Età umbertina

 

 

 

Età umbertina

 

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Età umbertina


I problemi dell’Italia dopo l’unità

I costi della unificazione


I costi umani dell’unificazione sono stati relativamente contenuti (è stata in proporzione più sanguinosa la repressione del brigantaggio) Più alti sono invece i costi economici (le guerre costano, ed il regno di Sardegna era per questo in deficit). Si impone il problema del pareggio del bilancio; ma non è il solo problema

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Il problema amministrativo: fare gli Italiani

La scelta centralistica

La destra storica vive un dilemma: creare un’Italia accentrata o federale? La scelta non è scontata, ma prevale l’accentramento (si teme la rivincita delle spinte centrifughe; nel sud manca una classe dirigente affidabile; molti stati pre-unitari erano già centralisti)

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Burocrazia ed esercito strumenti di omologazione

La destra ha poi un atteggiamento pedagogico : uno stato accentratore può fare gli Italiani. Scuola, burocrazia ed esercito sono validi strumenti a tale scopo. Gli insegnanti condividono gli ideali risorgimentali, sono controllati dal governo e trasferiti di frequente. Il servizio militare dura tre anni ed è svolto lontano da casa (eccezione: gli alpini), anche per esigenze di ordine pubblico (l’esercito è spesso usato per operazioni di polizia)


Conquista piemontese o unificazione?

Si può parlare di una iniziale piemontizzazione dell’Italia. Le leggi restano quelle del Piemonte, Vittorio Emanuele continua ad essere secondo. Tuttavia burocrazia ed esercito assumono quadri da varie regioni, anche perché la piccola borghesia del sud cerca una collocazione nel pubblico impiego. S’inizia così la meridionalizzazione dell’amministrazione pubblica.


Gli strascichi della questione romana

La tensione fra clero e stato unitario

I rapporti fra Vittorio Emanuele II e Pio IX erano già critici prima dell’unità nazionale (espropri di beni ecclesiastici; laicismo); dopo l’unificazione è peggio. Il clero appoggia il brigantaggio, mentre parte una nuova serie di espropri e sono sciolte d’autorità molte associazioni politiche cattoliche. Pio IX col Sillabo condanna in blocco il liberalismo; la classe dirigente italiana vede nella chiesa un fattore d’arretratezza.

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Il papa prigioniero nei sacri palazzi

Dopo la presa di Roma il contrasto si sposta sul piano internazionale: Pio IX chiede aiuto contro la violazione del diritto internazionale perpetrata dai Piemontesi, e trova ascolto soprattutto in Francia.


Un tentativo fallito di conciliazione

Un tentativo di compromesso è la legge delle guarentige del 1871 (garanzie giuridiche al papa; rimborso degli espropri; nessuna sovranità territoriale, ma esenzione dalla legislazione italiana e garanzie diplomatiche per gli ambasciatori presso la S.Sede)

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Il non expedit

Ma Pio IX rifiuta la legge e i risarcimenti, mentre emana l’enciclica non expedit (=non è opportuno che i cattolici italiani siano eletti o elettori), che durerà fino al 1919


La politica degli espropri

Lo stato italiano, in difficoltà finanziarie, continua con gli espropri, convinto anche che, avendo assunto compiti già svolti dalla chiesa (assistenza, istruzione), lo stato abbia diritto ad ereditarne i beni. Anche Roma subisce tali interventi. In questo clima il non expedit trova ascolto presso vasti strati dell’alta e media borghesia cattolica che, pur condividendo gli ideali risorgimentali, si astiene dalla partecipazione politica (solo la metà degli elettori vota nel 1876)


Cattolici intransigenti e conciliatoristi

L’autoesclusione politica dei cattolici intransigenti solo in apparenza favorisce la classe dirigente liberale. In realtà mina la fragile base sociale del nuovo stato. I cattolici liberali non mancano (vedi Manzoni), ma restano una minoranza. Nelle campagne, poi, i parroci solidarizzano coi ceti più poveri nell’ostilità per uno stato, che significa tasse e servizio militare.


I problemi economici. Pareggio del bilancio e tassa sul macinato

Un paese in prevalenza agricolo

L’unificazione s’è realizzata in un paese agricolo, arretrato, con l’ 80% di contadini analfabeti. Il quadro non è omogeneo: al nord ci sono braccianti, piccoli proprietari, ma anche fittabili che guadagnano abbastanza. La massa ha però un’alimentazione povera. Al centro prevale la mezzadria (che dà più sicurezza e più varia alimentazione al mezzadro); la situazione è peggiore sui rilievi, da dove l’inverno si deve emigrare in pianura. Al sud, infine, il panorama è vario: c’è ancora pastorizia transumante sull’appennino, c’è talora coltura intensiva (Campania, Puglia); è prevalente però il latifondo coltivato a cereali (soprattutto in Sicilia). Con le risorse di questa nazione i governi della destra storica devono pagare esercito, burocrazia ed interessi sul debito pubblico.

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Il corso forzoso della moneta

I governi erano già ricorsi a provvedimenti finanziari straordinari (come il corso forzoso della moneta nel 1866). Ma per risanare il bilancio serve altro: la destra attuerà espropri dei beni ecclesiastici e tagli alle spese, e aumenterà la pressione fiscale. Gli espropri danno immobili a costo zero e denaro contante (quando sono venduti all’asta). In teoria le aste delle terre espropriate potrebbero anche attuare una redistribuzione della proprietà.


La vendita dei beni ecclesiastici

In realtà allo stato non arriva molto denaro (troppe terre in vendita ne hanno fatto calare il prezzo, e spesso le aste sono controllate dai notabili locali). A comprare le terre sono per lo più grandi e medi proprietari: la proprietà fondiaria si concentra. Infine, l’abolizione degli usi civici (=libertà di pascolo e far legna sulle terre comuni) e la diffusione di criteri capitalistici di sfruttamento fanno peggiorare le condizioni dei contadini poveri. Né mancano nefaste conseguenze ambientali (disboscamenti, dissesto idrogeologico)

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La politica della lèsina

La politica della lèsina (= risparmio fino all’osso) del ministro Quintino Sella blocca le spese pubbliche al livello del 1867. Le spese militari ne assorbono gran parte, ma viene comunque avviata la modernizzazione delle infrastrutture (soprattutto ferroviarie)


I moti contro l’imposta sul macinato

Ma lo strumento principale per il pareggio del bilancio è la tassazione indiretta, che raggiunge il culmine con l’imposta sul macinato, che fa aumentare il prezzo di tutte le farine. Crescono poi le imposte sugli immobili (che ricadono, alla fine, su coltivatori diretti, mezzadri, braccianti ed affittuari). Contro l’imposta sul macinato nel 1869 scoppiano moti in Emilia e nel sud. Sono moti spontanei, talora strumentalizzati dal clero. Più rari i tumulti nelle città, e senza collegamento con le campagne.

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La situazione nelle campagne del nord

Se al sud la situazione è statica e dominata dal latifondo, al nord c’è un processo di trasformazione: entrano nuovi capitali, e il ceto dei piccoli proprietari si spacca: alcuni riescono ad agganciare i grandi proprietari. Per chi non ce la fa, è semiproletarizzazione.



La sinistra al governo (parte I)

La caduta della destra storica e la rivoluzione parlamentare

Il pareggio del bilancio

Nel 1875 la destra raggiunge il desiderato pareggio del bilancio statale. È un obiettivo necessario per il nuovo stato italiano, ma la destra ( divisa, impopolare e senza una solida base sociale) non resiste al governo

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Le ragioni del declino della destra

Il 18 marzo 1876 la destra è posta in minoranza in parlamento. Prevale il leader della sinistra Agostino Depretis, che rivendica al suo schieramento (formato da ex appartenenti al mazziniano partito d’azione) il diritto di governare. La sinistra ha un programma riformista (abolizione della tassa sul macinato, ampliamento delle autonomie locali, estensione del suffragio, istruzione pubblica elementare obbligatoria e gratuita). La destra cade anche per l’ostilità dell’elettorato meridionale, che lo identifica coi dirigenti piemontesi.


Il governo Depretis

Quando al governo va Depretis, l’opinione pubblica italiana percepisce questo fatto come una rivoluzione parlamentare. La destra non riesce ad organizzarsi come schieramento d’opposizione, e alle elezioni del 1876 la sinistra ottiene una maggioranza schiacciante. Depretis dominerà in parlamento fino al 1887, anno della sua morte.

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Rivoluzione parlamentare, ma non politica

La rivoluzione della sinistra è però solo parlamentare, ma non politica né sociale. La sinistra non vuole un a radicale trasformazione sociale: i rivoluzionari mazziniani si sono quasi tutti convertiti alla monarchia ( e Mazzini è morto nel 1872, in incognito e ricercato dalla polizia).


La conversione alla monarchia

È così che nasce, per reazione, il gruppo della cosiddetta estrema sinistra (mazziniani intransigenti, democratici radicali, garibaldini antimonarchici). Ma quando il nuovo re Umberto I con la moglie Margherita compie il suo primo viaggio ufficiale in Italia, è lo stesso presidente del consiglio Cairoli (già del partito d’azione) a far scudo col proprio corpo ai colpi di un attentatore anarchico: è un evento simbolo della conversione monarchica d’una generazione.


Dalla destra alla sinistra: una caduta di stile…

La classe dirigente della destra era composta da proprietari terrieri e qualche industriale; dal 1876 la sinistra porta professionisti, imprenditori, avvocati, pubblici funzionari. La destra era radicata nelle città del centro nord; la sinistra è più legata al sud e alla provincia, di cui interpreta gli interessi di una borghesia emergente contraria ai monopoli e al fiscalismo. La destra privilegiava gli interessi della proprietà su quelli dell’impresa; la sinistra liberalizza invece le società per azioni, e all’inizio è ancor più liberista della destra.


o una rivincita del paese reale?

Molti interpretano il passaggio alla sinistra come un abbassamento di livello: in effetti molti uomini nuovi sono meno onesti. In generale la sinistra tenderà ad usare disinvoltamente la macchina governativa a fini elettorali; a gestire una finanza allegra (=che nasconde il deficit dello stato); a diffodere il clientelismo. Eppure la sinistra mostra di saper interpretare le esigenze della borghesia italiana.

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La stagione delle riforme

Il mantenimento dell’imposta sul macinato

La sinistra vara una politica di riforme, che si scontra però col timore di allarmare i moderati e coi limiti di bilancio: sono questi ultimi ad impedire l’abolizione dell’imposta sul macinato. La pressione fiscale non diminuirà (l’accresiuta burocrazie e l’esercito costano…)


La riforma Coppino

La riforma Coppino del 1876 introduce il principio dell’istruzione elementare pubblica gratuita e obbligatoria dai 6 ai 9 anni. Ma mancano i fondi e perdurano le cause per cui i genitori mandano i bambini a lavorare. Soprattutto nelle campagne la riforma resta inapplicata. I costi sono scaricati sui comuni, che trascurano il servizio e pagano male i maestri. In compenso si sviluppa la retorica dell’insegnamento come missione (vedi Cuore di De Amicis)

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Il lento calo dell’analfabetismo

Comunque l’analfabetismo cala (nel 1900 sarà al 56%), ma per lo più nelle città del centro nord. È un altro fattore di distacco tra nord e sud


L’educazione laica: doveri dell’uomo e catechismo

La politica scolastica della sinistra è assai efficace contro l’influenza educativa della chiesa, che non è in grado di organizzare scuole private concorrenziali (anche per gli espropri subiti). La sinistra è però disposta ad alcuni compromessi: in molte scuole pubbliche si insegnano così i doveri dell’uomo e del cittadino, ma anche il catechismo


Culto del Risorgimento e nazionalizzazione delle masse

La scuola pubblica laica fu strumento essenziale per diffondere lo spirito patriottico anche nelle classi meno coinvolte nell’unificazione. Il Risorgimento viene celebrato come opera concorde dei 4 grandi /Cavour, Vittorio Emanuele II, Mazzini e Garibaldi). Ad essi sono intestate ovunque lapidi, monumenti, piazze, scuole. Il tutto mira alla nazionalizzazione delle masse (processo in corso in quegli anni in tutta Europa)


La riforma elettorale

La riforma elettorale della sinistra dà il voto ai ventunenni maschi non analfabeti che paghini 19,8 lire di tasse (prima erano 40). Si passa da 600.000 a 2.000.000 di elettori. Molti però criticano la prudenza eccessiva di tale riforma: vogliono il suffragio universale i socialisti e i radicali, ma anche i gesuiti (che contano sul legame religioso delle masse contadine)

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La sinistra al governo (parte II)

L’epoca del trsformismo

Le elezioni del 1882

La destra storica non dà vita a una forza organizzata di opposizione, ma per lo più si trasforma : tende a scomparire ogni precisa delimitazione fra una maggioranza che governa e una o più minoranze che stanno all’opposizione. All’inizio il governo costruisce di volta in volta le sue coalizioni (stipulando accordi e concedendo favori). Poi ogni governo userà inserire qualche rappresentante delle minoranze.


La crescita del clientelismo

È questo il trasformismo, che fonde maggioranza e opposizione in una sola palude, trasforma il parlamento in un mercato e fa crescere a dismisura il clientelismo (=favori garantiti dai deputati ai propri elettori)


Le ragioni storiche del trsformismo e i limiti del parlamentarismo italiano

Il trasformismo rispecchia alcune caratteristiche dell’Italia, che ha un sistema elettorale all’inglese (=maggioritario uninominale) ma che non ha vissuto la rivoluzione industriale. I cattolici si sono autoesclusi dalla vita politica, e nella classe dirigente mancano forti contrasti di natura ideologica (la destra diventa sempre più progressista, la sinistra è disposta a compromessi, entrambe non sono partiti, ma più fluidi movimenti di opinione). Infine, il sistema elettorale uninominale personalizza la politica: i deputati mirano a contrattare col governo favori per il proprio collegio, in cambio del loro voto favorevole.

L’Italia così è governata da un solo grande partito liberale progressista, che alle parole preferisce le cose.


Autunno del Risorgimento e mito del Risorgimento tradito

Dall’insofferenza per questo clima politico matura la rivolta di molti giovani, esasperati dai compromessi e dalla mediocrità della sinistra. Si fa avanti il mito del Risorgimento tradito dai politicanti

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La rivolta ideale

Inizialmente questa rivolta ideale parte dall’estrema sinistra radicale e repubblicana; ma col tempo muterà orientamento, e si tradurrà in rivendicazione di una politica coloniale più energica e in una polemica antiparlamentare, talora antidemocratica


Dall’irredentismo alla Triplice

La politica del piede di casa

Il 1882 segna una svolta nella politica estera italiana: s’inizia l’avventura coloniale e viene stipulata un’alleanza con Germania ed Austria-Ungheria. La sinistra non aveva in origine ambizioni coloniali: Mazzini le aveva indicato una politica estera tesa alla liberazione dall’Austria dei territori irredenti, ma nel rispetto delle altre nazionalità. Inoltre le simpatie andavano più alla Francia che all’Austria. Tale politica del piede di casa non escludeva ambizioni da potenza mediterranea, per proteggere commerci ed emigrazione italiani verso il nord Africa. L’apertura del canale di Suez (1869) parve confermare l’accresciuto ruolo del Mediterraneo e, in esso, dell’Italia.

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Congresso di Berlino e smacco di Tunisi

Ma la politica del piede di casa non regge: nel 1878 al Congresso di Berlino il premier Cairoli deve accettare senza compensi per l’Italia l’espansione austriaca nei Balcani. La paura di complicazioni internazionali rende timida la politica coloniale italiana. La Francia però non ricambia le attenzioni, e nel 1881 trasforma la Tunisia (che ha molti emigrati italiani) in suo protettorato: è lo smacco di Tunisi.


L’Italia sul mar Rosso

È così che l’Italia abbandona la politica del piede di casa : ma il colonialismo italico deve ora mirare a zone più lontane. Si comincia in sordina: nel 1882 il governo acquista dalla società di navigazione Rubattino la baia di Assab sul mar Rosso, in Eitrea. Nel 1885 l’Italia occupa Massaua e la costa fino ad Assab. Si spera nel nuovo ruolo del mar Rosso, ma Eritrea ed Etiopia non saranno scelte felici (hanno poche risorse minerarie, sono lontane e sono sede di un impero millenario). Il colonialismo italiano, inizialmente più umano di altri, non avrà facile sviluppo.


La Triplice Alleanza

Gli esordi coloniali italiani sono resi possibili dalla nuova collocazione internazionale dell’Italia: dal 1882 essa è legata alla Triplice Alleanza (con Germania ed Austria), che garantisce appoggio in caso di aggressione. Le reazioni all’alleanza sono varie: destra e sinistra moderate sono ad essa favorevoli (risponde all’arroganza francese, non danneggia le relazioni con l’Inghilterra, aumenta il prestigio italiano). Umberto I gradisce l’alleanza con le monarchie autoritarie. La classe dirigente italiana ha simpatia per la Germania di Bismarck, guidata con autorità verso l’industrializzazione.

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Il sacrificio di Oberdan e l’irredentismo

Suscita invece perplessità l’alleanza con l’Austria, che l’opinione pubblica democratica e irredentista legge come tradimento del Risorgimento. L’irredentista Guglielmo Oberdan cerca di uccidere Francesco Giuseppe, per far saltare l’alleanza, ma fallisce ed è condannato a morte. Diventa simbolo degli irredentisi e di quanti vedono nei tedeschi in generale i nemici del popolo italiano.



Industrialismo e protezionismo: la politica economica della sinistra

Il mancato decollo degli anni settanta

I guasti del libero scambio

I sogni di grandezza della classe dirigente umbertina possono realizzarsi solo con l’industrializzazione (come in Germania, alla quale si guarda con ammirazione). Ma il livello di partenza è molto basso. L’abolizione delle barriere doganali mirava a selezionare le imprese più forti, ma in Italia ce ne sono poche: si hanno invece fallimenti di piccole aziende, il crollo delle poche industrie del sud, l’eliminazione delle industrie siderurgiche e meccaniche (così lo sviluppo ferroviario non avvantaggia imprese nazionali). L’Italia importa prodotti industriali ed esporta derrate alimentari. Solo le industrie agroalimentari e tessili reggono la concorrenza, e sono per lo più concentrate nel triangolo industriale (Milano-Torino-Genova), più vicino ai mercati europei e dotato di scuole tecniche. Nascono alcune nuove industrie chimiche (Pirelli) ed estrattive, ma negli anni ’70 la grande industria non decolla.

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Una marina mercantile arretrata

Le speranze commerciali nate col canale di Suez sono in parte deluse (tariffe di transito troppo alte; fondali del porto di Brindisi troppo bassi per le navi oceaniche). L’Italia ha buoni cantieri navali e una considerevole flotta mercantile, ma vecchia (di legno e a vela). Per ammodernarla servono capitali ed industrie siderurgiche.


La revisione del liberismo

Di fronte a questa realtà la sinistra italiana (come molti governi nell’Europa del tempo) corregge la propria politica liberistica. Ciò porta a due svolte: l’introduzione di una tariffa doganale sui prodotti industriali (protezionismo) e il sostegno statale all’industria nazionale.

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La svolta protezionistica

La tariffa del 1878

La tariffa del 1878 (tra il 10% e il 20%sulle importazioni industriali) avvantaggia l’industria pesante. I primi interventi di sostegno statale vanno invece alla marina mercantile: il governo consente la fusione delle due maggiori compagnie di navigazione concorrenti (Rubattino e Florio). Nasce così la Navigazione generale italiana s.p.a., praticamente monopolista. Il governo la userà per trasportare l’esercito in Eritrea.


Il sostegno alla siderurgia: la nascita della Terni

Per tener fede agli impegni con la Triplice Alleanza, e per fare dell’Italia una grande potenza, la sinistra destina all’esercito una spesa straordinaria, e commissiona anche a privati la costruzione di corazzate. In tale clima nascono nel 1886 le acciaierie Terni .


Un’industria protetta

Comprando dalle industrie nazionali lo stato paga di più: del resto la siderurgia italiana non ha materie prime né carbone né tradizione. Ma i benefici del sostegno pubblico all’industria si fanno sentire: nel decennio ’77-’87 la produzione di ferro triplica, si avvia quella dell’acciao, nascono la Montecatini (industria chimica ed estrattiva), la Edison (industria elettrica), la FIAT. La crescita industriale è del 37%.


La speculazione edilizia

I maggiori tassi di sviluppo li ha l’industria edilizia. Roma e Napoli sono oggetto di interventi speciali dello stato per il risanamento urbano, ma quasi ogni città si arricchisce dei nuovi quartieri umbertini e di edifici pubblici monumentali. I vecchi rioni sono sventrati, gli antichi parchi patrizi lottizzati (in Europa invece l’espansione urbanistica crea nuovi parchi pubblici). La febbre edilizia si interrompe nel 1887, con una serie di fallimenti (si stava costruendo troppo). Il modello di sviluppo però funziona e genera ottimismo (anche il corso forzoso della moneta è revocato). La spesa pubblica risparmia poi all’Italia le conseguenze della recessione internazionale di quegli anni (ristagno di prezzi e produzione).

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La crisi agraria

Un accentuato fiscalismo

L’industria è però quasi tutta al centro nord, ed è sostenuta da risorse che lo stato preleva aumentando le tasse sulla proprietà terriera. Il modello di sviluppo promosso dalla sinistra danneggia perciò le campagne e il sud (prevalentemente agricolo), che sono per di più costretti a comprare i prodotti dell’industria nazionale (più costosi)

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Specializzazione delle colture

I sacrifici sarebbero sopportabili, ma in più c’è la devastante nuova concorrenza del grano americano e del riso asiatico. Le campagne italiane reagiscono come possono, talora specializzando le colture (foraggi, patate e canapa al nord; ulivo, vite e agrumi al sud). Ciò richiede spirito di iniziativa e capitali: ma la pressione fiscale e le banche tolgono risorse alla campagna e le trasferiscono alla industrie cittadine ed alle attività speculative


Una diffusa miseria contadina

La nascita delle casse rurali (=istituti di credito cooperativi) non basta, e nelle campagne si diffonde l’usura. Se le banche concedono prestiti, è difficile ripettare le scadenze dei pagamenti, e le banche si rivalgono con gli espropri


Le grandi inchieste agrarie

Il malessere sociale dei ceti popolari si traduce in emigrazione o in agitazioni, scioperi e sommosse (ora spontanee, ora alimentate dalla propaganda anarchica o socialista). Tra i possidenti non manca chi indaga sulle cause della miseria contadina. Sonnino e Franchetti viaggiano nel sud e ne denunciano il crescente sottosviluppo. Verga scrive in quegli anni I Malavoglia. L’inchiesta agraria del deputato Jacini documenta nel 1884 l’impoverimento dell’agricoltura italiana

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La tariffa doganale del 1887

Jacini chiede di ridurre le tasse e favorire il credito, per aiutare i proprietari a modernizzare e diversificare le colture. Ma la crisi si aggrava, e prevale la scelta protezionistica: nel 1887 una nuova tariffa doganale si estende a varie derrate alimentari, compreso il grano


L’alleanza fra agrari e grande industria

L’alleanza fra galantuomini (=proprietari terrieri) del sud e borghesia illuminata del nord era stata la base della destra. Ora rinasce con la sinistra, come blocco agrario-industriale, cementato dal protezionismo, che favorisce le industrie al nord e difende la cerealicoltura al sud (spesso però condotta con metodi arretrati)


La guerra commerciale con la Francia

All’inizio il protezionismo attenua il disagio sociale, ma poi arrivano le conseguenze negative: la Francia reagisce chiudendo i propri mercati all’orticoltura e viticoltura italiane. I più colpiti sono gli imprenditori pugliesi, che più avevano rischiato specializzando le loro colture. Inoltre il grano americano, colpito dalla tariffa doganale, non può arrivare a basso prezzo: il costo della vita cresce e con esso, negli anni ’90, l’emigrazione




L'Italia in movimento: emigrazione ed associazionismo operaio

L'emigra­zio­ne: una grande occasione perduta?


L'emigrazione non era un fenomeno sconosciuto in Italia, ma a fine '800 assume dimensioni impensabili. Inoltre interessa nuove classi sociali (non più imprenditori borghesi, ma proletari in cerca di lavoro) e da stagionale si fa permanente. Dal sud si va negli USA; dal nord in Brasile e Argentina.

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Un'emorragia di risorse umane

L'emigrazione non è un fatto esclusivamente italiano, né in sé del tutto negativo. Ma l'emigrazione italiana è stata più dolorosa di altre, rivelandosi più un'emorragia di risorse umane, che un proficuo loro trapianto.


La tragedia dell'emigrazione

L'emigrazione italiana fa un salto nel buio: va dove non si parla italiano, dove la sua attività non è protetta, dove non ha connazionali nell'amministrazione dello Stato,. Suoi sono i lavori più umili, i salari più bassi, gli alloggi più malsani. Subisce il disprezzo dei ricchi e l'odio dei poveri. E lo Stato italiano è indifferente al suo destino. L'emigrato italiano è costretto ad imparare un'altra lingua, che spesso poi non padroneggia. È costretto ad appoggiarsi ad organizzazioni di mutuo soccorso, che spesso degenerano nella delinquenza. Tra gli stessi emigrati, spesso privi di una coscienza nazionale, manca poi la solidarietà.


Vantaggi e svantaggi dell'emigrazione

Il bilancio dell’emigrazione non è del tutto negativo: con enormi sacrifici c’è chi conquista posizioni sociali onorevoli. Si sviluppa poi un’emigrazione verso il nord Africa, dove un certo numero di emigranti migliora le propire condizioni, senza tagliare i rapporti con la madrepatria. Le rimesse degli emigranti (= i soldi che mandano a casa) migliorano inoltre la bilancia italiana dei pagamenti. Ma il rientro degli emigranti, quando avviene, non aiuta la modernizzazione dell’agricoltura italiana (l’emigrante all’estero viveva infatti in contesti urbani)


La nascita del movimen­to operaio


La classe dirigente liberale temeva al principio che l’emigrazione, riducendo l’offerta di manodopera in Italia, facesse aumentare i salari; poi però vide nell’emigrazione uno sfogo al crescente malessere sociale.

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Protesta spontanea…

La protesta che si diffonde in varie parti d’Italia non ha all’inizio un carattere ideologico; talora assume Addirittura caratteri millenaristici.


e associazionismo mazziniano

Dopo l’unificazione è forte l’influsso delle società operaie d’ispirazione mazziniana. Ma dopo il 1871 Mazzini, critico nei confronti dell’esperienza rivoluzionaria della Comune di Parigi, perde seguito, a vantaggio di socialisti ed anarchici


La stagione dell’anarchismo

Bakunin, leader anarchico russo trapiantato in Italia, vuole sostituire lo Stato con una federazione di comuni, e vuole che l’economia si basi su libere società di produttori. Il suo programma è accolto soprattutto da artigiani, da piccolo-borghesi ed intellettuali (come Andrea Costa, Errico Malatesta e Carlo Cafiero), in un’Italia che non ha ancora un vero proletariato industriale. Ma le insurrezioni anarchiche del 1874 in Emilia e del 1877 nel Matese, e ciò segna il tramonto dell’anarchismo.


Gli esordi del marxismo

Negli anni ’80 l’anarchismo declina anche perché in Italia decolla la grande industria e procede la razionalizzazione capitalistica delle campagne. Su tali trasformazioni fa leva la diffusione delle teorie marxiste


Un sistematico sfruttamento della manodopera

Come anche altrove, così in Italia la prima industrializzazione si basa sullo sfruttamento sistematico della manodopera (salari bassi, sottomissione, lavoro minorile non regolato fino al 1886, divieto di sciopero, nessuna garanzia di impiego e nessuna forma di previdenza). Alle vecchie associazioni mutualistiche si sostituiranno via via le prime leghe di resistenza, ispirate alla lotta classe.

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La nascita del partito socialista

È così che nasce la federazione dell’alta Italia dell’internazionale socialista, mentre il professore universitario Antonio Labriola diffonde la filosofia di Marx. Nasce un partito operaio classista (che accoglie solo lavoratori manuali). Nel 1881 Andrea costa, lasciato l’anarchismo, è eletto deputato, e svolge, tra mille difficoltà, un’opera di raccordo tra le varie anime del socialismo italiano. Nel 1892 si arriva alla nascita del PSI: ha un programma classista, che mira alla lotta dei mestieri contro lo sfruttamento e per la conquista del potere politico. Gli anarchici sono esclusi.


Le camere del lavoro

Cresce intanto l’organizzazione sindacale con le federazioni dei mestieri e le camere del lavoro (organismi di rappresentanza dei lavoratori, con compiti assistenziali e di collocamento, che assumeranno via via natura politica, come reazione alla repressione dei governi italiani).


La diffusione del socialismo nelle campagne

Marx vedeva nei contadini una classe sociale passiva, ma nelle campagne dell’Italia del centro-nord le idee socialiste si diffondono, favorite dall’afflusso di manodopera politicizzata (gli scariolanti) nelle opere di bonifica, dalla trasformazione capitalistica delle campagne, dal diffondersi del bracciantato, dall’atteggiamento neutrale del clero contadino nei confronti delle rivendicazioni dei lavoratori.


Il cattolicesimo sociale

Presto però la chiesa, con l’enciclica Rerum novarum, cerca un proprio ruolo autonomo di fronte al malessere sociale. Il non expedit non vieta ai cattolici un’attiva presenza nella vita sociale. Organizzati nell’ Opera dei congressi, sostenuti dalla stampa cattolica e dalle parrocchie, i cattolici partecipano alle elezioni amministrative, vincono in molti comuni, sviluppano un solido radicamento di massa. E il legame della chiesa coi ceti umili è rafforzato dalle opere educative ed assistenziali di don Giovanni Bosco.

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La perdurante emarginazione dei cattolici

In generale i cattolici sono emarginati e talora perseguitati dalle iniziative governative, sono penalizzati nelle carriere universitarie ed esclusi dalle pubbliche manifestazioni patriottiche. L’atteggiamento della classe dirigente italiana è tuttavia ambivalente: la chiesa è pericolosa nemica del Risorgimento, ma anche potenziale alleata contro la minaccia socialista.



Il caso Crispi

Un tentativo di riforma dello stato

Un monarchico giacobino

Nel 1887 muore Depretis; gli succede Crispi, considerato suo erede politico. Crispi, ex garibaldino, gode fama di uomo di sinistra, ma anche di uomo forte. Ammira Bismarck, ne ostenta l’amicizia. Era repubblicano da giovane, ma ora è per una monarchia autoritaria, che difenda il Risorgimento, conquisti colonie e si opponga a marxisti, anarchici e possidenti conservatori.

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Verso uno stato sociale?

Come già Mazzini, anche Crispi è ostile al socialismo. Per rimuovere le cause del suo diffondersi, prosegue l’espansione coloniale (sfogo alla disoccupazione), ma anche rafforza l’apparato statale e vara provvedimenti di sostegno alle classi più povere: è con Crispi che si comincia a parlare di stato sociale.


Il consenso degli intellettuali

In un primo tempo Crispi ha il consenso del parlamento e del paese. Il mondo economico gradisce il suo protezionismo. Il mondo della cultura ha criticato il trasformismo e la corruzione parlamentare, e talora eè giunto a posizioni antiparlamentari. Ora da Crispi si attende la rottura col moderatismo e col clientelismo.


Gli Italiani in Somalia e il trattato di Uccialli

La situazione coloniale favorisce il consenso a Crispi. La lenta ed incerta espansione coloniale italiana s’era infatti arrestata nel 1885 col massacro di soldati italiani a Dogali. L’opinione pubblica s’era divisa tra chi voleva abbandonare l’Eritrea e chi invece chiedeva un intervento più massiciccio. Crispi è tra questi ultimi: nell’89 occupa Asmara ed un primo nucleo della futura Somalia italiana. Il trattato di Uccialli prevede poi l’appoggio italiano all’ascesa del ras (= capotribu) etiope Menelik alla carica di negus (=imperatore). Per Crispi ciò significa un protettorato italiano sull’Etiopia.

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La mancata conciliazione con la chiesa

In cerca di prestigio, ma anche di consenso, Crispi, anticlericale ma non ateo, tenta di comporre la questione romana, e per un po’ sembra che l’operazione riesca. Ma poi Crispi lascia cadere l’occasione, e si irrigidisce in un anticlericalismo, forse per il condizionamento della massoneria, di cui è membro.


La riforma delle autonomie locali e il nuovo codice penale

Nel 1888 Crispi vara una legge che dà più autonomia a comuni e province, mentre il nuovo codice penale Zanardelli ha luci (più garanzie per l’accusato, abolizione della pena di morte, legalizzazione degli scioperi pacifici) ed ombre (presenza di reati d’opinione e di poteri di polizia contro i soggetti ritenuti inclini a delinquere).


Sanità e assistenza compiti dello stato

Con Crispi riprende lo slancio riformatore: la democratizzazione prosegue (allargamento dell’istruzione e del suffragio), ma è accompagnata da più controlli sui sovversivi. Crispi cerca comunque di eliminare le cause del malessere sociale: nuove leggi attribuiscono allo stato la tutela della salute e l’assistenza pubblica. E nell’89 Crispi annuncia nuove riforme: controllo dell’emigrazione, pensione di vecchiaia, previdenza per gli infortuni sul lavoro.


La politica finanziaria

Ma Crispi si scontra con pesanti difficoltà economiche. Non può tuttavia aumentare le tasse (danneggerebbe l’economia ed accrescerebbe le tensioni sociali); né può tagliare gli sprechi pubblici (perderebbe l’appoggio di troppi parlamentari); e non vuole ridurre le spese militari o rinunciare alle colonie ( né lo vogliono il re e la grande industria)

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L’opposizione radicale e il partito delle economie

Nel 1890 arrivano al culmine le difficoltà economiche (depressione economica internazionale; crisi delle banche italiane; guerra commerciale con la Francia). L’estrema sinistra contesta Crispi per le sue repressioni politiche e per il suo appoggio alla Triplice Alleanza. L’opposizione di un partito delle economie costringe Crispi, pur vincitore alle elezioni, a dimettersi. Dopo qualche transizione, gli succede Giovanni Giolitti, già suo ministro.


Il primo ministero Giolitti

Il re vuole che Giolitti non riduca le spese militari; così Giolitti vara una finanza democratica (imposte di successione progressive, titoli del debito pubblico nominativi). E c’è con Giolitti una nuova apertura democratica anche sul fronte sociale: niente repressioni antisocialiste né contro i fasci siciliani (= movimento di contadini e minatori siciliani). Ma Giolitti deve dimettersi nel 1893, coinvolto in uno scandalo bancario. Torna Crispi.


Il ritorno di Crispi

Il problema dei fasci siciliani

Tornato al governo, Crispi chiede e ottiene dal parlamento una tregua politica per ripristinare l’ordine pubblico. Crispi, siciliano ed ex garibaldino, sa che la protesta dei contadini e minatori siciliani è fondata, e ritiene necessarie riforme sociali che colpiscano i latifondi. Ma prima Crispi vuol riportare l’ordine, prima che l’insurrezione dilaghi.

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Lo stato d’assedio in Sicilia e Lunigiana

I fasci sono in origine spontanee leghe di cafoni sorte per protestare contro i galantuomini. Ma in seguito si organizzano politicamente, hanno deputati in parlamento ed il partito socialista esprime loro la propria solidarietà. E intanto altri moti scoppiano in Italia (ad esempio in Lunigiana)


Lo scioglimento del partito socialista

Al principio Crispi limita i suoi provvedimenti a Sicilia e Lunigiana, decretandovi lo stato d’assedio. Ma seguono poi leggi antianarchiche e le messa fuori legge del partito socialista.


Il fallito attacco al latifondo siciliano

La repressione operata da Crispi è combattuta dall’estrema sinistra, ma sostenuta dall’opinione pubblica borghese, che però non segue Crispi quando vara riforme contro la grande proprietà assenteista (=che trascura le proprie terre). Nel 1894 Crispi propone una legge che obbliga i latifondisti a bonificare e coltivare le proprie terre, pena la loro concessione in affitto perenne ai contadini. Ma la legge non passa, né passa quella che vuole un’imposta progressiva.


La riforma del sistema bancario

Va invece avanti la riforma del sistema bancario italiano: solo la Banca d’Italia può battere moneta, è ridotto il rendimento dei titoli di stato; nascono due nuove banche (Banca commerciale e Credito Italiano ), con aiuto tedesco, per finanziare lo sviluppo industriale.


La crescente opposizione nel paese

Ma Crispi non ha un solido consenso nel ceto borghese: c’è chi ne teme i propositi giacobini, chi non sopporta la sua politica autoritaria e chi, infine, ha diffidenza per la sua politica di espansione coloniale.

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La ripresa delle operazioni militari in Etiopia

Nel 1893 il ras Menelik si rifiuta di riconoscere il protettorato italiano sull’Etiopia. Molti in Italia reagiscono con sdegno: Crispi coglie l’occasione e fa invadere l’Etiopia. Ma la spedizione italiana ha scarse risorse e scarsa preparazione, ed è il disastro.


Il disastro di Adua e la caduta di Crispi

Crispi ordina l’attacco, ma presso Adua gli Abissini, appoggiati da Russia e Francia, sconfiggono le truppe italiane. La sconfitta non è irrecuperabile sul piano militare, ma il contraccolpo in Italia è fortissimo: le eterogenee opposizioni a Crispi si coalizzano e ne chiedono l’allontanamento. Crispi si dimette.



Fonte: http://gritti.provincia.venezia.it/sintesidistoria/umbertina.doc

Sito web da visitare: http://gritti.provincia.venezia.it/sintesidistoria

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