doganali, sul principio della libertà di movimento di merci, persone e capitali e, in prospettiva, sulla nascita di strumenti monetari ed economici comuni. L’obiettivo era migliorare lo sviluppo economico della Comunità, attraverso l’instaurazione di un mercato comune; l’aspetto politico dell’integrazione restava sospeso nel limbo dei sogni possibili, così come quello militare e relativo a una politica estera comune.

 

La politica cede il passo all’economia.

Ci si è soffermati un po’ sulle vicende CECA, CED e CPE, poiché esse furono caratterizzate da alcuni problemi che rimarranno costanti nella storia dell’integrazione europea: prima di tutto la resistenza alla creazione di istituzioni sopranazionali da parte degli apparati governativi nazionali, che pure intuirono (e parzialmente perseguirono) i vantaggi che l’integrazione economica offriva.

Nella lunga marchia che ha portato dai Trattati di Roma (1957) al Trattato di Nizza (2001) e al varo della Costituzione per l’Europa (2004) possono essere individuate alcune fasi caratteristiche. Gli anni ’60 furono dominati dall’atteggiamento della Francia guidata dal generale de Grulle. L’”Europa delle patrie” del generale era impostata su due cardini: conservare alla Francia il ruolo di punto di riferimento per l’Europa comunitaria (opponendosi quindi all’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità), e battersi affinché non passasse il principio dell’esistenza di finanziamenti propri agli organi decisionali della Comunità, prima di tutto la Commissione. La fermezza del generale nel negare ogni sviluppo sopranazionale della giovane Comunità economica europea ha anche un nome nella storia dell’integrazione: la crisi della “sedia vuota”. In conseguenza della richiesta della Commissione di aumentare le competenze comunitarie in materia economica, la Francia scelse la via dell’assenza sistematica dalle sedi comunitarie, fino a quando, con il Compromesso di Lussemburgo (gennaio 1966), fu riconosciuto il diritto di uno stato membro di opporsi alle decisioni prese a maggioranza dal Consiglio della Comunità, laddove queste decisioni ledessero interessi “vitali”.

Peraltro, durante gli anni ’60, la giovane Comunità economica europea si rafforzò sul piano organizzativo, e vennero impostate alcune politiche comuni, prima fra tutte quella agricola. La Comunità cominciava a strutturarsi anche sul piano dell’integrazione economica, soprattutto sotto il profilo dell’abbattimento delle barriere doganali –cadute fra i sei stati membri nel 1968- pur stentando ancora ad acquistare una fisionomia “politica” chiara, a tutto vantaggio degli stati nazionali, che preferivano gli accordi intergovernativi al rafforzamento delle istituzioni comuni. Era questo, ad esempio, lo scopo del Piano Fouchet, iniziativa francese che spingeva verso un’accresciuta collaborazione tra i governi per una politica estera comune, a scapito del ruolo della ancora debole Commissione.

Queste difficoltà si accentuarono negli anni ’70, travagliati dalle due pesanti crisi energetiche del 1973 e del 1979: i singoli stati furono indotti ad adottare misure protezionistiche cariche di conseguenze fortemente negative sul mercato comune, che comportarono un vistoso rallentamento nel processo di integrazione economica. Nondimeno, i risultati già raggiunti sul piano dell’integrazione dei mercati attirarono nuovi membri: il 1° gennaio del 1973 finalmente la Gran Bretagna aderì alla Comunità insieme all’Irlanda e alla Danimarca, mentre la Norvegia, che era inserita nel “pacchetto” di nuove adesioni, non entrò per un successivo voto popolare contrario alla ratifica. Inoltre, nel 1972, era nato il cosiddetto “serpente monetario”. Il “serpente”, unito al successivo Sistema monetario europeo (SME, 1979), si proponeva di svolgere una funzione stabilizzatrice tra i cambi delle diverse valute e costituì la preparazione remota della moneta unica. Ma l’Europa cresceva anche attraverso acquisizioni simboliche, capaci di rafforzare un’identità comune: nel 1972 la comunità scelse un proprio inno, l’Inno alla gioia della XI Sinfonia di Beethoven, su versi di Schiller.

In questo stesso decennio, l’America inaugurò una politica più guardinga nei confronti dell’Europa economica, dove cresceva l’importanza del marco proprio a scapito del dollaro. Sono gli anni in cui si cominciò a progettare una “politica estera” europea comune, incentrata sugli aiuti ai paesi in via di sviluppo: dopo il precedente degli accordi di Yaoundé con diciotto stati africani (1963), il 28 febbraio 1975 venne firmata l’importante Convenzione di Lomé tra la CEE e 46 stati dell’Africa, dei Carabi e del Pacifico (detti anche “paesi ACP”), che prevedeva accordi commerciali e di sostegno tecnologico da parte della Comunità.

Nel 1979, infine, si tennero le prime elezioni a suffragio universale del Parlamento europeo, ancora dotato di poteri limitati ma forte, da quel momento in poi, di maggiore legittimità dovuta all’elezione diretta da parte dei cittadini europei.

Gli anni ’80 vengono ricordati per l’”eurosclerosi”, cioè per l’impasse politico-istituzionale della politica della Comunità, i cui stati membri furono anche segnati da crisi economiche e crescente disoccupazione. L’allargamento della CEE ai paesi del Mediterraneo (Grecia 1981, Spagna e Portogallo 1986) pose tra l’altro problemi di bilanciamento nella politica agricola comune, fino ad allora incentrata principalmente sulle produzioni “nordiche”. Per uscire da questa situazione, Altiero Spinelli e un gruppo di parlamentari da lui riuniti nel “Club del coccodrillo” (dal nome del ristorante di Strasburgo dove avvennero le prime riunioni della lobby parlamentare) elaborarono un progetto di riforma delle istituzioni che mirava a riequilibrare i rapporti tra Parlamento, Commissione e Consiglio dei ministri dell’Unione a favore dell’organo rappresentativo, e che, se approvato dai governi, avrebbe segnato la nascita di un’Unione politica su basi più autenticamente federali.

Il Progetto Spinelli, pur elaborato dal Parlamento europeo e da esso votato a larga maggioranza il 14 febbraio 1984, non venne neppure preso in considerazione dai singoli governi, ma spianò in un certo senso la strada al compromesso rappresentato dall’Atto unico, firmato nel febbraio 1986 ed entrato in vigore nel 1987 tra i Dodici, cioè tra Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia, Irlanda, Danimarca, Grecia, Spagna, Portogallo, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo. L’Atto unico segnò una sorta di “ripresa” dell’Europa comunitaria, poi integrata dalla firma del Trattato di Maastricht sull’Unione europea. Infatti, con l’Atto unico si introdussero importanti modifiche procedurali (per snellire i processi decisionali), si potenziarono gli strumenti per l’attuazione delle politiche comuni e si precisò la nozione di “mercato interno”; ma soprattutto, si fece emergere con forza la necessità di accompagnare le convergenze delle economia con la creazione di istituzioni economiche e finanziarie comuni.

Fu in questo contesto che, alla fine degli anni ’80, maturò il progetto dell’Unione economica e monetaria (UEM). Tale progetto, elaborato da un comitato presieduto da Jacques Delors, prevedeva tre fasi successive:

  • la prima fase (dal 1990 al 1993) si poneva come obiettivo la liberalizzazione dei capitali e un maggiore coordinamento delle politiche economiche;
  • la seconda (dal 1994) aveva come scopo la creazione di un Istituto monetario europeo per rafforzare il processo di convergenza monetaria;
  • la terza fase è cominciata il 1° gennaio 1999 e si è conclusa con l’effettiva entrata in vigore della moneta unica nel gennaio 2002.

All’interno di questo processo, il Trattato sull’Unione firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 (d’ora in poi TUE) si propose di integrare i trattati precedenti, elaborando nuove regole per favorire i processi economici e politici in corso tra i paesi membri. In particolare, fissò alcuni importanti criteri di convergenza economica in vista di una piena integrazione fra gli stati; per essere ammessi alla terza fase della UEM, i “parametri di Maastricht” stabilirono tra l’altro precisi e contenuti livelli di inflazione, un deficit entro il 3% del PIL e un debito pubblico non oltre il 60% del PIL. Inoltre, il successivo “Patto di stabilità e crescita” del 1997 previde, per i paesi dell’area dell’euro che si fossero discostati dai parametri ricordati (in particolare dal rapporto del 3% tra deficit e PIL), l’applicazione di ampie pene finanziarie. Ma Maastricht significò anche l’introduzione di altre, importanti modifiche: esso sancì anche la nascita di un’Unione europea basata, accanto al “pilastro centrale” costituito dalle comunità già esistenti (CECA, CEE E CEEA), su due nuovi “pilastri”, la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) e la Cooperazione in Materia di Giustizia e Affari Interni (GAI). Inoltre, vennero anche ampliati i poteri dell’organo rappresentativo, il Parlamento europeo, coinvolgendolo più direttamente nel processo di formazione delle “leggi” comunitarie; già con l’Atto unico si era introdotta la procedura di “cooperazione” tra Parlamento e Consiglio dell’Unione europea, mentre ora si attivava la procedura di “codecisione” tra Commissione, Parlamento e Consiglio (queste procedure verranno tratteggiate nel capitolo successivo). Sebbene il modello a pilastri sia stato sostanzialmente cancellato dai lavori della Convenzione, esso ha ancora un valore simbolico, almeno fino a che il Trattato istitutivo della Costituzione dell’Unione europea non diventerà la “legge fondamentale” per i venticinque paesi membri.

Dunque, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, la Comunità economica europea, diventata Unione europea, si è data obiettivi precisi e una tabella di marcia ben definita relativamente all’allargamento dei suoi confini; ha indirizzato i propri sforzi verso un’unione economica e monetaria e verso una moneta unica, governata da una Banca centrale europea; infine, ha cercato di precisare il funzionamento delle istituzioni e le prospettive di unificazione politica. In questo ultimo decennio, il motore principale è stato sempre l’accordo tra la leadership tedesca e quella francese, quell’asse Parigi-Bonn che bene o male ha retto anche al cambiamento di guida politica nei governi dei rispettivi paesi. Notevole impulso in questa fase è venuto dal crollo del sistema comunista nel 1989 e dalla riunificazione tedesca; in un certo senso si può dire che sia Maastricht sia il successivo Trattato di Amsterdam sono figli delle speranze e dei rivolgimenti che le trasformazioni nell’est europeo hanno prodotto.

Dopo il 1992 si aprì un’altra fase importante. Le clausole di Maastricht configuravano certamente importanti cessioni di sovranità, a fronte delle quali però non erano previsti meccanismi compensativi sul piano dell’occupazione e degli ammortizzatori sociali. Le regole della stabilità economica e monetaria erano state poste in primo piano per il futuro dell’integrazione economica e della moneta unica, senza prevedere tuttavia interventi nell’ambito politico e sociale, capaci di creare le premesse per tale stabilità. La contraddizione non ci mise molto a emergere.

Gli interventi in queste direzioni erano stati delegati a una conferenza intergovernativa prevista per il 1996. Nel frattempo, Austria, Finlandia e Svezia erano entrate a far parte nel 1995 dell’Unione, ma soprattutto erano intervenuti dei cambiamenti importanti nella politica francese e in quella inglese: in Gran Bretagna i laburisti di Tony Blair vincevano le elezioni del maggio 1997 spodestando i tories di John Major, mentre in Francia le elezioni –volute anticipatamente dal presidente Chirac- davano la vittoria alla coalizione guidata dal socialista Lionel Jospin, inaugurando una fase di difficile coabitazione con l’inquilino dell’Eliseo.

La svolta a sinistra nei due paesi europei (alla quale va aggiunta la vittoria dell’Ulivo di Romano Prodi nella primavera del ’96, che ribaltava l’euroscetticismo del governo di Silvio Berlusconi e del ministro degli Esteri Antonio Martino) metteva rapidamente in crisi l’impostazione fino ad allora seguita: alla religione della stabilità monetaria professata dalla Banca centrale tedesca e dal cancelliere tedesco Helmut Kohl si affiancava l’interesse marcato per un’”Europa sociale”, più attenta ai problemi dell’occupazione e del lavoro, promossa soprattutto dal leader francese Jospin.

Il confronto tra le due tendenze (quella tedesca rappresentata da Kohl e quella francese che ebbe l’appoggio partecipe del governo dell’Ulivo italiano) si svolse al vertice europeo di Amsterdam del giugno 1997. Al Patto di Stabilità Jospin pretendeva di affiancare un “Patto sulla crescita e occupazione” per ammorbidire i parametri di Maastricht e rivolgersi a quei temi che il TUE aveva lasciato sullo sfondo. Il Trattato di Amsterdam che scaturì da quel Consiglio europeo mancò tuttavia lo scopo. Infatti, se la pressione della Francia e dell’Italia ha favorito l’inserimento nel nuovo Trattato di una “Carta sociale” e di una parte del Trattato (il Titolo VIII) dedicato ai problemi del lavoro e dell’occupazione, tuttavia tali temi non sono stati sostenuti adeguatamente dal bilancio dell’Unione, e le azioni in quella direzione sono condotte sostanzialmente attraverso la cooperazione intergovernativa. Da Maastricht ad Amsterdam è quindi sensibilmente aumentata l’attenzione e l’interesse per la dimensione politica e “sociale” dell’integrazione, ma l’Unione non si è ancora data degli strumenti efficaci e chiari per raggiungere tali scopi; la discussione avviata con il Trattato di Nizza e la Conferenza intergovernativa (CIG) del 2004, che ha discusso i risultati dei lavori della “Convenzione europea”, hanno tentato di chiarire il posto che i temi dell’integrazione “politica” dovranno occupare nella nuova Unione allargata; il risultato non è tuttavia definitivo, sebbene le modifiche introdotte dal progetto di costituzione europea (r.i.p.) indichino una serie di “competenze concorrenti” tra Unione e stati membri, definite nella parte III del Trattato elaborato dalla Convenzione.

Accanto a questo aspetto delle politiche sociali europee, va poi aggiunto l’altro importante tema che con Amsterdam si intendeva trattare (e che pure si è meglio definito in seguito alle recenti crisi balcaniche): quello della difesa e della politica estera comune. Come abbiamo visto, la PESC costituisce uno dei tre “pilastri” dell’Unione ma se il primo ha un profilo e un funzionamento consolidato, la PESC (ma anche la GAI) ha contorni molti imprecisi, e attende quella dimensione politica dell’integrazione che sola potrà darle significato. Ma sul senso politico di questi trattati e sulle possibilità che hanno aperto per i cittadini dell’Unione torneremo nel prossimo paragrafo.

Dopo Amsterdam, il processo di unione economica e monetaria è entrato nel suo stadio finale; dal 1° gennaio 1999, undici paesi (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna) sono entrati nella terza fase, destinata a trasformare l’euro da semplice moneta contabile a oggetto quotidiano nella vita di noi tutti. Anche il nostro paese, dopo una lunga sequenza di manovre economiche tese al risanamento dei conti pubblici, ha potuto soddisfare i parametri richiesti e, sotto il governo Prodi, è stato ammesso nel gruppo dell’euro; altri quattro stati dell’Unione (Danimarca, Grecia, Regno Unito e Svezia) hanno ricevuto una deroga per motivi economici o politici che, nel caso della Grecia è durato fino ai primi mesi del 2001, quando anch’essa è “entrata”.

La nascita della moneta unica conclude dunque un processo di consolidamento e di formazione della Comunità-Unione; processo durante il quale essa si è dotata di organi e istituzioni che hanno lentamente aumentato le proprie competenze e attribuzioni, fino a togliere di fatto ai governi e ai parlamenti nazionali una parte consistente di poteri effettivi. Una fase successiva è tuttora in corso: quella di una “costituzionalizzazione” dell’Unione, cioè il tentativo di dare un senso alla molteplicità di norme e trattati che si sono susseguiti nel tempo, accavallandosi e integrandosi fino al Trattato di Nizza. Un processo che non mira a far nascere un nuovo super-stato sovrano, come paventato da molti esponenti politici, ma a dare un carattere definito e organicamente regolamentato all’Unione esistente.

 

 

 

 

Fonte: http://www.glocaltrento.com/int_affairs/ia_documents/00_STORIA_DELLUNIONE_EUROPEA.doc

Stio web da visitare: http://www.glocaltrento.com/int_affairs/ia_history.html

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