Miracolo boom economico italiano riassunto

 


 

Miracolo boom economico italiano riassunto

 

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Miracolo boom economico italiano riassunto

 

Il miracolo economico

Le elezioni del 1948

Il quarto governo De Gasperi segna la fine dell’unità resistenziale e l’avvio di una fase nuova nella vita politica italiana, quella del centrismo. I socialisti e i comunisti inizialmente non si oppongono con particolare veemenza alla estromissione dalla coalizione di governo, perché sono convinti che l'avventura degasperiana sia destinata al fallimento. Il successo della politica economica ed il conseguente rafforzamento della Dc, però, spingono Togliatti e Nenni a passare al contrattacco, con una serie di manifestazioni di piazza, che spesso si concludono con gravi disordini, sui temi caldi della riduzione dei posti di lavoro e della produzione.

Sul finire del 1947 inizia la rigida contrapposizione tra Pci e Dc, tra comunismo e anticomunismo, anche in conseguenza di quanto sta accadendo a livello internazionale, con l’inizio della guerra fredda. In settembre si tiene la prima riunione del Cominform che formula la cosiddetta "teoria dei due campi", quello "imperialista antidemocratico" contro quello "antimperialista democratico". Ai partiti comunisti di Francia e Italia - fortemente criticati per la collaborazione coi conservatori - viene ordinato di mettere a soqquadro i rispettivi paesi; tutti i partiti comunisti, inoltre, devono rinsaldare il loro legame con l’URSS, guida del comunismo mondiale.

Sul fronte opposto scende in campo direttamente la chiesa cattolica di Pio XII che ripropone i termini del dibattito politico-ideologico con la formula "con Cristo o senza Cristo". In dicembre, per effetto della forte tensione, i repubblicani e i socialisti di Saragat accettano di entrare nella coalizione che sostiene il governo De Gasperi.

È in questo clima di forte tensione e di rigida contrapposizione che si svolge la campagna elettorale per le elezioni del 1948. Le forze di sinistra, comunisti e socialisti, si uniscono nel Fronte Popolare. Ad esse si contrappone il blocco capeggiato dalla Dc, alleata coi socialdemocratici e i repubblicani, mentre liberali e quel che resta dell’Uomo Qualunque confluiscono nel Blocco Nazionale. All’estrema destra, si collocano i monarchici ed il neonato Movimento Sociale Italiano.

L'esito elettorale decreta la netta affermazione della coalizione guidata dalla Dc, mentre nel Fronte Popolare sconfitto, il Pci ottiene più consensi dell’alleato socialista (inizia così il periodo dell’egemonia del Pci sulla sinistra italiana). Questo risultato mette in evidenza una delle tendenze elettorali costanti della storia repubblicana italiana, e cioè che quando il voto si svolge in un clima di netta contrapposizione politico-ideologica l’elettorato preferisce far confluire i voti sui due partiti maggiori (Dc e Pci) dei blocchi contrapposti, piuttosto che disperderli sulle liste minori alleate; non appena la tensione si allenta questi suffragi ritornano verso la collocazione originaria.

Sul risultato elettorale del 1948 pesa anche l’influenza delle vicende internazionali. Il colpo di stato in Cecoslovacchia, ad opera di un partito comunista minoritario, spaventa l’opinione pubblica. Così come fa paura la più o meno velata minaccia americana di escludere l’Italia dagli aiuti del piano Marschall qualora le urne avessero sancito la vittoria del fronte di sinistra. Gli Alleati, inoltre, offrono a De Gasperi la promessa del ritorno di Trieste all’Italia, mentre dagli USA arrivano lettere di italo-americani che esortano i propri connazionali a non votare per i comunisti, esaltando la ricchezza ed il benessere che regnano negli Stati Uniti. A ciò va aggiunto il diretto impegno in favore della Dc da parte della chiesa cattolica.

Dopo il voto la tensione non si smorza, anzi si arriva sull’orlo della guerra civile vera e propria quando, in luglio, il leader comunista Togliatti subisce un attentato. Viene proclamato lo sciopero generale e in tutte le piazze italiane i dimostranti si scontrano con le forze dell’ordine. Il buonsenso dei dirigenti comunisti e l’invito alla calma dello stesso Togliatti evitano il peggio, ma da questo momento in poi il Pci accetta in pieno la logica della guerra fredda, incentrando la propria politica sulla opposizione durissima su temi quali la partecipazione al Patto Atlantico (che nasce nel 1949) e il dislocamento in Italia delle basi Nato.

La "linea Einaudi" e la riforma agraria

Esclusi PCI e PSI dal Governo, De Gasperi si affida alla politica economica di Einaudi per rimettere in moto la macchina produttiva del Paese e avviare la ricostruzione. I punti cardine della "linea Einaudi" sono due: da un lato restringere il credito bancario per salvare lo Stato dalla bancarotta frenando le speculazioni e per riorientare i capitali verso i titoli di Stato piuttosto che verso gli investimenti borsistici; dall’altro immettere sul mercato generi alimentari a basso costo, acquistati all’estero, per frenare l’inflazione e salvare il potere d’acquisto della lira.

La politica economica di Einaudi mette un freno all’inflazione, genera un miglioramento nella bilancia dei pagamenti e garantisce più stabilità alla lira consentendo all'Italia di inserirsi nel mercato internazionale. Al tempo stesso, però, provoca una caduta della domanda e la conseguente riduzione degli investimenti e della produzione industriale, con riflessi negativi sull'occupazione e sulla crescita del reddito nazionale. Ma in soccorso della finanza pubblica arrivano gli ingenti aiuti americani del Piano Marschall (1.470 milioni di dollari dal 1948 al 1952).

Sul piano politico, invece, i provvedimenti adottati da Einaudi hanno l'effetto di orientare verso la Dc il consenso dei ceti medi urbani con stipendio fisso, il cui tenore di vita viene salvaguardato. L’estromissione delle sinistre dal governo, inoltre, contribuisce ad arrestare l’emorragia di voti verso destra, specie verso l’Uomo Qualunque.

L’esigenza più pressante con la quale la politica economica del governo De Gasperi deve confrontarsi è la riforma agraria. Nelle campagne meridionali le rivolte contadine e l’occupazione delle terre sono all’ordine del giorno e, per la DC, è forte il rischio che i contadini meridionali aderiscano ai partiti di sinistra. De Gasperi deve fare i conti con le richieste divergenti delle diverse anime del partito: il gruppo che fa capo agli industriali (col benestare americano) e la sinistra dossettiana sono favorevoli alla riforma agraria, mentre i proprietari terrieri meridionali sono fermamente contrari. Schiacciato fra questi interessi antitetici, il governo centrista non attua una vera e propria riforma organica, ma si limita ad alcuni interventi legislativi, sia pure di vasta portata come la legge per la Sila (maggio 1950) e la legge stralcio (luglio 1950), relativi alla espropriazione e alla distribuzione della terra. I provvedimenti colpiscono le proprietà fondiarie superiori ad una certa estensione (legge per la Sila) o ad un certo valore (legge Stralcio) per un totale di 700 mila ettari espropriati e divisi fra 120 mila famiglie, sotto forma di "poderi" per chi non possedeva altra terra e "quote" aggiunte alle piccolissime proprietà. Gli ex-proprietari vengono indennizzati con buoni del tesoro, mentre i contadini devono pagare una piccolo affitto per 30 anni prima di acquistare definitivamente la proprietà dell’appezzamento. A livello locale vengono fondati Enti di riforma, col compito di fornire crediti, aiuti tecnici ed informazioni ai coltivatori.

La riforma per certi versi si rivela un fallimento. Innanzitutto perché l’agricoltura moderna si sta orientando verso le grandi e medie aziende capaci di dotarsi di mezzi, tecnologie e tecniche all’avanguardia, e non su piccole proprietà condotte con criteri arcaici e inserite in un contesto del tutto privo di infrastrutture e di industrie di trasformazione dei prodotti agricoli. La terra espropriata, inoltre, non basta per tutti ed è per lo più impervia, difficile da lavorare e poco fertile, soprattutto perché i proprietari eludono la confisca degli appezzamenti migliori dividendoli tra i famigliari o realizzando piccole migliorie. Molti di loro riescono anche a piazzarsi in posizioni di potere negli Enti di riforma che ben presto si tramutano in nicchie di potere democristiano. Temi come i patti agrari, il piano nazionale di bonifica, il miglioramento dei salari e delle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti non vengono neppure sfiorati dalle leggi di riforma. Anche sul piano politico non vengono raggiunti i risultati sperati: il malcontento di quanti sono esclusi dalla redistribuzione o ricevono terre poco fertili e poverissime diventa immediatamente un cavallo di battaglia del Pci che amplia così il suo bacino elettorale nel mezzogiorno.

Il 1950 è anche l’anno della istituzione della Cassa per le opere straordinarie di pubblica utilità nel Mezzogiorno (Cassa per il Mezzogiorno). Fino al 1984 la Cassa gestirà circa 100 mila miliardi per infrastrutture agricole e industriali e provvedimenti per l’occupazione. Ma la gigantesca attività della Cassa si disperde su di un area troppo vasta, spesso senza aver preventivamente acquisito informazioni sulle aree in cui realizzare gli investimenti e sugli effetti nel medio e lungo periodo. A ciò si aggiunge la piaga della corruzione, che spinge ad utilizzare il denaro pubblico al fine di creare ed alimentare le clientele dei partiti e interessi particolari.

Altra riforma attuata negli anni del centrismo (nel 1952) è quella fiscale, la riforma Vanoni. Essa rappresenta un primo passo verso la creazione di un moderno sistema fiscale grazie alla introduzione della dichiarazione dei redditi il cui principale scopo è essenzialmente quello di contrastare l’evasione.

La legge truffa e la crisi del centrismo

L’esperienza del quadripartito centrista guidato da De Gasperi è legata a filo doppio alla realtà in cui si svolge, caratterizzata dalla tensione internazionale ideologica e militare della guerra fredda, che si ripercuote anche sul dibattito politico interno, esasperando la contrapposizione comunismo-anticomunismo e garantendo alla coalizione di centro il consenso massiccio dell’elettorato piccolo e medio borghese. Altro elemento distintivo di questa esperienza di governo è la grande abilità politica di De Gasperi, capace di mediare continuamente tra forze diverse e portatrici di interessi e aspirazioni anche contrapposte che coabitano in quel grande contenitore che è il partito della Democrazia Cristiana. Le differenze sono lampanti anche tra i partiti della coalizione, basti pensare che la Dc è un partito confessionale, mentre i partiti minori suoi alleati sono profondamente laici.

La grande eterogeneità interna del partito di maggioranza relativa, nonché della coalizione che sostiene il governo, è un elemento di profonda debolezza che, sommandosi al radicale mutamento della situazione interna ed internazionale (il cambiamento di rotta politica da parte del Psi; l’equilibrio raggiunto tra le superpotenze, l’allentarsi, a tratti, della tensione internazionale e, in seguito, la morte dello stesso De Gasperi) provoca la crisi del centrismo. Il centrismo, infatti, non si era realizzato tanto per la grande forza aggregatrice della DC, quanto piuttosto per grazie alle difficoltà di coalizzarsi, per le fratture interne, degli schieramenti antagonisti di sinistra e di destra.

La crisi del Centrismo inizia nei primi anni Cinquanta, quando riprende l’emorragia di voti democristiani, sia verso destra che verso sinistra, perché le condizioni che hanno permesso il successo schiacciante del 1948 non esistono più. Per fare fronte all’emergenza De Gasperi – non potendo estendere l’alleanza ai partiti di destra - gioca la carta della riforma elettorale, con un sistema che prevede un premio di maggiorana pari a 2/3 dei seggi per il partito o la coalizione che ottiene la maggioranza assoluta dei voti. Il sistema, in pratica, è tale da consentire alla Dc di ottenere la maggioranza assoluta, a patto che scatti il premio di maggioranza per la coalizione di centro.

Alle elezioni del 1953 però l’operazione fallisce, anche a causa della opposizione durissima contro quella che viene definita la "legge truffa". La coalizione guidata da De Gasperi, accusata dagli avversari di voler conservare il potere in modo antidemocratico, non raggiunge la maggioranza assoluta per soli 57 mila voti e il premio non scatta. Il voto di molti elettori si sposta vero gli estremi dello schieramento politico, il Pci a sinistra e i monarchici e missini a destra. Il risultato elettorale, perciò, suona come una netta bocciatura della linea politica di De Gasperi. Quest’ultimo, non potendo ricostituire il quadripartito centrista per le resistenze di repubblicani e socialdemocratici, da vita ad un governo monocolore democristiano, il cui fallimento segna di fatto la fine della sua carriera politica.

Con le elezioni del 1953 inizia un periodo di forte instabilità politica. Nella coalizione di centro i piccoli partiti acquistano una maggiore forza contrattuale e di ricatto, poiché senza il loro apporto la Dc non potrebbe governare. Prende piedi la prassi del cosiddetto "governo ai margini", in base alla quale la principale preoccupazione di tutti i partiti politici (opposizione compresa) è quella di rafforzarsi in termini elettorali piazzando i propri uomini di fiducia nei punti chiave della pubblica amministrazione, della burocrazia e di ogni struttura organizzata in seno alla società civile. In seno alla Dc, intanto, si diffonde la consapevolezza che il Centrismo è in crisi e che perciò è indispensabile ideare un nuovo blocco di potere anticomunista, sempre incentrato sulla Dc: inizia così la fase di transizione al Centrosinistra, con l’apertura al Partito Socialista.

Il miracolo economico

Gli anni ‘50 sono il decennio del grande sviluppo economico, il "miracolo", che trasforma radicalmente la società italiana. Inizia l’era del consumismo e della società di massa, con la diffusione dell’automobile, della televisione e degli elettrodomestici. Il vasto piano di costruzioni stradali fa da traino all’intera economia nazionale e fra il 1951 e il 1962 l’industrializzazione del paese cresce ad un ritmo senza precedenti, con un saggio di incremento fra i più alti d’Europa.

I motivi del miracolo vanno ricercati nel recupero e nell’ammodernamento degli impianti industriali fino ad allora non totalmente utilizzati, nell’impiego di fonti di energia più a basso costo (derivati del petrolio e i giacimenti di metano e idrocarburi in Val Padana, Abruzzo e Basilicata), nell’intervento statale attraverso l’IRI e l’ENI, nella crescita graduale di un mercato nazionale di base e soprattutto nella disponibilità di un serbatoio di mano d’opera a basso costo a causa della disoccupazione dilagante specie al sud. A ciò si aggiunge, sul versante internazionale, una congiuntura positiva di grande crescita pressoché generalizzata, i primi passi dell’integrazione europea, gli aiuti americani e gli investimenti degli stranieri in Italia.

La storiografia economica ha individuato due fasi distinte nel processo di crescita degli anni Cinquanta: dal 1951 al 1958 il miracolo è dovuto essenzialmente alla domanda interna; dal 1958 al 1963 invece il fattore trainante è l’esportazione, anche grazie ai primi effetti del Mercato Comune. Le modalità stesse di questo sviluppo, però, accentuano il divario fra nord e sud della penisola. Il mezzogiorno è interessato da un nuova ondata migratoria verso le regioni industriali settentrionali che sottrae alla già povera agricoltura locale buona parte della mano d’opera più giovane e quindi migliore. La strategia dei poli di sviluppo inoltre segna anche l’acuirsi dei dualismi interni alle stesse aree del sud.

Nel modello di sviluppo italiano degli anni Cinquanta, secondo una parte della storiografia, sono insiti i germi della successiva fase di recessione. Oltre al divario nord-sud, infatti, il miracolo accentua anche gli squilibri tra diversi settori industriali e fra industria e agricoltura, visto che alla riduzione degli addetti nel settore agricolo non corrisponde un adeguato ammodernamento del settore. Il grosso degli investimenti, inoltre, è finalizzato ad accrescere la produttività e non l’occupazione, e perciò parallelamente allo sviluppo dei settori trainanti, crescono a dismisura anche piccole imprese e terziario col compito di assorbire mano d’opera. Il sistema delle partecipazioni statali, infine, in assenza di una guida politica univoca e omogenea, si trasforma in mera supplenza e integrazione dell’industria pubblica nei confronti di quella privata, con l’industria pubblica che si accolla l’onere di realizzare le infrastrutture, giudicate troppo costose e rischiose dal capitale privato il quale si limita a sfruttare tutti i vantaggi offerti dalla spesa pubblica.

Il 1963 segna una battuta d’arresto nella crescita economica e la fine del miracolo. Il rapporto produttività-salario, fino ad allora favorevole, inverte la tendenza e ciò, sommato alla crescita eccessiva e rapida dei prezzi e alla perdita di competitività delle esportazioni, fa esplodere le tensioni sociali latenti.

Verso il centrosinistra

Negli anni del miracolo economico, i partiti politici creano un articolato sistema di conservazione e rafforzamento del proprio potere. I partiti, specie la democrazia cristiana e gli alleati di governo, si assicurano un vasto controllo sociale, soprattutto sulla massa dei contadini poveri del Mezzogiorno, creando una pluralità di enti statali autonomi che allestiscono una gran quantità di programmi per la realizzazione di opere pubbliche nelle aree depresse. Questi enti si trasformano ben presto in centri di potere, funzionali anche al soddisfacimento degli interessi delle diverse correnti. Il controllo di tali enti, infatti, consente di gestire discrezionalmente l’erogazione a livello locale delle risorse pubbliche stanziate in favore del sud, oltre che di controllare poteri minori(come concessioni di licenze, assunzioni, ecc.) utilissimi in termini elettorali e clientelari.

Per quanto riguarda le coalizioni di governo, nella seconda metà degli anni Cinquanta, entrato in crisi il Centrismo, inizia la lunga fase di transizione verso il Centrosinistra, cioè l’alleanza tra Dc e Psi. Il 1956 è un anno denso di avvenimenti a livello internazionale che si ripercuotono sulla politica interna italiana: al XX congresso del Pcus Krusev rivela i crimini di Stalin dando così il via ad un processo di smantellamento del culto della sua persona, e in autunno scoppia la rivoluzione ungherese duramente repressa dai sovietici. In questo nuovo quadro, mentre il Pci avverte l’esigenza di ritagliarsi un ruolo più autonomo rispetto agli altri partiti comunisti europei e al ruolo-guida dell’URSS, nel Psi si fa strada la convinzione che l’alleanza coi comunisti non giova alla propria causa, specie in termini elettorali. Inizia così un lento processo di distacco dall’estrema sinistra e di avvicinamento alla Dc.

Al Congresso di Torino del 1955 il leader socialista Nenni lancia esplicitamente l’invito alla Dc di "aprire a sinistra". I tempi però non sono ancora maturi, perché il Psi è ancora troppo legato ai comunisti, coi quali la sua ala di sinistra è intenzionata a proseguire l’alleanza, mentre con la Dc esistono ancora nette divergenze di vedute specie sulla politica estera.

Le elezioni del 1958 decretano una forte crescita del Psi contro la sostanziale stabilità dei comunisti, mentre nella Dc prende il sopravvento l’ala sinistra di Fanfani. Quest’ultimo però non riesce ad allestire un esecutivo capace di ottenere la fiducia parlamentare. E così, passando attraverso l’esperienza del monocolore democristiano guidato da Segni col sostegno delle destre (Pli, Monarchici e Msi), si approda all’esperimento Tambroni che segna un momento decisivo nel processo che spiana la strada all’alleanza Dc-Psi.

Il governo Tambroni è il classico governo di transizione, con un programma limitato e senza una maggioranza precostituita. Ottiene la fiducia grazie al voto missino e, vista la piega presa dagli eventi, la direzione della Dc obbliga Tambroni a dimettersi. Fanfani però non riesce ad allestire un governo con Pri e Psdi e con l’astensione del Psi e il Presidente della Repubblica Gronchi è costretto a rigettare le dimissioni di Tambroni che anche al Senato ottiene la fiducia col voto, sia pure non determinante, del Msi. Nel paese la tensione sale alle stelle, con gravissimi scontri di piazza, soprattutto a Genova dove è in programma il congresso del partito neofascista. In luglio il vertice della Dc dichiara conclusa la funzione del governo di transizione e costringe Tambroni a dimettersi. Il nuovo incarico viene affidato a Fanfani che presenta al Parlamento l’ultimo governo di transizione al centrosinistra. Il caso Tambroni infatti dimostra che la Dc non può svoltare a destra senza provocare fortissime tensioni nel Paese e che la formula centrista non è più praticabile per l’opposizione di repubblicani e socialdemocratici: la via obbligata da seguire è l’apertura a sinistra, resa possibile anche dalla mutata situazione internazionale (la linea politica di Kennedy, presidente USA; il maggiore distacco dalle cose politiche da parte della chiesa di papa Giovanni XXIII).

Il centro-sinistra

Le riforme

Il quarto governo Fanfani, nato all’inizio del 1962, ottiene la fiducia grazie all’astensione dei socialisti e segna l’inizio dell’era del centrosinistra, cioè l’alleanza tra Dc e Psi. Rimane in carica poco più di un anno, fino alle elezioni del giugno 1963, ma realizza alcune delle grandi riforme care ai socialisti e punti cardine dell’intero programma di governo del centrosinistra. Nel 1962 viene istituita una commissione per la programmazione economica e, in dicembre, viene nazionalizzata l’industria dell’energia elettrica con la nascita dell’Enel. All’inizio dell’anno successivo vengono adottati i provvedimenti di riforma della scuola, con la realizzazione della scuola media unica e l’estensione a 14 anni della frequenza obbligatoria. Non saranno mai realizzati, invece, il piano verde per l’agricoltura e l’attuazione dell’ordinamento regionale previsto in Costituzione, che rappresentavano altri obiettivi prioritari dell’alleanza di governo.

Alla vigilia delle elezioni, dunque, la spinta riformatrice del centrosinistra ha già perso vigore, anche perché inizia un periodo di crisi economica caratterizzato dalla forte crescita dell’inflazione. Il risultato elettorale, inoltre, mette in luce tutta la debolezza dell’alleanza DC-PSI: il partito cattolico perde voti a vantaggio del PLI (strenuo oppositore dell’apertura a sinistra) e del PSDI, mentre a sinistra cresce il PCI.

I socialisti entrano direttamente nella compagine di governo solo alla fine dell’anno quando, dopo il governo balneare formato da Leone, Aldo Moro dà vita al primo dei tre governi consecutivi cui partecipano tutti i membri del quadripartito di centrosinistra (DC, PRI, PSDI, PSI). Il programma di riforme originario, rimasto incompiuto, viene subito rilanciato ma la coalizione sembra aver perduto forza e la incisività iniziale. La crisi economica in atto frena la realizzazione di interventi radicali molto costosi, e inoltre Moro deve fare i conti con le pressioni dei grandi potentati economici dell’edilizia, dei finanzieri, delle lobby agrarie, favorevoli alla conservazione dello status quo normativo.

Nel 1966 PSI e PSDI si fondono nuovamente, dando vita al PSU. Il PCI – dopo la morte di Togliatti nel 1964, al quale succede Luigi Longo - rimane così isolato e quasi totalmente immobile. Due anni dopo, però, le elezioni del 1968 decretano il fallimento del PSU. Il 2 luglio 1969 l’anima socialista e quella socialdemocratica, confluite nel PSU, divorziano nuovamente e rientrano separatamente nella compagine governativa. Nel frattempo si susseguono governi di transizione guidati da Leone e da Rumor. Ma la carica innovatrice e riformatrice del centrosinistra si è ormai irrimediabilmente esaurita, mentre in seno alla società civile aumentano le tensioni, cui si aggiungono gli scandali legati all’esistenza - vera o presunta - di piani di destabilizzazione e di colpi di Stato (il piano "Solo" di De Lorenzo, ad esempio). È iniziata una nuova stagione, quella della contestazione studentesca prima, e del terrorismo poi.

Dall’autunno caldo agli anni di piombo

Nel 1968 esplode la contestazione studentesca. La società del miracolo economico, infatti, ha promesso benessere e successo per tutti, che in realtà non può offrire. Di qui il rifiuto, anche da parte dei giovani di estrazione sociale piccolo e medio borghese, dei valori e dei modelli figli del miracolo stesso. Alla società consumistica di massa i giovani studenti contrappongono l’alternativa del collettivismo, da realizzare attraverso una rivoluzione culturale e l’instaurazione di una controcultura. In questo quadro, l’autorità e i valori della famiglia diventano i principali bersagli dei contestatori. Mentre da un punto di vista ideologico i miti di riferimento sono l’antifascismo, la dottrina marxista (ma solo dopo un’attenta revisione dei tratti originari) e l’antimperialismo (ma non più con riferimento all’URSS, bensì alle rivoluzioni contadine e culturali sul modello cinese o vietnamita).

Alla contestazione giovanile e studentesca si somma anche quella operaia. In questo clima di alta tensione, infatti, il movimento sindacale giunge all’apice della sua forza, facendosi portavoce di richieste relative ad un vastissimo arco di problemi, fino a mettere sotto accusa le basi stesse dell’intero sviluppo economico degli ultimi anni. Lo sciopero, quindi, cessa di essere uno strumento di lotta finalizzato esclusivamente alle rivendicazioni salariali o ai problemi specifici del mondo del lavoro, e si tramuta in mezzo più funzionale alla strategia sindacale che mira all’attuazione di quelle riforme radicali che i governi di centrosinistra non hanno avuto la forza di realizzare. Tanto è vero che si è parlato di "pansindacalismo", cioè di un tentativo dei sindacati di sostituirsi ai partiti politici, guadagnandosi un canale privilegiato di dialogo e trattativa col governo. Il loro limite. Però, è di non riuscire a coagulare intorno al proprio programma l’intera società, a causa della naturale propensione a difendere gli interessi della sola classe operaiache li costringe a rimanere chiusi e isolati nel mondo delle fabbriche.

Di fronte alla contestazione, i partiti politici rimangono spiazzati. La destra italiana, diversamente da quella francese ad esempio, non riesce ad esprimere un forte partito conservatore capace di coinvolgere, in nome della salvaguardia di interessi comuni, tutte le forze che guardano con timore alla contestazione. A sinistra, invece, né il PCI né tantomeno il PSI sono in grado di imporsi alla testa del movimento e quindi di sfruttarlo, poiché il loro patrimonio culturale ed ideologico ancora non si è adeguato ai tempi e non c’è possibilità di dialogo con i giovani, portatori di ambizioni spesso estremistiche, radicali e globali.

Le vicende dell’autunno caldo del 1968-69, tuttavia, condizionano l’attività legislativa degli anni seguenti, contribuendo ad alimentare una nuova spinta riformatrice che si concretizzerà nell’approvazione dello statuto dei lavoratori, nell’attuazione delle regioni, nei referendum e negli interventi in tema di divorzio. Malgrado ciò, il bilancio di questa stagione è deludente non solo perché il movimento studentesco non riesce – come era scontato – ad imporre una trasformazione rivoluzionaria della società e della politica, ma soprattutto perché le forze progressiste riescono ad attuare solo una piccola parte – sia pure importante - del loro programma di riforme. Intanto si fa strada la consapevolezza che prima di ogni altra riforma, occorrerebbe una radicale revisione dell’intero apparato burocratico-amministrativo dello Stato.

L’esperienza della contestazione fallisce, in certa misura, anche sul piano culturale poiché ha come bersagli l’autorità, il capitalismo, la repressione sessuale, la famiglia e il consumismo, ma è proprio verso questi valori, scaturiti dal miracolo economico, che la società italiana continuerà a dirigersi. I modelli di riferimento adottati dai contestatori, del resto, appartengono a realtà terzomondiste, come Cuba, la Cina e il Vietnam, che male si adattano alla società italiana. Il movimento rivoluzionario, inoltre, è una piccola minoranza che non riesce a coinvolge la maggioranza degli operi, anche a causa delle profonda eterogeneità della classe proletaria italiana (grande industria del nord; campagna industrializzata della terza Italia, ecc.).

Nei primi anni Settanta la contestazione studentesca e l’offensiva sindacale (che ha ottenuto la firma dei contratti collettivi) perdono vigore. Nel nord del Paese, contro i disordini provocati dai gruppi di estrema sinistra, scende in piazza la cosiddetta "maggioranza silenziosa". Al sud, invece, è la destra ad alzare la voce come nel caso della rivolta di Reggio Calabria e de L’Aquila (alle elezioni amministrative del 13 giugno 1971, nei centri meridionali si registra un netto balzo in avanti del MSI).

L’Italia arriva così alla vigilia di una nuova e ben più grave emergenza, quella del terrorismo, i cosiddetti "anni di piombo", caratterizzati da una incredibile serie di attentati e stragi. Il terrorismo non ha un volto unico, ma è un fenomeno estremamente variegato e poliedrico. C’è un terrorismo di destra e un terrorismo di sinistra (su tutti, le Brigate Rosse). E si è perfino ipotizzata l’esistenza di un terrorismo di Stato, cioè ad opera di rami deviati dei servizi segreti, funzionale cioè agli interessi di determinate parti politiche. Ma sulla gran parte degli avvenimenti di quegli anni, la magistratura ancora non ha fatto piena luce.

Verso il compromesso storico

La quinta legislatura è la prima a finire con lo scioglimento anticipato delle camere. Questa soluzione fa comodo a tutti i partiti perché permette di rinviare lo svolgimento del referendum abrogativo della legge sul divorzio: le forze di sinistra, che hanno voluto fortemente la legge, temono infatti di essere sconfessate dagli elettori, mentre la DC vuole ad ogni costo evitare di dover combattere una accesa battaglia referendaria contro il divorzio spalla a spalla col MSI, pregiudicando la possibilità di rimettere in piedi la coalizione di centrosinistra.

L’ultimo governo della quinta legislatura ed il primo della successiva sono guidati da Giulio Andreotti, con l’appoggio di liberali, socialdemocratici e repubblicani. Sono i cosiddetti governi della "centralità", e segnano una battuta d’arresto del censtrosinistra.

L’alleanza DC-PSI viene ripristinata nell’estate del 1973, grazie all’accordo di palazzo Giustiniani fra i tre principali esponenti democristiani Moro, Fanfani e Rumor. Il problema più urgente da fronteggiare è la crisi economica. La politica di dilatazione della spesa pubblica finora seguita, la cosiddetta "politica delle mance", ha fatto crescere l’inflazione. Il 1973 è anche l’anno della crisi petrolifera, che costringe ad adottare severe misure restrittive di risparmio energetico. Per fronteggiare questa situazione, il quarto governo Rumor si affida ad uno speciale direttorio interministeriale, la cosiddetta troika, con Colombo alle Finanze, Giolitti al Bilancio e La Malfa al Tesoro.

Il PCI, dal canto suo, annuncia una opposizione più tenue sui temi di politica economica e il voto favorevole sui provvedimenti utili ad alleviare la crisi. Inizia così la marcia di avvicinamento al governo e sul finire del 1973 il nuovo segretario Berlinguer - succeduto a Longo - lancia per la prima volta l’idea del "compromesso storico", tra Dc e Pci. A livello internazionale, intanto, sta per essere inaugurata, con i partiti comunisti di Francia e Spagna, la linea dell’eurocomunismo, incentrata sulla richiesta di una maggiore autonomia da Mosca nell’elaborare, nei diversi contesti in cui si opera, la propria strategia per la conquista del potere.

Nel maggio del 1974 si svolge il referendum sul divorzio, che rappresenta un momento di passaggio decisivo nella storia politica italiana ed in particolare nella vicenda del centrosinistra. La scelta imposta dal referendum, infatti, segna una netta spaccatura tra laici e cattolici e perciò mette a nudo l’incapacità dell’alleanza tra DC e PSI di proporsi come guida della società civile a causa del forte disaccordo su molti temi cruciali come, oltre al divorzio, l’aborto, la politica economica e l’ordine pubblico (la legge Reale, che da più poteri alle forze di polizia, passa malgrado l’astensione socialista, grazie al voto favorevole dei missini).

A fine anno i socialisti escono dal governo Rumor, al quale succede un esecutivo guidato dal leader democristiano Aldo Moro, favorevole ad instaurare un dialogo con l’opposizione comunista. Sei mesi più tardi, alle elezioni amministrative, le prime in cui votano anche i diciottenni, il PCI ottiene un notevole successo, ridisegnando a vantaggio delle forze di sinistra la mappa del potere locale. Per lo scenario politico italiano è un piccolo terremoto: il massiccio spostamento a sinistra dell’elettorato - non solo quello giovanile giovani, ma anche ceti medi e cattolici – dimostra che per la prima volta si guarda al PCI non più come fautore di tendenze rivoluzionarie, bensì di tecniche di buon governo.

Sullo sfondo, intanto, impazza il terrorismo in un clima di terrore e di tensione. E proprio per fronteggiare questa drammatica situazione, si fa strada l’idea di un governo di solidarietà nazionale, cioè con la partecipazione anche del PCI. La legislatura termina con lo scioglimento anticipato delle camere, per iniziativa dei socialisti che vogliono sfruttare alle politiche l’onda del successo elettorale delle amministrative. Le elezioni del 20 giugno 1976, segneranno una nuova svolta nella storia politica italiana.

 

Fonte: http://blog.reteluna.it/comunicazionelecce/wp-content/uploads/2009/03/riassunti-storia-contemporanea.doc

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