Norberto Bobbio biografia vita e opere
Norberto Bobbio biografia vita e opere
Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti. Se vuoi saperne di più leggi la nostra Cookie Policy. Scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento acconsenti all’uso dei cookie.I testi seguenti sono di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente a studenti , docenti e agli utenti del web i loro testi per sole finalità illustrative didattiche e scientifiche.
Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).
Norberto Bobbio biografia vita e opere
 Recensione Bobbio Norberto, Autobiografia, a cura di A. Papuzzi,  Laterza, Bari 1997
Recensione Bobbio Norberto, Autobiografia, a cura di A. Papuzzi,  Laterza, Bari 1997
Norberto  Bobbio (Torino, 18 ottobre 1909 – Torino, 9 gennaio 2004) è stato un filosofo,  storico e politologo italiano.
  È  considerato uno dei maggiori intellettuali del Novecento ed una delle  personalità culturali più influenti Bobbio nacque a Torino il 18 ottobre 1909  da Luigi (medico) e Rosa Caviglia.
  Una  condizione familiare agiata gli permise una infanzia serena. Il giovane  Norberto scrive versi, ama Bach e la Traviata, ma svilupperà, per causa di una  non ben determinata malattia, un sentimento malinconico di fondo che si  rivelerà poi essenziale nella sua maturazione.
  Studiò  prima al Ginnasio e poi al Liceo classico Massimo D'Azeglio dove conoscerà  Ginzburg, Foa e Cesare Pavese, poi divenute figure di primo piano della cultura  dell'Italia repubblicana. Dal 1928, come molti giovani dell'epoca, fu infine  iscritto al Partito Nazionale Fascista.
  La  sua giovinezza, come da egli stesso descritto fu: "vissuta tra un convinto  fascismo patriottico in famiglia e un altrettanto fermo antifascismo appreso  nella scuola, con insegnanti noti antifascisti, come Umberto Cosmo e Zino Zini,  e compagni altrettanto intransigenti antifascisti come Leone Ginzburg e  Vittorio Foa".
  Allievo  di Gioele Solari e Luigi Einaudi, si laureò in giurisprudenza nel 1931 con una  tesi su "Filosofia e dogmatica [Scienza] del Diritto". Nel 1932 seguì  un corso estivo all'Università di Marburg, in Germania, insieme a Renato Treves  e Ludovico Geymonat, ove conoscerà le teorie di Jaspers e i valori  dell'esistenzialismo. L'anno seguente, il 1933, si laureò anche in filosofia  con una tesi su Husserl e la fenomenologia e nel 1934 conseguì la libera  docenza in filosofia del diritto, che gli aprì le porte nel 1935  all'insegnamento, dapprima all'università di Camerino (Macerata), poi  all'università di Siena e a Padova (dal 1940 al 1948). Nel 1934 pubblicò il  primo libro, L'indirizzo fenomenologico nella filosofia sociale e giuridica.
  Le  sue frequentazioni sgradite al regime gli valsero, nel 1935, un primo arresto a  Torino, insieme agli amici del gruppo antifascista Giustizia e Libertà.[1] La  chiara reputazione fascista di cui godeva la famiglia gli permise però una  piena riabilitazione, tanto che, pochi mesi dopo, ottenne la cattedra di  filosofia del diritto a Camerino.
  E'  in questi anni che Norberto Bobbio delineò parte degli interessi che saranno  alla base della sua ricerca e dei suoi studi futuri: la filosofia del diritto,  la filosofia contemporanea e gli studi sociali; uno sviluppo culturale che  Bobbio vive contemporaneamente al contesto politico temporale. Un anno dopo le  leggi razziali infatti, esattamente il 3 marzo 1939, giurò fedeltà al Duce per  poter ottenere la cattedra all'Università di Siena. E la giurò ancora nel 1940,  a guerra dichiarata, per insediarsi alla cattedra del professor Adolfo Ravà,  che era stato allontanato perché ebreo, all'Università di Padova. Inoltre  scrisse e fece scrivere ulteriori ed analoghe lettere di perorazione della  propria causa, emerse molti anni dopo. Questa parte della sua vita fu poi  oggetto di svariate e severe critiche personali.
  L'adesione  al Partito d'azione
  Nel  1942 partecipò al movimento liberalsocialista fondato da Guido Calogero e Aldo  Capitini, e nell'ottobre dello stesso anno aderì al Partito d'azione  clandestino. Nel 1943 sposò Valeria Cova: dalla loro unione nacquero i figli  Luigi, Andrea e Marco. Il 6 dicembre del 1943 fu arrestato a Padova per  attività clandestina e rimase in carcere per tre mesi. Nel 1944 venne  pubblicato il saggio La filosofia del decadentismo, nel quale criticò  l'esistenzialismo.
  Dopo  la liberazione collaborò regolarmente con Giustizia e Libertà, quotidiano  torinese del Partito d'azione, diretto da Franco Venturi. Collaborò  all'attività del Centro di studi metodologici con lo scopo di favorire  l'incontro tra cultura scientifica e cultura umanistica, e poi con la Società  Europea di Cultura.
  L'attività  accademica
  Nel  1948 lasciò l'incarico a Padova e venne chiamato alla cattedra di filosofia del  diritto dell'Università di Torino, annoverando corsi di notevole importanza  come Teoria della scienza giuridica (1950), Teoria della norma giuridica  (1958), Teoria dell'ordinamento giuridico (1960) e Il positivismo giuridico  (1961). Dal 1962 assunse l'incarico di insegnare scienza politica, che  ricoprirà sino al 1971.
  La  politica, del resto, divenne via via un tema fondamentale nel suo percorso  intellettuale e accademico, e parallelamente alla pubblicazioni di carattere  giuridico, avviò un dibattito con gli intellettuali del tempo; nel 1955 scrisse  Politica e cultura, considerato una delle sue pietre miliari, mentre nel 1969  uscì il libro Saggi sulla scienza politica in Italia, e nello stesso anno fu  tra i fondatori della odierna facoltà di Scienze politiche all'Università di Torino  insieme con Alessandro Passerin d'Entrèves, al quale subentrò nella cattedra di  filosofia politica nel 1972, e dal 1973 al 1976 divenne preside della facoltà.
  Nei  venticinque anni accademici all'ombra della mole, Bobbio svolse anche diversi  tra corsi su Kant, Locke, lavori su Hobbes e Marx, Hans Kelsen, Carlo Cattaneo,  Hegel, Pareto, Gaetano Mosca, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, e contribuì con  una pluralità di saggi, scritti, articoli ed interventi di grande rilievo che  lo portarono, in seguito a diventare socio dell'Accademia dei Lincei e della  British Academy.
  Significativa  la collaborazione, sul tema pacifista, col filosofo e amico antifascista Aldo  Capitini, le cui riflessioni comuni sfoceranno nell'opera I problemi della  guerra e le vie della pace (1979).
  L'attività  politica
  Nel  1953 partecipò alla lotta condotta dal movimento di Unità popolare contro la  legge elettorale maggioritaria e nel 1967 alla Costituente del Partito  socialista unificato. Nel tempo delle contestazioni giovanili, Torino fu la  prima città a farsi carico della protesta, e Bobbio, fautore del dialogo, non  si sottrasse ad un difficile confronto con gli studenti, tra i quali il suo  stesso primogenito. Nel contempo, venne anche incaricato dal Ministero per la  Pubblica Istruzione quale membro della Commissione tecnica per la creazione  della facoltà di sociologia di Trento.
  Fu  tra i firmatari del controverso appello pubblicato sul settimanale L'espresso  contro il commissario Luigi Calabresi, e a metà degli anni settanta, nel solco  di un sempre più vivace impegno civile, ed alle soglie di uno dei periodi più  drammatici in Italia (culminato col rapimento e l'omicidio di Aldo Moro),  provocò un vivace dibattito sia negando l'esistenza di una cultura fascista che  trattando estensivamente sui rapporti tra democrazia e socialismo.  Successivamente la sua attenzione si concentrò a favore di una "politica  per la pace", con dei motivati distinguo a supporto del diritto  internazionale in occasione della guerra del golfo del 1991. [2]
  La  nomina a senatore a vita
  Nel  1979 fu nominato professore emerito dell'Università di Torino, nel 1984 fu  nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini. In  quanto membro del Senato si iscrisse prima come indipendente nel gruppo  socialista, poi dal 1994 al gruppo misto ed infine dal 1996 al gruppo  parlamentare del Partito Democratico della Sinistra, poi divenuto dei  Democratici di sinistra.
  Nel  1994, dopo la stagione di mani pulite, e la cosiddetta fine della Prima  Repubblica, venne pubblicato il saggio Destra e sinistra, i cui contenuti  -tuttora di concreta attualità- provocarono un notevole dibattito culturale,  agitando non poco l'humus della politica italiana. Il libro toccò le  cinquecentomila copie vendute in pochi mesi e venne ripubblicato l'anno  successivo, riveduto e ampliato, con risposte ai critici.
  A  riconoscimento di una intera vita lucidamente dedicata alle scienze del  diritto, della politica, della filosofia e della società, tra dubbio e metodo,  tra ethos e laicità, Bobbio ricevette lauree honoris causa da molte università,  tra le quali quelle di Parigi (Nanterre), Buenos Aires, Madrid (tre, in  particolare alla Complutense) e Bologna, e vinse il Premio Balzan del 1994, ed  il Premio Agnelli nel 1995.
  Nel  1997 pubblicò la sua autobiografia. Nel 1999 uscì una terza edizione aggiornata  del suo best seller, ormai tradotto in una ventina di lingue. Nel 2001 morì la  moglie Valeria, e Bobbio iniziò un graduale ritiro dalla vita pubblica, pur  rimanendo in attività e curando ulteriori pubblicazioni. Fecero rumore le sue  osservazioni critiche sia nei confronti di Silvio Berlusconi che del  centrosinistra e della partitopenia. Il 18 ottobre 2003, ricevette il  "Sigillo Civico" della sua Torino "per l'impegno politico e il  contributo alla riflessione storica e culturale".
  Norberto  Bobbio morì a Torino il 9 gennaio 2004, e la salma venne deposta dopo alcuni  giorni in forma strettamente privata, secondo le sue volontà, ed una regolare  messa funebre, nel cimitero di Rivalta Bormida, comune piemontese in provincia  di Alessandria.
Fonte: http://www.salvobertolami.net/WEB%20biblioteca/Documenti%20Recensioni%20Libri/Bobbio%20Norberto_autobiografia.doc
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
Parola chiave google : Norberto Bobbio biografia vita e opere tipo file : doc
Norberto Bobbio biografia vita e opere
CONSUETUDINE (1961) 
  a) TEORIA GENERALE
1.      Considerazioni  preliminari. 
  2.      La consuetudine come  fonte di diritto. 
  3.      I requisiti della  consuetudine. 
  4.      Il fondamento del  diritto consuetudinario cercato nell'autorità del soggetto che lo pone. 
  5.      ... nel comportamento  degli utenti. 
  6.      ... nella materia  regolata. 
  7.      ... nel  riconoscimento del giudice. 
  8.      ... nell'appartenenza  ad un ordinamento giuridico. 
  9.      Confronto tra  consuetudine e legge. 
  10.  Consuetudine superiore alla  legge. 
  11.  Consuetudine pari  alla legge. 
  12.  Consuetudine  inferiore alla legge. 
  13.  Consuetudine e legge  nell'evoluzione del diritto. 
  1. Considerazioni preliminari. 
  Tutta la nostra  tradizione giuridica è dominata dalla distinzione tra due modi tipici di  produzione del diritto: la consuetudine e la legge. La consuetudine rappresenta il modo  spontaneo, naturale, incosciente, informale, contrapposto a quello riflesso,  artificiale, cosciente, formale. Ancor più plasticamente, la consuetudine  rappresenta il diritto che nasce direttamente dai conflitti sociali esistenti  in una determinata società, la legge il diritto che nasce dalla società attraverso  l'intermediazione di un potere organizzato. La forza da cui scaturisce la prima  è quella della tradizione; la forza da cui nasce la seconda è quella di una  volontà dominante: l'una impersonale, l'altra personale o personificata. Non vi  è società organizzata in cui questi due momenti della produzione giuridica non  siano, in misura maggiore o minore, presenti. La storia della consuetudine è la  storia della funzione e dell'efficacia delle regole derivanti dal costume nella  evoluzione del diritto. Ma questa storia deve esser tenuta distinta dalla  storia della dottrina sulla consuetudine, che è la storia del modo con cui i  giuristi hanno valutato la funzione e l'efficacia del diritto consuetudinario.  Le due storie non coincidono necessariamente. Non bisogna dimenticare che la  dottrina giuridica ha scopi non solo descrittivi, ma prescrittivi: orbene, nei  paesi sotto l'influsso del diritto romano, dominati dalla codificazione  giustinianea prima, dalle codificazioni moderne poi, la dottrina ha di solito sottovalutato  l'elemento consuetudinario nella formazione del diritto. La sua maggior  preoccupazione, generalmente, è stata quella di stabilirne i limiti o di  giustificarlo riducendolo a qualche cosa d'altro (ora alla volontà del  legislatore, ora al riconoscimento del giudice); e ciò nonostante è risuonata  frequentemente sulla bocca dei giuristi dell'ultimo secolo la recriminazione  sul troppo inchiostro versato per un argomento così poco degno, sulla  sproporzione tra le pagine dedicate allo studio della consuetudine e la sua  scarsa o nulla importanza pratica. In due momenti soltanto della storia del  pensiero giuridico più recente la consuetudine ha avuto, nell'àmbito del  diritto statale, il suo quarto d'ora di celebrità, con la scuola storica al  principio del secolo scorso, con la scuola del diritto libero, al principio di  questo: entrambe caratterizzate da un'appassionata (e sfortunata) reazione  contro l'onnipotenza del diritto legislativo. Lo studio del diritto  consuetudinario oggi è affidato quasi esclusivamente alla dottrina del diritto  internazionale, dove, da ultimo, il concetto di diritto spontaneo ha fornito il  principale argomento contro la concezione tradizionale del diritto positivo (1); ed è pur sempre coltivato in  quella sede di ricerche più dottrinali che pratiche, che è la teoria generale  del diritto, dove la consuetudine è un banco di prova severissimo per i  concetti generali del diritto, come imperatività, destinatari, validità ed  effettività. Ma non manca qualche sintomo di risveglio anche nell'àmbito del  diritto statale vigente (2). 
  I problemi essenziali  che la dottrina della consuetudine ha dovuto affrontare nel corso dei secoli  sono due: la natura del diritto consuetudinario; la forza del diritto  consuetudinario nella società. Sono i problemi a cui è dedicata prevalentemente  questa voce, la quale tratta del primo nei § 2-8, del secondo nei § 9-13. Nella  trattazione del primo, abbiamo fatto frequenti riferimenti alla storia della  dottrina della consuetudine; nella trattazione del secondo, alla storia della  consuetudine. 
  NOTA: 
  (1) AGO, Diritto positivo e diritto internazionale, in Comunicazioni e studi  dell'Istituto di diritto internazionale e straniero dell'Università di Milano, Milano, 1955. 
  NOTA: 
  (2) Mi riferisco in modo particolare agli studi del  BALOSSINI, Consuetudini, usi, pratiche, regole del costume, Milano, 1958; ID., Gli usi del commercio tessile in  Italia, Milano, 1954; ID., Gli usi locativi urbani in Italia, Milano, 1958; ID., Usi e tariffe della mediazione in  Italia, Milano, 1959. Di  questi studi, e segnatamente del primo, mi sono valso nella redazione della  presente voce. 
  2. La consuetudine come fonte di  diritto. 
  La consuetudine è una  specie del genere «fonti del diritto». La sua teoria si inserisce nella teoria  più generale delle fonti del diritto (v. Fonti del diritto ). Che la consuetudine sia una  fonte del diritto, è dottrina comune. Ma è tutt'altro che pacifico il  significato dell'espressione «fonti del diritto». Secondo che si attribuisca a  «fonti del diritto» questa o quella ac accezione, anche il significato del  termine «consuetrudine» è destinato a mutare. È particolarmente rilevante, allo  scopo di dare una definizione iniziale della consuetudine, la distinzione tra  fonti di cognizione giuridica e fonti di produzione giuridica. Per fonte di  cognizione si intende il complesso dei materiali da cui l'organo autorizzato a  emanare norme giuridiche trae il contenuto della disposizione che esso  pronuncia; per fonte di produzione, il fatto che un determinato ordinamento  giuridico considera idoneo a produrre norme giuridiche. La mancata distinzione  tra i due significati è causa talora di confusione o di difficoltà meramente  verbali: ad esempio, la dottrina, cioè il complesso delle opere dei giuristi, è  fonte di cognizione, anzi, è, nelle società giuridicamente evolute, la fonte di  cognizione per eccellenza, quella da cui il legislatore e il giudice traggono  più frequentemente i materiali per elaborare norme giuridiche; quando ci si  domanda se la natura delle cose sia fonte di diritto, la difficoltà si scioglie  se si risponde che essa è fonte non di produzione, ma di cognizione; le  decisioni dei giudici sono nello stesso tempo fonti di produzione giuridica nel  singolo caso deciso, o con riguardo ai casi futuri dove vige il principio del  precedente obbligatorio, e fonti di cognizione per i giudici successivi non vincolati  dal precedente; la legge che è di solito la fonte di produzione per eccellenza,  diventa fonte di cognizione per il giurista che ne trae la maggior parte dei  materiali per le proprie costruzioni scientifiche. 
  Quanto alla  consuetudine, che essa sia fonte di cognizione, non dà luogo a dubbi: anche  coloro che la considerano fonte secondaria o indiretta, nel senso di  attribuirle forza vincolante solo in quanto venga espressamente o tacitamente  riconosciuta da fonti primarie o dirette, come la legge o la giurisprudenza,  non negano che da essa tanto il legislatore quanto il giudice possano trarre  materiali idonei alla produzione di norme giuridiche. Chi nega alla  consuetudine il carattere di fonte del diritto, non rifiuta di attribuirle il  carattere di fonte di cognizione, bensì quello di fonte di produzione. Sulla  considerazione della consuetudine come fonte di produzione, la dottrina è  discorde. In sede di teoria generale del diritto, il problema principale e  tradizionale della consuetudine è se essa sia fonte di produzione giuridica, in  qual senso ed entro quali limiti. L'affermazione che essa sia fonte di  produzione giuridica significa: 1) che è un procedimento idoneo a produrre  regole di condotta; 2) che le regole di condotta, da essa prodotte, appartengono  a quella specie particolare di regole, che sono le norme giuridiche. La prima  affermazione è generalmente ammessa; la seconda, invece, è contestata. Le  critiche che si sogliono muovere alla consuetudine come fonte di diritto sono  rivolte a negare alla consuetudine la capacità non già di produrre regole di  condotta, ma di produrre regole giuridiche, cioè regole di una specie  particolare. Il riconoscere in ogni società l'esistenza di regole del costume  non conduce necessariamente all'ammissione che vi siano regole giuridiche  consuetudinarie accanto alle regole giuridiche formatesi attraverso il  procedimento della legislazione o della giurisprudenza. Le regole  consuetudinarie danno luogo a quel fenomeno, comune ad ogni società, che è il  costume: ora il costume non è diritto; anzi la differenza fra diritto e costume  viene cercata di solito proprio nella differenza fra le rispettive regole di  condotta. 
  3. I requisiti della consuetudine. 
  La consuetudine in  ogni società, e specie nelle società primitive, è una delle principali fonti di  regole di condotta. Regole sociali nascono, o dalla tradizione, o da autorità  pubbliche costituite e riconosciute, o dalla necessità o natura delle cose. Le  regole consuetudinarie sono quelle che nascono dalla forza della tradizione. La  dottrina giuridica si è soffermata con particolare attenzione sulla  consuetudine in quanto generatrice di regole di condotta, e ha per lunga e  costante tradizione fissato alcuni requisiti che essa considera come  determinanti per la formazione di una regola consuetudinaria, e quindi come  delimitanti l'àmbito di validità di una regola consuetudinaria al fini della  sua applicazione nei tribunali. Si tratta della dottrina dei cosiddetti  requisiti esterni, che costituiscono l'elemento materiale della consuetudine,  inteso come contrapposto a spirituale o a psicologico, e non a formale,  giacché, se si considera, anziché la coppia materiale-spirituale, la coppia  materiale-formale, quei requisiti costituiscono l'elemento formale, piuttosto  che quello materiale, cioè la forma che la consuetudine deve assumere per  essere idonea a produrre regole di condotta, indipendentemente dal contenuto,  preso in considerazione da altri requisiti (come, ad esempio, la rationabilitas). 
  Il principale  requisito esterno è il decorso del tempo, ovvero il fatto che i comportamenti,  oggetto della regola, sono stati ripetuti per un certo periodo di tempo. Che il  decorso del tempo idoneo alla formazione di una regola consuetudinaria debba  essere quantitativamente determinato, non è regola costante: la disciplina del  diritto canonico che, attraverso una analogia tra diritto consuetudinario e  prescrizione, fissa il numero degli anni utili alla formazione della  consuetudine (§ 11), non trova riscontro negli ordinamenti statali contemporanei,  che lasciano il giudizio sulla vetustà della consuetudine al libero  apprezzamento del giudice. Nel diritto inglese, la consuetudine doveva essere  immemorabile, e si intendeva per immemorabile quella consuetudine di cui  potevasi provare l'esistenza prima del 1189, primo anno del regno di Riccardo  I. 
  È dottrina costante,  invece, dal diritto comune in poi, quella che enumera alcuni requisiti come  necessari alla ripetizione o reiterazione dei comportamenti, oggetto della  regola consuetudinaria, affinché il decorso del tempo dia origine ad una regola  consuetudinaria. Vari e non sempre perfettamente coincidenti sono i requisiti  della ripetizione, di volta in volta enumerati. Una certa concordanza esiste  nell'accoglimento dei cinque seguenti: 1) generalità; 2) uniformità; 3)  costanza (o continuità); 4) frequenza; 5) pubblicità. Per «generalità» si  intende che il comportamento ripetuto non deve essere di una sola persona, ma  di più persone, della maggior parte delle persone che si trovano nella  situazione prevista; per «uniformità» si intende che quella generalità di  persone deve comportarsi, nella situazione prevista, in modo identico o  perlomeno simile (ma questo requisito è già contenuto nella stessa nozione di  ripetizione, perché, se i comportamenti non fossero uniformi, non si potrebbe  neppure parlare di ripetizione); per «costanza» (o continuità), che la  ripetizione non deve essere interrotta; per «frequenza», che, oltre che non  interrotta, deve succedersi a brevi intervalli; per «pubblicità», che il  diritto di cui si chiede il riconoscimento in base alla regola consuetudinaria  consolidata, non sia stato esercitato segretamente. 
  Questi requisiti sono  stati elaborati dalla dottrina nei confronti delle consuetudini che si formano  nei rapporti tra privati, per esempio, degli usi del commercio o  dell'agricoltura. Altro discorso conviene che sia fatto circa le consuetudini  nel diritto pubblico o nel diritto internazionale. Qui il decorso del tempo ha  minore importanza e in nessun caso è richiesta la longi temporis praescriptio. Via via che si passa, per quel  che riguarda gli utenti, dai privati agli organi dotati di poteri d'impero, e  quindi capaci di produrre diritto scritto volontario, la formazione della  regola consuetudinaria diventa sempre più rapida, sino al caso limite degli  organi legislativi supremi, come il Parlamento, in cui può bastare talora un  solo atto innovativo per dar vita ad una norma costituzionale non scritta: in  questo caso, però, mentre è corretto parlare di diritto costituzionale non  scritto in contrapposto al diritto legislativo o scritto, non è altrettanto  corretto parlare di diritto consuetudinario, perché è venuta a mancare per la  formazione della regola quella ripetizione dei comportamenti, in cui consiste la consuetudine. Il termine più proprio per indicare  questo modo di formazione del diritto è «precedente». Si può dire allora che  nel caso di organi dotati di potestà d'impero il diritto non scritto conosce,  accanto alla figura della regola consuetudinaria propriamente detta, quella del  precedente; ma, com'è noto, molto spesso l'espressione «diritto  consuetudinario» viene adoperata in senso largo, per indicare ogni specie di  diritto non scritto, o addirittura il diritto non legislativo. Tra i requisiti  della ripetizione della consuetudine privatistica quello che certamente vien  meno nel caso di consuetudine costituzionale, là dove ripetizione vi è stata, è  quello della generalità: la consuetudine costituzionale può nascere dal  comportamento uniforme e costante di un organo solo, sia esso il governo, uno  dei rami del Parlamento e così via. Anche il requisito della frequenza,  trattandosi di comportamenti di solito non numerosi, perde gran parte del suo  valore (3). 
  NOTA: 
  (3) Ricordiamo, a puro titolo di curiosità, la tesi di  chi ha negato ogni valore all'elemento temporale della consuetudine e vi ha  sostituito l'elemento spaziale, sostenendo che «la ripetizione uniforme della  data condotta non è necessario che si diluisca nel tempo, quando sia estesa  nello spazio, cioè nella società, sia essa professionale o territoriale»  (FERRARI, Introduzione ad uno studio sul diritto pubblico  consuetudinario, Milano, 1950, 67). 
  4. Il fondamento del diritto  consuetudinario cercato nell'autorità del soggetto che lo pone. 
  La ripetizione degli  stessi comportamenti per un certo periodo di tempo dà luogo ad una regola  consuetudinaria, ma non di per se stessa ad una regola giuridica, cioè a quella  specie di regole di condotta che costituiscono il diritto consuetudinario.  Anche le regole del costume sono il prodotto di consuetudini. Il cosiddetto  requisito esterno, di cui sin qui si è discorso, non serve a distinguere una  regola del costume da una regola giuridica. Chi ritiene legittimo parlare di un  diritto consuetudinario come di una specie del genere diritto, cioè come di un  insieme di regole giuridiche, deve preoccuparsi di trovare un criterio di  distinzione tra regole del costume e diritto consuetudinario oltre l'elemento  esterno o materiale della ripetizione. La ricerca di questo criterio distintivo  ha dato luogo a differenti opinioni, anzi a vere e proprie scuole, e  costituisce la parte più controversa e di gran lunga più importante della  dottrina intorno alla natura della consuetudine giuridica. 
  In generale si può  dire che la risposta alla domanda qual sia l'elemento che determina il  passaggio dalla consuetudine non giuridica alla consuetudine giuridica, dipende  dalla nozione di diritto di volta in volta prescelta, e che pertanto nella  teoria relativa alla giuridicità delle norme consuetudinarie si ritrova la  varietà delle teorie intorno alla nozione di diritto. La nota differenziale della  norma giuridica rispetto alle norme morali, da un lato, e alle norme del  costume dall'altro, è stata cercata in qualche carattere peculiare ora del  soggetto che la pone, ora del soggetto cui è rivolta, ora della materia  regolata, ora del meccanismo della sanzione. La ricerca della giuridicità delle  norme consuetudinarie ha seguito su per giù questa stessa strada e può  considerarsi quindi come una manifestazione della travagliata vicenda della  definizione del diritto. Le soluzioni, che sono state date di volta in volta al  problema della giuridicità della consuetudine, sono le stesse escogitate per  rispondere alla domanda generale: «che cos'è il diritto?». 
  La dottrina  tradizionale della consuetudine, detta comunemente romano-canonistica, che ha  dominato incontrastata sino al fiorire della scuola storica, passando dal  diritto romano al diritto comune, dal diritto canonico al diritto civile, dal  diritto dello Stato al diritto internazionale, cerca il fondamento del valore  giuridico della regola consuetudinaria nel prestigio del soggetto cui deve la  propria esistenza, il popolo, considerato come l'organo per eccellenza di ogni  forma di produzione giuridica. Sotto questo rispetto il diritto consuetudinario  non si distingue dal diritto legislativo: il fondamento della loro forza  giuridica è lo stesso, cioè la volontà del popolo. La differenza è puramente e  semplicemente procedurale: nella formazione della legge la volontà del popolo è  espressa (direttamente o indirettamente); nella formazione della consuetudine la  volontà del popolo è tacita. In un celebre passo di Ermogeniano (D. 1, 3, 35),  ove si vuol mostrare che legge e consuetudine hanno pari dignità, la seconda è  chiamata tacita civium conventio. In un altro celebre passo,  Giuliano pone legge e consuetudine sullo stesso piano con queste parole: «Nam  quid interest suffragio populus voluntatem suam declaret an rebus ipsis et  factis?» (D. 1, 3, 32, 1) (4). Nell'elaborazione del pensiero  giuridico medioevale, sino alle soglie dell'età moderna, considerato il popolo  come ente politico, titolare del potere sovrano, la dottrina della consuetudine  continua ad appartenere a quelle teorie del diritto che cercano l'elemento  caratteristico delle norme giuridiche, e quindi anche della consuetudine, nella  natura particolare del potere da cui promanano, consistente nella superiorità o  sovranità, intesa come potere invincibile, che sta a fondamento di ogni altro  potere e non è da alcun altro a sua volta fondato. Così si spiega perché nella  dottrina medioevale, e più ancora in quella dei giuristi durante il prevalere  delle monarchie assolute, la tesi originaria della tacita voluntas populi sia stata soppiantata da quella  della tacita voluntas principis o superioris, senza che la soluzione del  problema giuridico della consuetudine abbia cambiato natura: nell'un caso e  nell'altro, viene considerata norma giuridica quella che può essere fatta  risalire alla volontà di colui o coloro che detengono il potere sovrano. Ciò  che mutava in questo passaggio era il prestigio della consuetudine come fonte  autonoma di diritto: mentre il popolo può essere considerato autore di norme e  legislative e consuetudinarie, il principe è l'autore per eccellenza del solo  diritto legislativo, e pertanto ammettere come norme giuridiche solo le  consuetudini approvate dal principe significava disconoscere l'autonomia del  diritto consuetudinario. Non diverso è stato il tipo di soluzione dato al  problema del fondamento della consuetudine nel diritto internazionale, nella  prima fase del positivismo giuridico, oggi superata, quando si sostenne che la  consuetudine internazionale derivava la sua validità giuridica dal tacito  consenso degli Stati: anche in questo caso la teoria della consuetudine si  identificava con la teoria secondo cui diritto è il complesso delle regole  emanate direttamente o indirettamente dai soggetti che detengono il potere  sovrano. 
  La volontà tacita del  popolo o del principe era una finzione legalistica. A questo modo di porre il  problema della consuetudine, che si era tramandato per secoli, reagì  energicamente la scuola storica con un tipo di analisi che oggi diremmo  sociologica o realistica, anche se sfociava nella scoperta di un'entità  piuttosto misteriosa e inafferrabile, com'era lo spirito del popolo. Fondamento  del valore giuridico della consuetudine era pur sempre il popolo, ma non più  come ente politico della dottrina tradizionale, ma come formazione naturale, o sociale,  contrapposta alla formazione artificiale dello Stato. Il PUCHTA, che fu il  maggior seguace del SAVIGNY, e uno dei più profondi studiosi del diritto  consuetudinario (5), affermava che tre sono le vie  di formazione del diritto: l'accordo naturale delle convinzioni, la  legislazione e la scienza, donde derivano rispettivamente il diritto  consuetudinario, il diritto promulgato, e il diritto dei giuristi o  scientifico. Ogni forma di diritto nasce dalla convinzione giuridica del  popolo: il popolo, non lo Stato, è il creatore originario del diritto in tutte  le sue forme. Ma la fonte genuina, immediata, quella da cui anche le altre forme  giuridiche, quella legislativa e quella scientifica, derivano, è il diritto  popolare che nella consuetudine ha la sua manifestazione e la prova della sua  esistenza. In contrasto con le teorie sino allora dominanti intorno alla  consuetudine, il PUCHTA fissa essenzialmente tre punti: 1) il diritto  consuetudinario sorge dal popolo in senso naturale e non in senso politico; 2)  sorge in modo immediato a differenza del diritto scientifico con cui troppe  volte è confuso; 3) si esprime nel costume, cioè nel comportamento generale,  costante, uniforme dei consociati, onde viene invertita la tesi tradizionale  che faceva del diritto un prodotto del costume, essendo, invece, secondo il  PUCHTA, il costume un prodotto del diritto; e pertanto la ripetizione non è  elemento costitutivo, ma soltanto probativo del diritto popolare. La  rivalutazione del diritto consuetudinario, compiuta dalla scuola storica,  consistette nel fare del diritto popolare, che si esprime nel costume, la fonte  principale del diritto, mentre la dottrina tradizionale, elaborata nella tarda  epoca del diritto romano, quando il diritto scritto aveva preso ormai il  sopravvento sul diritto non scritto, aveva espresso la tendenza opposta,  attribuendo alla consuetudine un fondamento che l'avvicinasse alla legge, ne  facesse un'imitazione della legge, come aveva detto in un noto passo il  giurista Gaio: «Nam diuturni mores consensu utentium comprobati legem  imitantur» (I, 1, 2, 9). Rispetto alla teoria tradizionale, che poneva il  fondamento della consuetudine nella volontà del legislatore, il PUCHTA  replicava che lo Stato stesso, nella migliore delle ipotesi, derivava il  proprio potere da quella stessa convinzione popolare da cui lo traeva il  diritto consuetudinario. 
  NOTA: 
  (4) Per la storia della dottrina sulla consuetudine,  fondamentale è ancora l'opera di BRIE, Die Lehre vom Gewohnheitsrecht.  Eine historisch-dogmatische Untersuchung, Breslau, 1899. La più ampia trattazione e critica  della dottrina romano-canonistica si trova in LAMBERT, La fonction du droit civil  comparé, Paris, 1903,  111-804. Pur sempre da consultare come fonte storica è la classica opera di  PUCHTA, Das Gewohnheitsrecht, 2 voll., Erlangen, 1828-1837, soprattutto il primo  volume. Per un particolareggiato commento al frammento di GIULIANO, sopra  citato, cfr. STEINWENTER, Zur Lehre vom Gewohnheitsrecht, in Studi in onore di Bonfante, II, Milano, 1930, 419-441. 
  NOTA: 
  (5) PUCHTA, op. cit. 
  5. ... nel comportamento degli  utenti. 
  La teoria più diffusa  intorno alla natura giuridica della consuetudine è quella che cerca di  spiegarla non già riferendosi al soggetto che pone la norma ma a quello, o  meglio a quelli cui la norma è rivolta, e che possiamo chiamare gli utenti; in  particolare al modo con cui la norma consuetudinaria non già è posta, ma è  accolta e seguita. Si tratta della teoria dell'opinio iuris et necessitatis,  secondo cui il carattere che contraddistingue una regola del costume da una  norma giuridica è il cosiddetto requisito interno o psicologico o spirituale,  inteso come credenza o convinzione o sentimento che il comportamento sia  giuridicamente obbligatorio, perché conforme ad una norma giuridica valida o  giusta, e pertanto l'atto contrario sia da considerarsi illecito e quindi  assoggettabile ad una sanzione giuridica. 
  Questa teoria deve  essere distinta da quella precedente della volontà o convinzione popolare, con  cui pur sovente è confusa: anzitutto occorre considerare che opinio significa «credenza», e non  «volontà» o «convinzione»; in secondo luogo la volontà o convinzione popolare è  uno stato collettivo che sta prima dello svolgersi della consuetudine nel  tempo, mentre l'opinio iuris è un atto individuale che, o  accompagna il formarsi della consuetudine, o, secondo un'interpretazione forse  più plausibile, addirittura la segue. La convinzione popolare esprime  l'idea di una fondazione del diritto consuetudinario prima della ripetizione;  l'opinio iuris di una fondazione contemporanea o successiva alla  ripetizione. 
  Importa sottolineare  che la derivazione del carattere giuridico del diritto consuetudinario  dall'atteggiamento dei destinatari è stata fatta valere per determinare non  soltanto la nozione specifica di diritto consuetudinario, ma anche quella  generica di diritto, da parte delle cosiddette teorie psicologiche del diritto: ad esempio, il  MICELI afferma che norma giuridica è «quella che viene come tale ritenuta» (6); più recentemente lo HAESAERT  sostiene che ciò che contraddistingue il diritto dal costume, dalle regole del  gioco, ecc., è l'atteggiamento di dipendenza che noi assumiamo di fronte alle prime  contrapposto all'atteggiamento libero con cui eseguiamo le seconde (7). Lo ZITELMANN, che chiamò  psicologica la sua dottrina, secondo cui la validità giuridica di una norma  dipende dalla rappresentazione che il soggetto si fa del suo ripetersi nel  tempo e dalla previsione della sua applicazione in futuro, aveva molto  chiaramente affermato che questa spiegazione valeva tanto per il diritto  legislativo quanto per il consuetudinario, ed era ottenuta non già attraverso  la riduzione della consuetudine alla legge, come facevano i più, ma,  all'inverso, della legge alla consuetudine (8). Diritto legislativo e diritto  consuetudinario sono siffattamente intrecciati nella fenomenologia giuridica di  ogni tempo che, mentre la teoria tradizionale della voluntas tacita del popolo ha cercato di spiegare  la consuetudine riportandola alla legge, la teoria psicologica del diritto ha  cercato, al contrario, di spiegare la legge riconducendola alla consuetudine.  Sarebbe facile dire che sono due visioni unilaterali del diritto, che scambiano  il problema del diritto con una delle sue fonti, se non fosse che diritto  legislativo e diritto consuetudinario, oltre che due fonti del diritto, sono  anche due aspetti mal distinguibili e insieme concorrenti della formazione  giuridica, il momento della posizione o della nascita della regola e il momento  della sua evoluzione ed efficacia nel tempo. 
  Cadute in discredito  le teorie psicologiche con il prevalere del positivismo giuridico di  orientamento normativistico, anche il requisito dell'opinio iuris è stato spesso sottoposto a  critica, e mentre continua ad essere accolto dalla giurisprudenza, è guardato  con diffidenza dalla dottrina: si veda, ad esempio, quel che ne disse il  KELSEN, e da noi il FERRARA (9). Le difficoltà, cui va incontro  la teoria dell'opinio iuris sono, su per giù, le seguenti. Si  può osservare, anzitutto, che la sua ammissione implica un circolo vizioso: da  un lato, si afferma che la norma giuridica consuetudinaria non si costituisce  se non esiste l'opinio; ma, dall'altro lato, l'opiniopresuppone  che la norma giuridica sia già costituita. In altre parole, essa presuppone  proprio quel diritto, che dovrebbe contribuire a costituire. Da questa  difficoltà si può uscire con due possibili soluzioni che non sono esse stesse  scevre di inconvenienti: o si riconosce che l'opinio è fondata sopra un errore, nel  senso che la credenza nell'obbligatorietà di un comportamento è derivata dalla  falsa credenza che esistesse una norma giuridica che in realtà non esiste;  oppure si ammette che l'opinio non abbia valore costitutivo del  diritto consuetudinario, perché la credenza nell'obbligatorietà di un  comportamento presuppone che già esista una regola giuridica valida, ma  soltanto probativo, e pertanto appartenga non già al momento della formazione  della consuetudine, ma a quello della sua efficacia, dopo che è stata formata.  Seguendo la prima via si giunge alla stranezza di concepire tutto il diritto  consuetudinario, proprio quel diritto che vien di solito decorato degli  attributi «spontaneo», «immediato», «corrispondente alla natura delle cose»,  come fondato sopra un errore collettivo; seguendo la seconda, si finisce per negare  proprio quel che si voleva dimostrare, cioè che l'opinio iuris sia necessaria per la formazione  della regola consuetudinaria come regola giuridica. Purtroppo, anche come  elemento probativo, essa sembra di scarsa utilità per quel carattere di inafferrabilità  che è stato il bersaglio preferito dai suoi critici. Si aggiunga che, se non  esiste altro modo di provare una credenza che quello di osservare il  comportamento che da essa deriva, e il comportamento nel caso dell'opinio è la sottomissione alla regola,  il miglior modo di provare se esista l'opinio è di esaminare se sia o non sia  stata ripetuta la regola, il che ci riconduce dalla credenza alla ripetizione,  cioè dall'elemento interno a quello esterno. 
  NOTA: 
  (6) MICELI, Le fonti del diritto dal punto di  vista psichico-sociale, Palermo, 1905, 190. 
  NOTA: 
  (7) HAESAERT J., Théorie générale du droit, Bruxelles, 1948, 116 ss. 
  NOTA: 
  (8) ZITELMANN, Gewohnheitsrecht und Irrthum, in Arch. civ. Prax., 1883, 323-468. 
  NOTA: 
  (9) Per il KELSEN cfr. Théorie du droit international  coutumier, in Rev. int. théorie du droit, 1939, 253-275; e in generale;  ID., Teoria generale del diritto e dello Stato (trad. it.), Milano, 1952,  128-130. Per il FERRARA, Trattato di diritto civile italiano. Parte gen., Roma, 1921, 125 ss. Ma non si  dimentichi BONFANTE, Per una revisione della teoria della consuetudine, in Riv. dir. comm., 1904, I, 274 ss. 
  6. ... nella materia regolata. 
  Anche nella teoria  della consuetudine, come nella teoria generale del diritto, la fragilità  dell'elemento soggettivo o psicologico ha suscitato il miraggio di una  caratterizzazione attraverso l'elemento oggettivo della materia regolata. Il  FERRARA, ad esempio, è passato dalla severa critica dell'opinio iuris,  cui ci siamo riferiti nel paragrafo precedente, all'affermazione che diventa  diritto solo quel costume «che cade su un oggetto che per sua natura è capace e  passibile di una disciplina giuridica» (10). Questa tesi, per la sua  apparente obiettività, ha avuto qualche seguito: il FRANCESCHELLI afferma che è  una consuetudine giuridica quella che «verte su una materia che per il  carattere dell'interesse in conflitto, o per la sua stessa natura, sia  giuridica (non sociale o di etichetta, ecc.)»(11), e precisa che il giudice non  crea la regola consuetudinaria perché «non fa che accertare che, nella  fattispecie sottopostagli, il comportamento ripetuto si è avverato rispetto ad  un rapporto o interesse meritevole di tutela giuridica secondo le regole valide  in quel momento nell'ordinamento in cui opera» (12). Il LONGO definisce l'uso  giuridico come «prassi relativa a fatti di rilevanza giuridica», e quindi  sostiene che, perché esista un uso giuridico, basta che esista «in un campo di  rilevanza giuridica una prassi e cioè un'abitudine» (13). È curioso che anche uno  studioso, come il ROSS, particolarmente sensibile all'aspetto  comportamentistico del diritto, di fronte al problema della distinzione fra  costume e consuetudine giuridica, non trovi altra soluzione per caratterizzare  la seconda che quella di definirla come «un costume in una sfera di vita che è  (o diviene) oggetto di regolamentazione giuridica» (14). L'opinio necessitatis,  secondo il ROSS, non è un carattere costitutivo della consuetudine giuridica,  perché accompagna ogni forma di consuetudine: la differenza tra una  consuetudine che regola la modalità di pagamento di merci e quella che regola  l'uso della toga all'università, sta nel fatto che la questione del pagamento è  oggetto di regolamentazione giuridica, mentre «la materia dell'abbigliamento  non è normalmente regolata dal diritto» (15). 
  Che la nozione del  diritto possa essere data ratione materiae, è contestabile. La definizione materiale del diritto  (e quindi anche della consuetudine giuridica) difficilmente può andare al di là  dell'affermazione che oggetto di regolamentazione giuridica sono rapporti  intersoggettivi; ma siccome rapporti intersoggettivi sono in gran parte pure  quelli regolati dalle norme morali o sociali, quella definizione non risolve il  problema della differentia specifica. Certamente le regole che  chiamiamo giuridiche si riferiscono normalmente, in tutte le società, a certe  materie piuttosto che a certe altre (16) . Ma a parte il fatto che ci sono  materie-limite, regolate dal diritto in alcune società e non in altre, anche  nelle materie regolate non tutte le regole che si riferiscono ad esse sono o  diventano giuridiche. Nelle materie regolate normalmente dal diritto (per usare  l'espressione del ROSS) vi possono essere regole del costume, e viceversa vi  possono essere regole giuridiche in materie non regolate normalmente dal  diritto: materia normalmente giuridica e regolamentazione giuridica sono  nozioni distinte. Di qua è nata l'esigenza di cercare un carattere comune alle  diverse materie giuridiche, diverso dalla generica intersoggettività o  socialità. Chi scrive suggerì la distinzione tra regole essenziali alla  costituzione e alla conservazione del gruppo e regole inessenziali, donde la  distinzione tra «la consuetudine che tramanda regole meramente estrinseche e  non necessarie all'esistenza del gruppo (la moda, la foggia del vestire, ecc.)  e la consuetudine che tramanda regole incidenti sulla struttura, sulla natura,  sulle finalità stesse del gruppo» (17) ; la prima mera regola del  costume, la seconda regola giuridica. Fu osservato che questa «essenzialità»  era «tanto tanto grigia», più che una spiegazione, la notazione di un rapporto  che può coprire tante cose (18) . Ciò nonostante il criterio è  stato recentemente accolto dal PIGLIARU nella redazione delle regole  consuetudinarie della vendetta barbaricina, allo scopo di distinguere le regole  giuridiche da accogliere e quelle non giuridiche da respingere (19) : ad esempio, la pratica che al  delatore vada recisa la gola con un taglio da orecchio a orecchio è stata  espunta, perché accidentale, inessenziale alla vendetta, non legata da un  rapporto di necessità alla norma principale che impone la vendetta come un  dovere. Ma questa inessenzialità come si trova? Se elemento fondamentale di  prova è la non frequente ripetizione, si torna al requisito esterno; se è la  mancata convinzione collettiva che quell'atto sia necessario, si torna al  requisito interno. La necessità sociale di un comportamento è qualche cosa che  inerisce al comportamento in quanto tale, o non è piuttosto il riflesso di una  ripetizione e di una convinzione? 
  NOTA: 
  (10) FERRARA, op. cit., 139. 
  NOTA: 
  (11) FRANCESCHELLI, Consuetudine, in Noviss. dig it., IV, Torino, 1959, 324 a. 
NOTA: 
  (12) FRANCESCHELLI, op. cit., 324 b. 
  NOTA: 
  (13) LONGO M., Introduzione allo studio degli  usi giuridici in campo privatistico, in Temi, 1949, 526. 
  NOTA: 
  (14) Ross A., On Law and Justice, London, 1958, 93-94. 
  NOTA: 
  (15) Ross A., op. cit., 94. 
  NOTA: 
  (16) Un etnografo e comparatista come il MAZZARELLA,  nella sua opera Gli elementi irriduttibili dei sistemi giuridici, Catania, 1918, considera come  atti giuridicamente rilevanti quelli che si riferiscono a queste dieci materie:  1) forme aggregative; 2) matrimonio; 3) parentela; 4) giurisdizione domestica;  5) proprietà; 6) obbligazioni; 7) successioni; 8) struttura politica; 9) pene;  10) processo. 
  NOTA: 
  (17) BOBBIO, La consuetudine come fatto  normativo, Padova, 1942, 77. 
  NOTA: 
  (18) GIANNINI M. S., Sulla consuetudine, in Riv. intern. fil. dir., 1947, 92. 
  NOTA: 
  (19) PIGLIARU, La vendetta barbaricina come  ordinamento giuridico, Milano, 1959, 62  ss. 
  7. ... nel riconoscimento del  giudice. 
  Sul fondamento della  consuetudine la dottrina che ha avuto forse maggior seguito dalla fine del  secolo scorso in poi è quella che considera giuridica la norma consuetudinaria,  accolta e applicata dal giudice nella soluzione di una controversia. Prima  dell'applicazione al caso concreto da parte del giudice, non vi sarebbero  regole giuridiche, ma solo regole del costume. Quando il giudice, tra le molte  regole del costume che gli si presentano, ne accoglie una come criterio di  soluzione per una determinata controversia, questa diventa da quel momento, e  solo da quel momento in poi, una regola giuridica. 
  Questo modo di  intendere il diritto consuetudinario si riconnette a quella teoria generale del  diritto, diffusa soprattutto tra i giuristi anglosassoni, ma anche nel  continente ad opera della Scuola del libero diritto, secondo cui per diritto si  intende il complesso delle regole applicate dai tribunali. Il fondatore della  Scuola del libero diritto, Hermann KANTOROWICZ, disse in un saggio del 1928 che  il diritto è «il complesso delle regole della condotta esterna della cui applicazione  è incaricato il giudice» (20) , e in un'operetta postuma sulla  definizione del diritto ribadisce che il diritto è un insieme di regole della  condotta esterna, come il costume, ma si distingue da questo perché è justiciable, cioè «è suscettibile di essere  applicato da un organo giudiziario con una procedura ben definita» (21) . Con questa teoria il momento  decisivo del diritto è quello dell'applicazione giudiziaria, cioè della  risposta alla violazione della regola rivolta ai membri della società. Il giudice  è il personaggio che entra in scena in questa fase del ciclo giuridico, ed è  quindi all'attività del giudice che viene attribuita la funzione di trasformare  una regola del costume in una regola giuridica. 
  A questo punto siamo  meglio in grado di vedere come la teoria del diritto consuetudinario, non  diversamente da quella generale del diritto, abbia cercato il proprio sostegno,  mettendo, di volta in volta, in risalto i diversi soggetti che concorrono alla  vita della regola giuridica nel suo intero ciclo: il legislatore che la pone,  il membro del gruppo cui è rivolta, il giudice che la applica in caso di  violazione. Vi è però una differenza rilevante tra le prime due teorie e  l'ultima, quella che stiamo esaminando in questo paragrafo. Le prime due hanno  dovuto mettere in rilievo una particolare proprietà del rispettivo soggetto per  contrassegnare le regole giuridiche da quelle non giuridiche. Generalmente,  riguardo al soggetto ponente si è ricorso al carattere della sovranità, onde la  definizione del diritto come complesso di regole poste dal potere sovrano;  riguardo ai soggetti destinatari, si è cercato di individuare il particolare  atteggiamento con cui la regola giuridica è seguita, onde le teorie del  riconoscimento, della convinzione, in genere dell'opinio iuris. Solo  rispetto alla teoria del giudice, si ha riguardo alla funzione senza ulteriore  ricerca di note caratteristiche: il diritto è il complesso delle regole  connesse in qualche modo alla funzione del giudice. 
  Una esplicita  formulazione della teoria giudiziaria del diritto consuetudinario si trova  nell'AUSTIN, il quale distingue modi diretti e modi indiretti di formazione del  diritto: tra i modi indiretti vi è il diritto giudiziario che trasforma il  costume in regola giuridica (22) . In Inghilterra oggi è dottrina  comune che la common law debba essere interpretata come  diritto non consuetudinario, ma giudiziario (v. COMMON LAW). Nel continente la  più ampia e documentata formulazione della teoria giuridica della consuetudine  si deve al LAMBERT, il quale svolse una ampia e documentata critica della  teoria romano-canonistica, per giungere all'affermazione che soltanto la pratica  giudiziaria dà alla consuetudine forza giuridica (23) . In Germania la tesi era già  stata precedentemente sostenuta dallo SCHULTZE, dal BÜLOW, in parte anche dallo  SCHUPPE, e diventò una delle tesi ricorrenti nei testi della Scuola del diritto  libero (24) . Se ne fece eco il ROSS, in  un'opera fondamentale sulle fonti del diritto (25) . Nota comune a tutti gli autori  che sono inclini ad appoggiare questa teoria, che si può chiamare austiniana, è  la scarsa considerazione della consuetudine come fonte giuridica di per se  stessa, addirittura la trasformazione del diritto consuetudinario in diritto  giudiziario; il che porta alla scomparsa di un diritto consuetudinario  propriamente detto. 
  La tesi, nella sua  estrema e più conseguente formulazione, è difficilmente accettabile, ed è stata  sottoposta a critiche piuttosto imbarazzanti. Due argomenti sono soprattutto  degni di rilievo. Si è osservato in primo luogo che la tesi della riduzione del  diritto consuetudinario a diritto giudiziario può essere accolta per le  consuetudini giuridiche private, non per quelle pubbliche, in particolare per  quelle costituzionali che si formano avendo per utenti organi forniti di  potestà d'impero: tali consuetudini vengono considerate giuridiche e distinte  dalle regole del costume o della correttezza costituzionale, indipendentemente  da qualsiasi riferimento alla prassi giudiziaria (26) . In secondo luogo, si tratta di  sapere, pur limitatamente al diritto consuetudinario tra privati, se il giudice  in ogni caso sia libero di applicare questa o quella regola consuetudinaria o  di non applicarne alcuna, oppure in qualche caso sia obbligato ad applicare una  determinata regola consuetudinaria. Se si ammette anche questa seconda  possibilità, si accetta l'esistenza di un diritto consuetudinario preesistente  al riconoscimento del giudice, o, in altre parole, si accetta l'esistenza di  una regola, la cui obbligatorietà non dipende dalla forza che le attribuisce il  giudice, dal momento stesso che questa forza essa la possiede di già nei  confronti del giudice stesso. Il problema era stato formulato con chiarezza  dallo SCHUPPE (1890), il quale sin nelle prime righe della sua monografia si  domandava: come avviene che la consuetudine acquisti tale forza da obbligare il  giudice a tenerne conto? (27) . Anche Max RÜMELIN, iniziando il  suo saggio sulla forza vincolante della consuetudine (1929), impostava  immediatamente il problema in questi termini: vi sono regole giuridiche, a cui  il giudice sia vincolato nello stesso modo che alle statuizioni del  legislatore, e come sono fatte queste regole? (28) . Affinché si possa accettare  legittimamente l'esistenza di un diritto consuetudinario, occorre ammettere che  vi siano regole consuetudinarie, obbligatorie non soltanto nei confronti dei  membri del gruppo, ma anche dei giudici. Le teorie della volontà tacita, dell'opinio  iuris e della materia giuridica, mirano a spiegare ciò che  la teoria della riduzione del diritto consuetudinario a diritto giudiziario  sembra non avvertire, ovvero il fatto che in alcuni ordinamenti vi sono regole  consuetudinarie che il giudice non soltanto è autorizzato, ma è obbligato ad  applicare, nel senso che la non applicazione può rendere invalida la sua  decisione. Donde ricevono queste consuetudini la loro forza vincolante non solo  nei confronti dei cittadini ma anche dei giudici? La teoria giudiziaria o  austiniana non può dare una risposta a questa domanda: essa, piuttosto che  spiegare il diritto consuetudinario, lo elimina. 
  NOTA: 
  (20) KANTOROWICZ, Legal Science. The Summary of its Methodology, in Columbia Law Rev., 1928, 679. 
  NOTA: 
  (21) KANTOROWICZ, The Definition of Law, Cambridge, 1958, 79. 
  NOTA: 
  (22) AUSTIN J., Lectures on Jurisprudence, London, 1885, 536-537. Una regola del costume, secondo  AUSTIN, può divenire giuridica in due modi: o perché è adottata dal sovrano, o  perché è assunta come base per la decisione dal giudice. In questo secondo caso  la regola giuridica derivata dalla consuetudine è una regola di diritto  giudiziario. 
  NOTA: 
  (23) LAMBERT, op. cit. In Italia, aderì ben presto alla  tesi del LAMBERT il D'AMELIO, La giurisprudenza etnologica e la revisione della  teoria della consuetudine, in Riv. dir. pubbl., 1910, 37-45. 
  NOTA: 
  (24) SCHULTZE A., Privatrecht und Prozess in ihrer  Wechselbeziehung, Freiburg, 1883;  BÜLOW O., Gesetz und Richteramt, Leipzig, 1885; SCHUPPE W., Das Gewohnheitsrecht. Zugleich eine Kritik der beiden ersten Paragraphen des Entwurfs eines  bürgerlichen Gesetzbuches für das deutsche Reich , Breslau,  1890. Per il diritto libero si veda KISS G., Billigkeit und Recht mit besondere Berücksichtigung der Freirechtsbewegung, in Arch. f. Recht-und Wirtschaftsphil.,  1909-10, 536-550. 
  NOTA: 
  (25) Ross A., Theorie der Rechtsquellen, Leipzig und Wien, 1929, 426. 
  NOTA: 
  (26) Questo argomento è addotto per esempio dal SOMLÒ,  nella Juristische Grundlehre2, Leipzig, 1917, 358. 
  NOTA: 
  (27) SCHUPPE, op. cit., 3. 
  NOTA: 
  (28) RÜMELIN M., Die bindende Kraft des Gewohnheitsrechts und ihre Begründung, Tübingen, 1929, 7. 
  8. ... nell'appartenenza ad un  ordinamento giuridico. 
  A chi a questo punto  volesse saperne di più, cioè volesse sapere quale delle teorie sul fondamento  della consuetudine sia quella giusta, si potrebbe rispondere dicendo che  nessuna è esclusiva: esse rappresentano null'altro che i principali argomenti  adoperati di volta in volta e in diverse circostanze per giustificare  l'assunzione, l'esecuzione o l'applicazione di regole la cui formazione non è dovuta  a organi a ciò designati e agenti secondo determinate procedure, ma ad una  libera e inorganica produzione sociale. Si osservi, in primo luogo, che la  teoria della volontà tacita del sovrano e le altre menzionate (opinio iuris,  materia regolata, pratica giudiziaria) servono, rispettivamente, a diversi  scopi, e quindi in linea di principio non si escludono a vicenda. Mentre la  prima fu posta, già dai giuristi romani, per giustificare la forza obbligatoria  della consuetudine accanto alla legge, tutte le altre vengono impiegate per  distinguere il diritto consuetudinario dal semplice costume. In secondo luogo,  se si considerano attentamente le tre ultime teorie, ci si accorge, che,  anziché escludersi, si richiamano l'una con l'altra, e formano insieme un  circolo. 
  Cominciamo dalla  teoria dell'opinio iuris: come e in quale momento si forma questa  credenza? Essa si forma nel momento in cui l'utente ritiene probabile o  addirittura certo che, se egli violasse la regola, il suo atto sarebbe  considerato illecito dall'organo giudiziario incaricato di mettere in moto  l'apparato della coazione. In altre parole, il requisito dell'opinio rimanda alla probabile  applicazione della regola da parte del giudice per determinare la sanzione: il  che val quanto dire che, dal punto di vista dell'utente, è giuridica quella  consuetudine che egli ha fondate ragioni di credere (opinio) che il  giudice applicherà. A sua volta la teoria del giudice rimanda a quella della  materia: e infatti, con quale criterio questi applica e quindi rende esecutiva  ai fini della sanzione una regola consuetudinaria, e ne esclude o ignora altre?  Il maggior argomento che il giudice può addurre è fondato ratione materiae, cioè consiste nel dimostrare  che essa ha una particolare rilevanza sociale, è necessaria, è giusta, risponde  al fine del bene comune e così via. Infine la teoria della materia rinvia a  quella dell'opinio e il circolo si chiude: qual è il mezzo per provare  che una materia ha particolare rilevanza sociale? Si osserva il comportamento  dei consociati e le modalità di esso: si tenderà a rispondere che ha  particolare rilevanza sociale, è giusta, è necessaria, quella regola, che è  generalmente e costantemente ripetuta con la particolare convinzione della sua  obbligatorietà. Questa funzione bivalente del requisito dell'opinio, che  per un verso rinvia all'autorità del giudice e per l'altro verso prende avvio  dalla materia giuridicamente rilevante, si rivela nella stessa espressione con  cui la si designa abitualmente: opinio iuris et necessitatis. Essa può essere intesa tanto  come previsione di un certo comportamento del giudice e quindi delle  conseguenze che possono derivare dalla violazione, quanto come credenza che si  tratti di una regola socialmente necessaria e quindi, per questo rispetto, doverosa. 
  Uscire dal circolo si  può solo facendo un passo ulteriore, abbandonando la considerazione  tradizionale del diritto dal punto di vista della singola norma, e  avvicinandosi alla più complessa e più comprensiva considerazione del diritto  dal punto di vista dell'intero ordinamento giuridico. Dalla teoria  dell'istituzione in poi l'attenzione dei giuristi è stata richiamata sul fatto  che ciò che noi chiamiamo diritto è un fenomeno sociale complesso,  caratterizzato da un certo tipo di organizzazione di poteri con relative  funzioni, avente lo scopo di esercitare un certo tipo di controllo sociale: le  norme giuridiche non sono mai sole, ma esistono ed esercitano la loro funzione  unite in ordinamento. Di qua può sembrare legittimo trasportare il problema  della definizione del diritto dal piano della norma a quello dell'ordinamento.  Questa trasposizione sembra giustificata dal fatto che su questo secondo piano  è più facile trovare un accordo sulla domanda: che cos'è il diritto? E anche  dalla considerazione che il criterio con cui il giurista o il giudice  prescelgono una norma, l'uno per farne oggetto di studio, l'altro per  applicarla, è unicamente quello dell'appartenenza ad un sistema dato. 
  Proviamo a partire  dalla definizione di ordinamento giuridico come insieme di norme garantite da  una sanzione istituzionalizzata: chiameremo diritto consuetudinario quelle  regole, prodotte per ripetizione costante, generale, uniforme, ecc. che entrano  a far parte di un ordinamento così definito. Vi sono due modi principali con cui  una regola diventa parte di un ordinamento: 1) in quanto contribuisce a far  sorgere e a far agire i poteri cui è affidato il funzionamento del meccanismo  della sanzione; 2) in quanto offre ai poteri così costituiti criteri per il  giudizio dei conflitti di interesse che possono sorgere tra i membri del gruppo  (o tra questi e gli organi dirigenti). Pertanto, se noi partiamo dalla  definizione sopra riportata di ordinamento giuridico, considereremo norme  giuridiche tutte quelle che in quell'ordinamento adempiono all'una o all'altra  delle due funzioni. Torniamo allora alla nostra domanda principale: quand'è che  una regola del costume diviene una regola giuridica? In base alle  considerazioni precedenti, si dovrebbe dire che una regola del costume diventa  giuridica nel momento in cui diventa regola di un certo sistema giuridico. Ciò  accade, accettata quella definizione di ordinamento giuridico, in questi due  casi: 1) quando da tali regole dipende o a tali regole si ispira la formazione  di organi costitutivi dell'ordinamento; 2) quando tali regole sono accolte  dagli organi così costituiti come criteri per la risoluzione di un conflitto di  interesse. Nella prima categoria rientrano le cosiddette consuetudini  costituzionali; nella seconda le consuetudini del diritto privato, compresi gli  usi mercantili. 
  9. Confronto tra consuetudine e  legge. 
  La considerazione  della consuetudine in rapporto all'ordinamento giuridico ci porta alle soglie  del secondo argomento che ci eravamo proposti: la funzione e la forza del  diritto consuetudinario nell'evoluzione del diritto. Questo argomento è  strettamente connesso al problema dei rapporti tra consuetudine e legge.  Isolatamente considerate, le due fonti rappresentano due momenti diversi  dell'evoluzione giuridica: dove l'una è rigogliosa, l'altra cresce stentata;  quando l'una progredisce, l'altra decade. È stato detto che tutta la storia del  diritto degli ultimi secoli può essere raffigurata come un processo  d'involuzione della consuetudine, a cui corrisponde un processo di evoluzione della  legge. Due punti mi sembrano particolarmente degni di attenzione in questa  parte: 1) pregi e difetti delle due fonti, astrattamente considerate; 2)  efficacia del diritto consuetudinario nei diversi ordinamenti storici. 
  Cominciando dal primo  punto, la dottrina si è spesso soffermata sui pregi e difetti delle due fonti  per cercare di dare una ragione dell'alterna vicenda dell'una e dell'altra  secondo le diverse epoche storiche. Si attribuisce in primo luogo alla legge il  vantaggio di essere più certa, cioè di esprimere con maggior precisione e  stabilità di significato il contenuto di una regola: questa virtù della legge è  connessa particolarmente col suo carattere di ius scriptum. Se si considera pregio  dell'amministrazione della giustizia la regolarità e la costanza del giudicato,  si ritiene generalmente che a questo scopo serva più la forma in cui si  presenta la legge che quella da cui si deve ricavare il contenuto di una  consuetudine. Come un qualsiasi altro fatto, la consuetudine, per diventare  criterio di giudizio in una controversia, deve essere provata, e non  diversamente dalla prova di un fatto, anche la prova della consuetudine, può  essere soggetta a contestazione. In una tradizione giuridica secolare, come la  nostra, caratterizzata dal principio che il giudice deve giudicare in base ad  una regola preesistente, la enunciazione scritta della regola evita  l'inconveniente che, accanto al procedimento per provare l'esistenza del fatto  in contestazione, si debba svolgere anche il procedimento per provare l'esistenza  della regola da applicare. Per ovviare a questo inconveniente, cui darebbe  luogo il diritto consuetudinario, si ricorre di solito all'espediente della  redazione scritta delle consuetudini, alle quali si applica il principio  generale che una regola consuetudinaria trascritta in una raccolta si presume  esistente fino a prova contraria: la redazione di una consuetudine non la  trasforma in legge per quel che riguarda la sua forza obbligatoria (in un  ordinamento in cui non si riconosca alla consuetudine potere di abrogare la  legge, la riduzione non le attribuisce certo questo potere), ma la allinea alla  legge quanto a certezza, onde resta al giudice il potere non più di accertarne  l'esistenza, bensì soltanto di interpretarne il contenuto. Particolarmente  importante nella storia del diritto europeo, la redazione di consuetudini  promossa da Carlo VII in Francia con l'ordinanza di Montils-les-Tours del 1454,  e terminata verso la fine del secolo XVI (29) . Nel nostro diritto positivo un  riferimento esplicito alle «raccolte di usi» si trova nell'art. 9 disp. prel.  c.c.: tali raccolte sono state affidate alle camere di commercio, industria e  agricoltura dal t.u. 20 settembre 1934, n. 2011, e al Ministero per l'industria  e il commercio dall'art. 1 d.l. C.p.S. 27 gennaio 1947, n. 152 (30) . 
  Se la legge offre il  vantaggio di esser più certa, la consuetudine, all'opposto, è più flessibile:  la certezza produce nella legge una certa rigidità. È stata soprattutto la  Scuola storica a mettere in rilievo il contrasto tra la mobilità della  consuetudine e la fissità della legge, la quale, una volta posta, rappresenta  per il giudice che la deve applicare un letto di Procuste. Oltre che rigida, la  legge, in contrapposto alla consuetudine, è stata considerata dalla Scuola  storica come prodotto artificiale di una classe dirigente, imposta più con la  forza che con la convinzione, e recante in sé un elemento di arbitrarietà e di  eteronomia. Si osserva, infine, che la legge, proprio a causa della rigidità  che le proviene dalla forma scritta, non può prevedere tutti i casi possibili  e, anche se al momento della sua emanazione sembra riflettere con sufficiente  chiarezza e completezza la fattispecie regolata, è destinata, presto o tardi,  per il naturale evolversi dei rapporti sociali, ad invecchiare. Negli  interstizi lasciati liberi dalla legge, continua ad avere efficacia o acquista  nuova efficacia, magari contro la volontà stessa del legislatore, che si crede  onnipotente ma non è, la consuetudine (consuetudo praeter legem). E  anche là dove la legge provvede, ma è oscura o ambigua, la consuetudine, cioè  il modo costante con cui la legge viene seguita ed applicata, ne fissa il  significato, trascegliendo quello che è più consono ad una equilibrata  valutazione degli interessi in gioco (consuetudo secundum legem). 
  L'altro vantaggio  della legge è la maggior rapidità di produzione. Una delle cause della  decadenza della consuetudine negli Stati contemporanei è stata individuata  nella lentezza con cui essa si forma in una società che l'incessante progresso  tecnico rende estremamente mobile. È certo che vi sono forme di intervento,  destinate a modificare profondamente una serie di comportamenti, che solo la  legge può compiere tempestivamente ed efficacemente: quando vogliamo una  riforma sociale, ci rivolgiamo alla legge, non alla consuetudine, la quale è  per sua natura conservatrice. Ma proprio per la facilità e rapidità con cui la  legge può essere modificata, essa può diventar causa di instabilità e di  perturbamenti. La legge ci assicura il vantaggio delle rapide riforme, ma non  ci assicura contro lo svantaggio delle riforme cattive. Anche in questo campo,  i pro e i contra si bilanciano. Mettiamo da un  lato l'unica costituzione inglese, le cui principali regole non sono scritte, e  si sono formate per consuetudine, e attraverso la consuetudine vengono  tramandate e la dozzina di costituzioni scritte che la Francia ha avuto in poco  più di centocinquanta anni: nessuno vorrà negare che la storia costituzionale  più esemplare sia quella caratterizzata dall'evoluzione consuetudinaria e non  quella dominata dal rapido, troppo rapido, succedersi di leggi scritte. 
  In realtà il  decantare le virtù dell'una o dell'altra forma di produzione giuridica, sino a  che legge e consuetudine vengono considerate astrattamente, fuori dal loro  contesto storico, è poco più che un elegante esercizio scolastico. Leggi e  consuetudine sono sempre esistite, succedendosi con alterna fortuna alla guida  della produzione giuridica, perché corrispondono a diversi momenti dello  sviluppo giuridico e servono a diverse situazioni. Quel che oggi può essere  utile dire è che, nonostante la supremazia incontrastata delle fonti scritte  negli ordinamenti statali, la consuetudine non è del tutto estinta, e chi  credesse di impadronirsi di un ordinamento positivo considerandone soltanto le  fonti scritte, e non cercando di rendersi conto dei comportamenti effettivi,  generanti consuetudini, soprattutto nel campo del diritto costituzionale e dei  rapporti commerciali, si farebbe un'idea incompleta del diritto vigente. 
  NOTA: 
  (29) Cfr. LEBRUN A., La coutume. Ses sources, son autorité en droit privé, Paris, 1932, 17-139. 
  NOTA: 
  (30) Per le varie questioni connesse alla prova della  consuetudine cfr. BALOSSINI, Consuetudini, usi, pratiche, regole del costume, cit., parte IV. 
  10. Consuetudine superiore alla  legge. 
  Passando da questa  discussione astratta ad un'indagine storica, apprendiamo che legge e  consuetudine si trovano a fianco a fianco nei diversi ordinamenti, ma con  diversa forza. La storia del diritto consuetudinario (distinta dalla storia  delle teorie sul diritto consuetudinario) è la storia del suo contrasto con la  legge (e in genere con le fonti scritte) per il primato nella gerarchia delle  fonti. Si possono distinguere tre situazioni tipiche: 1) la consuetudine è  superiore alla legge; 2) consuetudine e legge hanno pari forza; 3) la legge è  superiore alla consuetudine. Seppure un po' schematicamente, si può dire che  nella prima situazione la consuetudine successiva abroga la legge (liceità  della consuetudo contra legem), mentre la legge successiva non  abroga la consuetudine; nella seconda situazione la consuetudine successiva  abroga la legge, e viceversa; nella terza situazione la legge successiva abroga  la consuetudine, e non accade il contrario (illiceità della consuetudo contra legem). 
  Un esempio particolarmente  interessante della prima situazione lo offre - relativamente alle consuetudini  generali, distinte da quelle locali - la storia del diritto inglese. È noto  qual parte abbia avuto nella formazione del diritto inglese la common law, considerata per lungo tempo  come diritto consuetudinario distinto dal diritto legislativo (statute law).  Ancora nel '700 BLACKSTONE scriveva: «Il diritto municipale inglese... può  essere distinto con sufficiente proprietà in due specie: la lex non scripta, cioè il diritto non scritto, o  il diritto comune; la lex scripta, cioè il diritto scritto legislativo. La lex non scripta include non solo le consuetudini  generali o il diritto comune propriamente detto, ma anche le consuetudini  particolari di certe parti del reame; e parimenti quelle norme particolari,  osservate per consuetudine solo in certe corti e giurisdizioni» (31) . Per lunga tradizione gli interpreti  del diritto comune, di cui il maggior rappresentante fu, all'inizio del '600,  Sir Edward COKE sostennero la tesi che il potere di legiferare da parte del re  non era assoluto, bensì limitato; e questo limite non era posto soltanto dalla  legge divina o naturale, ma anche dalla legge comune, che era il diritto  consuetudinario del Paese. Ancora all'inizio del '600, il COKE scriveva: «Il re  coi suoi atti o con altri modi non può mutare parte alcuna della legge  consuetudinaria o del diritto statutario o delle consuetudini del reame» (32). E altrove: «Talvolta il diritto  consuetudinario controllerà gli atti del Parlamento e talvolta li giudicherà  nulli» (33). Questa tenace resistenza  dell'antico diritto consuetudinario all'invadenza del potere regio rappresenta  uno degli aspetti fondamentali del costituzionalismo inglese, che si svolse in  opposizione all'assolutismo continentale (34): il maggior teorico  dell'assolutismo in Inghilterra, Tommaso HOBBES, cercò di smantellare, insieme  con la teoria della separazione dei poteri, quella della supremazione della common law (35). Col rafforzarsi della sovranità  del parlamento nello stato costituzionale moderno, le vecchie voci dei  difensori del diritto comune si sono affievolite, ma non tanto da escludere che  «un controllo generale del diritto comune sugli statuti - come si esprime lo  ALLEN - non sia, comunque, interamente senza significato, pure al tempo  presente, per quanto non giunga sino al diritto di resistere anche allo statuto  più draconiano, purché questo esprima chiaramente la propria intenzione» (36). Tale controllo è fondato sul  principio dominante «che il diritto comune è più ampio e fondamentale degli  statuti e che, dovunque sia possibile, una legge deve essere interpretata in  armonia coi princìpi stabiliti dal diritto comune più che in opposizione ad  essi» (37). Questo principio non esclude  che uno statuto possa derogare al diritto comune: ma è regola tradizionale che  lo statuto derogante sia interpretato restrittivamente; il che significa che lo  statuto vale, per quella parte in cui deroga al diritto comune, come legge  speciale o eccezionale, e trae la sua forza derogante dal fatto di essere non lex superior, ma lex specialis, secondo la massima che una  legge speciale, anche se inferiore, deroga alla legge generale. 
  NOTA: 
  (31) BLACKSTONE, Commentaires, I, 63. 
  NOTA: 
  (32) COKE 12, Reports, 65. 
  NOTA: 
  (33) COKE 8, Reports, 118. 
  NOTA: 
  (34) Questo contrasto è bene illustrato da MCILWAIN C.  H., Costituzionalismo antico e moderno (trad. it.), Venezia, 1956, da  cui ho tratto le due citazioni del COKE, 96 e 175. 
  NOTA: 
  (35) In particolare nell'opera A Dialogue between a Philosopher  and a Student of the Common Law of England (1666), di cui ho curato la prima  traduzione italiana: T. HOBBES, Opere politiche, Torino, 1959, I, 391-558. 
  NOTA: 
  (36) ALLEN C. K., Law in the Making4, Oxford,  1946, 378. 
  NOTA: 
  (37) ALLEN, op. cit., 378. 
  11. Consuetudine pari alla legge. 
  Come esempio di un  ordinamento giuridico, in cui il diritto consuetudinario è più debole che in un  diritto di origine consuetudinaria come quello inglese, ma, nello stesso tempo,  più forte che negli ordinamenti della maggior parte degli Stati continentali  europei, può essere scelto l'ordinamento canonico (v. anche infra: Diritto canonico). 
  È stato più volte  notato che nel diritto canonico si manifestarono, sin dai primi secoli, due  correnti, l'una più favorevole, l'altra meno favorevole alla consuetudine (38). Questa incertezza non faceva  che riprodurre una contraddizione, su cui si affaticheranno per secoli i  commentatori, nei testi romani, dei quali uno, il passo di GIULIANO già citato,  ammetteva la forza abrogativa della desuetudine (D. 1, 3, 32), l'altro, una  costituzione di COSTANTINO, la escludeva (C. 8, 52, 2). Il primo passo diceva:  «Rectissime etiam illud receptum est, ut leges non solum suffragio  legislationis, sed etiam tacito consensu omnium per desuetudinem abrogentur »; e il secondo: «Consuetudinis  ususque longaevi non vilis auctoritas est, verum non usque adeo sui valitura  momento, ut aut rationem vincat aut legem ». Per quanto nel Decretum Gratiani si affermi che la consuetudine  deve cedere alle leggi divine e naturali, ed anche a quelle umane («Quod  vero legibus consuetudo cedat, Ysidorus testatur in Sinonimis lib. II, c. 16», ante c. 1, Usus, dist. XI), nel diritto delle  Decretali questa dottrina viene largamente attenuata, e da esse ha inizio un  indirizzo favorevole allo sviluppo della consuetudine, cui viene riconosciuto  un sempre più vasto campo d'azione. Nella decretale Quum tanto di Gregorio IX, da cui ha inizio  la teoria canonistica della consuetudine (39), si trova l'affermazione secondo  cui la consuetudine ha forza di abrogare la legge, qualora le siano  riconosciuti i due requisiti della rationabilitas e della legitima praescriptio. Il testo di Gregorio IX si  presenta come una modificazione o limitazione della sopra citata costituzione  di COSTANTINO, in cui si disconosceva alla consuetudine la forza di abrogare la legge. La costituzione è trascritta e  corretta in questo modo: «Licet etiam longaevae consuetudinis non sit vilis  auctoritas, non tamen est usque adeo valitura, ut vel iuri positivo debeat  praeiudicium generare, nisi fuerit rationabilis et legitime praescripta » (cap. XI, Quum tanto, X, 1, 4). Da allora la forza  abrogatrice della consuetudine, se pur entro i limiti della razionalità e della  prescrizione, non viene più disconosciuta. Nella prima grande sistemazione  dottrinale della consuetudine secondo il diritto canonico, quella dell'OSTIENSE  (sec. XIII), alla consuetudine sono attribuiti cinque effetti, tra cui quello  di abrogare e disconoscere la legge precedente. Nella Summa di Giovanni ANDREA (sec. XIV),  viene esposta la dottrina del quasi perfetto equilibrio fra consuetudine e  legge nella gerarchia delle fonti: è la dottrina secondo cui tra una  consuetudine e una legge contrarie vale quella che è cronologicamente  posteriore, sempre che si tratti di una consuetudine rationabilis: o la consuetudine è anteriore  alla legge e allora la legge prevale su di essa; o è la legge anteriore alla  consuetudine, e allora prevale la consuetudine. È superfluo aggiungere che  nella soluzione delle incompatibilità normative, il criterio cronologico si  applica quando due norme hanno pari grado; là dove le norme sono su due piani  diversi, il criterio gerarchico prevale su quello cronologico (40). Il più largo riconoscimento  alla consuetudine abrogatrice si trova nell'opera fondamentale in materia, il  libro VII del De legibus del SUAREZ (sec. XVII); da un  lato SUAREZ, nel cap. IV, non si limita ad affermare che la consuetudine può  abrogare, oltre la legge civile, anche la legge canonica: «Regula certa est  legem humanam sive canonicam, sive civilem, posse consuetudine abrogari» (41), ma cerca di darne la  dimostrazione richiamandosi allapotestas del popolo e alla volontà  popolare che la consuetudine stessa rivela; d'altro canto, nel cap. XIX,  esclude tutte le limitazioni che venivano poste alla forza abrogatrice della  consuetudine in alcune specie di leggi, come le penali, le irritantes, quelle che proibiscono le  consuetudini contrarie e quelle relative ai sacramenti. 
  Nel passo citato, in  cui SUAREZ afferma la forza abrogatrice della consuetudine, aggiungeva: «In  hoc omnes doctores conveniunt». In effetti, la dottrina della consuetudine  abrogatrice è rimasta per secoli costante tra i dottori del diritto canonico,  fino ad essere accolta nel Codex iuris canonici, ove, al can. 27, com'è noto, si ammette che la  consuetudine possa abrogare la legge umana, se rationabilis e durata quarant'anni, e anche la  legge proibente le consuetudini future, se rationabilis e centenaria (o immemorabile). 
  NOTA: 
  (38) Cfr. BRIE, op. cit., 61 ss. 
  NOTA: 
  (39) Come osserva il WEHRLÉ, autore dell'opera  fondamentale in materia: De la coutume dans le droit canonique, Paris, 1928. 
  NOTA: 
  (40) Traggo le citazioni dei due canonisti dall'opera  del WEHRLÉ, citata nella nota precedente, che ne riporta integralmente il testo  (p. 177 e 242). 
  NOTA: 
  (41) Cito dall'edizione della Opera Omnia, VI, Paris, 1847, 200. 
  12. Consuetudine inferiore alla  legge. 
  Gli ordinamenti  giuridici degli Stati, in cui vigorosa è stata l'influenza del diritto romano  ed è avvenuta in tempi più o meno recenti la codificazione del diritto privato,  come la Francia e l'Italia (in minor misura la Germania), sono esempi di  sistemi a quasi assoluta prevalenza del diritto legislativo, ove la  consuetudine è fonte subordinata e ha funzione sussidiaria. Una delle  conseguenze delle codificazioni rispetto alla forza obbligatoria della  consuetudine è l'estendersi e il consolidarsi, fino a diventare opinione quasi  unanime, della dottrina che rifiuta la consuetudine contra legem e ne accetta l'efficacia soltanto secundum legem e, con qualche limitazione, praeter legem. 
  Nel diritto francese,  l'art. 7 della legge 30 ventoso, anno XII, abrogava le consuetudini generali e  locali relative a materie formanti oggetto del Codice napoleonico; rimanevano  in vita solo le consuetudini cui la legge espressamente si riferiva e, secondo  l'interpretazione più larga, quelle relative a materie non regolate. Dal  principio, secondo cui la legge non poteva essere abrogata se non da un'altra  legge, si deduceva la regola che proibiva la consuetudine contra legem, e tale regola è diventata  dottrina dominante(42). Questo mutamento radicale nella forza della  consuetudine può essere espresso esemplarmente con le parole di AUBRY e RAU, che  dànno voce all'opinione media del giurista francese: prima della codificazione  la consuetudine era generalmente ammessa, perché era compatibile con un sistema  assolutistico, e magari anche con un sistema democratico di governo; ma in  seguito essa doveva essere esclusa, perché non era più compatibile con un  ordinamento fondato sul principio della separazione dei poteri (43). Il LEBRUN ci ha dato  dell'evoluzione del diritto consuetudinario in Francia, una sintesi che può  valere in genere per gli ordinamenti il cui sbocco è stata la codificazione:  «Dal X secolo al XII il nostro diritto era stato puramente consuetudinario;  poi, erano apparse le prime ordinanze. Il periodo monarchico aveva  rappresentato una fase transitoria durante la quale la consuetudine non aveva  cessato di decadere. Infine, venne la codificazione, e all'indomani della  promulgazione dei codici, il nostro diritto diventò esclusivamente legislativo.  La rivalità tra legge e consuetudine terminava con la sconfitta di questa  ultima. La codificazione consacrava la sua rovina e il trionfo della legge» (44). 
  Quanto al diritto  italiano, la teoria della consuetudine veniva formulata, sotto l'impero del  codice civile del 1865, in base all'art. 48 disp. att. per  quel che riguarda la consuetudine praeter legem, e in base all'art. 5 disp.  sulla legge in gen. per quel che riguarda la consuetudine contra legem. L'art. 48 citato disponeva che  «gli usi e le consuetudini a cui il codice stesso espressamente non si  riferiva» cessavano «di aver forza dal giorno dell'attuazione del medesimo»  «nelle materie che formano soggetto del nuovo codice». Era aperta la  discussione se la consuetudine praeter legem avesse vigore nelle materie non  regolate dal codice, ma era prevalente la tendenza restrittiva, che si valeva  principalmente di due argomenti: il rifiuto di ammettere che vi fossero materie  non regolate, e l'ammissione che vi fossero, sì, materie non regolate, ma in  queste gli strumenti previsti per l'integrazione non fossero già gli usi ma  l'analogia o i princìpi generali del diritto. L'art. 5 disp. sulla legge in  gen. prevedeva l'abrogazione espressa e tacita della legge da parte della  legge, e quindi escludeva implicitamente la consuetudine abrogativa. Il lamento  funebre per la consuetudine ormai estinta diventò costante nella dottrina.  Dallo STOLFI: «La consuetudine è ormai ridotta a scarsissima importanza nel  diritto civile»(45) al FERRARA: «Del triplice valore che si attribuisce  alla consuetudine: integrativa, interpretativa, abrogativa, non resta che il  primo, e questo nei soli casi in cui la legge attribuisce tale efficacia» (46), il coro era all'unisono (47). Più larga parte alla consuetudine  integrativa era fatta nel codice di commercio del 1882, ove l'art. 1 dichiarava  che, in mancanza delle leggi commerciali, si dovessero osservare gli usi  mercantili: ma quanto alla consuetudine abrogativa valeva anche in questa  materia il principio generale che la escludeva. Quanto al codice civile attuale, basti  dire che l'art. 15 disp. prel. c.c. sull'abrogazione delle leggi riproduce  esattamente l'art. 5 disp. sulla legge in gen. del codice precedente, e che  pertanto vien confermato l'ostracismo alla consuetudine abrogativa, in altre  parole vien ribadita la considerazione della consuetudine come fonte  gerarchicamente inferiore e sussidiaria (48) (sul punto v. peraltro anche infra: Diritto costituzionale). 
  NOTA: 
  (42) Per un elenco di opinioni cfr. LEBRUN, op. cit., 465, nota 1. Anche lo GÉNY, uno  dei giuristi meno tradizionalisti, è contrario alla consuetudine abrogatrice:  «Tutto considerato, poiché bisogna tener conto delle esigenze dell'ora attuale,  ritengo, in linea di principio e nello stato presente della nostra civiltà, che  convenga respingere ogni consuetudine formalmente contraria alla legge scritta»  (Méthode d'interprétation et sources en droit privé positif2,  I, Paris, 1919, 409). 
  NOTA: 
  (43) AUBRY et RAU, Droit civil français6, a cura di E. BARTIN, I, Paris,  1936, 29. 
  NOTA: 
  (44) LEBRUN, op. cit., 135-136. Ma il LEBRUN, sulla  base della reale evoluzione del diritto in Francia, ritiene che non si possa  escludere del tutto l'efficacia della consuetudine contra legem. Analogamente, CHARMONT J., La coutume contre la loi, in Revue de métaphysique et de  morale, 1917, 469-476. Contra, DE KOSCHENBAHR-LYSKOWSKI, Le code civil et la coutume. Revision de la notion de coutume, in Etudes de droit civil à la  mémoire de H. Capitant, Paris, s.d.,  403-415, il quale sostiene addirittura che ammettere la consuetudine contra legem significherebbe «il ritorno alla  vita sociale primitiva, regolata dalla giustizia privata» (p. 415). 
  NOTA: 
  (45) STOLFI, Diritto civile, I, Torino, 1917, 419. 
  NOTA: 
  (46) FERRARA, op. cit., 143. 
  NOTA: 
  (47) Per una documentazione favorevole alla communis opinio, cfr. DEGNI F., L'autorità del diritto  consuetudinario nella legislazione civile italiana, Napoli, 1906 (estratto dagli Studi in onore di C. Fadda). Ma non erano mancate voci  contrarie: ad esempio il VANNI, il quale riteneva, sì, esclusa la consuetudine contra legem, ma non la desuetudine (Della  consuetudine nei suoi rapporti col diritto e colla legislazione, in Saggi di filosofia sociale e  giuridica, Bologna, 1906, 111  ss.). 
  NOTA: 
  (48) Più favorevole alla forza abrogatrice della  consuetudine è stata la dottrina tedesca. Dal SAVIGNY (Sistema, trad.  it., I, Torino, 1886, 102-103) al WINDSCHEID (Pandette, trad. it., I,  Torino, 1902, 59) la consuetudine contra legem fu sempre, se pur con qualche  limitazione, accettata. Il primo progetto del codice civile (1888), il quale al  § 2 ammetteva la consuetudine là soltanto dove fosse espressamente richiamata  dalla legge, suscitò molte critiche tanto che tale disposizione scomparve nel  progetto definitivo e nel codice, il quale non dispone nulla in materia di  consuetudine. Il libro dello SCHUPPE, già citato, fu scritto in occasione di  quel progetto per criticarne la tendenza contraria al diritto consuetudinario.  Nella stessa occasione, ma in senso opposto, il saggio di RÜMELIN G., Das Gewohnheitsrecht, in Jherings Jahrb., 1889, 153-252. Il silenzio del  codice ha fatto sì che anche la dottrina civilistica odierna sia favorevole  alla consuetudine contra legem: cfr. ENNECCERUS-NIPPERDEY, Allgemeiner Teil des bürgerlichen  Rechts14, Tübingen, 1952, Erster  Halbband, 165. 
  13. Consuetudine e legge  nell'evoluzione del diritto. 
  La diversa prevalenza  della consuetudine e della legge è un criterio che serve a distinguere le  diverse epoche giuridiche, i diversi tipi di società statale, i diversi tipi di  ordinamento giuridico (49). La prevalenza della  consuetudine caratterizza: 1) le epoche primitive, di solito le società  barbariche, ove un potere centrale esiste, sì, ma ha funzioni prevalentemente  militari, ed affida la funzione della disciplina giuridica al potere  sacerdotale; 2) Stati con molti centri di potere in concorrenza tra loro come  era, ad esempio, lo stato feudale, se si prende questa espressione in senso  largo, come l'antitesi dello stato burocratico: esempio caratteristico è il  predominio della common law nello stato inglese del Medioevo;  3) ordinamenti decentrati, come l'ordinamento internazionale, in cui non esiste  un organo centrale per la produzione di norme generali valide per tutta la collettività. Sinteticamente,  la consuetudine si sviluppa e fiorisce ai margini o a dispetto o in mancanza di  un potere centrale fortemente organizzato, là dove il potere centrale è  limitato o debole o addirittura inesistente. 
  Ma contrariamente a  quella che è stata l'opinione dominante al tempo della più intransigente  concezione statuale e legalistica del diritto, la consuetudine non è destinata  a scomparire mai del tutto, neppure nello Stato moderno fortemente accentrato.  Se mai, negli Stati moderni, si constata una progressiva diminuzione del  diritto consuetudinario via via che si accresce la disciplina giuridica del  settore economico, perché la sfera del libero scambio economico è quella  tradizionalmente più feconda per la formazione di regole consuetudinarie: il  diritto consuetudinario sarà quindi più fiorente in uno Stato a struttura  capitalistica che in uno a struttura collettivistica. Se il diritto  consuetudinario è la produzione giuridica propria delle società inorganiche, è  naturale che la sua influenza diminuisca con l'allargarsi dei settori  organizzati della società civile, sottostante allo Stato. Ma anche in una  società collettivistica vi è una sfera di rapporti in cui difficilmente la  disciplina legislativa è sufficiente: la sfera dei rapporti tra organi pubblici  o politici, ove si formano le consuetudini costituzionali. Chi voglia oggi  conoscere la realtà costituzionale dell'U.R.S.S. non deve limitarsi a studiare  gli articoli della Costituzione e delle leggi costituzionali, ma deve rendersi  conto degli effettivi rapporti di potere fra i vari organi. 
  Infine, vi è un  aspetto della nozione di consuetudine, per cui essa non solo non può scomparire  mai del tutto, ma è anzi un momento permanente di ogni ordinamento giuridico:  ogni regola giuridica, quale che sia la sua provenienza, acquista efficacia  attraverso la ripetizione costante dei comportamenti regolati. Prescindiamo  dalla questione, soprattutto oggi tanto controversa, se sia opportuno  distinguere, nei confronti di una norma singola, la validità giuridica dalla  efficacia. Ma è certo e non contestato che rispetto ad un ordinamento giuridico  nel suo complesso, si può dire che questo esiste solo se è efficace, ed è  efficace solo se la maggior parte delle sue norme sono spontaneamente  rispettate o fatte rispettare, se, in altre parole, si forma quella ripetizione  costante, uniforme, generale di comportamenti conformi in cui consiste appunto  una consuetudine. A lungo andare un ordinamento sopravvive solo se la maggior  parte delle sue norme dànno origine a consuetudini conformi. La consuetudine  non è solo, secondo la vecchia massima di PAOLO, optima legum interpres (D. 1, 3, 47), ma è anche la  nutrice e alimentatrice della legge: la consuetudine fa qualche cosa di più che  interpretare la legge, la mantiene in vita. Quando alla legge manca l'appoggio  di quel consenso tacito, in cui per lunga tradizione i giuristi hanno visto il  carattere saliente della consuetudine, si affloscia, vien meno, diventa lettera  morta. Molto spesso la differenza fra diritto legislativo e consuetudinario consiste  nel fatto che nel primo si forma in un primo tempo la regola astratta, che  viene poi convalidata dalla consuetudine, nel secondo, prima la consuetudine,  che viene poi fissata in una regola astratta. 
  In questa prospettiva  legge e consuetudine appaiono, più che due diversi canali di formazione del  diritto, i due momenti dialettici del fenomeno complesso della produzione  giuridica. Così accade che l'accentuazione dell'uno o dell'altro, da parte  della dottrina, sia spesso il prodotto più che di una spregiudicata analisi  della realtà, di orientamenti generali della cultura favorevoli ad una  concezione naturalistica piuttosto che convenzionalistica, realistica piuttosto  che razionalistica, della vita sociale. Nel contrasto alla fine del '700 tra  fautori della legge e della consuetudine, si esprimeva il contrasto nientemeno  che tra illuminismo e romanticismo. Oggi, lo stesso contrasto è uno degli  aspetti della polemica permanente tra formalismo e realismo, statualismo e  istituzionalismo, oltre tutto, ciò ci dà conferma della necessità della  distinzione, da cui abbiamo preso le mosse, tra storia della consuetudine e  storia della dottrina sulla consuetudine, e ci autorizza a concludere che la  consuetudine ha nella prima un'importanza maggiore di quel che appaia, di  solito, nella seconda. 
  NOTA: 
  (49) Il problema dei rapporti tra consuetudine e  legge, e della decadenza della consuetudine, è stato trattato recentemente da  GUARINO A., La consuetudine e la legge alla luce dell'esperienza  romana, in Dir. giur., 1956, 413-428. 
LETTERATURA. 
  
  In questa bibliografia sono indicate soltanto opere specifiche e generali sulla  consuetudine: sono pertanto escluse sia le opere che trattano della  consuetudine insieme con altri argomenti (come le monografie sulle fonti del  diritto e in genere tutti i trattati di filosofia del diritto, di teoria  generale del diritto, e le parti generali dei trattati sulle singole materie);  sia quelle che considerano un solo aspetto del problema della consuetudine (la  consuetudine nelle singole materie e nei singoli ordinamenti, oppure singole  questioni, come la prova, l'errore, questo o quel requisito, ecc.); alcuni di  questi saggi parziali sono citati nelle note al testo: BALOSSINI C. E.,Consuetudini,  usi, pratiche, regole del costume, Milano, 1958; 
  BOBBIO N., La consuetudine come fatto normativo, Padova, 1942; 
  BRIE S., Die Lehre vom Gewohnheitsrecht. Eine  historisch-dogmatische Untersuchung, parte I, Breslau, 1899; 
  DAHN F., Rechtsphilosophische Studien, Berlin, 1883, 234-269; 
  FLUMENE F., La consuetudine nel suo valore giuridico, Sassari, 1925; 
  KNITSCHKY W., Gewohnheitsrecht und Gerichtsgebrauch, in Arch. f. öff. Recht, 1898, 161-252; 
  LAMBERT E., La fonction du droit civil comparé, Paris, 1903 (sulla storia e la  dottrina della consuetudine, 111-804); 
  LEBRUN A., La coutume. Ses sources, son autorité en droit privé, Paris,  1932; 
  MOKRE J., Zur Theorie des Gewohnheitsrechts, in Zeit. f. öff. Recht, 1932, 2 e 3; 
  MORI U.-CHECCUCCI, Gli usi normativi come fattispecie, Genova,  1948; 
  NEUKAMP E., Das Gewohnheitsrecht in Theorie und Praxis des gemeinen Rechts, in Arch. f. bürg. Recht, 1897, 89-184; 
  PARESCE E., La genesi ideale del diritto. Saggio sull'attuazione  spontanea del diritto e la sua creatività, Milano, 1938; 
  PROSDOCIMI L., Observantia. Ricerche sull'aspetto consuetudinario del  diritto dai commentatori alla scuola storica: I. I commentatori e i pratici italiani, Milano, 1960; 
  PUCHTA G. F., Das Gewohnheitsrecht, Erlangen, I, 1828, II, 1837; 
  ROMANO S., Consuetudine, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947; 
  RÜMELIN G., Das Gewohnheitsrecht, in Jherings Jahrb., 1889, 153-253; 
  RÜMELIN M., Die, bindende Kraft des Gewohnheitsrechts und ihre  Begründung, Tübingen, 1929; 
  SCHMIDT B., Das Gewohnheitsrecht als Form des Gemeinwillens, Leipzig, 1899; 
  SCHUPPE W., Das Gewohnheitsrecht. Zugleich eine Kritik der beiden  ersten Paragraphen des Entwurfs eines bürgerlichen Gesetsbuches für das  deutsche Reich , Breslau, 1890; 
  SIOTTO M.-PINTOR, Riflessioni sul tema della consuetudine nel diritto  interno, in Studi di diritto pubblico in  onore di O. Ranelletti, II, Padova, 1931,  253-273; 
  TESAURO A., La consuetudine, in Rass. dir. pubbl., 1955, I, 189-207; 
  VANNI, Della consuetudine nei suoi rapporti col diritto e  colla legislazione, Perugia, 1877 (in Saggi di filosofia sociale e  giuridica, Bologna, 1906,  1-127); 
  WEHRLÉ R., De la coutume dans le droit canonique. Essai historique s'étendant des origines de l'Eglise au pontificat de Pie  XI, Paris, 1928;
  ZITELMANN E., Gewohnheitsrecht und Irrthum, in Arch. civ. Prax., 1883, 323-468. 
Fonte: http://davidelaurino.altervista.org/N.%20Bobbio%20-%20Consuetudine%20(Teoria%20generale).docx
Autore del testo: Norberto Bobbio
Parola chiave google : Norberto Bobbio biografia vita e opere tipo file : doc
“Non sono ottimista, ma non per questo credo che ci si debba arrendere. Altro è prevedere, altro è fare la propria scelta. Quando io dico che la scelta è nel senso di non lasciare alcun mezzo intentato per la formazione d’una coscienza atomica, e la filosofia che oggi non si impegna in questa strada è un ozio sterile, non faccio alcuna previsione sul futuro. Mi limito a far intendere quel che con tutte le mie forze vorrei non accadesse, anche se in fondo in fondo alla mia coscienza ho l’oscuro presentimento che accadrà. Ma la posta in gioco è troppo alta perché non si debba, ciascuno dalla propria parte, prendere posizione, benché le probabilità di vincere siano piccolissime. Qualche volta è accaduto che un granello di sabbia sollevato dal vento abbia fermato una macchina. Anche se ci fosse un miliardesimo di miliardesimo di probabilità che il granello, sollevato dal vento, vada a finire nel più delicato degli ingranaggi per arrestarne il movimento, la macchina che stiamo costruendo è troppo mostruosa perché non valga la pena di sfidare il destino”
(Norberto Bobbio, “Il problema della guerra e le vie della pace”, 1979).
Norberto Bobbio: fedele fino alla fine al proprio dubbio
“Se ne va un altro baluardo contro la rinascente barbarie, anzi un  altro infaticabile coltivatore di civiltà”. 
  Con queste parole, dalle colonne di Avvenire, Enzo  Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose, commenta la morte di Norberto  Bobbio. Si tratta forse della dichiarazione più densa ed equilibrata fra quelle  che si sono lette sui quotidiani subito dopo la dipartita del filosofo. Le  altre sono sature di una retorica che vorrebbe, a seconda dei casi, enfatizzare  pleonasticamente le qualità del maestro o celare maldestramente il disagio di  chi è costretto a chinarsi davanti alla indiscutibile grandezza  dell’avversario. Ma la retorica, soprattutto quella post mortem, non si addice al Professore, descritto da chi ha avuto  la fortuna di conoscerlo, per esserne stato allievo a Torino negli anni caldi  della lotta studentesca, come dotato di un “temperamento  piemontese, cortese e formale, schivo da grandi entusiasmi e da ogni platealità”,  il che è del resto confermato dalla sobrietà cui Bobbio stesso ha voluto fosse  improntato il proprio funerale.
  Confesso di conoscere poco o nulla del suo pensiero,  perché sono altre le rotte che finora ho seguito nell’immenso mare della conoscenza,  ma come cittadina di un Paese che sembra sprofondare giorno dopo giorno nei  gorghi dello squallore, del compromesso, della meschinità, avverto, dopo la sua  morte, un ulteriore vuoto e mi sento ancor più indifesa di fronte  all’imperversare della barbarie. Una barbarie dai mille volti, ma che consiste,  essenzialmente, nella perversa ostinazione nel considerare gli altri e il mondo  intero come materiale grezzo, da utilizzare senza scrupoli per innalzare il  proprio personale altare.
  Chissà cosa pensava il Professore dei meccanismi  tentacolari che soffocano, nel mondo accademico, l’emergere di spiriti liberi?  E il Senatore a vita dei suoi colleghi parlamentari? Se è corretta l’idea che,  leggendo i quotidiani, mi sono fatta dell’uomo, credo che reagisse alla  barbarie con mite fermezza, con signorile distacco, con un pessimismo mai  disperato. Di quella civiltà che, per riprendere la bella metafora di Enzo  Bianchi, ha infaticabilmente coltivato, oltre che semplice maestro, era esempio  vivo, come attesta chi l’ha conosciuto: “Era  sempre disponibile al dialogo, a cui si rapportava con stile attico,  essenziale, e con metodo razionale, senza mai concedere nulla a qualsiasi  debolezza o sentimento se non alla ragione, citando sempre le fonti delle  argomentazioni che poneva a confronto. Ha cercato in tutti i modi di  comprendere le ragioni del movimento studentesco, nato alla fine degli anni  ’60, e di contrastare con coraggio le posizioni estreme che lo stesso movimento  ha assunto nel corso degli anni ’70, attraverso il confronto e le ragioni di un  filosofo che della politica percepiva la potenza e viveva il disincanto”.
  Queste parole delineano il profilo di un uomo che  conosceva e praticava ai massimi livelli la difficile arte del dialogo, che  sublima i più radicati istinti di sopraffazione violenta dell’avversario  trasferendo lo scontro sul piano razionale e verbale, senza mai derogare da un  assoluto rigore di metodo. Con la sua implacabile razionalità, affinata dalla  pratica quotidiana della speculazione e del confronto, ha affrontato anche gli  interrogativi sui problemi ultimi: il male, la morte, la fede. Ed ecco cosa  affermava a tale proposito, scostando appena il velo di pudore che sempre  custodiva il suo sentire più profondo: “In  realtà, se dovessi veramente cercare di giungere sino infondo dei miei pensieri  e delle mie convinzioni, sarei tentato di dire che io sono piuttosto un uomo di  dubbio che di una qualsiasi fede, sia pure quelle laica. Se fede laica vuol  dire fede nell’uomo, mi domando se questa fede non sia altrettanto soggetta al  dubbio di quella religiosa. Allora non resta che il senso - che può anche  essere angoscioso, ma è l’ultimo termine cui giunge la nostra ragione - del  mistero. Non è forse questo senso del mistero che lega profondamente e  indissolubilmente gli uomini dell’una e dell’altra fede?”. Se il mistero di  cui la morte ci svela l’essenza abbia l’inquietante sembianza del nulla o uno  dei volti che le varie fedi gli attribuiscono non ci è dato sapere. Ma è bello  l’esempio di chi ha la forza di varcare con serenità e disincanto l’estrema  soglia, fedele fino alla fine al proprio dubbio. Ora che ha attraversato il punto dove - come credeva Platone - la foce si rivela essere la sorgente,  possa il Professore trovare lì pace e riposo. Questa era la sua sola speranza.
                                                                                              
  Fonte: http://tempoper.altervista.org/ARTICOLO%20BOBBIO.doc
Autrice : di Myriam Perdichizzi
Norberto Bobbio biografia vita e opere
Visita la nostra pagina principale
Norberto Bobbio biografia vita e opere
Termini d' uso e privacy