Storia contemporanea riassunti

 


 

Storia contemporanea riassunti

 

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La Restaurazione


Il congresso di Vienna 


Vinto Napoleone, le maggiori potenze si erano intanto riunite nella capitale austriaca, per decidere quale nuovo assetto dare all'Europa e quali strumenti approntare per la sua conservazione.
Il congresso di Vienna (novembre 1814-giugno 1815) vide la partecipazione di più di duecento delegazioni in rappresentanza di tutti gli stati europei, ma fu di fatto dominato da quattro potenze di primo piano: Austria, Prussia, Russia e Inghilterra. A questo gruppo si aggiunse la stessa Francia della restaurata dinastia dei Borbone; anch'essa, infatti, grazie all'abilità diplomatica del suo rappresentante Charles-Maurice Talleyrand, finì per svolgere un ruolo da protagonista nel corso dei dibattiti.
Cinque grandi potenze europee arrivarono così a costituire il cosiddetto "concerto europeo", ossia un sistema organizzato di stati che riconoscevano di avere un comune interesse riguardo alla conservazione dell'ordine internazionale che era stato creato a Vienna ed era destinato a mantenersi pressoché immutato per almeno quarant'anni.

 

L'ordine di Vienna: legittimità ed equilibrio  

Due furono i criteri-guida posti alla base della complessa opera di ridefinizione della carta geopolitica europea dai negoziatori di Vienna: il principio di "legittimità" e quello di "equilibrio".
Il primo mirava essenzialmente a ripristinare la legalità violata dalla rivoluzione e dalle successive imprese napoleoniche: si trattava, quindi, di riportare i sovrani "legittimi" sui rispettivi troni, restituendo loro tutti i diritti e le prerogative di cui erano stati spogliati.
Il secondo aveva come obiettivo il mantenimento degli equilibri politici raggiunti sul continente. Ciò spiega il trattamento non punitivo riservato alla Francia: un eccessivo indebolimento di quest'ultima avrebbe infatti avvantaggiato troppo la sua tradizionale antagonista continentale, ossia l'Austria.
Lo stato francese otteneva così il sostanziale riconoscimento delle frontiere del 1791, pur perdendo, a vantaggio dell'Inghilterra, possedimenti coloniali in Asia e in America Latina (Seychelles, Tobago, Santa Lucia).

 

L'assetto europeo dopo il Congresso di Vienna  

Le altre "grandi potenze" continentali (impero asburgico, Prussia, Russia) ottennero invece consistenti ampliamenti territoriali. L'Austria, oltre all'acquisto di Istria e Dalmazia, si vide riconosciuto il dominio diretto sul Lombardo-Veneto e indiretto su tutta la penisola italiana. La Prussia si impossessò dei territori posti sulla riva sinistra del Reno, venendo così a confinare con la Francia; in più ottenne parte della Sassonia.
La Russia si ingrandì annettendosi il Granducato di Finlandia e il ricostituito Regno di Polonia, la corona del quale venne cinta dallo zar russo.
I territori del dissolto impero germanico furono riorganizzati in una Confederazione di trentotto stati; tra essi, però, la Prussia era messa nella condizione di svolgere un ruolo egemone.
L'Inghilterra, che non ottenne significativi ingrandimenti territoriali in Europa, si vide comunque riconfermata l'assoluta supremazia militare e commerciale sui mari. Essa infatti mantenne Malta e Gibilterra, basi strategiche di primaria importanza per il controllo del Mediterraneo; ma soprattutto acquistò nuove colonie appartenute sia alla Francia sia all'Olanda (Ceylon, Colonia del Capo e isole Maurizio oltre a quelle che sono già state menzionate).
Il congresso di Vienna creò inoltre intorno ai confini della Francia una cintura di stati-cuscinetto abbastanza solidi da scoraggiare ogni sua futura velleità espansionistica, soprattutto in direzione della Germania e dell'Italia. Sorse così il regno dei Paesi Bassi, formato dall'unione del Belgio e dell'Olanda.

 

La situazione in Italia 

Alle frontiere sudorientali della potenza sconfitta fu inoltre irrobustito il regno di Sardegna, che si vide annessi i domini della ex repubblica ligure.
Per quanto riguarda il resto della penisola italiana, essa rimase suddivisa nel modo seguente: il regno Lombardo-Veneto venne assegnato all'Austria, la quale esercitava altresì un controllo indiretto sui ducati del centro-nord (che erano tornati nelle mani delle vecchie dinastie legittime); lo stato della Chiesa si annetteva parte della Romagna, ma consentiva agli austriaci di mantenere truppe sul suo territorio; il regno di Napoli (che aveva assunto il nuovo nome di Regno delle due Sicilie) tornava in possesso dei Borbone.

 

La Santa Alleanza  

Russia, Prussia e Austria si ersero a protettrici del nuovo ordine socio-politico deciso a Vienna unendosi nella Santa alleanza (alla quale poi aderirono numerosi altri stati europei).
L'accordo, assai vago e impreciso nella sua formulazione, faceva appello alla comune volontà delle nazioni firmatarie di difendere i principi della religione tradizionale e dell'autocrazia regia.
I sovrani di Austria, Prussia e Russia erano invitati a considerarsi "fratelli" e a prestarsi reciproco soccorso.
Con il suo confuso misticismo, la sua concezione sacrale del potere regio, il suo richiamo al ruolo paterno svolto dalla monarchia nei confronti dei popoli soggetti, il patto della Santa alleanza ben mostrava l'ideologia reazionaria che accomunava i tre sovrani.
L'Austria vide però giustamente in esso soprattutto la legittimazione del principio di intervento: questo significava che a ciascuna delle grandi potenze veniva riconosciuta la possibilità di intervenire negli affari interni di un altro paese, qualora in esso si fossero accesi pericolosi focolai di rivolta che minavano l'ordine di Vienna. Proprio per questo motivo, oltre che per la nebulosità dei contenuti, il patto non venne sottoscritto dall'Inghilterra.

 

L'ideologia della Restaurazione  

Il periodo compreso tra il 1815 e il 1830 fu quindi segnato dal clima della Restaurazione, cioè dalla chiara volontà di imporre un ritorno al passato in campo politico, sociale e religioso.
Una buona parte della stessa cultura romantica dell'epoca si prestò a servire questo disegno, fornendo ampie revisioni critiche dei fondamenti, degli ideali e dei metodi del pensiero illuministico, che ora viene visto come primo responsabile del dissesto politico e spirituale dell'Europa.
In quest'opera si distinsero in particolar modo i campioni del reazionarismo francese come Louis De Bonald, Joseph De Maistre e René Chateubriand. Con la sua rivalutazione dei sentimenti contro la fredda ragione, la sua esaltazione dei valori tradizionali, la sua idealizzazione del mondo rurale e del medioevo, il romanticismo ben si accordava con le esigenze politiche di un ritorno all'ordine nel senso dell'alleanza da stabilirsi fra trono e altare.

 

Il pensiero liberale di matrice inglese 

Per altri versi, tuttavia, è lecito affermare che proprio nell'epoca della Restaurazione il liberalismo europeo giunse a elaborare le proprie posizioni più mature, anche se nel contesto di una generale tendenza alla moderazione.
Anzitutto, sul piano economico, nel periodo in questione, i principi del liberismo provenienti dall'Inghilterra si affermano progressivamente in tutta Europa. Un'ottimistica fiducia nello sviluppo capitalistico come strumento in grado di garantire concreti vantaggi all'intera società pervade la borghesia europea.
Economisti inglesi come Adam Smith (autore di una celeberrima Indagine sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni, 1776) e il suo allievo David Ricardo vengono accolti come oracoli. All'interno delle loro opere si cerca la conferma dell'idea che la libertà di produrre e commerciare, la libera concorrenza, lo sviluppo tecnologico e industriale sono le vere chiavi del progresso economico e sociale.

 

I limiti del pensiero liberale 

Sul piano strettamente politico, il liberalismo del primo Ottocento si riallaccia direttamente alle elaborazioni "classiche" di Locke e Montesquieu, mentre rigetta gli sviluppi più apertamente democratici del pensiero illuministico.
Negli scritti di Benjamin Constant, per esempio, la libertà del cittadino poteva essere realizzata solo all'interno di uno stato costituzionale e parlamentare dove la rappresentanza politica fosse riservata ai ceti sociali più abbienti e istruiti.
La democrazia diretta e l'egualitarismo di J.J. Rousseau vengono respinti come fattori limitanti i diritti individuali e direttamente collegati con gli esiti dispotici del governo del Terrore. Accade così che il criterio classista, basato sul censo, quale fattore di selezione del gruppo degli aventi diritto alla partecipazione attiva alla vita politica, venga introdotto proprio in nome dei "principi dell'89".
Ciononostante il potenziale eversivo delle idee liberali nei confronti dell'ordine di Vienna appare innegabile.

 

L'idea di nazione nel pensiero romantico 

Lo stesso movimento romantico non fu univocamente orientato in senso conservatore. Si potrebbe ricordare che in campo filosofico la corrente più moderna e autorevole è rappresentata dall'idealismo tedesco. Nell'opera di G.W.F. Hegel (1770-1831), suo massimo esponente, la filosofia idealistica realizza una felice sintesi di temi di chiara ispirazione conservatrice con idee che molto devono al liberalismo borghese. Così Hegel scrive in difesa dello stato conservatore prussiano, considerato come il luogo della piena realizzazione della libertà; ma contemporaneamente fonda una complessa visione progressiva della storia, all'interno della quale il popolo-nazione svolge un ruolo propulsivo fondamentale.
Queste idee si ponevano in aperta rottura con le tendenze restauratrici del congresso di Vienna, che aveva disegnato la geografia politica europea senza tener conto degli interessi dei popoli. Non per nulla gran parte del liberalismo moderato in lotta per l'unità e l'indipendenza delle nazioni vedrà nel romanticismo hegeliano un sicuro punto di riferimento ideologico.

 

Il cattolicesimo liberale 

Perfino all'interno del mondo cattolico vi furono pensatori, come Felicité de Lamennais (1782-1854), che sostennero la non inevitabilità del connubio tra cattolicesimo e ideologia reazionaria.
Il cattolicesimo liberale venne condannato da papa Gregorio XVI e messo al bando dalla Chiesa, tuttavia suscitò il pieno consenso degli intellettuali cattolici di tendenze moderate.

 

I primi pensatori socialisti  

Non mancarono, nell'età della Restaurazione, correnti orientate verso il pensiero democratico e socialista.
Gli esponenti del socialismo utopistico (Saint-Simon, Fourier, Owen) appaiono consapevoli dell'inarrestabilità dello sviluppo industriale e capitalistico.
È loro opinione tuttavia che l'evoluzione debba essere contemperata da misure democratiche (come il suffragio universale), per garantire a tutti i cittadini la libertà e il benessere che il nascente capitalismo e l'ideologia liberale riservavano ai ceti privilegiati.

 

 

I primi moti liberali

 

Le contraddizioni in seno alla Restaurazione 

Sul piano internazionale il congresso di Vienna aveva creato in Europa una situazione di equilibrio destinata a mantenersi sostanzialmente inalterata almeno fino agli anni Sessanta. Sul piano interno, però, il periodo della Restaurazione non fu un periodo di immobilismo politico e di pace sociale.
Il fatto è che il ricordo degli anni della rivoluzione francese e della successiva dominazione napoleonica era troppo vivo nelle coscienze europee perché un ritorno all'ancien régime fosse realmente proponibile. Troppo forte era il contrasto tra le aspirazioni alla libertà, all'uguaglianza, all'autogoverno diffuse nella borghesia e la chiusura paternalistica e autoritaria propria dei regimi restaurati, che pretendevano perfino di ripristinare gli antichi privilegi concessi alla nobiltà di sangue e del clero.
Lo stesso sviluppo dell'industrializzazione, che proprio negli anni che coincisero con il blocco commerciale voluto da Napoleone aveva fatto notevoli passi avanti nel continente, poneva ormai problemi non risolvibili nell'ambito della vecchia politica assolutistica.

 

Il regime costituzionale francese  

Di tutto questo si mostrò ben consapevole la monarchia borbonica, tornata a regnare in Francia con Luigi XVIII. Resistendo alle pressioni degli ambienti ultrareazionari (i cosiddetti ultras) il nuovo sovrano manifestò subito la propria intenzione di tener conto dei recenti sviluppi storici emanando spontaneamente una Carta costituzionale.
Per quanto octroyée (ossia "benevolmente concessa") la costituzione di Luigi XVIII sanciva le principali acquisizioni del periodo rivoluzionario: il potere esecutivo era distinto dal legislativo, affidato a un parlamento bicamerale; il sistema elettorale, per quanto fortemente restrittivo su base censitaria, consentiva almeno all'alta borghesia di eleggere propri rappresentanti nella camera dei deputati (l'unica elettiva: la Camera dei pari era di nomina regia).
Ciò non bastò a sedare i violenti contrasti tra la volontà risolutamente restauratrice di gran parte dell'aristocrazia francese e le aspirazioni dei liberali, ma consentì almeno che i conflitti sociali si svolgessero alla luce del sole, sotto forma di normale lotta politica.

 

I governi conservatori inglesi 

In Inghilterra, patria del liberalismo e del regime parlamentare, il clima della Restaurazione non si tradusse certo in un'impossibile volontà di ripristino dell'antico regime. Indubbiamente anche qui si verificò un ritorno in forze dei ceti nobiliari alla guida della cosa pubblica.
Negli anni Venti i governi conservatori si preoccuparono soprattutto di difendere gli interessi dell'aristocrazia terriera imponendo una politica fortemente protezionistica nei confronti della importazione del grano (leggi sul grano, 1815). Il conseguente aumento del prezzo del pane penalizzava anzitutto le classi popolari, già gravemente colpite dalla disoccupazione seguita alla contrazione della produzione industriale negli anni del blocco dei commerci imposto da Napoleone.
Il disagio subito dalle masse operaie sfociò in una serie di agitazioni di piazza, alle quali il governo rispose con una spietata repressione. Già alla fine del decennio, però, l'avvento al potere di elementi più moderati portava a un'attenuazione delle misure poliziesche, alla concessione di un limitato diritto di associazione per gli operai, alla parificazione dei diritti dei non anglicani (cattolici irlandesi in primo luogo).

 

Le società segrete  

Nei paesi della Santa alleanza la sola risposta conosciuta nei confronti di qualsiasi forma di dissenso fu invece la repressione poliziesca. Questo spiega il rapido diffondersi, all'interno di questi stati, di un certo numero di società segrete, nelle quali i fautori del nuovo orientamento politico borghese cercavano di svolgere la propria attività di propaganda e di lotta.
Gli obiettivi perseguiti dalle organizzazioni clandestine erano differenziati a seconda del contesto nel quale operavano e dei leader che le guidavano: si andava dalla richiesta di una costituzione alla proposta di un regime repubblicano o giacobineggiante, dalla lotta per la cacciata dello straniero alla rivendicazione dell'unità e indipendenza nazionali.
La più famosa e ramificata di queste associazioni fu la carboneria, assai attiva in Francia e in Italia. I suoi adepti provenivano dalle file sia della borghesia intellettuale sia della nobiltà di idee liberali; molti poi erano gli ex ufficiali dell'esercito napoleonico costretti alla pensione dal ritorno dei sovrani "legittimi".

 

I primi moti costituzionali  

Nel biennio 1820-1821 l'attività di queste società segrete sfociò in un primo insieme di moti che presentavano un carattere costituzionale e liberale.
Una prima insurrezione scoppiò in Spagna, a Cadice, il 1° gennaio 1820, per iniziativa di due ufficiali dell'esercito, Rafael Riego e Antonio Quiroga.
La rivolta coinvolse presto le numerose organizzazioni clandestine presenti nel paese, tra le quali si distingueva, per forza organizzativa e per il numero degli affiliati, quella dei comuneros.
Ferdinando VII di Borbone fu costretto a concedere una carta costituzionale modellata su quella emanata a Cadice nel 1812. Subito dopo, il moto rivoluzionario si estendeva al Portogallo, dove i rivoltosi imposero al re Giovanni VI di Braganza di tornare dal Brasile (dove si era rifugiato all'epoca dell'occupazione napoleonica) e concedere la costituzione.

 

I moti del 1820-21 in Italia 

 

La ventata di protesta si estendeva anche in Italia. Nel regno delle due Sicilie una sollevazione promossa dalla carboneria e guidata da un ex ufficiale napoleonico, il generale Guglielmo Pepe, costringeva il re a concedere la costituzione di Cadice (7 luglio 1820). La conseguente mobilitazione di tutte le organizzazioni clandestine italiane mise capo, infine, a tentativi insurrezionali in Lombardia e Piemonte.
L'insurrezione piemontese (marzo 1821) fu organizzata da un ristretto gruppo di aristocratici liberali, che avevano creduto inizialmente di poter contare sull'appoggio di Carlo Alberto, principe di Carignano e presunto erede al trono sabaudo. Dopo aver concesso la costituzione spagnola del 1812, però, Carlo Alberto abbandonò a se stessi i rivoltosi e si mise sotto la protezione dello zio Carlo Felice, divenuto nel frattempo re di Sardegna in seguito all'abdicazione del fratello Vittorio Emanuele I.

 

L'Austria "gendarme d'Europa"  

Tutti questi fermenti non potevano però non scatenare la reazione delle potenze conservatrici. La repressione materiale delle rivolte venne affidata, dopo i congressi di Troppau (1820) e Lubiana (1821), all'Austria di Metternich, vero "gendarme d'Europa". Truppe austriache intervennero a protezione dei legittimi sovrani e senza troppe difficoltà sia nel regno delle due Sicilie sia in Piemonte restaurarono il loro potere (marzo-aprile 1821).
Contemporaneamente la polizia austriaca riusciva a scompaginare le organizzazioni carbonare del Lombardo-Veneto, procedendo a numerosi arresti seguiti da pesanti condanne. Nel corso di un ulteriore congresso tenuto dalla Santa alleanza a Verona (1822) fu inoltre decisa la repressione del regime costituzionale spagnolo, prontamente effettuata dall'esercito francese (1823).
Nel 1823 veniva infine abolita la costituzione anche nello stato del Portogallo. Il sistema poliziesco continentale orchestrato da Metternich dimostrava così tutta la sua efficienza.

 

La rivolta decabrista in Russia 

Un estremo sussulto rivoluzionario si ebbe nel dicembre 1825 in Russia. Qui, ufficiali dell'esercito e aristocratici liberali approfittarono della morte dello zar Alessandro per avanzare richieste di modernizzazione economica e politica. La rivolta, che viene detta "decabrista" proprio perché scoppiata nel mese di dicembre, fu stroncata dal nuovo zar Nicola I, che procedette senza indugio a far giustiziare i promotori.

 

La questione d'Oriente 

Ben più dei fallimentari moti degli anni Venti, furono gli sviluppi della situazione politica internazionale a incrinare la solidità del sistema repressivo che era stato creato dalla Santa Alleanza.
La prima crepa all'interno del blocco monolitico del concerto europeo si aprì infatti in seguito all'esplosione della cosiddetta questione d'Oriente.
All'origine di questa crisi vi era l'inarrestabile decadenza dell'impero turco, messa in evidenza dalla definitiva emancipazione di alcuni paesi vassalli come l'Egitto e soprattutto dall'insurrezione della Grecia (1821).
Il moto indipendentista greco riscosse ampi consensi da parte dell'opinione pubblica europea, spingendo i governi di Russia, Inghilterra e Francia a intervenire in sostegno degli insorti.
I meccanismi repressivi adottati dalla Santa alleanza, quindi, in questo caso, nonostante le proteste avanzate dell'Austria, non scattarono, e alla fine la Grecia ottenne il riconoscimento internazionale della propria indipendenza nel corso dell'anno 1830.
Questo veniva a costituire un primo importante successo ottenuto da parte delle forze liberali dell'Europa.
La prospettiva di ricavare una serie di ingrandimenti territoriali e di benefici  di tipo economico e politico dalla disgregazione del cosiddetto "grande malato" (con questo nome veniva chiamato l'impero turco) avrebbe però molto  presto messo le potenze europee a confronto: l'una contro l'altra.

 

L'Europa del 1830

 

La rivoluzione di luglio in Francia  

All'inizio degli anni Trenta, il sistema delle potenze europee si trovava diviso in due blocchi contrapposti: da un lato c'erano Francia e Inghilterra, le due potenze liberali le cui posizioni si erano avvicinate nel corso della lotta a sostegno dell'indipendenza greca; dall'altro Austria, Prussia e Russia, che formavano il fronte della conservazione.
La spaccatura era destinata ad approfondirsi ulteriormente dopo gli eventi rivoluzionari che scossero la Francia nei primi mesi del 1830.
Dopo la morte di Luigi XVIII, in Francia era salito sul trono Carlo X (1824-1830), esponente di primo piano delle tendenze ultrarealiste. La sua politica, di segno decisamente reazionario, culminò nella primavera-estate 1830 in un vero e proprio tentativo di colpo di stato teso ad annullare le pur moderate garanzie costituzionali concesse dal predecessore. A questo miravano le famose quattro ordinanze emanate dalla corona il 26 luglio, pochi giorni dopo l'occupazione militare di Algeri attuata allo scopo di distrarre l'opinione pubblica dai problemi interni.
Il popolo parigino reagì prontamente determinando, dopo tre giorni di insurrezione (27-29 luglio, le Tre gloriose giornate), la fuga di Carlo X.
Il moto rivoluzionario fu abilmente pilotato da esponenti moderati come il generale La Fayette e gli intellettuali Adolphe Thiers e François Guizot, che infine offrirono la corona a Luigi Filippo d'Orléans, figlio di quel Filippo Egalité che aveva preso parte alla rivoluzione del 1789 (finendo infine giustiziato dal governo del Terrore) e conosciuto per le sue tendenze liberali.
Luigi Filippo, il re borghese  
Luigi Filippo non deluse le speranze dei moderati che lo avevano portato al potere, riconoscendosi re dei francesi per volontà della nazione (e non re di Francia per diritto divino) ed emanando una nuova costituzione di spirito più liberale. L'esatta misura del cambiamento verificatosi nel paese con l'avvento del re è offerta dal fatto che, alla testa dei primi governi del nuovo sovrano, troviamo figure come quelle dei due potenti banchieri Lafitte e Périer.
Nella Francia del re borghese (come fu ben presto chiamato Luigi Filippo) dominavano ormai incontrastati i ceti imprenditoriali, finanziari e capitalistici, le fortune dei quali erano notevolmente aumentate con i progressi dell'industrializzazione nel paese.
Insoddisfatti dell'esito della rivoluzione di luglio rimasero invece gli strati popolari, che pure avevano partecipato attivamente al moto: insurrezioni operaie scoppiarono infatti a più riprese negli anni successivi nei principali centri industriali della Francia (per esempio a Lione nel 1831, 1832 e 1834).

 

I moti liberali del 1830-1831  

A sottolineare il distacco della nuova Francia orleanista dalle potenze della Santa Alleanza, Luigi Filippo enunciò il principio del non intervento, opposto a quello caro all'Austria di Metternich. Esso suscitò molte infondate speranze nei paesi che subivano i rigori dell'ordine di Vienna; di fatto, però, agì in senso positivo solo nel caso del Belgio, insorto nell'agosto del 1830 per ottenere l'indipendenza dall'Olanda.
L'intervento degli eserciti della Santa Alleanza fu infatti impedito da una decisa presa di posizione francese.
Il sostegno in questo modo offerto al moto liberale dei belgi rimase però soltanto un episodio isolato.
Quando nel novembre successivo la Polonia si ribellò alla dominazione zarista, la Francia lasciò mano libera all'intervento repressivo russo. Identica sorte toccò all'Italia, dove nel febbraio del 1831 un moto carbonaro guidato dal commerciante emiliano Ciro Menotti aveva portato alla istituzione a Bologna di un governo autonomo delle province unite. Nei progetti degli insorti, esso doveva costituire il primo passo verso la realizzazione di una monarchia rappresentativa nazionale.
Anche in questo caso lo stato francese si astenne da qualsiasi tipo di iniziativa e l'insurrezione fu prontamente repressa dalle truppe austriache, intervenute su richiesta di papa Gregorio XVI.

 

La quadruplice alleanza liberale  

La svolta in senso liberale impressa dal nuovo regime di Luigi Filippo favorì ad ogni modo un ulteriore avvicinamento della Francia all'Inghilterra.
Dopo il 1833, inoltre, il fronte delle potenze liberali si allargò anche alla Spagna e al Portogallo. Nei due paesi iberici erano infatti scoppiate gravi crisi dinastiche, sfociate, grazie all'intervento anglo-francese, nell'instaurazione di regimi di tipo monarchico-costituzionale. In opposizione allo schieramento conservatore era così sorto il blocco cosiddetto della quadruplice alleanza.
La "cordiale intesa" tra Francia e Inghilterra fu messa in crisi dai contrasti sorti tra le due potenze riguardo alla questione d'Oriente. Nel 1840 il riaccendersi del conflitto tra Turchia ed Egitto provocò l'intervento armato dell'Inghilterra, timorosa che la Russia potesse trarre eccessivi vantaggi dalla disgregazione dell'impero turco. La Francia minacciò allora di intervenire in difesa dell'Egitto, verso il quale nutriva da tempo malcelate mire di tipo colonialistico.
L'abile diplomazia inglese riuscì alla fine a risolvere la crisi a tutto vantaggio degli interessi dell'Inghilterra. Il trattato di Londra del 1840 pose fine allo scontro turco-egiziano con un compromesso che salvava l'integrità della Turchia; la successiva sigla della Convenzione degli stretti (1841), che stabiliva la chiusura degli stretti del Bosforo e dei Dardanelli al passaggio di flotte militari di qualsiasi paese nel caso di un conflitto tra le potenze europee, frustrava le aspirazioni della Russia a uno sbocco sul Mediterraneo.

 

Il blocco conservatore  

Molti paesi cominciavano ormai a guardare con interesse alla Francia e all'Inghilterra, divenute patria d'elezione dei liberali di tutta Europa, per imitarne le soluzioni istituzionali ed economiche. Fu questo per esempio il caso dell'Olanda, che adottò un regime costituzionale, e del Belgio, governato dai cattolici liberali, che imboccò con decisione la via dell'industrializzazione.
Anche Svezia e Norvegia si convertivano al modello economico inglese, adottando una politica di libero scambio.
Ben diversamente andavano le cose negli stati appartenenti al blocco conservatore o comunque sottoposti al loro controllo. Qui, l'arretratezza delle strutture politiche, sociali ed economiche rendeva assai difficile l'affermazione della civiltà industriale. La mancata soluzione del problema nazionale in paesi come l'Ungheria austriaca, la Polonia soggetta alla Russia, l'Italia e la Germania, costituiva un ulteriore ostacolo sulla strada di una evoluzione in direzione del moderno liberalismo borghese.
Ciò non significa, però, che in questi paesi fossero del tutto assenti le spinte alla modernizzazione. Il risveglio della coscienza nazionale, stimolato anche dalla diffusione delle idee romantiche, procede infatti inarrestabile, pur tra le mille difficoltà create dal pesante clima repressivo. Anche la consapevolezza della necessità di un decisivo progresso delle strutture economiche viene gradualmente maturando.

 

Tra arretratezza e sviluppo 

Certo la netta prevalenza di un'economia di tipo agricolo, basata sull'ampio ricorso a manodopera ancora soggetta a vincoli servili di origine feudale, costituirà ancora per molti anni un ostacolo quasi insormontabile all'imporsi di una mentalità imprenditoriale e liberale in paesi come la Russia, la Polonia o la stessa Austria. Uno sviluppo promettente si verifica però a partire dagli anni Trenta nell'area germanica.
Qui il varo, nel 1834, di un'unione doganale (Zollverein) e di una politica commerciale comune creò nel cuore dell'Europa una vasta zona di libera circolazione delle merci, favorita dalla precoce realizzazione di una capillare rete ferroviaria. Furono così poste le premesse del futuro grande sviluppo industriale tedesco.
Quella che è stata chiamata la "via prussiana" all'industrializzazione si caratterizzò anzitutto per l'assenza di una corrispondente evoluzione in senso liberale delle istituzioni politiche. In Germania del resto la borghesia rimase minoritaria nel ceto degli industriali rispetto alla schiacciante prevalenza dell'antica nobiltà terriera.
Anche sul piano dei rapporti internazionali lo sviluppo industriale tedesco non coincise con scelte di tipo liberoscambista come nel caso dell'Inghilterra, ma si sposò con una certa recrudescenza di dottrine protezionistiche.

 

Il riformismo liberale inglese 

A partire dagli anni Trenta, si aprì per l'Inghilterra un lungo periodo di stabilità istituzionale e di dinamismo riformistico. I partiti liberale e conservatore (le due forze politiche sorte dalle ceneri dei vecchi schieramenti dei whig e dei tory) che si alternarono al governo si mostrarono nel complesso capaci di recepire le esigenze di rinnovamento di una società e un'economia in rapido sviluppo.
Negli anni Trenta, veniva varata una serie di riforme che ampliarono consistentemente il diritto di voto (1832-1835), decretarono l'abolizione della schiavitù nelle colonie (1833), stabilirono le prime leggi per la tutela del lavoro minorile nelle fabbriche (Factory Act, 1833) e istituirono un primo abbozzo di sistema assistenziale (1834).

 

Il cartismo 

 

Il persistente malessere degli strati più poveri della popolazione si espresse verso la fine degli anni Trenta in una serie di violente manifestazioni promosse dal movimento Cartista.
Quest'ultimo prendeva il nome dalla Carta del popolo, un documento che richiedeva il suffragio universale maschile, considerato lo strumento più idoneo per avviare a soluzione i problemi della classe operaia.
Intorno alla metà degli anni Quaranta, però, il movimento si sciolse, sia per la dura repressione poliziesca alla quale era sottoposto, sia perché le stesse organizzazioni dei lavoratori (Trade Unions) preferirono abbandonare la lotta sul terreno politico per concentrarsi sulle rivendicazioni a carattere propriamente sindacale.

 

Il liberoscambismo 

Sul piano economico l'Inghilterra adottò nel corso degli anni Quaranta una decisa politica liberoscambista. L'abolizione delle leggi protezionistiche sul grano, opera del governo conservatore di Robert Peel (1841-1846), era fortemente voluta dalla classe imprenditoriale.
Intorno alla metà del secolo infatti l'Inghilterra era la massima produttrice di manufatti industriali del mondo e una politica di libero scambio, lungi dal minacciare il suo primato industriale, non poteva che portarle notevoli vantaggi sul piano delle esportazioni.
Ciò spiega, la solidarietà inglese a sostegno delle lotte indipendentistiche e costituzionali dei paesi soggetti al controllo delle potenze conservatrici. Insieme al sistema parlamentare, l'Inghilterra auspicava anche il liberoscambismo, trasformandosi in mercati per la crescente produzione manifatturiera.

 

La società borghese 

La nuova, o forse sarebbe più corretto dire la più netta, preponderanza dei fattori economici nelle scelte politiche dei vari paesi durante il XIX secolo, si collega con un decisivo fenomeno di ordine sociale: l'ascesa dei ceti borghesi, che hanno la loro punta di diamante nel gruppo degli imprenditori industriali.
A buon diritto, il XIX secolo può essere chiamato l'età della borghesia.
Grande protagonista delle radicali trasformazioni che investono il mondo della produzione con la nascita del sistema industriale, essa scalza progressivamente l'assoluto predominio una volta detenuto dai ceti nobiliari.
Per quanto assai differenziata al suo interno, la borghesia è nel complesso portatrice di una nuova mentalità, per la quale la proprietà privata, acquisita attraverso il lavoro, costituisce il fondamento della società, il criterio di misura del valore della persona, lo scopo fondamentale dell'agire umano. Gli indiscutibili successi del sistema industriale fanno sì che i nuovi valori borghesi tendano a proporsi come modelli di riferimento per l'intera società.

 

Le trasformazioni sociali 

Le stesse vecchie classi dirigenti aristocratiche tendono a imborghesirsi, sia investendo a loro volta i patrimoni in attività produttive, sia stringendo legami matrimoniali con le famiglie borghesi arricchite.
Intorno alla metà del XIX secolo ai vertici della gerarchia sociale e politica si è ormai affermato un nuovo tipo di ceto dirigente: il ceto degli imprenditori, siano essi industriali, commercianti, banchieri o proprietari terrieri. Una nuova società articolata in classi definite sia dalla posizione occupata nel processo produttivo sia dalla ricchezza prende così il posto del vecchio ordinamento sociale basato su ordini rigidi (nobiltà, clero, terzo stato) ai quali si apparteneva per nascita.
Una conseguenza del nuovo stato di cose si traduce così nell'accentuata mobilità sociale. La possibilità di accumulare con una rapidità un tempo impensabile ingenti ricchezze è del resto connaturata alla civiltà industriale.
All'ascesa inarrestabile operata dalla borghesia fa da contraltare, nel corso di tutto l'Ottocento, il progressivo immiserimento degli antichi ceti artigianali e della piccola proprietà contadina, che erano incapaci di fronteggiare la sfida dei nuovi metodi produttivi.
All'interno della cosiddetta "società borghese" si viene così delineando sempre più chiaramente la netta contrapposizione in due classi fondamentali: la borghesia capitalistica, proprietaria dei mezzi di produzione moderni, e il proletariato, ossia la massa dei lavoratori salariati (operai e braccianti).

 

L'espansione coloniale  

Uno dei principali corollari dell'imponente incedere dell'industrializzazione europea fu la vigorosa ripresa dell'espansionismo coloniale inglese e francese. Mentre però la Francia nella prima metà del XIX secolo si limitava alla conquista (1830) e alla graduale colonizzazione dell'Algeria, l'Inghilterra procedeva a un ben più deciso consolidamento e ampliamento dei propri domini nei continenti extraeuropei. In Africa gli inglesi estesero i propri possedimenti nella zona del Capo di Buona Speranza, annettendo il Natal (1843).
L'espansionismo inglese in Sudafrica costrinse i boeri, coloni di origine olandese, a emigrare verso l'interno, dove diedero vita alle repubbliche del Transvaal e dell'Orange.
In Australia e Nuova Zelanda, a quel tempo già colonie di deportazione, l'Inghilterra diede impulso a un sempre più consistente afflusso di coloni, impegnati soprattutto nell'allevamento del bestiame.
Procedeva intanto inarrestabile anche l'assoggettamento dell'India, dove il dominio diretto del governo inglese si sostituì progressivamente a quello esercitato dalla Compagnia delle Indie a partire dalla nomina del primo governatore britannico nel 1816.

 

La guerra dell'oppio  

Negli stessi anni l'Inghilterra attuava una decisa politica di penetrazione economica anche nei confronti della Cina.
Qui, nel 1840, veniva coinvolta nella cosiddetta guerra dell'oppio, scatenata dal governo cinese nel tentativo di stroncare il fiorente commercio di questo stupefacente praticato dagli inglesi.
Il conflitto si risolse però nel 1842 a tutto vantaggio dell'Inghilterra, che ottenne dalla risoluzione della guerra l'apertura di una serie di nuovi scali commerciali in territorio cinese e il possesso della città di Hong Kong.

 

Un caso a parte: il Canada 

Un caso a parte fu quello costituito dallo stato del Canada, al quale il governo inglese, timoroso di eventuali sviluppi indipendentistici analoghi a quelli delle colonie nordamericane, concesse nel 1847 una larga autonomia.
Una volta che venne riconosciuta la sovranità dello stato dell'Inghilterra, il Dominion beneficiò di una pressoché totale indipendenza governativa per quanto riguarda i propri problemi interni.

 

Ideologie risorgimentali in Italia 

In Italia il fallimento dei moti indipendentistici e costituzionali degli anni Venti e Trenta stimolò la nascita di un vivace dibattito intorno ai metodi e alle finalità della lotta risorgimentale.
Due tendenze fondamentali si delinearono: quella dei democratici (o radicali) e quella dei moderati. I primi trovarono punto di riferimento nell'instancabile opera propagandistica e organizzativa di Mazzini.

 

I repubblicani: Giuseppe Mazzini 

Ex carbonaro Mazzini (1805-1872) individuò nello scarso seguito popolare dei moti promossi dalle società segrete il motivo dei loro risultati fallimentari.
Le associazioni da lui fondate (Giovine Italia, 1831; Giovine Europa, 1834) si proponevano anzitutto di istruire il popolo circa gli ideali democratici e unitari da perseguire. Un'Italia unita, indipendente, repubblicana e democratica era l'obiettivo della lotta dei patrioti; il metodo dell'insurrezione popolare, adeguatamente preparata attraverso un'intensa opera di propaganda ideologica, lo strumento più idoneo per il suo raggiungimento.
Negli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta le organizzazioni mazziniane promossero una lunga serie di tentativi insurrezionali, il risultato della quale fu però sempre negativo.
Le ragioni di ciò sono probabilmente da cercare, oltreché nella spietata repressione operata dai poteri costituiti, nella debole o assente coscienza nazionale di gran parte delle popolazioni italiane, soprattutto meridionali, nella sostanziale incapacità del discorso mazziniano di raggiungere effettivamente le masse, in particolare quelle contadine, nella mancata elaborazione di un'adeguata risposta alla gravissima "questione sociale".
Proprio gli esiti fallimentari delle iniziative dei mazziniani diedero impulso negli anni Quaranta allo sviluppo di una corrente moderata, che vedeva una possibile soluzione al problema unitario nella formazione di una lega federale degli stati italiani spontaneamente realizzata dalle dinastie regnanti.

 

I moderati: Gioberti, D'Azeglio, Balbo 

Tra i moderati spicca aVincenzo Gioberti (1801-1852), autore del celebre trattato Sul primato morale e civile degli italiani (1843), in cui viene prospettata l'idea di una federazione italiana sotto la preminenza di un papato convertito al liberalismo.
La linea suggerita da Gioberti, detta neoguelfismo, aveva il suo punto di forza nel fatto che la maggioranza degli italiani rimaneva legata alla Chiesa cattolica.
Vicina al moderatismo giobertiano era anche la proposta di Massimo d'Azeglio (1798-1866) e Cesare Balbo (1789-1853), i quali però individuavano più realisticamente la forza unificatrice dell'Italia in una monarchia piemontese cautamente ammodernata.

 

 

Il 1848

Un anno di svolta 
Il 1848 fu un anno cruciale nella storia europea del XIX secolo: tanto da imporsi, alla coscienza dei contemporanei, come "l'anno dei portenti".
Non per nulla qualcuno ha sostenuto che, proprio a partire da quella data, ha realmente inizio il secolo XIX.
La molteplicità di eventi rivoluzionari che ne segnarono il corso non sono riconducibili a un unico genere di cause. L'Ottocento è stato definito il secolo delle nazionalità. Da questo punto di vista il 1848 fu l'anno della primavera dei popoli, il momento di svolta nel quale diverse nazioni europee raggiunsero finalmente una piena consapevolezza della propria identità, portando così a compimento una lenta evoluzione cominciata fin dall'inizio del secolo.
Come potrebbero insegnare i casi di Parigi e di Vienna, però, il 1848 non coincise ovunque con l'emergere delle sole rivendicazioni nazionali. Alla base dei moti di quell'anno vi furono infatti sicuramente anche antagonismi di classe già direttamente riconducibili ai progressi compiuti in Europa dalla rivoluzione industriale e, quindi, al più chiaro manifestarsi delle sue contraddizioni. È comunque senz'altro lecito affermare che nel corso del 1848 gli schemi e gli equilibri stantii, di stampo ancora settecentesco, dell'ordine europeo creato a Vienna nel 1814-1815 vennero definitivamente posti in discussione.

 

L'Italia verso il 1848 

Gli anni Trenta e Quaranta del resto avevano fornito numerose indicazioni in tal senso. Essi erano stati particolarmente ricchi di episodi e di fenomeni marcati dalla crescita di un nuovo sentimento patriottico, che si era dispiegata con evidenza dall'indipendentismo della Giovane Irlanda allo scandinavismo degli scrittori romantici danesi e svedesi, dalle campagne politico-culturali magiare di Lajos Kossuth e di Sándor Petöfi all'irredentismo dei popoli slavi soggetti all'Austria.
In Italia, il periodo che precede le rivoluzioni del 1848 è dominato dai vivaci dibattiti sul Risorgimento, nei quali ai seguaci di Mazzini e della soluzione repubblicana si contrappone un vasto fronte di moderati.
Il caso italiano è in qualche modo emblematico del clima che avrebbe finito per caratterizzare il 1848.
Qui il progresso di una cultura nazionale, testimoniato dall'attività di scrittori come Alessandro Manzoni e di organizzatori culturali come Giovan Pietro Vieusseux, oltre che dai periodici congressi degli scienziati italiani (nove incontri tra il 1839 e il 1847), si era congiunto con un notevole risveglio economico, particolarmente sensibile nel centro-nord della penisola.

Le contraddizioni italiane in campo economico 

In Piemonte, in Toscana e nel Lombardo-Veneto, il sistema industriale moderno si era annunciato timidamente con le prime manifatture tessili di Biella e di Schio, mentre la stessa agricoltura raggiungeva apprezzabili livelli di sviluppo grazie all'introduzione di forme di gestione capitalistica della proprietà terriera.
Tutto ciò non mancava anzi di far già sentire il suo peso sulla classe contadina, ridotta in una condizione di estremo disagio dall'avanzata del capitalismo nelle campagne. Nel contempo però la frammentazione del paese in molte contrastanti unità economiche, le numerose barriere doganali, il conservatorismo sociale della potenza dominante, cioè l'Austria, l'arretratezza delle legislazioni commerciali di molti degli stati italiani costituivano gravissimi ostacoli al progresso economico dell'Italia.
Lo stesso insieme di fattori minacciava altresì la stessa crescita sociale dei ceti borghesi terrieri e mercantili, che con tanta fatica si erano avvicinati al potere durante l'età napoleonica. Le spinte all'unificazione nazionale erano quindi differenziate, ma nel complesso forti e numerose. Non deve quindi stupire se la volontà di raggiungere certi obiettivi economici fece per qualche tempo passare in sott'ordine il problema dell'indipendenza politica e della forma di governo da dare all'Italia, favorendo negli anni Quaranta l'affermazione delle tendenze risorgimentali più moderate, come quelle espresse da Cesare Balbo o da Vincenzo Gioberti.

Il prevalere delle correnti di pensiero moderate 

Quando nel 1846 fu eletto al soglio pontificio papa Pio IX (1846-1878), al quale venivano attribuite propensioni liberaleggianti, le speranze della corrente neoguelfa parvero per un momento sul punto di realizzarsi.
Le sorti politiche dell'Italia cominciarono a inclinare nettamente verso la soluzione moderata tanto auspicata dai ceti dirigenti nazionali, le cui tendenze liberiste e liberali erano inseparabili dal rigido conservatorismo in campo sociale.
Già nel 1847 furono avviati i preliminari per la costituzione di una lega doganale degli stati italiani.
Il rifiuto del re delle due Sicilie, Ferdinando II, di aderire al progetto diede il via, nell'autunno 1847, a una lunga serie di agitazioni che alla fine costrinsero la gran parte dei sovrani italiani a concedere statuti modellati a grandi linee sulla costituzione francese del 1830.
Ad aprire la cosiddetta "fase delle costituzioni" fu proprio Ferdinando II (29 gennaio 1848), seguito dal granduca di Toscana Leopoldo II (17 febbraio), da Carlo Alberto in Piemonte (4 marzo) e da Pio IX nello stato pontificio (14 marzo).

 

L'ondata rivoluzionaria 

Questi importanti sviluppi della situazione italiana erano stati senz'altro favoriti anche dagli avvenimenti cruciali che stavano intanto accadendo in Francia. Nella capitale francese un'insurrezione popolare fomentata dalle opposizioni costituzionali aveva provocato nel febbraio la caduta di Luigi Filippo.
Immediatamente si era formato un governo provvisorio repubblicano, nel quale figurava un buon numero di esponenti della borghesia progressista e democratica e persino qualche elemento socialista (come Louis Blanc).
Con una velocità sorprendente l'ondata rivoluzionaria si propagò a macchia d'olio in tutta Europa.
Il 3 marzo insorgeva Budapest, dove i liberali magiari guidati da Kossuth decretavano l'abolizione dei privilegi feudali e si affrettavano ad avanzare richieste di autonomia all'Austria. Dieci giorni dopo, la stessa Vienna si ribellava alle autorità reclamando l'allontanamento di Metternich e il varo di una costituzione.
Il 18 marzo era Berlino a insorgere. Dalla capitale prussiana il moto dilagava poi in tutta la Germania, intenzionata ormai a realizzare la propria unificazione. A questo scopo nel maggio successivo veniva convocata a Francoforte un'assemblea costituente tedesca eletta a suffragio universale.

 

La costituzione di Francoforte

 
Nel marzo 1848 alocuni liberali si riunirono nella città di Heidelberg per convocare un'assemblea che costituisse la Dieta di Francoforte. L'assemblea si tenne in maggio ( dopo che ì moti popolari a Berlino avevano fatto promettere a Federico Guglielmo IV di concedere una costituzione) con la partecipazione di giuristi e intellettuali. Il dibattito si concentrò su problemi nazionalistici (se comprendere o escludere l'Austria dall'impero unitario da formare) e l'assemblea non si curò di dare aiuto alle popolazioni che insorgevano. La costituzione, approvata nel 1849 e fondata sull'unità e sulla sovranità popolare, non venne presa in considerazione dall'imperatore.
Federico Guglielmo IV chiuse d'autorità la costituente che si era trasferita a Stoccarda, e decise di formare una confederazione degli stati tedeschi del nord, Sassonia e Hannover, sotto la guida prussiana. Per contrastare tale unione gli stati del sud, Baviera e Württemberg, si allearono con Austria e Russia.
L'Austria che aveva represso con la dittatura militare l'insurrezione di Vienna ed era in guerra contro le rivendicazioni autonomiste degli italiani, grazie all'apporto russo si impose sulla Prussia.
Con il trattato di Olmütz del 1850, Federico Guglielmo IV fu costretto a sciogliere l'unione, a ricostruire la Dieta di Francoforte e a rinunciare a qualsiasi supremazia in Germania.
L'Austria tornò a esercitare un ruolo egemone, quell'Austria reazionaria del dittatore e primo ministro Schwarzenberg e di Francesco Giuseppe, che nel 1849 concessero una costituzione moderata ma non la attuarono, e dopo due anni la abrogarono completamente.

 

La prima guerra d'indipendenza in Italia 

In diretto collegamento con i fatti europei anche i sudditi italiani dell'impero asburgico davano vita a un moto insurrezionale (17 marzo: ribellione di Venezia; 18-22 marzo: rivolta delle cinque giornate di Milano) sfociato alla fine nella costituzione di governi provvisori liberali a Venezia e a Milano.
Il timore di uno sviluppo incontrollato del processo rivoluzionario scoppiato nel Lombardo-Veneto e presto dilagato in tutta Italia indusse il re piemontese Carlo Alberto a superare le iniziali perplessità mettendosi alla testa del movimento nazionale italiano.
Il 23 marzo il sovrano proclamò la guerra di liberazione contro gli austriaci (prima guerra d'indipendenza) e intervenne in aiuto degli insorti, confidando anche sulla collaborazione offertagli dai sovrani di Firenze, Roma e Napoli (fase detta della guerra federale).
Ben presto però il conflitto volse al peggio per il re sabaudo, soprattutto dopo che Pio IX si fu dissociato dall'impresa dichiarando che a un papa non era lecito muovere guerra a uno stato cattolico come l'Austria (allocuzione del 29 aprile 1848). Con la defezione del pontefice, subito imitato dai sovrani di Toscana e di Napoli, il mito neoguelfo crollava definitivamente e la guerra federale si trasformava in guerra regia, quasi esclusivamente piemontese e sabauda.
Il re di Sardegna del resto non faceva mistero della propria scarsa fiducia e ancor minore simpatia per i metodi e gli obiettivi delle forze rivoluzionarie che avevano spontaneamente dato il via all'insurrezione nazionale.
Dal canto loro i patrioti democratici e mazziniani guardavano con sospetto a Carlo Alberto, specialmente dopo la frettolosa annessione al Piemonte delle città che si erano liberate con le proprie mani dagli austriaci. La pesante sconfitta subita dall'esercito piemontese a Custoza (25 luglio) vanificò tuttavia anche questo risultato. Il 9 agosto 1848 Carlo Alberto era infatti costretto a stipulare con il nemico una tregua (armistizio Salasco) che ristabiliva la situazione precedente l'apertura del conflitto.

 

Il ritorno all'ordine 

Le cose intanto si mettevano male per le forze liberali in tutta Europa. Tra l'estate e l'autunno del 1848 le insurrezioni di Praga, di Vienna e della Croazia furono represse nel sangue; nell'agosto del 1849 veniva domata da un esercito austro-russo anche la rivolta ungherese. Esito del tutto analogo avevano avuto del resto anche i fermenti rivoluzionari in Germania, dove il re Federico Guglielmo IV di Prussia scioglieva con la forza l'Assemblea costituente (maggio 1849) e rimandava a data da destinarsi il varo delle riforme promesse.

 

La guerra di popolo in Italia e la restaurazione 

In Italia la sconfitta delle forze moderate che si riconoscevano nella monarchia sabauda ridiede slancio all'iniziativa dei patrioti democratici e repubblicani (fase della guerra di popolo). Effimere ma significative esperienze di governo repubblicano presero così vita a Firenze, Venezia e Roma. In quest'ultima città, dopo la cacciata del papa (novembre 1848), era accorso Giuseppe Mazzini che, insieme ad Aurelio Saffi e Carlo Armellini, vi aveva instaurato la Repubblica romana (febbraio 1848).
Il rischio che l'iniziativa nazionale passasse definitivamente nelle mani delle forze democratiche spinse Carlo Alberto a rompere la tregua e a riprendere il conflitto con l'Austria. Anche questo secondo tentativo si risolse però in un insuccesso: il 23 marzo le truppe piemontesi subivano infatti una sconfitta decisiva a Novara. Carlo Alberto allora abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II, che fu costretto a sottoscrivere un trattato di pace abbastanza oneroso con gli austriaci (6 agosto 1849).
AVittorio Emanuele II fu imposto di sciogliere i reparti volontari combattenti, di pagare un'indennità di guerra di 50 milioni di lire e di ritirare la flotta dall'Adriatico. Radetsky concesse l'amnistia ai sudditi che avevano combattuto a fianco dei piemontesi.

 

La sorte delle repubbliche di Roma e Venezia 

Uscito di scena il regno sabaudo, le speranze dei patrioti italiani si appuntarono sulle sopravvissute repubbliche di Roma e di Venezia. Anch'esse, però, ormai isolate, capitolarono nell'estate del 1849. La prima, nonostante l'accanita resistenza dei difensori (tra i quali si mise in luce Giuseppe Garibaldi, 1807-1882), cedeva il 4 luglio di fronte alla preponderanza delle forze militari inviate dal nuovo presidente della repubblica francese Luigi Napoleone Bonaparte, che sperava così di guadagnarsi le simpatie dei cattolici nel suo paese.
Caduta Roma, molti dei volontari che vi avevano combattuto andarono in soccorso di Venezia. La città lagunare era insorta contro gli Asburgo nel marzo, alla notizia del sollevamento di Vienna, e aveva costretto le milizie austriache ad andarsene. Il governo provvisorio guidato da Manin proclamò la repubblica e l'annessione agli stati sardi. Ma una volta vinto l'esercito di Carlo Alberto a Novara, l'Austria concentrò le truppe contro Venezia stringendola d'assedio. La popolazione resistette fino ad agosto, poi si arrese.

 

 

L'unità italiana e tedesca

 

La svolta conservatrice in Francia 

L'intervento delle truppe francesi a Roma per abbattere la repubblica instaurata nel febbraio del 1848 da Mazzini, Saffi e Armellini si spiega con gli sviluppi della situazione politica a Parigi. Qui il 23 aprile 1848 si erano tenute le elezioni per l'Assemblea costituente, che avevano visto una netta affermazione delle forze moderate e filoclericali.
Si era così formato un nuovo governo dal quale erano stati esclusi gli esponenti socialisti. Gli ateliers nationaux ("opifici nazionali" o fabbriche di stato), che avrebbero dovuto, nei piani del loro ideatore Louis Blanc, assorbire la manodopera disoccupata e garantire il diritto al lavoro, furono soppressi, e tutte le principali iniziative a carattere sociale volute dalla sinistra repubblicana furono abbandonate. Il malcontento degli operai sfociò allora in una nuova insurrezione nella capitale (23 giugno 1848): questa volta però l'esercito, al comando del generale Cavaignac, represse le dimostrazioni nel sangue.
Un simile avvenimento dà un'idea della piega che avrebbero preso a questo punto le vicende politiche della Francia. Ben presto, infatti, nel paese ebbero il sopravvento le forze conservatrici e cattoliche ("partito dell'ordine"), che si diedero subito da fare per emarginare le forze rivoluzionarie responsabili delle insurrezioni di febbraio.
Al partito dell'ordine finì per appoggiarsi anche il leader del mai morto fronte bonapartista, Luigi Napoleone Bonaparte (nipote del grande imperatore), che nel corso del dicembre 1848 veniva eletto presidente della Repubblica.
Fu proprio Luigi Napoleone ad autorizzare l'invio a Roma delle truppe francesi che riportarono sul trono il papa. Per quanto dettato da calcoli politici contingenti e da un atteggiamento sostanzialmente opportunistico, il gesto guadagnò al governo il favore dell'esercito e degli ambienti cattolici conservatori, favorendo la rapida e brillante ascesa del neoeletto presidente francese.

 

Il Secondo impero francese 

Luigi Napoleone infatti di lì a poco, ricalcando i passi dello zio, dapprima spodestava l'Assemblea costituente (colpo di stato del 2 dicembre 1851), quindi resuscitava l'impero grazie a un plebiscito addomesticato che lo riconosceva sovrano con il nome di Napoleone III (Secondo impero, dicembre 1852).
Messe a tacere le opposizioni repubblicane e bloccato il fronte monarchico, il regime dittatoriale del nuovo imperatore godette di fatto del consenso della maggioranza della popolazione: i nostalgici e i militari vedevano in lui la reincarnazione di un capo glorioso e amato; i moderati lo ritenevano il più sicuro baluardo contro i socialisti; gli ambienti cattolici lo additavano come il difensore degli interessi pontifici.
I ceti popolari contadini, sensibili al mito napoleonico e di tradizione cattolica e antisocialista, lo appoggiarono incondizionatamente fin dal principio; come pure la borghesia capitalista, favorita dalla sua politica economica. Forte di questo vasto consenso, Napoleone III poté sviluppare per oltre un decennio una politica spregiudicata all'esterno e assai positiva all'interno.
La Francia attraversò così, tra il 1850 e il 1860, un periodo di grande crescita economica, imboccando risolutamente la via di una rapida industrializzazione.

 

La guerra di Crimea 

Sul piano internazionale il nuovo impero francese ottenne un prestigioso riconoscimento in occasione della guerra di Crimea (1853-1856), che vide Francia e Inghilterra coalizzate a fianco della Turchia contro la Russia.
Il conflitto fu originato dalle mire espansionistiche di quest'ultima che, nel 1853, occupò i due principati danubiani sotto sovranità turca della Moldavia e della Valacchia. Inghilterra e Francia si impegnarono a salvaguardare l'integrità dell'impero ottomano, ma in realtà Napoleone III, grazie all'alleanza con l'Inghilterra, mirava ad allargare la zona d'influenza francese verso il Medio Oriente.
I russi, dunque, si trovarono isolati, non potendo contare neppure sull'aiuto dell'Austria, dichiaratasi neutrale; la Turchia invece poté disporre, oltre che delle truppe anglo-francesi, anche di un contingente di 15 000 uomini inviato dal Piemonte.
La guerra si concluse nel 1856 con la resa della fortezza di Sebastopoli (Crimea), che da più di un anno era saldamente in mano ai russi.
Le conseguenze più immediate derivanti dalla successiva pace di Parigi furono l'arresto dell'espansionismo russo verso i Balcani e il consolidarsi dell'egemonia navale ed economica anglo-francese nel Mediterraneo orientale.

 

Camillo Benso, conte di Cavour 

Ai negoziati di pace fu ammesso anche il Piemonte, rappresentato dal suo primo ministro, Camillo Benso, conte di Cavour (1810-1861). Con grande acume diplomatico, questi aveva intuito che la partecipazione piemontese alla guerra di Crimea al fianco di Francia e Inghilterra avrebbe creato le condizioni per proiettare la questione italiana in una dimensione europea. Nel corso delle riunioni di Parigi, difatti, Cavour riuscì a presentare l'Austria come la vera responsabile dell'instabilità politica della penisola italiana, dove moti rivoluzionari incontrollabili sarebbero potuti scoppiare in qualsiasi momento.
Pur senza ottenere nell'immediato risultati concreti, la lungimirante politica del grande statista piemontese fruttò un importantissimo avvicinamento del Regno di Sardegna alla Francia e all'Inghilterra, quest'ultima già da lungo tempo impegnata per una soluzione moderata del problema italiano.
Uomo politico di statura europea, liberale di stampo classico, Cavour si era già distinto in patria per la sua notevole opera riformatrice, che fece del Piemonte un paese complessivamente più moderno sul piano economico e istituzionale. Il suo programma mirava a fare del regno di Sardegna la guida del movimento nazionale italiano.
Come già Balbo e d'Azeglio, egli individuava nella monarchia sabauda la sola forza in grado di realizzare l'unificazione dell'Italia scongiurando i pericoli di una rivoluzione popolare.

 

Il fallimento del mazzinianesimo 

Negli anni Cinquanta, anche l'ala democratica e repubblicana del movimento nazionale aveva intensificato la propria attività. Tra il 1851 e il 1855 il Partito d'azione di Mazzini diede vita a una serie di insurrezioni in tutta la penisola, che non andarono a buon fine.
Particolare risonanza ebbe lo sfortunato tentativo di sollevare la popolazione contadina meridionale messo in atto nel 1857 da Carlo Pisacane. Sbarcato a Sapri, era stato catturato e ucciso dalla polizia borbonica.
I ripetuti fallimenti delle iniziative mazziniane agevolarono i piani di Cavour, che riuscì a coagulare intorno alla Società nazionale italiana, costituita nel 1857 a Torino, un numero crescente di patrioti di diverse tendenze ideologiche (tra cui Giuseppe Garibaldi, Daniele Manin, Giuseppe Montanelli).

 

La seconda guerra d'indipendenza 

Oltre a convogliare le forze democratiche e repubblicane verso la soluzione moderata, Cavour guadagnò Napoleone III alla causa italiana.
In un convegno tenutosi in segreto a Plombières (luglio 1858), l'imperatore francese s'impegnava a intervenire a fianco del Piemonte nel caso di attacco da parte dell'Austria.
Forte dell'appoggio della Francia, Cavour si diede a provocare abilmente il governo austriaco, che il 26 aprile 1859 fece invadere il territorio sabaudo. Aveva così inizio la seconda guerra d'indipendenza, conclusa vittoriosamente dall'esercito franco-piemontese dopo le sanguinose battaglie di Magenta, San Martino e Solferino (giugno 1859).
La sconfitta dell'Austria riaccese lo spirito indipendentista e unitario delle regioni dell'Italia centrale. Una nuova serie di insurrezioni scoppiò in Toscana, in Emilia e in Romagna, dove si formarono governi provvisori guidati da liberali moderati filopiemontesi che chiesero l'annessione al regno di Sardegna. Venivano così frustrati i progetti di Napoleone III, che sperava di poter costituire in quelle zone un regno filofrancese retto dal nipote Gerolamo.
Tale conflitto d'interessi arrestò la lotta contro gli austriaci che firmarono con la Francia, all'insaputa degli italiani, l'armistizio di Villafranca (11 luglio 1859): il Piemonte acquistava la Lombardia, ma cedeva Nizza e la Savoia ai francesi, mentre l'Austria manteneva il Veneto, della Venezia Giulia e del Trentino.

 

L'unità d'Italia 

Gli innegabili successi ottenuti da Cavour e dalla linea moderata galvanizzarono i patrioti di tutta Italia, rilanciando anche le speranze dei democratici riuniti nel Partito d'azione.
Nel maggio 1860 Garibaldi, alla testa di un gruppo di volontari, dava il via alla spedizione dei mille, che in breve tempo, grazie anche alla sollevazione delle popolazioni locali, liberava il regno delle due Sicilie dal governo borbonico (settembre 1860).
A questo punto Cavour, preoccupato per le intenzioni di Garibaldi, che ormai puntava su Roma per cacciare il papa, e timoroso dell'eventualità che l'iniziativa rimanesse troppo a lungo nelle mani delle forze democratiche, indusse Vittorio Emanuele II a intervenire.
Il re di Sardegna discese quindi alla testa di un esercito lungo la penisola occupando i territori pontifici delle Marche, del Veneto e del Lazio. Le truppe piemontesi poterono così unirsi alle forze garibaldine per piegare l'estrema resistenza borbonica sul Volturno (1°-2 ottobre 1860).
Il 26 ottobre 1860 Garibaldi, a Teano, consegnò il Regno delle due Sicilie a Vittorio Emanuele, che il 17 marzo del 1861 proclamò la nascita del regno d'Italia. Pochi mesi dopo Cavour si spegneva (6 giugno 1861).
L'unificazione nazionale italiana poteva così dirsi finalmente compiuta, sebbene all'appello mancassero ancora le regioni del Lazio (dove sopravviveva la monarchia pontificia) e delle Venezie (ancora in mano agli austriaci).
Per la questione di Roma, che implicava un problema di rapporti fra lo Stato e la Chiesa, gli italiani dovettero pazientare ancora una decina d'anni, anche perché erano frenati dall'opposizione francese.
La guerra tra Austria e Prussia, scoppiata nel 1866, offrì invece all'Italia l'occasione per potersi annettere il Veneto.

 

La Prussia di Bismarck e la guerra del 1866 

L'unificazione nazionale della Germania non fu realizzata, come altrove in Europa, dalle forze borghesi liberali, le cui divisioni interne erano emerse in piena luce nel corso degli eventi rivoluzionari del 1848-1849. Essa fu invece il frutto dell'accorta e spregiudicata politica nazionalista del cancelliere prussiano Otto von Bismarck (1815-1898).
La Prussia di Guglielmo I (1861-1888) era negli anni Sessanta una potenza emergente sulla scena europea.
Sotto la guida autoritaria di Bismarck, tipico esponente della casta degli junker (nobiltà terriera) prussiani, il paese aveva conosciuto un periodo di rapida crescita, diventando ben presto lo stato più industrializzato e militarmente più forte dell'area germanica.
Il principale ostacolo posto sulla "via prussiana" verso l'unificazione dello stato della Germania era costituito dall'Austria di Francesco Giuseppe (1848-1916), che non poteva certo vedere di buon occhio le mire egemoniche manifestate dalla Prussia nei confronti delle popolazioni tedesche residenti al di fuori dei confini dell'impero asburgico. Con estrema abilità, nel 1864 Bismarck trascinò così gli austriaci in una guerra comune da condurre contro la Danimarca per riuscire a strapparle i ducati dello Schleswig-Holstein e del Lauenburg, che erano di lingua tedesca ma sotto amministrazione danese.
Al momento della spartizione dei territori conquistati l'alleanza mostrò con evidenza tutta la sua fragilità e nel 1866 Austria e Prussia entrarono in conflitto fra loro. La guerra ebbe durata di un solo mese (guerra lampo), poiché si rivelò con grande evidenza la netta superiorità militare e organizzativa dei prussiani, che sbaragliarono presso Sadowa le armate austriache.
Anche l'Italia partecipò al conflitto, schierandosi al fianco della Prussia in quella che per noi fu la terza guerra d'indipendenza. Benché sconfitti per terra e per mare nelle due battaglie di Custoza e di Lissa, gli italiani, grazie alla vittoria conseguita dai prussiani, ottennero con la successiva pace di Praga il possesso dei territori del Veneto.
La Prussia, invece, si vide pienamente riconosciuti il possesso dei ducati danesi e un ruolo guida all'interno della neonata Confederazione del Nord (che era formata da ventidue stati tedeschi che erano appartenenti alla disciolta Confederazione germanica).

 

L'unificazione della Germania 

L'aggressivo militarismo della Prussia e la prospettiva di un'unificazione di tutti gli stati tedeschi sotto la monarchia prussiana suscitavano intanto fondate preoccupazioni nella Francia di Napoleone III. Consapevole dell'inevitabilità di un conflitto franco-prussiano, Bismarck decise ancora una volta di passare per primo all'azione.
Nel 1870, approfittando della crisi aperta dal problema della successione spagnola, egli provocò ad arte (con il celebre dispaccio di Ems) l'imperatore francese, che nel luglio dello stesso anno dichiarò incautamente guerra alla Prussia. La battaglia di Sédan (1°-2 settembre 1870) fu fatale a Napoleone III.
Catturato dal nemico egli perse anche il trono perché Parigi insorta affidò a Léon Gambetta la presidenza di un governo provvisorio repubblicano.
Ciò non salvò il paese dal tracollo: il 28 gennaio 1871 Parigi, sotto assedio dal settembre 1870, capitolava.
La sconfitta della Francia fruttò alla Prussia l'acquisizione dei territori semitedeschi dell'Alsazia e della Lorena e spianò definitivamente la strada al compimento del processo di unificazione della Germania. Il 18 gennaio del 1871 infatti i principi tedeschi riuniti a Versailles offrirono a Guglielmo I la corona del Reich (impero) germanico.

 

La presa di Roma 

Contemporaneamente, il crollo dell'impero di Napoleone III portava anche alla risoluzione della "questione romana" da parte del neonato stato unitario italiano. Approfittando del fatto che Roma era rimasta priva della difesa francese, truppe italiane occuparono infatti il 20 settembre 1870 la città dei papi, che fu proclamata capitale d'Italia.
A parziale risarcimento del pontefice, il parlamento italiano varò la legge delle guarentigie (che significa garanzie), che riconosceva l'inviolabilità della persona del papa e garantiva l'extraterritorialità dei palazzi del Vaticano e del Laterano. Pio IX e i suoi successori si rifiutarono però di riconoscere la legge delle guarentigie fino al 1929.

 

Gli imperi d'Austria e di Russia 

Nel 1871, dunque, i due processi paralleli e in qualche modo analoghi che avevano portato all'unità dell'Italia e della Germania erano ormai compiuti. A essi avevano assistito impotenti le due vecchie potenze reazionarie, Austria e Russia. Le sconfitte subite dall'Austria nel conflitto che si scatenò nel 1866 e dalla Russia nella guerra di Crimea, avevano rivelato pienamente la persistente arretratezza tecnologica e militare dei due imperi.
Dall'altro lato i loro gravi problemi interni di ordine economico, sociale, etnico e politico si ponevano ormai come questioni ineludibili. Di qui, le prime timide aperture liberali concesse a partire dagli anni Sessanta in entrambi i paesi.

 

La monarchia austro-ungarica 

In Austria l'imperatore Francesco Giuseppe consentì nel 1861 la costituzione di un parlamento bicamerale dai poteri assai limitati. Il meccanismo elettorale era inoltre congegnato in modo tale da favorire ampiamente i ceti privilegiati (nobiltà, alta borghesia).
Forse più significativo fu il "compromesso" che nel 1867 portò alla trasformazione dell'impero asburgico in duplice monarchia austro-ungarica, tramite la concessione di ampie autonomie governative ai magiari. L'unità dello stato rimaneva garantita dal sovrano e da un governo comune competente per le questioni di politica estera, difesa e finanze. Il problema della molteplicità di etnie presenti all'interno dell'impero rimaneva però sostanzialmente irrisolto, anche perché i privilegi che erano stati ottenuti dall'Ungheria non fecero che incoraggiare gli altri popoli soggetti a rivendicare le stesse concessioni.

 

L'abolizione della servitù della gleba  

In Russia, lo zar Alessandro II aboliva finalmente nel 1861 la servitù della gleba. Pur importante e necessaria, la riforma arrivava decisamente tardi. Calata dall'alto e osteggiata dalla grande proprietà terriera, essa era ben lungi dal poter risolvere le secolari contraddizioni del sistema agrario russo, afflitto da una cronica mancanza di capitali e da un proverbiale ritardo tecnologico.
Nulla di concreto inoltre fu fatto per migliorare le condizioni di vita delle masse contadine. Da questo stato di fatto traeva continuo alimento la sempre più esasperata opposizione dei gruppi populisti e anarchici, le tendenze rivoluzionarie e terroristiche dei quali si rifacevano all'insegnamento sia di Michail Bakunin (1814-1876) sia di Aleksandr Herzen (1812-1870).

 

L'Inghilterra negli anni del grande riformismo 

Rimasta estranea ai violenti sommovimenti socio-politici degli stati continentali, l'Inghilterra si dedicava alla gestione dei propri interessi economici e coloniali.
Dall'alternanza al governo di due grandi premier come il liberale William Gladstone e il conservatore Benjamin Disraeli il paese ricavò numerosi benefici di ordine legislativo. Tra il 1860 e la fine del secolo, l'Inghilterra si poneva all'avanguardia per quanto concerneva i problemi dell'istruzione, della tassazione, del riconoscimento ufficiale delle organizzazioni dei lavoratori.
Nel 1884 una coraggiosa riforma elettorale portava a circa 5 milioni il numero degli aventi diritto al voto.
Aperta rimase la "questione irlandese". La proposta avanzata da Gladstone nel 1886 di concedere l'Home Rule (autogoverno) all'isola sortì il solo risultato di far cadere il suo governo, riportando alla guida del paese i conservatori. Le aspirazioni autonomistiche dei cattolici d'Irlanda, travagliata, fra l'altro, da condizioni economiche gravi, erano destinate a rimanere frustrate ancora per molti anni. L'emigrazione in massa verso gli Stati Uniti era l'unica soluzione a portata di mano per gli irlandesi.

 

La spartizione dell'Africa

L'Africa all'epoca delle conquiste europee 
Sino alla prima metà del XIX secolo l'immenso continente africano aveva vissuto una vita propria assai appartata: solo le regioni settentrionali, organizzate in stati berberi infeudati ai turchi e passate infine sotto il controllo francese, avevano mantenuto rapporti con l'Europa. Per quanto riguarda le regioni situate a sud del deserto del Sahara, la principale occasione di contatto con gli europei, durante l'epoca moderna, era stata costituita dal fiorente commercio di schiavi praticato sulla Costa d'Avorio e nella zona del delta del Niger da sovrani e capitribù locali, usi a trattare con i mercanti arabi e poi con gli inglesi e i portoghesi.
Nel periodo tra il XVII e il XIX secolo, tuttavia, un deciso aumento demografico aveva favorito il rafforzamento di alcune delle società contadine esistenti, che si erano dotate di strutture militari e di governo per nulla primitive.

 

La situazione differenziata dei paesi africani 

Come nell'America precolombiana, anche in Africa gli europei trovarono una situazione assai composita e diversificata, che contemplava la presenza di solidi stati e grandi imperi, ma anche di contesti meno organizzati, dove le divisioni tribali erano causa di continue lotte intestine. Nelle regioni che attualmente costituiscono lo stato del Ghana, per citare un esempio, era fiorito un complesso organismo statale a base feudale, frutto dell'unione delle tribù Ashanti, dotato di una efficiente struttura economica e amministrativa.
Nel Sudan e nell'Africa orientale si stendeva una rete di regni e sultanati islamici, talora di notevole potenza e ricca tradizione, e un unico stato cristiano (di confessione copta), l'antichissimo impero etiopico. Nella parte meridionale del continente il potente stato guerriero degli Zulù oppose una lunga e tenace resistenza ai coloni europei boeri (di origine olandese) e poi inglesi. Solo dopo molti sforzi questi ultimi riuscirono ad avere la meglio sugli indigeni (1879). Non va dimenticata infine l'esistenza di uno stato come la Liberia, costituita in repubblica indipendente nel 1847 per iniziativa di una società filantropica americana che fin dal 1822 vi aveva favorito l'afflusso di schiavi neri liberati provenienti dagli Stati Uniti.
Sotto il profilo economico, zone caratterizzate da un'intensa produzione artigianale e da vivaci commerci si alternavano ad altre dove su tutto dominava un'agricoltura praticata con metodi arcaici, rimasti immutati nei secoli.
L'abolizione della tratta degli schiavi, imposta dagli inglesi nel 1830, portò sulle prime a una paralisi dei traffici e alla crisi di intere zone costiere, disertate dagli europei che abbandonarono numerose antiche basi commerciali e d'insediamento. Le regioni più interne del continente nero restavano però, nella prima metà dell'Ottocento, inesplorate e sostanzialmente sconosciute.

 

Le esplorazioni geografiche 

L'epoca delle grandi conquiste coloniali europee in Africa fu preceduta e accompagnata da una lunga fase di esplorazioni geografiche. Notizie mirabolanti circa le meraviglie e le immense ricchezze dell'Africa nera cominciarono ad affluire in Europa a partire dagli anni Quaranta, riportate da celebri esploratori come David Livingstone e Henry Morton Stanley, protagonisti di avventurose spedizioni nelle zone centrali del continente. Un'altra fonte di informazioni era rappresentata dai non pochi sacerdoti; le loro missioni anticipavano, nelle savane e nelle foreste, l'arrivo dei corpi di spedizione militari.

 

La conquista coloniale 

Nel 1870 la presenza europea in Africa era ancora assai ristretta e limitata ad alcuni insediamenti costieri.
A partire da quella data però le potenze europee, Francia e Inghilterra in primo luogo, diedero il via a una vera e propria gara per la spartizione coloniale del continente. Nel 1914 tutta l'Africa, a eccezione della Liberia e dell'Etiopia, era caduta sotto il dominio europeo.
La Francia, che già aveva l'Algeria, estese la propria presenza alla Tunisia, al Marocco, al Sudan occidentale, all'Africa occidentale francese, all'Africa equatoriale francese, al Congo francese e al Madagascar. Le sue aspirazioni al possesso dell'Egitto, dove nel 1869 una società anglo-francese aveva aperto il canale di Suez, furono frustrate dall'Inghilterra, che nel 1882 lo occupò.
Negli anni successivi gli inglesi penetravano anche nel territorio del Sudan orientale, vincendo, in seguito a una lunga e difficile guerra, le truppe islamiche (i dervisci) fedeli a Mahdi, capo religioso e politico della resistenza locale. Nel 1898 il Sudan divenne un condominio anglo-egiziano.
Intorno alla fine del secolo l'Inghilterra controllava inoltre nell'Africa occidentale Nigeria, Costa d'Oro, Sierra Leone e Gambia; nell'Africa orientale parte della Somalia, Kenya e Uganda; nell'Africa australe Rhodesia e Sudafrica, per conquistare le quali combatté una sanguinosa guerra contro i boeri del presidente Kruger (1899-1902).
Negli stessi anni, la Germania si impadroniva del Togo, del Camerun e dell'Africa di sudovest. Spagna e Portogallo mantennero ed estesero i loro vecchi possedimenti (che erano rispettivamente Rio de Oro e Guinea spagnola e Mozambico, Angola e Guinea portoghese).
A questa vera e propria gara internazionale per la conquista dei territori africani parteciparono anche l'Italia (che rimase padrona dell'Eritrea e della Somalia, alle quali aggiunse, dopo la guerra del 1911-1912, la Libia) e il piccolo stato del Belgio.
Quest'ultimo paese si vide riconosciuto, alla grande conferenza sui problemi coloniali di Berlino (1885), il possesso del Congo, la sovranità del quale venne concessa al re dei belgi Leopoldo II.

 

I contrasti tra le potenze imperialiste  

Nel complesso, la conquista coloniale dell'Africa non provocò particolari tensioni nei rapporti fra le grandi potenze. Nel 1898, in realtà, Francia e Inghilterra furono sul punto di dichiararsi guerra in seguito all'incidente di Fashoda, una località sudanese nella quale due colonne militari, una francese e l'altra inglese, vennero a trovarsi a diretto contatto. L'episodio si risolse però senza l'uso delle armi, anche perché Inghilterra e Francia temevano che uno scontro fra loro avrebbe solo avvantaggiato la Germania. Maggiori attriti si verificarono se mai tra gli ultimi arrivati, che si appoggiavano ora ai francesi e ora agli inglesi nella speranza di accaparrarsi una parte del bottino africano.
Un ulteriore momento di tensione si verificò poi nei primi decenni del Novecento tra Francia e Germania per il controllo dei territori marocchini.

 

Le ragioni dell'espansionismo imperialista 

Le ragioni del fenomeno dell'imperialismo europeo in Africa, ma poi anche in Oriente e nel Pacifico, vanno cercate in una combinazione di fattori di varia natura. La crisi economica scoppiata nel 1873 spinse la grande industria dei paesi capitalisti più evoluti alla ricerca di nuovi mercati da sfruttare, di aree di investimento privilegiate dove fosse possibile realizzare alti profitti, di nuove fonti di materie prime a basso costo.
A questi motivi di carattere economico si aggiunsero però sicuramente fattori politici e ideologici che si identificavano con le aspirazioni di potenza nazionale. Negli ambienti militaristi di tutta Europa si sosteneva che uno stato che ambiva al ruolo di potenza mondiale non poteva certo mancare di basi strategiche in ogni parte del globo.
Considerazioni di questo tipo trovavano in genere una buona accoglienza presso i ceti borghesi, imbevuti di un nazionalismo aggressivo non esente da venature propriamente razzistiche.

 

 

Stati Uniti e Giappone nel XIX secolo

 

La guerra di secessione 

L'espansionismo coloniale di fine Ottocento non interessò soltanto le potenze dell'Europa poiché almeno due stati extraeuropei si affermarono infatti come grandi protagonisti sulla scena internazionale: Stati Uniti e Giappone.
Evento capitale della storia degli Stati Uniti nella seconda metà del XIX secolo fu la guerra civile scoppiata nel 1861 in seguito alla secessione degli undici stati schiavisti del Sud che avevano inteso contrastare in questo modo la decisa affermazione elettorale repubblicana che nel 1860 aveva portato alla presidenza Abraham Lincoln (1809-1865).
Nato nel 1854, il Partito repubblicano si proponeva la difesa degli interessi protezionistici degli stati industrializzati del Nord. Gli stati del Sud, dove invece predominava un'economia agricola basata sul sistema della grande piantagione e sul largo impiego di manodopera servile, erano più favorevoli a una politica di libero scambio.
Allorché i repubblicani sposarono la causa dell'abolizione della schiavitù, ottenendo subito vasti consensi sia presso la borghesia nordista sia presso la piccola proprietà terriera degli stati dell'Ovest, lo scontro divenne inevitabile.
Gli stati del Sud si unirono nella Confederazione degli Stati d'America, con capitale a Richmond (Virginia), ed elessero un proprio presidente, Jefferson Davis (aprile 1861). Dopo poco i confederati aprivano le ostilità, che si protrassero fino al 1865. Vinta dai nordisti, la guerra di secessione fece trionfare l'abolizionismo e diede un notevole impulso allo sviluppo della grande industria e delle banche del Nord.

 

L'imperialismo americano 

A partire dagli anni Settanta i successori di Lincoln (ucciso all'indomani della vittoria nordista) inaugurarono una nuova politica estera di espansione coloniale. Grande protagonista e teorizzatore di questa svolta fu il repubblicano Theodore Roosevelt (presidente tra il 1901 e il 1909), sostenitore della dottrina detta "del grosso bastone", secondo la quale gli Stati Uniti avevano tutti i diritti di intervenire anche militarmente nell'America Latina per difendere i propri interessi.
In armonia con questa sorta di dilatazione della dottrina Monroe, Roosevelt intraprese una serie di interventi militari nel subcontinente americano.
Nel 1898 gli Stati Uniti entravano in guerra con la Spagna per la questione di Cuba, che dal 1895 era in lotta con Madrid per ottenere l'indipendenza. La facile vittoria consentì agli statunitensi di imporre un proprio protettorato di fatto sull'isola caraibica, e di stabilire il proprio dominio diretto sulle Filippine e su Portorico, strappati agli spagnoli.
Nel 1903 poi gli Stati Uniti intervennero in Colombia. Il governo colombiano si era infatti opposto ai progetti di Washington circa il taglio dell'istmo di Panama; gli statunitensi allora provocarono un moto secessionista che portò alla nascita dello stato omonimo, formalmente indipendente ma in realtà sottoposto al loro protettorato.

 

L'industria americana 

Di particolare rilievo per lo sviluppo economico statunitense dopo l'indipendenza furono: l'abbondanza di terra coltivabile in un vasto spazio poco abitato, che favorì l'importazione di manodopera; un ambiente naturale molto dotato di risorse sia nel sottosuolo sia in superficie, che agevolò il decollo dell'industria; un'ampia varietà climatica, che consentì le più svariate colture e la relativa specializzazione produttiva dei diversi stati: cotone al sud, manufatti nel nordest e beni alimentari nel nordovest.
L'intervento pubblico nello sviluppo economico fu meno pressante che in Europa, in quanto la filosofia prevalentemente liberista non vedeva di buon occhio l'intervento dello Stato nell'attività economica, e solo in pochi casi esso rilasciò delle garanzie governative per attirare investimenti stranieri nei settori che richiedevano l'impiego di capitali particolarmente cospicui, come nel trasporto ferroviario e, nelle comunicazioni, l'industria del telegrafo e del telefono. Lo sviluppo di questi comparti incoraggiò la nascita di grandi imprese, rese possibile l'ampliamento del mercato, l'aumento delle quantità prodotte, l'abbassamento dei costi di distribuzione, lo sviluppo della commercializzazione e della produzione di massa, favorendo infine l'avvento delle grandi imprese industriali.

 

Ford e la catena di montaggio 

Nel 1908 l'industriale Henry Ford istituì la prima catena di montaggio, che divenne il simbolo della moderna produzione di massa, il cosiddetto fordismo, le cui caratteristiche principali sono: la maggiore velocità di lavorazione, che genera incrementi di produttività; l'aumento dei volumi produttivi, che consente di abbassare il costo dei prodotti; l'incremento del livello salariale, che crea nuova domanda e quindi un ulteriore allargamento della produzione.
Nei primi anni del secolo, gli Stati Uniti presentavano una situazione industriale caratterizzata dallo sviluppo di nuovi settori che producevano beni su scala di massa; contemporaneamente, la crescente immigrazione di manodopera non qualificata fu assorbita prontamente dall'industria; ma senza l'addestramento necessario, essa non era in grado di soddisfare le attese dei produttori.


Taylor e lo scientific management 
Osservando questa situazione, il famoso ingegnere Frederick Taylor, (1856-1915), propose di riorganizzare il lavoro in fabbrica per migliorarne l'efficienza, applicando lo scientific management (metodo di organizzazione scientifica del lavoro) o "taylorismo", i cui fondamenti consistono nella selezione e nella preparazione della manodopera su base scientifica, nella suddivisione del compito degli operai in operazioni e movimenti elementari allo scopo di eliminare gli sprechi e le perdite di tempo e nella stretta collaborazione tra dirigenti e maestranze. Le tecniche del taylorismo sono state applicate su larga scala a livello mondiale fino alla seconda guerra mondiale, persino nell'ex Unione Sovietica ai tempi dei primi piani quinquennali.

 

Le origini del Giappone moderno 

Verso la fine del XIX secolo una nuova grande potenza si affaccia sulla scena internazionale: il Giappone. All'inizio del secolo, l'impero nipponico era ancora organizzato come uno stato feudale.
L'autorità suprema era rappresentata dallo shogun mentre il vertice della gerarchia sociale era occupato da un piccolo numero di grandi signori feudali, i daimyo. In posizione subordinata rispetto a questi ultimi vi era poi la schiera dei nobili minori, i samurai, che costituivano il nerbo dell'esercito.
L'apertura del paese al commercio con l'Occidente dalla metà del XIX secolo determinò il rapido tracollo di questa struttura socio-politica. Un vasto moto riformatore portò nel 1867 all'esautoramento dello shogun e alla completa restaurazione del potere imperiale.
Venne successivamente avviato un processo di riforma delle istituzioni, che portò alla fondazione di uno stato moderno di tipo burocratico, all'abolizione dell'ordinamento feudale e all'avvio di una rivoluzione industriale.
Promotore di questo rinnovamento del paese fu l'imperatore Mutsuhito (1868-1912), che diede avvio all'età del Meiji Tenno, (governo illuminato). Lo stato moderno sorto dal rivolgimento del Meiji manteneva praticamente intatte le strutture tradizionali. La carta costituzionale che venne concessa nel 1889, infatti, non eliminava le prerogative del sovrano e affidava al Parlamento un ruolo quasi esclusivamente consultivo.

 

L'espansionismo giapponese  

La linea di repressione antipopolare perseguita dal governo agevolò la conversione del Giappone a una politica imperialistica. La prima manifestazione dell'aggressivo espansionismo nipponico si ebbe con la guerra contro la Cina per il possesso della Corea (1894-1895) che si concluse con la sola acquisizione di Formosa. Nel 1904 il Giappone entrava in conflitto con la Russia per il controllo della Manciuria. Lo scontro si risolse in un successo per l'impero nipponico, che si impossessò di Port Arthur, dell'isola di Sakhalin e della Corea.
Una conseguenza indiretta del dinamismo imperialistico giapponese fu il definitivo tracollo in Cina dell'istituto monarchico. Già dal principio del XIX secolo l'impero cinese si trovava in un grave stato di decadenza.
La dinastia regnante dei manciù non era riuscita a opporsi alla progressiva penetrazione delle maggiori potenze europee, che avevano ridotto il paese a una condizione di sudditanza.
Nel 1900 una ribellione nazionalista scoppiata a Pechino (rivolta dei Boxers) era stata stroncata da un corpo di spedizione internazionale. L'arrendevolezza del governo imperiale di fronte all'imperialismo straniero spinse le forze nazionaliste e democratiche a unirsi nel Kuomintang (Partito nazionale del popolo), che, sotto la guida di Sun Yat-sen (1866-1925), nel 1912 rovesciò la monarchia e proclamò la repubblica.
Un altro significativo risultato della vittoria del Giappone nell'ambito della guerra russo-giapponese del 1904-1905 fu lo scoppio, in Russia, di una rivoluzione (1905) che costrinse lo zar a concedere alcune libertà fondamentali e l'apertura di un parlamento (chiamato duma) che aveva prerogative limitate.

 

La svolta conservatrice di fine Ottocento

Tra positivismo e nazionalismo 

L'indirizzo di pensiero dominante nella seconda metà del XIX secolo è il positivismo, filosofia tutto sommato impregnata di sano pragmatismo borghese e di una ottimistica fiducia nel progresso indefinito della società.
Al centro delle attenzioni del suo fondatore, il francese Auguste Comte (1798-1857), vi è il problema della natura e dell'importanza del pensiero scientifico nella moderna civiltà industriale. In diretta antitesi con le teorie romantiche, i positivisti sostenevano che la sola forma di conoscenza valida e oggettiva era quella scientifica, basata sul metodo matematico-sperimentale e diretta all'individuazione delle leggi costanti che governano i fenomeni. Perfino i valori morali e politici venivano considerati fatti razionalizzabili con criteri rigorosamente scientifici.
Il positivismo da un lato riflette la realtà degli straordinari progressi compiuti dalla scienza nel corso del secolo, dall'altro costituì uno stimolo alla diffusione di un atteggiamento di tipo scientifico in settori dai quali era tradizionalmente escluso (politica, sociologia, antropologia).

Darwinismo e imperialismo 

Un grande contributo alla diffusione della mentalità positivistica venne offerto dalle teorie evoluzionistiche elaborate da Charles Darwin (1809-1882), che fornivano un convincente fondamento a una visione strettamente naturalistica dell'uomo.
Indebitamente applicato allo studio delle società umane, l'evoluzionismo diede luogo al cosiddetto darwinismo sociale, dottrina pseudoscientifica che godette di grande popolarità nella seconda metà del XIX secolo. Espressione del nuovo conservatorismo della classe borghese, esso affermava il diritto del più forte a imporsi sul più debole, fornendo così una potente giustificazione ideologica all'imperialismo dell'epoca e perfino alle più torbide concezioni razziste e antisemite.
Il principio dei diritti delle nazionalità, caro al pensiero borghese del primo Ottocento, degenerava così a fine secolo in nazionalismo aggressivo e militarista. Di questa nuova tendenza si facevano interpreti nei diversi paesi europei gruppi di estrema destra come l'Action Française in Francia e i Conservatori Nazionali riuniti attorno alla rivista Il regno di Enrico Corradini in Italia.

 

Il sionismo

 

Il fenomeno delle persecuzioni nei confronti delle comunità ebraiche (pogrom) aveva conosciuto una notevole recrudescenza nella seconda metà del secolo sia in alcuni paesi cattolici (Baviera, Tirolo, Austria, Ungheria) sia in quelli slavi (Russia, stati balcanici).
Sfruttando un mito destinato a sinistri sviluppi con l'avvento del nazismo, gli antisemiti facevano coincidere la figura dell'ebreo con quella del finanziere rapace e del banchiere dissanguatore.
In Italia perfino una rivista prestigiosa e ufficialmente legata al Vaticano come Civiltà Cattolica non esitò a bandire la crociata antisemita, che peraltro qui si confondeva spesso con quella condotta contro i massoni, i liberali, i democratici e il loro "frutto perverso", i socialisti.
In questo clima nasce verso la fine del XIX secolo il movimento sionista (da Sion, "collina di Gerusalemme"). Suo fondatore fu l'ebreo austriaco Theodor Herzl (1860-1904), che, in Judenstaat (1895), propose la costituzione di uno stato nazionale ebraico in Palestina. In tal modo, egli si proponeva a un tempo di difendere l'identità culturale del popolo ebraico e di risolvere il secolare e odioso problema dell'antisemitismo.
Grazie ai fondi raccolti presso le comunità ebraiche sparse in tutto il mondo, il movimento sionista cominciò così ad acquistare terreni in Palestina, incoraggiando i primi nuclei di coloni a stabilirvisi. Un primo insediamento ebraico (gli Amici di Sion) si era costituito nei dintorni della città di Gerusalemme già nel 1880; nel 1914 gli ebrei residenti in Palestina erano circa 85 000.

 

La nascita del movimento femminista

 
Un primo segno dell'insorgere della questione femminile si ha nel 1869 con la pubblicazione dello scritto Sulla schiavitù della donna del filosofo positivista John Stuart Mill.
Di fatto, alla fine dell'Ottocento la donna europea vive ancora in una condizione di pesante inferiorità sociale: viene  esclusa dal diritto di voto, discriminata in campo professionale (a parità di mansioni percepisce in genere un salario dimezzato rispetto a quello maschile) ed è fortemente ostacolata negli studi.
Contro questo stato di cose insorgono, però, agli inizi del XX secolo, i primi gruppi femministi, che non esitano a ricorrere a clamorose manifestazioni di piazza per riuscire ad attirare l'attenzione pubblica sui problemi della condizione femminile nella società.
Il loro obiettivo prioritario era la conquista del diritto di suffragio per le donne. Tra i più combattivi movimenti di emancipazione femminile va ricordato quello delle suffragette (da suffragio), fondato nel 1903 in Inghilterra da Emmeline Pankhurst e appoggiato, sia pure con qualche iniziale esitazione, dalle forze politiche di matrice socialista. Sul suo esempio, la lotta femminista era destinata a diffondersi in tutto il mondo, spingendosi ben presto al di là della pura rivendicazione elettorale e puntando alla più ampia lotta per raggiungere una parità tra uomo e donna che riguardasse anche la sfera familiare e privata.

 

Il nuovo equilibrio internazionale 

All'indomani del trionfo sulla Francia di Napoleone III, l'impero tedesco si propone come il nuovo grande protagonista della scena politica europea.
Grazie all'abile diplomazia del suo cancelliere Otto von Bismarck, la Germania viene a collocarsi al centro di una fitta rete di accordi internazionali, lo scopo principale dei quali è il mantenimento dello status quo sul continente.
Decisivo appariva in questa ottica l'isolamento in cui era relegata la Francia, le cui malcelate velleità di rivincita costituivano agli occhi di Bismarck la più grave minaccia per la stabilità dell'equilibrio europeo. Nascono così il patto dei tre imperatori (1873) tra Austria-Ungheria, Russia e Germania e la successiva triplice alleanza (1882) tra impero asburgico, Germania e Italia.
Per effetto del sistema di intese creato da Bismarck, finalmente l'Europa godette di un lungo periodo di pace.
Le potenze conservatrici ne approfittarono immediatamente per consolidare le posizioni conquistate sul continente, mentre, al contrario, Francia e Inghilterra si sentirono tacitamente incoraggiate a concentrare i propri sforzi nella politica di espansione coloniale.

 

Francia e Germania a fine Ottocento 

La Francia, posta fine all'esperienza della Comune, si risollevò rapidamente dalla sconfitta. Dopo la proclamazione della Repubblica (terza repubblica) nel 1875, il consolidamento delle istituzioni procedette spedito, nonostante il ripetersi di tentativi di destabilizzazione messi in atto dalle forze monarchiche e legittimiste (nel 1875 fu respinto un tentativo di colpo di stato messo in atto dal maresciallo Mac Mahon; stesso esito ebbe nel 1887 l'avventura del generale Boulanger).
A partire dagli anni Ottanta, la vita politica francese, a lungo dominata dalla figura del leader repubblicano Jules Ferry, fu caratterizzata da una lunga stagione di importanti riforme in campo civile e sociale.
Sicura della propria posizione egemone sul continente europeo, la Germania di Bismarck resta per un ventennio ai margini della gara per la spartizione coloniale del mondo intrapresa dalle potenze capitaliste (pur non mancando di mettere piede in Africa e in Estremo Oriente). Sul piano interno, l'autoritarismo bismarckiano si scontra dapprima con l'opposizione moderata del partito cattolico del Centro (con il quale ingaggia l'aspra ma fallimentare Kulturkampf, 1873-1875). Gli scarsi risultati ottenuti dalla battaglia per la civiltà indussero alla fine il governo ad avviare un processo di lenta distensione nei confronti dei cattolici, anche perché nel frattempo ben più grave si profilava la minaccia costituita dal sempre più forte Partito socialdemocratico.
Nei confronti di quest'ultimo, il cancelliere di ferro (come fu chiamato Bismarck) adottò una politica di dura repressione antiliberale, accompagnata però da importanti riforme promosse dall'alto.
Il lavoratore tedesco si trovò così a godere di un sistema assistenziale e pensionistico senza rivali in Europa, ma ciò non bastò a fermare l'avanzata del movimento socialista nel paese.

 

La situazione in Austria-Ungheria e in Russia 

Una situazione di relativa decadenza e di crisi caratterizzava intanto le vicende dell'Austria-Ungheria e della Russia zarista.
L'impero austroungarico appare da un lato sempre più incapace di contenere le pressanti tensioni irredentistiche dei popoli a esso soggetti (italiani, slavi, cechi, slovacchi), dall'altro sempre più invischiato in una pericolosa politica imperialistica nei Balcani.
La Russia, governata dallo zar Alessandro III con rinnovati criteri reazionari, affrontava tra mille contraddizioni le prime fasi del suo decollo industriale.
La rigida autocrazia zarista si rivelava però sempre meno idonea ad affrontare in maniera adeguata i gravi problemi interni del paese (malcontento contadino, attività dei populisti, terrorismo, nascita della socialdemocrazia).
Sul piano internazionale, poi, la Russia intraprese nel 1877 una guerra contro la Turchia per il controllo dei paesi di religione ortodossa che si trovano all'interno dell'area balcanica.
Vittorioso sul campo, lo zar si vide però umiliato dagli esiti del successivo congresso di pace di Berlino (1878), dove Bismarck, ertosi ad arbitro dell'equilibrio europeo, riuscì a imporre una soluzione che ancora una volta allontanava la Russia dal tanto ambito sbocco sul Mediterraneo. Il capolavoro della diplomazia bismarckiana scongiurò per il momento la minaccia di un conflitto austro-russo per il predominio nei Balcani, ma non poté certo eliminare i motivi di contrasto tra le due potenze.
Il conflitto di interessi tra Austria-Ungheria e Russia nella penisola balcanica era destinato a costituire un grave fattore di perturbamento nei rapporti politici internazionali fino allo scoppio della prima guerra mondiale.


L'Italia e la destra storica (1861-1876) 
Conseguita l'unità, l'Italia si presentava come un paese afflitto all'interno da gravissimi problemi d'ordine economico e istituzionale, e con una posizione internazionale ancora tutta da definire. I governi della destra storica (1861-1876), formati dagli eredi del moderatismo di Cavour, adottarono una politica estera defilata, improntata a una estrema cautela. Sul piano interno essi si impegnarono con successo nella repressione del brigantaggio meridionale (una vera guerra civile, che tra il 1863 e il 1865 richiese la mobilitazione di un esercito di oltre 100 000 uomini) e riuscirono a riportare in pareggio il bilancio dello Stato, ma al prezzo di una politica fortemente antipopolare.
Il risanamento delle finanze statali, in particolare, venne ottenuto grazie all'introduzione di una tristemente famosa tassa sul macinato (1868), voluta dal ministro Quintino Sella e causa scatenante di una serie di violenti tumulti e di proteste da parte degli strati più umili della popolazione.
L'Italia e la sinistra storica (1876-1887) 
Una parziale svolta negli indirizzi politici italiani si ebbe con l'ascesa al potere della sinistra storica di Agostino Depretis e Giuseppe Cairoli (1876-1887). In politica estera l'Italia, legatasi all'Austria-Ungheria e alla Germania nella triplice alleanza, cominciava la propria penetrazione in Africa insediandosi ad Assab e a Massaua sul mar Rosso.
Sul piano interno però la sinistra liberale, giunta al governo sulla base di un programma di innovazioni democratiche, fece ben poco per distinguersi dalla destra. La sua sbandierata propensione riformistica si esplicò in un ristretto numero di prudenti iniziative: un contenuto ampliamento del diritto di voto, una modesta riforma del sistema scolastico (venne istituita l'istruzione pubblica obbligatoria e gratuita, ma soltanto per i bambini di età tra i sei e i nove anni), la concessione di un larvato decentramento amministrativo.
Tutto questo non poteva certo costituire una valida risposta ai complessi problemi sociali del nuovo stato, che rimasero sostanzialmente irrisolti. Dall'altro lato, l'abbandono della politica liberoscambista e il varo delle prime misure protezionistiche comportarono alcuni vantaggi per la nascente industria del Nord, ma finirono per favorire anche i latifondisti meridionali, con grave danno per i processi di modernizzazione del settore dell'agricoltura.

 

Instabilità di governo e arretratezza 

Alcune discutibili pratiche parlamentari come il cosiddetto trasformismo (ossia il frequente passaggio dei deputati dallo schieramento di opposizione a quello di governo e viceversa a puri fini di potere), inaugurato del resto dallo stesso Depretis, contribuirono inoltre a creare all'interno del paese un clima di costante instabilità governativa.
Le principali preoccupazioni dell'Italia, tutte in ultima analisi riconducibili al suo debole e tardivo sviluppo, non furono quindi neppure affrontate: tra esse  emergono la persistente arretratezza dell'agricoltura; l'evidente dualismo economico tra Nord e Sud; l'incessante emigrazione; un'intensa e diffusa conflittualità sociale. Quest'ultima era destinata a sfociare nel corso degli anni Novanta in una serie di violente agitazioni e di sommosse (come il moto de La Boje in val Padana, la rivolta dei Fasci siciliani, la sollevazione anarchica in Lunigiana ecc.).

 

L'attività riformatrice di Crispi  

Un più deciso riformismo caratterizzò invece gli anni nei quali la vita politica italiana fu egemonizzata da Francesco Crispi (primo ministro dal 1887 al 1891 e poi dal 1893 al 1896). Ex mazziniano, poi convertito all'autoritarismo bismarckiano, Crispi mantenne e rilanciò le tendenze protezionistiche, filoindustriali ed espansionistiche dei suoi predecessori, ma si fece anche promotore di un'intensa opera riformatrice.
Per sua iniziativa, radicali e moderni cambiamenti furono apportati nel campo dell'amministrazione pubblica e locale (1888) e nel campo giuridico (il nuovo Codice penale Zanardelli, del 1890, aboliva la pena di morte e riconosceva il diritto di sciopero). A questi importanti provvedimenti si aggiunse nel 1893 la riforma del sistema creditizio realizzata da Giovanni Giolitti (1842-1928), allora per la prima volta alla guida del governo.

 

Agitazioni sociali e avventura coloniale 

Durante il suo secondo mandato governativo, Crispi, tornato al potere nella veste di uomo forte capace di riportare l'ordine nel paese, affrontò con spietati metodi repressivi le gravi agitazioni sociali divampate in Sicilia e in Lunigiana.
Contemporaneamente, l'espansione coloniale italiana nel Corno d'Africa conosceva una ripresa. Mentre l'occupazione della Somalia procedette senza particolari difficoltà (la Somalia fu proclamata colonia dell'Italia nel 1905), il regno d'Etiopia oppose resistenza alla penetrazione degli italiani. Dopo una fase di maneggi e trattative con il negus (imperatore) Menelik si arrivò allo scontro aperto. Nel 1896 però le truppe italiane subivano ad Adua una pesante sconfitta. Il disastro di Adua, oltre a costituire lo scacco più grave subito dagli europei in Africa nel XIX secolo, provocò la caduta del governo Crispi e contribuì ad aprire in Italia un periodo di disordini sociali.

 

L'industrializzazione

 

Uno sviluppo industriale in ritardo 

In Europa e nel Nuovo Mondo e ancora a metà del XIX secolo l'industria era molto meno sviluppata di quella inglese. A quasi un secolo dalla rivoluzione industriale l'intero continente europeo era industrialmente arretrato di una generazione rispetto all'Inghilterra,con una popolazione prevalentemente rurale e occupata soprattutto nelle attività agricole. Ciò era dovuto alla concomitanza di una serie di fattori: l'esistenza di inefficienti vie di comunicazione, la scarsità di materie prime, un agglomerato di piccoli stati in uno spazio relativamente esiguo, la distribuzione ineguale del reddito, le elevate tasse, le continue guerre che provocarono importanti perdite umane e di ingenti capitali, una cultura che considerava l'attività di impresa adatta alle classi sociali media e bassa, lo scarso investimento nella formazione scolastica locale.

 

Il progresso tecnologico 

Tra il 1850 e gli albori del secolo successivo, tuttavia, l'economia europea conobbe trasformazioni profonde. In pochissimi anni i ritmi e le consuetudini che da sempre scandivano la vita degli uomini furono sovvertiti dal prodigioso sviluppo tecnologico che aveva aperto l'era del trasporto ferroviario, dell'elettricità, della navigazione a vapore, dell'aviazione.
Sarebbe impossibile esaminare una a una in questa sede tutte le importantissime scoperte di questa età straordinariamente feconda di innovazioni; soffermiamoci dunque soltanto su alcune delle più decisive e appariscenti. Fin dall'inizio del secolo le città maggiori cominciarono a dotarsi di sistemi di illuminazione a gas.
Il settore delle comunicazioni fu rivoluzionato da invenzioni quali il telegrafo dell'americano Samuel Morse (1844), il telefono di Meucci e Bell-Gray (1871-1876) e la radiofonia di Guglielmo Marconi, ma anche dall'introduzione di nuovi accorgimenti come il francobollo postale.
Anche il settore dei trasporti entrava in un'epoca storica del tutto nuova con la nascita delle ferrovie.

 

Stephenson e Fulton 

A partire dall'Inghilterra, dove nel 1814 George Stephenson aveva realizzato la prima locomotiva a vapore, il trasporto ferroviario si diffuse rapidamente in tutti i paesi più progrediti. Intorno alla metà del secolo più di 20 000 km di strade ferrate attraversavano il continente europeo, mentre negli Stati Uniti nel 1860 si contavano già 48 000 km.
Di lì a poco, l'introduzione del petrolio come fonte di energia e il perfezionamento del motore a scoppio (1876-1890) avrebbero reso possibile l'invenzione dell'automobile. Negli stessi anni anche i trasporti marittimi conoscevano una decisiva rivoluzione in seguito all'avvento delle navi a vapore (il primo esemplare di battello a vapore fu realizzato da Robert Fulton nel 1807).
Il nuovo sistema di navigazione soppiantò definitivamente la vela, soprattutto dopo gli anni Settanta, allorché la propulsione a elica sostituì quella a ruote e gli scafi in ferro presero il posto di quelli in legno. La conseguente riduzione dei costi di trasporto agevolò l'emigrazione dei contadini europei in America e favorì l'importazione di enormi quantità di prodotti agricoli in Europa.
La struttura agraria tradizionale del vecchio continente, che resisteva immutata in parecchi paesi mediterranei e nelle regioni orientali, ne fu sconvolta.

 

La meccanizzazione dell'agricoltura 

Gli effetti della rivoluzione industriale cominciarono a farsi sentire anche in quelle zone a prevalente economia agricola, dove le tecniche produttive e la vita stessa sembravano ancora legate a un passato immemorabile.
La realtà dei fatti era però un'altra: neppure le vecchie economie rurali votate al piccolo smercio e all'autosussistenza potevano evitare di fare i conti con gli alti e bassi di un mercato ormai internazionale. Il miglioramento dei trasporti e la conseguente caduta dei prezzi agricoli si ripercuotevano sin negli angoli più sperduti d'Europa.
Verso la fine del secolo inoltre tutto il continente cominciò a conoscere gli effetti della meccanizzazione dell'agricoltura, con la diffusione di macchine trebbiatrici, spandifieno, trattori, fertilizzanti e antiparassitari chimici ecc.

 

L'intervento dello Stato 

Le innovazioni tecnologiche da sole non sarebbero bastate al balzo in avanti dei singoli paesi senza un intervento diretto dello stato, infatti dopo il 1840, in alcuni paesi come Belgio, Francia e Germania, lo stato intervenne direttamente nello sviluppo economico, fornendo assistenza tecnica, consulenza, sussidi ed esenzioni fiscali; successivamente, intensificando la formazione scolastica, che quindi diventò una grossa risorsa per l'industria. Allo stesso tempo, lo stato investì molto nel miglioramento delle infrastrutture: in Francia, attraverso investimenti in lavori pubblici, e in Germania, attraverso l'istituzione del Seehandlung, il finanziamento del commercio marittimo.
Parallelamente si verificò un sensibile incremento demografico che consentì di impiegare proficuamente nell'industria la popolazione agricola in eccesso.

 

L'industria pesante come motore dello sviluppo 

A differenza di quanto avvenne in Inghilterra, a segnare l'avvento della rivoluzione industriale nell'Europa continentale non fu la manifattura cotoniera, bensì l'industria pesante, soprattutto del carbone e del ferro.
L'industria siderurgica belga fu la prima a utilizzare il combustibile minerale sia per l'accessibilità ai luoghi di rifornimento sia per la prospettiva di guadagno che il settore offriva agli investitori. La Francia, più povera di carbone, sviluppò la tecnologia della forza idraulica per adattare il vapore a usi multiformi, mentre in Germania prevalse la fabbricazione di merci finite, come l'acciaio in Renania, che richiedevano un'elevata tecnica e più manodopera.
L'impresa tedesca tipica presentava una varietà di produzione rispetto agli altri paesi, e ciò grazie alla superiore preparazione dei suoi tecnici.

 

L'estensione delle reti ferroviarie 

Il rapido sviluppo dell'industria continentale, che dimezza nella seconda metà del XIX secolo il divario rispetto all'Inghilterra, è favorita da alcuni elementi: l'estensione delle reti ferroviarie, che consentì di intensificare l'attività di scambio delle merci tra i vari paesi; la libera costituzione di società, anche straniere, le quali potevano operare a parità con le imprese nazionali; l'accumulo di capitali disponibili per finanziare le aziende industriali; una serie di importanti accordi commerciali tra i paesi, allo scopo di abbattere le barriere al commercio internazionale, come l'eliminazione delle imposte sul traffico via acqua e la semplificazione della confusione valutaria.
Anche nell'industria tessile si verificarono significativi progressi in seguito all'introduzione della macchina a vapore - che sostituì definitivamente la ruota idraulica - e alla possibilità di acquistare il filato inglese a buon prezzo.
L'industria cotoniera prosperò in Svizzera, che a metà del secolo era una delle nazioni all'avanguardia del continente europeo, grazie all'abbondanza d'acqua e al suo ruolo di paese intermediario fra l'Europa centrale e il Mediterraneo.

 

Banche e istituti finanziari 

Anche il settore finanziario subì una sostanziale rivoluzione: in Francia fu costituito il Crédit Mobilier, mentre in Belgio fu costituita la Banca d'investimenti per azioni, che concedeva prestiti ipotecari alle imprese industriali, la Société Générale e la Banque de Belgique, che promossero l'espansione delle società minerarie e metallurgiche.
Lo scopo principale di queste banche era quello di aiutare il sistema industriale, anche in settori che offrivano buone possibilità di sviluppo ma non attiravano investitori, giacché non promettevano guadagni immediati.

 

L'industrializzazione in Italia 

Per quanto riguarda l'industrializzazione in Italia, nel periodo che precede l'Unità, si verificò un potenziamento delle esportazioni di prodotti primari, principalmente la seta. Fu infatti la seta il primo settore trainante dello sviluppo economico italiano: per la sua lavorazione venne adottata la torcitura in stabilimenti azionati prevalentemente ad acqua, con un impiego di circa 150.000 lavoratori, in prevalenza contadini occupati stagionalmente che lavoravano in piccoli opifici che avevano a disposizione modeste attrezzature meccaniche. Successivamente, l'importazione di imprenditori svizzeri e tedeschi consentì lo sviluppo dell'industria cotoniera.
Il settore della filatura fu il primo ad assumere caratteri industriali, prima per la seta, poi per il cotone e il lino, mentre la tessitura continuò a mantenere caratteri artigianali originari.
Nel ventennio successivo all'unificazione si registrò un certo avanzamento degli sviluppi iniziati attorno al 1830.

 

Progressi industriali della seconda metà del secolo 

I progressi industriali più rilevanti di quegli anni si ebbero nel settore tessile, soprattutto nella filatura della seta (che si concentrò specialmente in Lombardia) e del cotone (in Piemonte). Altri settori che mostrarono un certo sviluppo furono l'industria alimentare, con la costituzione del complesso zuccheriero nel 1873 e quello delle conserve Cirio nel 1875, e l'industria della gomma con la nascita della Pirelli nel 1872. Il progresso industriale di quegli anni venne inoltre favorito dall'adozione del corso forzoso (ossia l'impossibilità di convertire la moneta nazionale in oro o in un'altra moneta) a seguito della guerra con l'Austria nel 1866.
Fu alterato così il corso dei cambi (ossia il prezzo al quale una moneta viene scambiata con un'altra moneta) che  operò come una svalutazione della lira, favorendo di conseguenza i prodotti italiani rispetto a quelli esteri.
Il progresso industriale italiano venne incrementato anche dal boom economico successivo alla guerra franco-prussiana del 1870. Ciò significò per l'Italia una transitoria riduzione della competitività dei prodotti esteri sul mercato nazionale, e consentì di sperimentare la concentrazione (ossia la riunione di più imprese appartenenti a uno stesso settore industriale) e di avviare nuove forme di finanziamento esterno per le industrie.
Altri fattori intervenuti nel ventennio 1880-1900 si dimostrarono decisivi: l'adozione di tariffe doganali protezionistiche, l'attuazione di interventi diretti a sostenere il settore ferro-meccanico, lo sviluppo edilizio nelle grandi città, la caduta del mercato del noleggio, che ridusse il prezzo del carbone importato, la maggiore disponibilità di capitali privati da investire in attività non agricole, la maggiore disponibilità di manodopera proveniente dalle campagne.

 

L'organizzazione del lavoro 

L'industria poteva contare sull'abbondanza di manodopera a buon mercato, esente da qualsiasi tipo di controllo governativo, che le permetteva uno sviluppo privilegiato rispetto ad altri settori produttivi; tuttavia, essa restava arretrata in quanto a tecnologia e a organizzazione aziendale, giacché prevaleva una gestione dell'impresa di tipo individuale e di natura locale. Ciò era dovuto sia al fatto che di generazione in generazione venivano tramandate delle particolari abilità artigianali nella lavorazione, sia all'opportunità di procurarsi direttamente sul posto le materie prime necessarie alla produzione.
Risultava facile reclutare manodopera nei luoghi dove esisteva la forza motrice, per esempio nella città di Biella per la lavorazione della seta che impiegava più di 10 000 operai.
La forza operaia era completamente subordinata alle esigenze produttive: lavorando ora in fabbrica, il lavoratore non poteva più regolare da sé la sua giornata di lavoro, ma l'orario era completamente dipendente dalle esigenze della produzione e su questo poteva contare l'emergente industria italiana per far fronte alla concorrenza straniera e passare da industria tipicamente agricolo-manifatturiera a grande industria. Il livello del salario era al limite della sussistenza, se non addirittura inferiore; ciò costringeva il capofamiglia a far lavorare anche i membri del proprio nucleo familiare, provocando gravi squilibri come lo sfruttamento del lavoro minorile e femminile (le donne percepivano appena un terzo del salario maschile). Il livello del salario peggiorò in seguito al diffondersi della meccanizzazione, perché ora un solo operaio era in grado di svolgere il lavoro di più operai, provocando il calo del valore del lavoro, già decurtato dalle trattenute (come le assicurazioni contro infortuni) e dalle soste forzate di alcuni giorni che non venivano remunerate. Tutto questo era aggravato dal fatto che, fino ai primi anni del XX secolo, non esisteva ancora in Italia una legislazione sociale che si ponesse a tutela dei lavoratori; nel 1902 fu istituito non un ministero, bensì un ufficio del lavoro.

 

Le politiche economiche statali 

Dato il ritardo dell'industria italiana rispetto agli altri paesi occidentali, fu decisiva l'azione statale per promuovere lo sviluppo economico del paese e per sostenere l'impresa privata, l'iniziativa industriale e l'integrazione del mercato interno. La politica libero-scambista di Cavour era infatti favorevole all'investimento dei capitali privati accanto alla spesa statale in opere pubbliche: si aumentò il chilometraggio delle ferrovie in tutto il territorio, si costruirono nuove strade, si migliorò l'efficienza delle poste; la spesa per opere pubbliche si aggirava attorno al 25% sul totale degli investimenti fissi interni.
La politica del libero scambio (che si distingue per l'assenza di barriere economiche e politiche allo scambio dei beni e dei servizi) non favoriva il progresso industriale, perché non consentiva di competere con le industrie straniere più progredite, dal momento che in Italia il prezzo dei combustibili era molto alto, così come era alto il costo del denaro. Questo stato di cose spinse gli industriali a sollecitare la protezione degli interessi industriali, che condusse alla tariffa protezionistica del 1887.
Infine, fu decisivo l'apporto del sistema bancario, e in questo settore fu predominante la partecipazione del capitale tedesco: nella costituzione di un Consorzio per gli affari italiani, che prendeva parte a tutte le operazioni finanziarie effettuate dallo Stato; nella fondazione della Banca Commerciale Italiana nel 1894; nella costituzione del Credito Italiano nel 1895. Questi istituti di credito rappresentarono i primi investimenti stranieri di successo nell'ambito del settore bancario italiano.

 

 

L'avvento del capitalismo

I paesi più industrializzati 

Negli ultimi decenni del XIX secolo cominciano a inserirsi nel novero delle potenze industriali anche alcuni paesi nei quali in precedenza tale sviluppo era stato bloccato da problemi d'ordine politico. Fu quanto accadde per esempio alla Germania e, poco dopo, all'Italia. In questi paesi l'industrializzazione fu in genere vigorosamente sostenuta dallo Stato, che agevolò con misure protezionistiche e abbondanti commesse la crescita delle manifatture nazionali. L'industria di questi paesi, detti late joiners perché di più recente industrializzazione, si affacciò quindi con atteggiamento abbastanza aggressivo sul palcoscenico di un'economia mondiale integrata che cominciava ormai a dividersi in due settori ben differenziati: quello caratterizzato dall'affermazione di un maturo modello capitalistico e quello contraddistinto da una stagnante condizione di arretratezza.
Al di fuori dell'Europa, solo due paesi riuscivano a realizzare compiutamente, prima dello scadere del secolo, un reale processo di modernizzazione delle loro strutture produttive: si tratta degli Stati Uniti e del Giappone.

 

Dallo sviluppo alla crisi 

Il rapido sviluppo economico e industriale dei paesi late joiners consentì loro di pervenire in breve ai livelli già da tempo raggiunti nelle zone di più antica industrializzazione. La Germania prima della fine del secolo era già divenuta una temibilissima concorrente per l'Inghilterra e la Francia.
Una prima fase dello sviluppo industriale si colloca fra il 1860 e il 1879, mentre una seconda fase di crescita prende il via a partire dagli anni Novanta. Più o meno a questa data si può far risalire l'inizio della rivoluzione industriale anche in Italia, Russia e Giappone e, fra gli anni Settanta e gli anni Novanta, l'ascesa economica della Germania, come quella del resto di molte altre nazioni, subisce una vistosa battuta d'arresto.

 

La depressione economica 

Dopo l'espansione generalizzata, cominciata all'incirca nel 1850 e caratterizzato da una continua crescita dei prezzi, dei salari e dei profitti, intorno al 1873 ha inizio un lungo ventennio di grave crisi. Le cause della depressione vanno ricercate innanzitutto nella sfavorevole congiuntura creditizia e finanziaria, alla quale si sommarono, in Europa, gli effetti di una grandiosa crisi agraria.
Quest'ultima a sua volta fu originata da un insieme di diversi fattori, tra i quali il crollo dei noli marittimi e la concorrenza dei cereali americani.
Per oltre un ventennio, dunque, sul vecchio continente si assistette a un sensibile calo dei prezzi, sia agricoli sia industriali, e a una tendenziale contrazione del tasso di profitto. Tutto questo ebbe per conseguenza una drastica compressione dei salari e un vertiginoso aumento della disoccupazione.
La crisi che investì l'economia mondiale era direttamente legata agli squilibri insiti negli stessi meccanismi espansivi del sistema capitalistico: "Queste crisi erano crisi di sovrapproduzione relativa o di relativo sottoconsumo; esse erano tipiche del modo di produzione del capitalismo industriale, a differenza delle crisi d'ancien régime che avevano per causa un cattivo raccolto e si generavano a partire dal settore agricolo".

 

La politica protezionista 

Tra le conseguenze della netta inversione di congiuntura degli anni Settanta vi fu un generale ritorno, da parte dei governi europei, a politiche economiche di tipo protezionistico. La sola vera eccezione a questa tendenza fu rappresentata dall'Inghilterra che, potendo contare sulla propria incontrastata preminenza commerciale, rimase fedele al liberismo. Perfino la Francia, che pure apparteneva al gruppo dei paesi di più precoce industrializzazione, finì per introdurre dazi protettivi, soprattutto al fine di difendere gli interessi del proprio rilevante settore agricolo.
Il primo grande paese industrializzato a scegliere con decisione il protezionismo furono gli Stati Uniti, seguiti a breve distanza dalla Germania e dall'Italia.

 

I blocchi agrario-industriali 

In questi ultimi paesi (ma anche altrove, come per esempio in Francia) si assiste a partire dagli anni Settanta alla formazione di blocchi sociali dominanti che riunivano forze economico-politiche diverse e apparentemente contrastanti nel nome del comune interesse per la politica protezionistica.
Questi raggruppamenti ibridi comprendevano tanto i ceti imprenditoriali interessati alle commesse statali e alla salvaguardia del mercato interno, quanto i capitalisti agrari e la grande proprietà terriera assenteista, preoccupati dalla concorrenza dei grani americani e russi. Capaci di esercitare forti pressioni sia sull'opinione pubblica sia sui governi, tali blocchi agrario-industriali inclinavano pericolosamente in politica interna per un cauto riformismo accompagnato da severe misure repressive, in politica estera per un deciso rilancio del colonialismo e per una esasperata competizione economica tra gli stati.

 

La seconda rivoluzione industriale 

Per altri versi però la Grande Depressione agì da stimolo ai processi di modernizzazione dei sistemi produttivi, dando origine alla cosiddetta seconda rivoluzione industriale. La caduta dei prezzi e dei profitti da un lato costrinse le aziende a intraprendere un deciso rinnovamento delle tecnologie e delle tecniche della produzione, dall'altro favorì la tendenza alla concentrazione delle attività produttive.
Con questo il capitalismo entrava gradualmente in uno stadio di sviluppo nuovo, di tipo monopolistico o oligopolistico, che faceva piazza pulita delle vecchie aspirazioni liberistiche e concorrenziali che erano state teorizzate dai classici dell'economia politica.
Le vecchie aziende a conduzione familiare del primo Ottocento cedettero gradualmente il posto alle grandi concentrazioni industriali, tra cui, tanto per citare un esempio, erano compresi i cartelli, i konzern, e i trust.

 

Le concentrazioni industriali 

I cartelli (o pools) si formarono per esempio in seguito alla stipulazione di accordi tra imprese operanti nel medesimo settore, con l'obiettivo di giungere a un completo controllo del mercato di una determinata merce (concentrazione orizzontale). I konzern erano invece unioni di aziende finalizzate al controllo della produzione di una certa merce dal reperimento delle materie prime alla commercializzazione del prodotto finito (concentrazione verticale).
L'esempio più caratteristico di concentrazione industriale è però quello rappresentato dai grandi trust americani, formati dalla fusione di numerose aziende in una sola enorme impresa (oppure dalla nascita di una holding, ovvero di una società capogruppo che controllava altre società attraverso il possesso di consistenti quote azionarie).
I trust realizzarono concentrazioni sia orizzontali sia verticali, assumendo spesso dimensioni gigantesche.

 

Istituti di credito e organizzazione del lavoro 

Un altro fondamentale aspetto che può essere facilmente individuato come caratteristico nell'ambito della seconda rivoluzione industriale fu in questo modo l'instaurarsi di più stretti e organici legami tra banche e industrie. La grande industria necessitava infatti, per lo svolgimento delle proprie attività, di ingenti capitali, che solo gli istituti di credito erano in grado di fornire.
All'interno di queste imprese di impostazione capitalistica di nuovo tipo si andavano affermando metodi innovativi di organizzazione del lavoro, che eranos basati sulla standardizzazione della produzione e sull'organizzazione scientifica dei processi produttivi.
Il massimo e il più riconosciuto profeta di questa vera e propria rivoluzione attuata nell'ambito dei modi di lavorare e di produrre fu senza alcun dubbio l'americano Frederick Taylor, che già verso la fine del secolo era giunto a elaborare assai compiutamente il metodo della lavorazione a catena.

 

Il capitalismo finanziario 

I grandi gruppi industriali non tardarono inoltre ad assumere dimensioni internazionali. Alla ricerca di nuovi mercati da conquistare, essi si diffusero capillarmente in tutto il mondo, ma soprattutto là dove un quadro economico-politico particolarmente arretrato offriva la possibilità di realizzare più alti profitti. In ciò stimolato anche dalla compenetrazione di interessi bancari e industriali, il capitalismo, nella sua nuova veste di capitalismo finanziario, divenne così un potente fattore di perturbazione nelle vicende politiche dei più remoti paesi.
Specialmente quelli economicamente più deboli dovevano ora subire massicci condizionamenti a opera della grande industria degli stati capitalistici maggiormente sviluppati.
L'esportazione dei capitali e la politica degli investimenti all'estero, congiungendosi con ideologie nazionalistiche ed espansionistiche, sarebbero ben presto divenute l'asse portante del moderno imperialismo.

 

 

La nascita del socialismo

 

Le origini del movimento operaio 

Il sistema capitalistico affermatosi nella seconda metà del XIX secolo non marciò vittorioso sempre in avanti, senza incontrare ostacoli o suscitare resistenze. Al contrario, il capitalismo industriale non mancò di scontrarsi con forze antagonistiche e combattive in grado di condizionarne lo sviluppo, inducendolo a perfezionare e migliorare tecniche e organizzazione. Tali forze furono costituite dalle schiere degli operai, ossia dal proletariato industriale, e dalle masse dei contadini poveri e dei braccianti.
L'affermarsi del capitalismo nelle campagne aveva modellato anche qui una configurazione dei rapporti di classe abbastanza simile a quella urbana. Una valvola di sfogo, per quanto solo occasionale, era rappresentata in questi contesti dai movimenti di emigrazione transoceanica.

 

Le prime esperienze di organizzazione operaia 

Si è già fatto cenno alle disperanti condizioni di vita nelle quali vennero a trovarsi fra il XVIII e il XIX secolo i primi nuclei operai inglesi. Del tutto analoghe furono le esperienze compiute in seguito dalla classe operaia degli altri paesi europei. Esse, tuttavia, godettero quanto meno di un piccolo vantaggio: diversamente dai lavoratori inglesi, i proletari delle fabbriche e delle campagne europee, proliferati a partire dagli anni Cinquanta circa, poterono avvalersi di conoscenze già maturate altrove.
Essi si trovarono a combattere le loro prime lotte in un contesto già ampiamente dissodato, sotto il profilo ideologico e culturale, da parte di pensatori e scrittori che non avevano lesinato critiche al sistema capitalistico.
In Inghilterra dapprima le Trade Unions, poi il movimento cartista avevano scoperto e impugnato l'arma classica dello sciopero, ossia dell'astensione dal lavoro allo scopo di sostenere determinate rivendicazioni (aumenti salariali, migliori condizioni lavorative ecc.).

 

Il socialismo utopistico 

In Francia fin dall'inizio del secolo tutta una scuola di filosofi si era interessata alla soluzione dei problemi sociali derivanti dall'industrializzazione: il cosiddetto socialismo utopistico.
Gradualmente in tutta Europa s'era fatta strada nei ceti superiori la coscienza della gravità dei problemi che travagliavano la vita del proletariato industriale e agricolo. Pensatori, economisti e perfino romanzieri si affannavano, in questi anni, a dipingere a tinte fosche il dramma costituito dalla miseria degli operai e dalle dure condizioni di lavoro alle quali erano sottoposti.
Le prime proposte avanzate da questi intellettuali di matrice borghese non andavano però oltre la semplice richiesta di una maggiore equità nella distribuzione delle ricchezze. Fatte le dovute eccezioni (i casi di Robert Owen e Charles Fourier), essi non uscivano certo dal solco dell'impostazione tutto sommato liberale e filoindustriale inaugurata da Saint Simon e da Comte.
Di fatto quindi le loro posizioni, benché fossero maturate attraverso il confronto con la ricca e antica tradizione del pensiero filosofico comunista, non valsero certo a far maturare da parte dei ceti operai una vera coscienza dei propri interessi di classe e degli obiettivi delle proprie lotte con il padronato.
Decisamente più incisive (anche se, come abbiamo visto, fallimentari) si rivelarono le iniziative pratiche prese dal cartismo nella lotta per ottenere il suffragio universale in Inghilterra.

 

I primordi dei partiti socialisti 

In Francia importante fu l'attività svolta da giornali operai e organizzazioni politiche di derivazione babuvista. Su di essi esercitò un crescente influsso, a partire dagli anni Trenta, l'opera del grande rivoluzionario Auguste Blanqui (1805-1881), sostenitore di un programma di tipo comunista da realizzarsi mediante l'insurrezione armata. La natura non più esclusivamente liberale assunta dai moti del 1848 a Parigi fu dovuta anche all'efficace propaganda svolta da agitatori del suo stampo, come Etienne Cabet o il già ricordato Louis Blanc.
Sempre in Francia, negli ambienti dell'emigrazione politica tedesca, era già attiva nei primi anni Quaranta la lega dei giusti. Trasformatasi gradualmente prima in organizzazione politica e poi in partito, essa assunse nel 1847 il nuovo nome di lega dei comunisti e si diede un programma coerentemente sovranazionale, o, come si cominciò a dire proprio allora, internazionalista.
Il compito di delinearne le basi fu affidato a due profughi tedeschi destinati a lasciare una traccia indelebile sulla storia, e non solo quella del movimento socialista e operaio: Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895).

 

Marx e la lotta di classe 

In collaborazione con Engels, Karl Marx, nativo di Treviri (Renania), filosofo della scuola hegeliana (per un certo periodo si era riconosciuto nelle file della cosiddetta sinistra hegeliana), elaborò un orientamento di pensiero che più tardi fu chiamato materialismo storico e che forniva la più solida e convincente analisi del sistema capitalistico e delle sue contraddizioni.
Il socialismo scientifico di Marx si lasciava decisamente alle spalle le insufficienti e ancora borghesi elaborazioni da parte dei socialisti utopisti e degli altri critici della civiltà capitalista, come gli anarchici proudhoniani.
In una serie di opere seguite al Manifesto del partito comunista del 1848, Marx individuò nella lotta di classe il motore dello sviluppo storico reale.
"La storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi", recitano le frasi d'apertura del Manifesto pubblicato da Marx. "Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve oppressi e oppressori furono continuamente in reciproco contrasto e condussero una lotta ininterrotta, ora latente, ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina di tutte le classi in lotta [...]. La società borghese moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi tra le classi. Essa ha soltanto sostituito, alle antiche, nuove classi, nuove forme di oppressione, nuove forme di lotta. La nostra epoca, l'epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L'intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi contrapposte l'una all'altra: borghesia e proletariato [...]".

 

Il socialismo scientifico 

La novità dell'impostazione marxiana sta da un lato nell'approfondita analisi, condotta con affilati strumenti filosofici ed economici, delle contraddizioni oggettive del capitalismo, dall'altra nella sua elaborazione scientifica del programma rivoluzionario. Per Marx, l'avvento del comunismo, ossia della società postcapitalista e senza classi, costituiva l'inevitabile conclusione dello stesso sviluppo capitalistico: non il risultato della propaganda filantropica di agitatori e visionari borghesi.
Il capitalismo aveva già generato al proprio interno la classe sociale destinata a rovesciarlo: il proletariato, ossia la massa di coloro che, non avendo nulla da perdere, sarebbero stati i veri protagonisti del moto rivoluzionario.
Il carattere scientifico del socialismo di Marx sta proprio nella complessa disamina dei fattori effettivi del divenire storico, e nell'analisi dei meccanismi economici e dei soggetti sociali che sono implicati nel modo di produzione di tipo capitalistico-borghese.
"Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente".
Il materialismo storico trovò in seguito una sistemazione compiuta, anche sotto il profilo dell'analisi economica, in due opere fondamentali: Per la critica dell'economia politica (1859) e Il capitale (1867-1894).
In questi scritti Marx propone le sue celebri teorie sulle forze produttive e i rapporti di produzione, sui concetti di valore e plusvalore, sulle crisi economiche e sul lavoro salariato, sulle ragioni dello sfruttamento operaio.

 

Prima e seconda Internazionale

 

La prima Internazionale 

Al di là dell'opera teorica, Marx ed Engels si dedicarono a un'assidua attività organizzativa, alla quale gli esponenti delle classi lavoratrici e subalterne guardarono effettivamente con crescente simpatia. Quando a Londra, nel 1864, si riunì la Prima Internazionale (nome abbreviato dell'Associazione Internazionale dei lavoratori, che venne fondata durante una assemblea pubblica a Saint Martin's Hall, il 28 settembre 1864), vi fu chi vide in parte avverato l'appello conclusivo del Manifesto: "Proletari di tutti i paesi, unitevi!"
In realtà, l'organizzazione londinese fu ben presto messa in crisi dalle divergenze sorte tra le varie correnti del movimento operaio e socialista ivi rappresentate, e soprattutto dal dissidio apertosi tra Marx e l'anarchico Bakunin.
Le polemiche seguite al fallimento della Comune parigina portarono infine al naufragio dell'Internazionale, dapprima trasferita da Londra a New York (1872) e poi sciolta (1876).

 

La Comune di Parigi 

Un primo e ancora confuso esperimento comunistico era stato tentato a Parigi all'indomani dell'insediamento a Versailles del nuovo governo conservatore guidato da Adolphe Thiers (febbraio 1871). Questi si era affrettato a firmare con i prussiani, che ancora occupavano il territorio francese, una pace dalle condizioni assai pesanti.
La popolazione parigina allora diede vita a un'insurrezione di vaste proporzioni che sfociò nella istituzione della Comune (marzo 1871), ossia di un governo rivoluzionario dalla connotazione decisamente popolare.
Composto in prevalenza da esponenti delle varie correnti del socialismo e da membri dell'Internazionale, il governo comunardo varò una serie di decreti il cui obiettivo dichiarato era l'instaurazione di un regime di democrazia politica e sociale. Il terrore dello spettro del comunismo invase le classi dirigenti francesi, che ordinarono l'immediata soppressione della Comune.
Sotto lo sguardo benevolo degli occupanti prussiani, il governo di Versailles raccolse ingenti forze militari, che dopo una settimana di combattimenti e di stragi occuparono Parigi (21-28 maggio 1871). Nei mesi successivi un'ondata senza precedenti di fucilazioni (20 000 circa), di deportazioni e di persecuzioni si abbatteva sul capo degli insorti.
La Comune provocò un'enorme impressione in tutta Europa e suonò come un campanello d'allarme per i conservatori d'ogni paese. La minaccia costituita da quella che ormai si cominciava a chiamare la "questione sociale" si era rivelata in tutta la sua gravità.
Diverse nazioni così nei primi decenni dell'Ottocento si dotarono di una prima legislazione sociale: furono istituiti sistemi previdenziali e assicurativi, fissati gli orari di lavoro e varate misure a tutela dei minori e delle donne; fu riconosciuto il diritto di sciopero.

 

La formazione dei sindacati 

Con la seconda rivoluzione industriale e la nascita della grande industria, profonde trasformazioni investono le organizzazioni operaie e socialiste. Le tradizionali forme di aggregazione operaia (società di mutuo soccorso, federazioni di mestiere, associazioni varie) cedono gradualmente il posto ai moderni sindacati organizzati per categorie di attività industriali (tessili, chimici, metalmeccanici) e capaci di mobilitare milioni di lavoratori.
Tra gli ultimi anni del XIX secolo e i primi del nostro secolo nascono anche le prime confederazioni sindacali nazionali, sorte dalla federazione dei diversi sindacati di categoria sotto una direzione centralizzata.
In Inghilterra le Trade Unions tengono il loro primo congresso nazionale già nel 1868; in Germania, nel 1892, viene costituita la Deutscher Gewerkshaftsbund (Dgb); in Francia nasce nel 1895 la Confédération générale du travail (Cgt). In Italia la prima grande centrale sindacale nazionale viene fondata nel 1906 con il nome di Confederazione generale del lavoro (Cgl).

 

La nascita dei partiti socialisti 

Parallelamente, a partire dagli anni Settanta, cominciano a formarsi i grandi partiti socialisti di massa, destinati a imporsi, sull'onda di un vasto consenso elettorale, come elementi attivi e dinamici all'interno della dialettica politica e parlamentare europea e statunitense. Pur richiamandosi all'ideologia marxista, questi partiti ripudiarono assai presto le tendenze rivoluzionarie per scegliere una politica di tipo riformistico da attuare attraverso la partecipazione alla vita parlamentare nazionale.
Su queste basi nasce nel 1875 in Germania il Partito socialdemocratico tedesco (SPD) di August Bebel e Wilhelm Liebknecht.
Formazioni politiche modellate sull'esempio di quella tedesca sorsero in seguito ovunque il movimento operaio avesse raggiunto una certa consistenza: Francia, Inghilterra, Belgio, Spagna, più tardi Italia e Russia.
In Francia negli anni Ottanta si costituirono diverse formazioni politiche di ispirazione socialista, destinate a confluire nel 1905 in un unico grande partito (Sfio, Sezione francese dell'Internazionale Operaia). In Inghilterra nel periodo tra il 1893 e il 1900 prese forma il Partito laburista. Emanazione diretta delle Trade Unions, esso assunse fin dal principio una posizione moderata e gradualista, avversa alle tendenze marxiste e rivoluzionarie.
In Italia, dove erano molto forti e radicate le tendenze mazziniane e bakuniniane, nel 1882 veniva costituito il piccolo Partito operaio italiano, vicino alle posizioni anarchiche.
Nel 1892 Filippo Turati fondava il Partito dei lavoratori italiani, divenuto nel 1895 Partito socialista italiano.
In Russia, le due anime del socialismo locale, quella di ispirazione populista e quella marxista, diedero vita a due diverse formazioni politiche: dalla prima sorse il Partito socialista rivoluzionario (1901), dalla seconda il Partito socialdemocratico russo (1898).
Negli Stati Uniti, infine, un ruolo di grande importanza fu assunto dalla potente organizzazione sindacale fondata da Samuel Gompers sotto la sigla Afl (American Federation of Labor).
Nei primi anni del XX secolo essa però cominciò a subire la concorrenza di forze più radicali come, per esempio, gli Industrial Workers of the World (Iww), un gruppo di ispirazione marxista e rivoluzionaria sceso in campo sul terreno sindacale e su quello politico.

 

La seconda Internazionale 

I grandi partiti socialisti di massa a carattere nazionale si diedero ben presto linee politiche e programmi diversi da paese a paese. L'aspirazione internazionalistica rimaneva però molto sentita tra le forze socialiste. Nel 1889 veniva così fondata la seconda Internazionale, un'organizzazione destinata a sopravvivere fino alla prima guerra mondiale e a reggere le sorti delle lotte di rivendicazione operaia europee e americane dalla sua sede di Bruxelles.
Ma anche la seconda Internazionale fu però minata internamente da forti contrasti e violente polemiche. Le forze marxiste, nettamente predominanti, si divisero infatti nel fronte dei revisionisti, guidati da Eduard Bernstein, e in quello ortodosso, che aveva il suo punto di riferimento in Karl Kautsky.
I primi, sostenitori di una strategia di tipo riformistico e gradualista, erano favorevoli alla partecipazione dei socialisti alle competizioni elettorali e alla vita politica democratica (in linea con il Partito socialdemocratico tedesco). I secondi tenevano invece fermo l'ideale rivoluzionario e rigettavano ogni ipotesi di collaborazione con governi borghesi. Benché la linea ortodossa avesse la meglio, il revisionismo finì per essere accolto da quasi tutti i partiti socialisti.

La Chiesa cattolica di fronte alla civiltà moderna 

Il lungo pontificato di Pio IX (1846-1878) era stato caratterizzato da un netto rifiuto di tutto ciò che sapesse di moderno: nel Sillabo (1864) il papa aveva condensato in ottanta proposizioni la propria condanna senza appello delle ideologie ottocentesche, tanto liberali quanto socialiste. Nella seconda metà dell'Ottocento però anche le gerarchie ecclesiastiche furono costrette a prendere atto della nuova realtà costituita dalla nascita dei partiti socialisti di massa e delle grandi organizzazioni sindacali.
Il timore di perdere il proprio tradizionale radicamento sociale e l'accresciuta consapevolezza riguardo i problemi della civiltà dell'industria, indussero la Chiesa a elaborare una dottrina sociale che fosse autonoma, avversa sia agli aspetti più inumani dello sfruttamento capitalistico sia alle tendenze considerate sovversive del socialismo.
Protagonista assoluto di questa svolta decisiva fu il nuovo pontefice Leone XIII (1878-1903), che nella celebre enciclica Rerum novarum (1891), abbandonando le intransigenti posizioni antimoderne del suo predecessore, sottolineò la necessità per la Chiesa di confrontarsi con i drammi del mondo contemporaneo. Dal suo magistero trasse impulso un rinnovato impegno dei cattolici sul piano sociale e politico.
I vecchi partiti d'ordine cattolici, assunta la nuova connotazione di cristiano-sociali, manifestarono una maggiore disponibilità ad agire all'interno delle istituzioni dello stato laico e liberale; contemporaneamente si costituirono i primi sindacati di ispirazione cristiana.
Per molti anni il loro principale campo d'azione rimase l'area rurale, dove da secoli la Chiesa contava sul favore delle masse contadine, che costituivano la maggioranza della popolazione.

 

Europa in crisi
La scienza nei primi anni del Novecento 
Gli anni che vanno dalla fine del secolo XIX al 1914 sono caratterizzati dal diffondersi di una sempre più netta tendenza a risolvere i problemi internazionali mediante la guerra.
Questo andava singolarmente a contrastare con il clima di attesa fiduciosa e di ottimismo nel quale il mondo intero visse  durante i primi anni del Novecento, la cosiddetta belle époque.
Nel campo scientifico, il primo scorcio del nuovo secolo portò con sé sviluppi sensazionali.
La nascita della meccanica quantistica di Max Planck (1900), le prime scoperte sulla struttura atomica della materia di Ernst Rutherford e di Niels Bohr e la teoria della relatività (1905-1912) di Albert Einstein (1879-1955) rivoluzionarono la fisica classica.
Negli stessi anni, l'austriaco Sigmund Freud (1856-1939), con le sue ricerche sull'inconscio, fondava la psicoanalisi. Il cammino della psicologia scientifica moderna era cominciato.

 

La crisi del positivismo 

La speculazione filosofica dell'epoca, però, in apparente contrasto con gli spettacolari successi delle scienze e della tecnologia che si realizzano, pare più che altro protesa a denunciare i limiti dell'ottimismo positivistico e della stessa conoscenza scientifica.
Si affermano nuove correnti di pensiero antipositivistiche, storicistiche e irrazionalistiche, i più grandi esponenti delle quali furono il tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900), il francese Henri Bergson (1859-1941) e l'italiano Benedetto Croce (1866-1952).
Soprattutto dal pensiero nietzscheano (o, per meglio dire, da una certa interpretazione largamente distorta di alcune sue idee, come quella di superuomo) trasse alimento una certa cultura decadente tutta dedita a celebrare l'istinto, la vita, la forza, l'uomo superiore.

 

Il regno del kaiser Guglielmo 

L'ascesa al trono tedesco del giovane e ambizioso sovrano Guglielmo II (1888-1918) portò all'allontanamento di Bismarck (1890) e a una parziale revisione degli indirizzi politici dei quali era stato alfiere. Il nuovo kaiser si fece infatti promotore di una politica interna più liberale (Neuer Kurs), sancita anche dall'abolizione delle leggi eccezionali contro il Partito socialdemocratico.
Si trattava tuttavia di un liberalismo di facciata, che non intaccava la struttura sostanzialmente autoritaria del Reich tedesco. Nei primi anni del XX secolo infatti i ceti tradizionalmente dominanti dell'alta burocrazia, dell'esercito e della grande industria riprendono il sopravvento, imponendo una politica estera imperialistica e un rigido conservatorismo all'interno.
Il nuovo corso inaugurato da Guglielmo II impresse un forte impulso ai processi di industrializzazione in atto nel paese, che all'inizio del secolo si presentava ormai come la massima potenza industriale e militare europea. L'allestimento di una potentissima flotta da guerra, cominciato nel 1904 e portato a compimento a tempo di record, costituisce un'ulteriore riprova delle forti propensioni militariste della Germania guglielmina.

 

Il nuovo equilibrio europeo 

Sul piano dei rapporti internazionali gli ultimi anni del XIX secolo e i primi del Novecento vedono il progressivo disgregarsi del sistema di equilibri e di alleanze tessuto da Bismarck. Una prima conseguenza della politica di potenza avviata da Guglielmo II (Weltpolitik) dopo il licenziamento del cancelliere di ferro fu l'avvicinamento tra Russia e Francia (1892): intorno alla Germania si creò così quel pericoloso accerchiamento che Bismarck si era tanto sforzato di evitare.
Negli anni successivi il minaccioso espansionismo coloniale del Reich tedesco favoriva il raggiungimento dell'intesa cordiale (1904) tra Inghilterra e Francia. La sigla della Convenzione anglo-russa del 1907 completò il quadro del nuovo instabile equilibrio europeo, che vedeva ormai contrapporsi alla Triplice alleanza di Austria-Ungheria, Germania e Italia la Triplice intesa formata da Inghilterra, Francia e Russia.

 

L'Italia nell'età giolittiana 

L'Italia visse negli ultimi anni del secolo (governi Di Rudinì e Pelloux, dal 1896 al 1900) un grave momento di crisi, segnato da violente agitazioni sociali, brutali repressioni poliziesche e tentativi di reazione autoritaria. Nel 1900 lo stesso re Umberto I cadeva vittima di un attentato. Gli succedette al trono il figlio Vittorio Emanuele III.
Il nuovo secolo tuttavia sia apriva anche in Italia nel segno di un graduale ritorno alla normalità. Con l'ascesa al potere di un grande statista come Giovanni Giolitti (1903), destinato a rimanere a capo del governo quasi ininterrottamente per oltre dieci anni, cominciava anzi per il nostro paese una positiva fase di sviluppo.
Consapevole dell'impossibilità di affrontare il movimento operaio e contadino con le sole armi della repressione, Giolitti instaurò un nuovo e più proficuo rapporto con le opposizioni, anche socialiste, e diede avvio a una decisiva stagione di riforme democratiche, culminate nel 1912 nella concessione del suffragio universale maschile.
Nonostante il permanere di problemi gravissimi come quelli del Mezzogiorno e dell'emigrazione, la cosiddetta età giolittiana fece registrare la conquista di importanti traguardi economico-sociali: è di questi anni il decollo industriale dell'Italia (che rimane tuttavia un paese ancora prevalentemente agricolo).

 

Le tensioni politiche e sociali 

Con tutto ciò, neppure Giolitti fu esente dai vecchi e radicati vizi della classe dirigente liberale italiana. Accuse di trasformismo, rapporti clientelari e brogli elettorali sono state mosse spesso nei suoi confronti. Inoltre il dinamismo riformistico che aveva caratterizzato i suoi primi governi andò a mano a mano esaurendosi, mentre il clima politico nazionale si faceva di nuovo incandescente.
La conquista della Libia (1911-1912) fu accompagnata e seguita da una serie di furibonde manifestazioni di piazza organizzate dalla nuova destra nazionalista e bellicista, mentre sull'altro versante anche le agitazioni della corrente rivoluzionaria del movimento socialista e sindacale (anarco-sindacalismo) crescevano d'intensità.
In questo contesto turbolento, un evento nuovo e almeno in parte positivo fu la revoca di fatto del divieto opposto dal papa alla partecipazione dei cattolici alle competizioni elettorali: con il patto Gentiloni (1913), lo scopo del quale era fermare definitivamente l'avanzata dei socialisti, l'elettorato cattolico si impegnò a sostenere i candidati giolittiani in cambio dell'accoglimento da parte di questi ultimi di determinati punti programmatici.
Cadevano in questo modo da un lato l'ostracismo della Chiesa verso lo Stato unitario italiano, dall'altro l'emarginazione delle masse cattoliche dalla vita politica nazionale.

 

La Francia e il caso Dreyfus 

La terza repubblica francese usciva intanto rafforzata dalla tempesta suscitata dal caso Dreyfus (dal nome dell'ufficiale francese di religione ebraica ingiustamente condannato per spionaggio a causa delle pressioni degli ambienti nazionalisti e antisemiti). La decisa e alla fine vittoriosa campagna condotta in favore di una revisione del processo Dreyfus consentì alla sinistra radicale di emergere come il vero baluardo delle istituzioni democratiche.
Le elezioni del 1899 portarono alla formazione di un governo comprendente radicali ed esponenti socialisti dell'area riformista. Dopo il 1906 i socialisti abbandonarono la coalizione di governo, mentre i radicali, ora guidati da Georges Clemenceau, si spostavano progressivamente su posizioni moderate.

 

L'Inghilterra liberale 

In Inghilterra, dove nel 1901 Edoardo VII era succeduto alla regina Vittoria, la fondazione del Partito laburista (29 deputati nel 1906) portò alla rottura del tradizionale bipartitismo imperniato su conservatori e liberali, favorendo l'assunzione del potere da parte di questi ultimi. Dominato da figure di spicco come Herbert Asquith e David Lloyd George, il Partito liberale promosse il varo di un complesso di misure legislative a favore dei lavoratori.
Nel 1909 una decisiva riforma fiscale introdusse il criterio della progressività nella tassazione dei redditi (l'entità del prelievo fiscale fu cioè resa proporzionale alle entrate).
La trasformazione del paese in senso democratico era sancita dal ridimensionamento dei poteri della camera dei lord, che si era strenuamente opposta alla riforma, a vantaggio della Camera dei comuni, la sola elettiva (Parliament Act, 1911).
La morte di Edoardo VII e la salita al trono di Giorgio V (1910-1936) non arrestò il processo riformatore: la nuova legge elettorale del 1913 costituì un passo avanti verso il suffragio universale, mentre nel 1912 l'Irlanda otteneva finalmente l'Home Rule (autogoverno).
In campo coloniale, l'Inghilterra concesse l'indipendenza e lo statuto di Dominion a molti suoi possedimenti, che godettero così della stessa autonomia precedentemente conquistata dal Canada nel 1867 (Federazione australiana: 1901; Nuova Zelanda: 1907; Unione Sudafricana: 1910).

 

Le potenze di secondo piano 

Superato un lungo periodo di crisi economica, messo in evidenza dal massiccio volume dell'emigrazione verso l'America, anche i paesi scandinavi realizzavano tra il XIX e il XX secolo un considerevole progresso civile, che li conduceva ad assestarsi su posizioni di grande modernità molto vicine a quelle già conseguite dall'Inghilterra.
Un quadro notevolmente diverso presentavano invece i paesi iberici. La Spagna infatti era giunta verso la fine dell'Ottocento al culmine di un processo di decadenza più che secolare.
Durante il regno di Alfonso XIII (1902-1931) essa si trovò alle prese con le eredità della sconfitta subita nella guerra del 1898 contro gli Stati Uniti e con il manifestarsi di un vigoroso movimento separatista nelle province basche e catalane.
Mali simili a quelli spagnoli affliggevano anche il Portogallo, dove, nel corso del 1910, una rivoluzione abbatteva la monarchia portando all'instaurazione di un regime repubblicano.
Un'altra rivoluzione scoppiava in Turchia, paese nel quale il movimento nazionalista di ispirazione liberale dei Giovani Turchi costringeva, nel 1908, il sultano Abdulhamid II a concedere una costituzione e ad abdicare al titolo in favore del fratello Maometto V.

 

Il contrasto tra Austria e Russia nei Balcani 

Il disagio interno all'impero turco (impegnato anche nella guerra con l'Italia per il controllo della Libia) fece nuovamente precipitare la situazione nei Balcani.
Già nel 1908 l'impero asburgico, approfittando della rivolta dei Giovani Turchi, si era annesso la Bosnia-Erzegovina. La Russia però reagì promuovendo la formazione di una lega balcanica comprendente Serbia, Bulgaria, Grecia e Montenegro, che insieme attaccarono la Turchia infliggendole una pesante sconfitta (prima guerra balcanica, 1912-1913). I contrasti sorti tra gli stati della lega portarono però quasi subito allo scoppio di un nuovo conflitto (seconda guerra balcanica, 1913).
Gli esiti finali delle due guerre balcaniche furono così i seguenti: l'impero turco perse quasi tutti i suoi domini europei; la Bulgaria (protetta dall'Austria) fu drasticamente ridimensionata, mentre la Serbia (sostenuta dalla Russia), si proponeva come la massima potenza della regione. Lo scontro diretto tra Austria e Russia, rivali per il predominio nei Balcani, era solo rimandato.

 

Verso lo scoppio della grande guerra 

Una chiara avvisaglia dell'approssimarsi di un vasto conflitto tra le potenze europee fu rappresentata anche dall'esplodere del dissidio tra Francia e Germania per il controllo del Marocco. Le due crisi marocchine del 1906 e del 1911, composte pacificamente grazie a un deciso intervento dell'Inghilterra, si conclusero con un sostanziale successo della Francia, ma ebbero l'effetto di esasperare i sentimenti di reciproca ostilità già esistenti tra francesi e tedeschi.
Altri fattori contribuivano ad aggravare le tensioni internazionali: la cosiddetta corsa agli armamenti che impegnava dall'inizio del secolo le maggiori potenze; l'inasprirsi dei risentimenti nazionalisti in Italia e nei territori slavi sottomessi a Vienna (irredentismo); lo spirito di rivincita dei francesi per l'Alsazia-Lorena; l'insoddisfazione tedesca per gli esiti della gara coloniale in Africa e in Estremo Oriente; il timore dell'Inghilterra di perdere la supremazia sui mari a vantaggio della Germania.
Il 28 giugno del 1914, quando l'arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo, presunto erede al trono austriaco, venne ucciso a Sarajevo da un esponente dell'irredentismo serbo, tutti questi nodi vennero al pettine, e nel giro di poco più di un mese l'Europa precipitò in un conflitto senza precedenti.
Esso sarebbe durato cinque lunghi anni, ampliandosi fino a divenire mondiale e concludendosi in maniera da segnare una svolta decisiva nella storia contemporanea. Tra le cause dell'immane catastrofe, una spicca per generalità e importanza su tutti gli altri fattori già esaminati: si tratta del nazionalismo imperialistico che contagia le maggiori potenze della scena mondiale tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo.

 

La prima guerra mondiale

 

La "scintilla"che innescò la guerra 

Scoppiata a seguito dell'attentato contro l'erede al trono asburgico Francesco Ferdinando, la prima guerra mondiale aveva in realtà origini ben più lontane.
Le numerose controversie internazionali - la rivalità austro-russa nella regione balcanica, il persistente sentimento di ostilità antitedesco da parte francese per la perdita dell'Alsazia-Lorena, la dura lotta commerciale in atto tra Germania e Inghilterra - trovavano nel gesto dell'attentatore bosniaco Gavrilo Princip la valvola di sfogo ideale dopo anni di continue e crescenti tensioni, mentre le maggiori potenze vi coglievano il pretesto adatto per la ridefinizione di tutto il sistema europeo e coloniale.
La corsa al riarmo, intrapresa con estremo vigore soprattutto dalla Germania, contribuì in maniera decisiva al precipitare degli eventi e a nulla valsero i ripetuti tentativi di distensione messi in atto da uomini politici e d'affari, soprattutto americani e inglesi, preoccupati dalla pesante atmosfera che si stava venendo a creare a livello internazionale.
L'apertura del conflitto (1914-1915) 
L'Austria colse al volo l'occasione che le venne offerta con l'attentato di Sarajevo del giugno 1914 per ridurre la Serbia al ruolo di stato-vassallo dell'Impero, attribuendo la diretta responsabilità di tale gesto al governo di Belgrado.
Superate le esitazioni filo-slave del presidente del consiglio ungherese István Tisza, l'Austria presentò il 24 luglio alla Serbia un ultimatum che, per le clausole durissime in esso contenute (proibizione di ogni attività anti-austriaca in territorio serbo, scioglimento delle organizzazioni nazionaliste, partecipazione di ispettori austriaci alle indagini sull'attentato), venne dichiarato inaccettabile dalle autorità di Belgrado. Di conseguenza il 28 luglio l'Austria dichiarò guerra alla Serbia, dando immediatamente inizio alle ostilità.
La Russia, spinta dall'appello alla solidarietà slava e dalla prospettiva di estendere la propria influenza sui Balcani, mobilitava l'esercito due giorni dopo.
Per tutta risposta la Germania, sulla base del piano militare elaborato nel corso degli anni precedenti da Alfred von Schlieffen, scendeva in campo a fianco dell'Austria e il 1° agosto dichiarava guerra a Francia e a Russia, confidando di riuscire a piegare la resistenza francese prima che l'impero zarista fosse in grado di schierare appieno il proprio potenziale bellico.
L'atteggiamento dell'Inghilterra, rimasta incerta fino all'ultimo tra una neutralità rispettosa della tradizione liberale del paese e il timore di dover in seguito affrontare da sola una Germania rafforzata dall'eventuale successo nel conflitto, mutò definitivamente a favore dell'intervento a fianco di Francia e Russia, usando come pretesto la violazione della neutralità del Belgio da parte tedesca: la mancata risposta alla richiesta di evacuazione presentata da Londra provocò lo scoppio delle ostilità tra i due paesi (4 agosto 1914).
Poco dopo, anche il Giappone, allettato dall'idea di potersi assicurare i possedimenti tedeschi in Cina, si schierò al fianco dei paesi dell'Intesa.

 

Guerra di posizione e di logoramento 

Alla fine dell'estate 1914 Germania e Austria ritenevano possibile una risoluzione veloce della contesa a loro favore; tuttavia, in seguito all'insuccesso dell'avanzata in terra francese - fermata dalle truppe del generale César Joseph Joffre nella prima durissima battaglia della Marna (6-12 settembre 1914) - il confronto bellico cominciò subito a trasformarsi in una snervante guerra di trincea, lungo fronti estesi centinaia e centinaia di chilometri.
Questo particolare rese evidente a tutti i contendenti che la guerra sarebbe stata vinta non da chi disponeva dei comandanti più brillanti o dei più efficienti apparati militari, ma da chi fosse riuscito a resistere più a lungo, impegnando nel conflitto una quantità sempre maggiore di risorse economiche e finanziarie.
Il sia pure parziale successo francese (la controffensiva guidata da Joffre non ebbe infatti l'effetto sperato) venne favorito dal contemporaneo attacco russo alla Prussia e alla Galizia austriaca (battaglie del Tannenberg e dei laghi Masuri, agosto-settembre 1914), che costrinse il comando tedesco a spostare alcune divisioni sul fronte orientale. Fallito l'obiettivo principale, i tedeschi cercarono di interrompere i contatti tra l'esercito francese e quello inglese, tentando di raggiungere Dunkerque, Calais e Boulogne, sulla costa atlantica.
Occupata Anversa, le armate tedesche vennero tuttavia nuovamente bloccate in sanguinosi combattimenti nei pressi del fiume Yser e della cittadina di Ypres (ottobre-novembre 1914), facendo assumere definitivamente al conflitto i caratteri di una guerra di logoramento.
Fu proprio al fine di rompere questa situazione di equilibrio che le diplomazie dei vari paesi in lotta si misero rapidamente in moto per cercare di ampliare quanto più possibile il panorama delle rispettive alleanze (entrata in guerra di Turchia e Bulgaria a fianco delle potenze centrali, rispettivamente nell'ottobre 1914 e settembre 1915, e dell'Italia a fianco dell'Intesa nel maggio 1915).

 

La guerra "nuova"

 

La guerra si presentò immediatamente con caratteristiche totalmente nuove rispetto a quelle che avevano contraddistinto i conflitti del passato.
Innanzi tutto la durata, destinata a protrarsi ben oltre il limite delle poche settimane propagandato dagli opposti schieramenti; quindi l'estensione geografica del conflitto.
Per la prima volta, infatti, dalla fine delle guerre napoleoniche, il conflitto vedeva scendere contemporaneamente in campo tutte le maggiori potenze europee e mondiali. Infine, l'espansione industriale e il  progresso tecnologico permisero l'introduzione di nuove e più sofisticate armi (gas, mezzi corazzati, aviazione), la cui violenza distruttiva superò di gran lunga i limiti fino allora raggiunti.
Tutti questi elementi (durata, estensione, nuovi armamenti) obbligarono i vari Stati non solo a un impiego di risorse umane senza precedenti, ma anche alla mobilitazione di un'enorme quantità di capitali, sottomettendo le capacità produttive di ciascuna delle parti in conflitto alle necessità imposte dall'economia di guerra.

 

L'Italia fra neutralità e intervento 

L'Italia era stata l'unica fra tutte le potenze europee a dichiarare la propria neutralità al momento dello scoppio della guerra. Pur essendo legata a Germania e Austria dal patto della Triplice Alleanza, l'Italia si sentiva tuttavia sciolta da qualsiasi obbligo militare sia perché le condizioni del trattato non divenivano automaticamente operanti se non in caso di attacco ai suoi alleati - e quella alla Serbia era di fatto una guerra di aggressione da parte austriaca - sia perché era venuta meno la clausola della preventiva consultazione fra alleati prima della consegna dell'ultimatum al governo di Belgrado.
La dichiarazione di neutralità (agosto 1914) diede in effetti l'opportunità al governo italiano di barattare la propria eventuale entrata in guerra a fianco dell'uno o dell'altro dei contendenti in cambio di consistenti guadagni territoriali.
L'Italia riproponeva così in maniera drastica sia il problema delle terre irredente (ovvero di quei territori da sempre considerati italiani e ancora sotto il dominio della corona asburgica quali Trento, Trieste, l'Istria e buona parte della costa dalmata) sia il problema dell'influenza sul mare Adriatico e nei Balcani, facendo proprie molte delle rivendicazioni avanzate dal movimento nazionalista e dai conservatori.

 

La politica interventista del governo Salandra 

Antonio Salandra, che era il capo del governo, nel corso di una sessione parlamentare tenne a precisare che il paese sarebbe stato pronto a qualunque tipo di evento, legittimato da quelle che egli definiva le "giuste aspirazioni" italiane (dicembre 1914).
In seguito al diniego opposto dallo stato austriaco alle richieste di compensi territoriali avanzate dal governo italiano Salandra riprese i contatti con i paesi dell'Intesa, presentando al ministro degli Esteri inglese Edward Grey un memoriale con le condizioni per l'entrata in guerra dell'Italia (marzo 1915).
Mentre all'interno del paese il clima diventava sempre più rovente, accentuato dalla politica repressiva messa in atto dalla polizia nei confronti delle manifestazioni neutraliste (febbraio-marzo 1915), il governo italiano continuò le sue trattative sotterranee, allineandosi definitivamente alle posizioni di Francia, Russia e Inghilterra.
Salandra infatti, con l'avallo di re Vittorio Emanuele III, firmò segretamente - all'insaputa dello stesso Parlamento - il patto di Londra (aprile 1915), in base al quale l'Italia si impegnava a entrare in guerra contro Germania e Austria e gli altri paesi loro alleati nel giro di un mese.
I compensi previsti, in caso di vittoria, riguardavano il Trentino, il Tirolo meridionale fino al Brennero,  Trieste, Gorizia, l'Istria, gran parte della Dalmazia (a esclusione della città di Fiume), il protettorato sull'Albania, le isole del Dodecaneso e alcuni possedimenti coloniali tedeschi in Africa.

 

L'opposizione neutralista 

Una volta stipulato il patto, il governo si trovò a dover fare i conti con una maggioranza parlamentare decisamente contraria all'intervento, circostanza che rendeva l'approvazione dell'accordo estremamente difficile.
Si sviluppò allora, nei primi giorni di maggio, una violenta campagna intimidatoria nei confronti del movimento neutralista, con grandiose manifestazioni di piazza incoraggiate dall'apparato governativo e sostenute dalla corona (le così dette "radiose giornate" ), entrambi interessati a dare una connotazione popolare alla decisione dell'intervento.
Rientrata anche la breve crisi (dimissioni respinte di Salandra, 13-16 maggio 1915) dovuta alla manifestazione di solidarietà a Giolitti da parte della maggioranza parlamentare neutralista, il governo ottenne i pieni poteri da parte di Camera e Senato in seduta congiunta.
Lo stesso Giolitti, oggetto principale degli insulti e delle accuse degli interventisti, rinunciò alla sua battaglia in nome della fedeltà al re. In un clima di apparente riappacificazione interna in nome dei più alti destini del paese veniva firmata la dichiarazione di guerra all'Austria (24 maggio 1915).

 

Dal neutralismo all'interventismo

 

La decisione italiana di entrare in guerra venne presa con notevoli contrasti interni, che si evidenziarono sia in ambito parlamentare sia sul terreno del dibattito sociale e culturale. Per quanto, almeno inizialmente, la maggioranza del paese fosse orientata su posizioni decisamente contrarie all'entrata in guerra (contrari all'intervento si dichiararono, sia pure per ragioni differenti, cattolici, socialisti e liberali giolittiani, nonché alcuni imprenditori industriali), non tardò a svilupparsi un forte movimento favorevole all'intervento, che aveva come punti di riferimento principali le posizioni conservatrici e filonazionaliste del capo del governo Antonio Salandra e del suo ministro degli Esteri, Sidney Sonnino.

 

Le diverse anime del movimento interventista

 

Il movimento interventista venne anch'esso animato da correnti numerose e diverse. A esso si rivolsero infatti diversi intellettuali (è il caso del poeta Gabriele D'Annunzio e del leader futurista Filippo Tommaso Marinetti),  alcuni nazionalisti (che facevano capo al giornale "L'Idea Nazionale"), alcuni socialisti rivoluzionari capeggiati da Benito Mussolini, nonché diversi esponenti del cosiddetto "interventismo democratico", quali l'ex socialista Leonida Bissolati e lo storico Gaetano Salvemini.
Se l'atteggiamento dei nazionalisti, caratterizzato da un forte significato antidemocratico e imperialista, aveva oscillato dall'iniziale simpatia per l'intervento a fianco di Austria e Germania fino alla decisa solidarietà nei confronti dei paesi dell'Intesa, diverso fu il comportamento tenuto da Mussolini.
Egli fu infatti autore di un radicale dietrofront (e per questo motivo era stato espulso dalle fila del Partito Socialista), passando da posizioni di convinto ed esasperato neutralismo a un riottoso e intransigente interventismo, che andò propagando in maniera energica dalle pagine de "Il Popolo d'Italia", il quotidiano da lui stesso fondato.

 

L'entrata in guerra dell'Italia 

Il momento dell'entrata in guerra dell'Italia non coincise con un momento favorevole per le forze dell'Intesa, duramente colpite sul fronte orientale con la sconfitta russa nella seconda battaglia dei laghi Masuri e la perdita di posizioni in Polonia e nell'area baltica; questo fattore, unitamente alle cattive condizioni di efficienza dell'esercito, costrinse il comandante in capo delle operazioni, generale Luigi Cadorna, a rivedere i piani di invasione dell'impero austro-ungarico partendo dalla pianura friulana e dalla Carnia.
Le capacità offensive dei soldati italiani non erano migliori di quelle difensive, come risultò evidente dalle pesanti perdite riportate nel corso delle quattro offensive sul fiume Isonzo (giugno-dicembre 1915) che non portarono ad alcun guadagno territoriale significativo.

 

Le offensive austro-tedesche  

Nel 1916 le operazioni militari parvero volgere a netto favore degli imperi centrali, particolarmente avvantaggiati dall'entrata in guerra della Bulgaria al loro fianco. Quest'ultima infatti, una volta piegata l'estrema resistenza serba e contribuendo nel contempo all'annientamento della Romania (dicembre 1916), permise di rendere più incisiva l'azione dell'alleanza austro-tedesca nei Balcani, erigendo insieme alla Turchia un poderoso baluardo da opporre a una eventuale avanzata russa verso l'Adriatico.
All'inizio del nuovo anno di guerra le forze dell'Intesa vennero sottoposte a un gravoso compito difensivo, causato dallo scatenarsi pressoché simultaneo di due grandi attacchi da parte delle forze avversarie.
Il cedimento delle linee russe a Görlitz nel febbraio dell'anno precedente permise infatti agli austro-tedeschi di distogliere parte delle truppe dal confine orientale, concentrando l'offensiva da una parte sul fronte francese (battaglia di Verdun, febbraio-aprile 1916), dall'altra su quello italiano (la cosiddetta strafexpedition o spedizione punitiva, nel maggio dello stesso anno), senza tuttavia riuscire a ottenere vantaggi decisivi.
Le forze dell'Intesa passavano decisamente al contrattacco nella seconda metà del 1916, riuscendo a riconquistare importanti posizioni sia nella zona dei Balcani, grazie all'offensiva russa nei Carpazi meridionali (che stimolò lo sfortunato intervento della Romania), sia sul fronte francese (battaglia della Somme, luglio 1916); lo stesso esercito italiano, riavutosi dopo un momento di incertezza, riuscì a respingere l'avanzata austriaca nel Veneto e a contrattaccare, giungendo a conquistare Gorizia (agosto 1916).

 

La situazione alla fine del 1916 

Alla fine del 1916, malgrado i successi parziali ottenuti, Austria e Germania non erano riuscite a volgere definitivamente a proprio vantaggio le sorti della guerra; la situazione sembrava profilarsi favorevole alle forze dell'Intesa che non solo si erano dimostrate in grado di reggere bene l'urto nemico, ma erano anche riuscite a infliggere agli avversari pesanti sconfitte, da una parte sottraendo alla Germania la quasi totalità dei suoi possedimenti africani e asiatici, dall'altra rafforzando le proprie posizioni sia sui fronti continentali sia nel mondo arabo.
Ultimo elemento, ma non per questo meno importante, l'Intesa riuscì a mantenere il predominio delle vie di comunicazione marittima, confermando così la superiorità di mezzi e di uomini caratteristica della marina inglese: sebbene l'unica vera battaglia navale di tutto il conflitto fosse combattuta e vinta dalla flotta tedesca nelle acque antistanti la penisola dello Jutland, nel maggio 1916, dopo di allora e sino alla conclusione della guerra la Germania preferì mantenere tutte le sue navi al riparo dei porti dedicandosi alla più redditizia tecnica della guerra sottomarina.

 

La svolta del 1917

Gli sforzi di pace  
Il 1917 rappresentò, anche se non tutti i contendenti ne furono immediatamente consapevoli, il vero momento di svolta nel corso della guerra. Innanzitutto venne rafforzandosi, all'interno di tutti i paesi in lotta, un coro sempre più vasto di voci contrarie alla guerra e favorevoli alla fine delle ostilità.
Già nel corso del 1916 e all'apertura del nuovo anno, si manifestarono alcuni tentativi di mediazione finalizzati al raggiungimento di una pace negoziata svolti da parte di statisti quali il presidente americano Woodrow Wilson e dello stesso pontefice, papa Benedetto XV (con la sua Nota ai capi dei popoli belligeranti, agosto 1917).
In Germania, e ancor più in Austria, cominciarono ad apparire chiari segni di contrasto tra la guida politica del paese e i convincimenti oltranzisti degli alti vertici militari.
In Germania la netta presa di posizione dei capi di stato maggiore Hindemburg e Luddendorf e il loro fermo convincimento di portare avanti a tutti i costi i piani di conquista tedeschi vanificò le proposte di pace avanzate dal parlamento (luglio 1917); in Austria fu piuttosto la reale incapacità di analisi della situazione da parte del nuovo imperatore Carlo d'Asburgo a far fallire le proposte di concessioni territoriali avanzate ai governi dei paesi nemici.
I tentativi di mediazione non tennero in nessun conto il legame oramai indissolubile che si era stabilito fra la politica dell'impero asburgico e quella dell'alleato tedesco - la Germania non avrebbe mai permesso il raggiungimento di una pace separata - e non considerarono appieno il fatto che i paesi dell'Intesa in nessun caso avrebbero accettato un prezzo più basso rispetto a quello che avrebbero potuto ottenere attraverso la vittoria raggiunta grazie alla forza delle armi.
Il dissenso intellettuale  
L'inizio delle ostilità fece apparire sotto una nuova luce quelle speranze di rinnovamento sociale e morale che buona parte di intellettuali e uomini di cultura aveva riposto nel conflitto.
La guerra, con il suo bagaglio di morti e di orrori, metteva completamente a nudo i limiti della speranza circa la possibilità di regolare i rapporti internazionali tramite atti razionali, conciliando i reciproci interessi senza ricorrere alle armi.
Salutata da altri come la prova decisiva del diritto di sopravvivenza di una nazione, ovvero come il test ultimo da affrontare per varcare i limiti di un'esistenza noiosamente borghese, la guerra finì per incontrare un sempre maggior numero di oppositori e di resistenze. In alcuni circoli intellettuali e borghesi questa resistenza venne inasprendosi di giorno in giorno, parallelamente alla discussione relativa al nuovo assetto che il mondo avrebbe dovuto assumere una volta terminato il conflitto e che implicava direttamente un profondo riesame delle motivazioni che avevano generato la conflagrazione europea.
In Inghilterra, per esempio, il filosofo Bertrand Russell venne arrestato per propaganda pacifista, mentre altri, come il critico Lytton Strachey o Leonard Woolf, professarono apertamente la loro obiezione di coscienza nei confronti della guerra.
La Svizzera, rimasta estranea al conflitto, divenne di fatto il punto di riferimento per tutti coloro - intellettuali, poeti, uomini di teatro, rifugiati - che si dichiaravano apertamente in contrasto con le posizioni belliciste dei rispettivi paesi e si opponevano alla carneficina.
Il malessere sociale 
Il protrarsi del conflitto mise a durissima prova soprattutto le popolazioni civili il cui stato d'animo, al pari di quello dei soldati al fronte, era tutt'altro che ben disposto; tale situazione portò in più di un caso allo scoppio di scioperi e di insurrezioni contro le ferree restrizioni politiche, economiche e alimentari imposte dalla dura legislazione di guerra (in Italia fu il caso della sommossa del pane, scoppiata a Torino nell'agosto 1917, trasformatasi rapidamente in aperta dimostrazione di ribellione nei confronti della guerra).
Di tali agitazioni tennero ben conto i partiti socialisti europei che in Svizzera, nel corso delle due conferenze di Zimmerwald (settembre 1915) e di Kienthal (aprile 1916) cercarono faticosamente di ricomporre il fronte della Seconda Internazionale spaccatosi all'apertura del conflitto per l'appoggio offerto dai partiti socialdemocratici tedesco e francese alla politica militaresca dei rispettivi governi.
Il protrarsi della guerra stimolò, infine, in maniera più decisa la ripresa dei movimenti delle nazionalità oppresse e la loro tendenza a riaffermare il diritto all'emancipazione e alla libertà da ogni oppressione straniera.
L'intervento degli Stati Uniti 
L'intervento degli Stati Uniti nel conflitto fu la diretta conseguenza della decisione tedesca di riprendere in maniera indiscriminata la guerra sottomarina (decisione, questa, che venne vanamente avversata dall'allora cancelliere in carica Bethmann-Hollweg) per piegare definitivamente la resistenza dell'Inghilterra.
Inizialmente la prospettiva di una partecipazione americana ai combattimenti che si svolgevano in Europa apparve abbastanza remota, data la presenza all'interno della società statunitense di un forte movimento isolazionista.
Lo stato maggiore tedesco, facendo grande affidamento su questo elemento e basandosi sulla convinzione che, comunque, gli Stati Uniti, anche in caso di intervento, non sarebbero riusciti a far giungere il loro appoggio ai paesi dell'Intesa prima di un anno, decise di riprendere le operazioni con i sottomarini, colpendo senza preavviso sia le navi nemiche sia quelle appartenenti ai paesi neutrali (febbraio 1917).
La situazione tra i due paesi, già arrivata a punti di estrema tensione nel maggio 1915 per l'affondamento del transatlantico "Lusitania" da parte di un sottomarino tedesco, precipitò rapidamente.
Dopo un fitto scambio di note tra i vertici politici dei due paesi e la successiva rottura delle relazioni diplomatiche, il parlamento degli Stati Uniti, superata ogni opposizione dell'ala isolazionista, anche per il diretto intervento del presidente Wilson (marzo 1917), dava il proprio assenso all'entrata in guerra a fianco dell'Intesa (aprile 1917).
Le ragioni ideali ed economiche dell'intervento 
L'abbandono di quell'isolamento sancito nella prima metà del secolo scorso dalla "dottrina Monroe", per la quale gli Stati Uniti avrebbero continuato a non interessarsi degli affari europei non tollerando nel contempo alcuna ingerenza europea nel continente americano, fu dettato da diversi motivi, sia di ordine ideale - quali per esempio la simpatia per i regimi liberaldemocratici di Francia e Inghilterra - sia di ordine economico, essendo il mondo industriale e finanziario americano il principale fornitore dell'economia di guerra dei paesi dell'Intesa.
L'intervento statunitense che, come Wilson precisò, si uniformava a principi e obiettivi ideali diversi - almeno apparentemente - rispetto a quelli formulati dalle potenze europee occidentali e che era finalizzato al raggiungimento di una pace democratica, rispettosa delle libertà e delle aspirazioni di tutte le nazioni, ebbe un fondamentale valore propagandistico, specialmente in un periodo caratterizzato dalla grave demoralizzazione degli eserciti e delle popolazioni civili.
La fine della Russia zarista 
Nel periodo compreso fra l'autunno del 1916 e la fine del 1917 tutti i paesi coinvolti nel conflitto furono attraversati da profonde crisi interne e da gravi turbamenti politici, ma nessuno di essi ne fu sconvolto dalle fondamenta come il vecchio impero zarista, probabilmente la nazione che meno si era preoccupata di fornire una giustificazione ideale al suo intervento nella guerra europea.
Diversi motivi contribuirono al precipitare degli eventi che portò da un lato alla sostituzione della tradizionale guida del paese (lo zar), dall'altro a incidere profondamente sul corso degli avvenimenti bellici nell'ultimo anno di guerra.
La deflagrazione di antiche contraddizioni aggravate dalle conseguenze della guerra con il Giappone del 1905 e perpetuatesi negli anni, l'assenza di un reale regime parlamentare (la duma, il parlamento russo, non aveva reali poteri di controllo sulle azioni del governo), lo stato di avanzata corruzione che affliggeva l'amministrazione pubblica nonché le condizioni di estrema indigenza della popolazione, furono i presupposti che portarono a una serie di scioperi e di scontri di piazza (il primo, che vide protagonisti operai e soldati, ebbe luogo a Pietrogrado l'8 marzo 1917) destinati a trasformarsi ben presto in una vera e propria insurrezione politica, con conseguente abdicazione dello zar Nicola II (si trattò della cosiddetta "rivoluzione di febbraio").
Il ritiro dei soldati russi dalla guerra 
Il governo provvisorio di unità nazionale, che era momentaneamente retto dal principe L'vov, decise di tener fede agli impegni presi con le democrazie occidentali continuando la guerra contro gli Imperi Centrali.
Mentre nel paese cresceva il peso dei soviet, i consigli di soldati e operai formatisi la prima volta nel 1905, e si evidenziavano i primi segnali delle intenzioni rivoluzionarie dei bolscevichi, l'ala sinistra del partito socialdemocratico russo, il potere passò al socialista moderato Aleksandr Kerenskij (maggio 1917).
Kerenskij, per rilanciare l'impegno bellico e stimolare l'esercito, fece balenare la promessa di una riforma agraria che accogliesse, almeno in parte, le aspirazioni al possesso della terra da parte dei contadini, che costituivano la gran parte delle armate russe.
Questo fu uno dei motivi fondamentali alla base dello scontro tra Kerenskij e il partito bolscevico che, rinvigorito dal rientro in patria di due figure guida quali Lenin e Trotzkij, si incaricò di mettere a nudo le contraddizioni presenti nella condotta politica del governo. Nonostante le pressanti critiche che piovevano da sinistra, Kerenskij decise di scatenare un'offensiva in Galizia (luglio 1917), affidando il comando nelle mani del generale Brusilov.
L'insuccesso dell'operazione militare diede il colpo finale alla resa dei soldati russi che vennero travolti da più parti e disertarono in massa facendo ritorno ai rispettivi villaggi d'origine in attesa della promessa distribuzione di terre.
Le ripercussioni sul conflitto 
Gli effetti combinati del ritiro russo, sebbene ancora non ufficializzato da un trattato formale, e dell'intervento statunitense furono immediati, pesando sul prosieguo della guerra dal punto di vista sia diplomatico sia militare.
La Grecia, una volta destituito il re filotedesco Costantino, aderì all'Intesa sotto la guida di Venizelos, seguita a ruota dalla Cina che era, al momento, impegnata in una sanguinosa guerra civile scoppiata tra il governo e il movimento nazionale del Kuomintang (agosto 1917). Gli Imperi Centrali replicarono con una poderosa ripresa delle operazioni militari, favoriti dal progressivo cedimento del fronte orientale.
Quando fu chiaro che la crisi dell'esercito russo aveva toccato il punto di non ritorno (ovvero a partire dall'estate 1917) gli austro-tedeschi cominciarono a sfoltire i loro contingenti al confine con la Russia, dispiegandoli lungo il fronte francese e quello italiano.
La ritirata di Caporetto 
Il primo attacco venne sferrato proprio nei confronti dell'Italia nei pressi di Caporetto (ottobre 1917); l'esercito italiano, duramente provato dai duri combattimenti sostenuti nei mesi immediatamente precedenti (che, tra l'altro, avevano sortito solo modesti guadagni territoriali a fronte di notevoli perdite di uomini e di materiali) e dalla rigida disciplina imperante nelle trincee, cedette di schianto all'urto nemico.
La ritirata, effettuata per evitare l'accerchiamento e trasformatasi ben presto in una fuga disordinata che lasciò sul campo oltre quattrocentomila tra morti, feriti e prigionieri, si arrestò solo sulla linea del fiume Piave.
Costituito un nuovo governo sotto la guida di Vittorio Emanuele Orlando e sostituito Cadorna con il generale Armando Diaz al comando delle operazioni, l'esercito italiano seppe immediatamente reagire, contenendo le forze austro-tedesche nelle battaglie che si svolsero sugli altopiani di Asiago, nei pressi del Piave e sul monte Grappa.
Il trattato di Brest-Litovsk 
In Russia, nel frattempo, il potere venne assunto dal partito bolscevico guidato da Lenin nel corso della "rivoluzione di ottobre" (che in effetti si svolse nel novembre 1917 secondo il calendario occidentale). Il successo della rivoluzione bolscevica sancì ufficialmente l'uscita della Russia dalla guerra, sanzionata prima da un armistizio (dicembre 1917), quindi dalla firma del trattato di Brest-Litovsk (marzo 1918) in base al quale gli stati baltici e la Polonia venivano ceduti alla Germania, mentre veniva concessa l'indipendenza all'Ucraina.
La sconfitta della Romania, regolata dalla pace di Bucarest (maggio 1918), costituì di fatto l'ultimo successo degli Imperi Centrali nell'area balcanica.
La sconfitta degli Imperi Centrali 
Nella primavera del 1918 Germania e Austria tentarono di sfruttare al massimo la temporanea superiorità numerica di cui disponevano sul fronte occidentale, ben consapevoli che l'arrivo dei contingenti americani avrebbe cambiato definitivamente il corso della guerra. Tuttavia, sia l'offensiva tedesca contro la Francia sia quella austriaca contro le linee italiane ebbero scarso successo; il comando supremo alleato, unificato sotto la guida del generale francese Foch, diede inizio a una serie di operazioni militari che, unitamente all'arrivo delle prime truppe statunitensi, costituirono il preludio alla fase finale del conflitto (luglio 1918).
Alla fine dell'estate, mentre le truppe tedesche incalzate dalle armate dell'Intesa abbandonavano la Francia e il Belgio, nel settore balcanico la Bulgaria veniva costretta alla resa dall'avanzata di truppe congiunte franco-serbe (29 settembre 1918).
Mentre l'Austria, fallito il tentativo di creare una federazione di stati indipendenti (18 ottobre), veniva colpita da un poderoso attacco italiano a Vittorio Veneto che ne decretava la sconfitta finale, il 30 ottobre, sotto la spinta di una vigorosa offensiva inglese in Palestina e in Siria, capitolava anche la Turchia.
Pochi giorni più tardi, con i rispettivi sovrani in esilio in Svizzera e in Olanda e la proclamazione della repubblica, Austria e Germania si arrendevano definitivamente nei confronti delle potenze dell'Intesa firmando gli armistizi di Villa Giusti (4 novembre) e di Réthondes (11 novembre).
I problemi aperti del dopoguerra 
La guerra terminava così, in maniera repentina, ma non del tutto inattesa; la sua conclusione comunque veniva salutata con gioia quasi da ogni parte del mondo. I problemi che si addensavano all'orizzonte - il nuovo assetto territoriale, la nascita di nuovi stati, la questione delle riparazioni di guerra, le pretese dei vincitori, la rabbia e il desiderio di rivincita degli sconfitti - esulavano dall'ambito dei trattati di pace per riflettersi, in maniera ben più intricata e densa di pericoli, sulla disputa relativa al generale riordinamento sociale, morale e civile del mondo.
Si apriva, in questo modo, un periodo completamente nuovo all'interno dello scenario europeo, sebbene non esente da un certo numero di tensioni, che erano inoltre aggravate dalla presenza di quell'elemento assolutamente nuovo nel quadro politico internazionale - rappresentato dalla Russia leninista - al quale cominciarono a guardare con interesse, entusiasmo e fiducia gli operai e i lavoratori di tutto il mondo.

La guerra "popolare"

La prima guerra mondiale fu il primo, grande conflitto della storia: esso portò in primo piano figure e personaggi che fino ad allora erano rimasti ai margini delle vicende politiche e militari ma che in quella occasione assursero invece al ruolo di protagonisti principali.
La guerra che sconvolse il continente europeo tra il 1914 e il 1918 fu a tutti gli effetti una guerra "popolare".
Con questa espressione si intende riferirsi a un tipo di conflitto nel corso del quale per la prima volta il popolo, che era costituito da contadini, da operai e da tutta quella massa di persone sfruttate che animavano i panorami rurali e urbani di ogni paese belligerante, si organizzò in esercito e fece, per la prima volta, sentire ben forte la sua voce.
La Grande Guerra, tra i suoi molti effetti, ebbe anche quello di rendere più viva e attenta la coscienza di questi uomini che per la prima volta, sfruttando a proprio vantaggio i benefici derivati dai processi educativi e organizzativi cui venivano sottoposti al fronte, uscivano allo scoperto e facevano sentire la loro voce portando avanti istanze, manifestando desideri e bisogni propri.
Dal punto di vista della coscienza nazionale la guerra servì inoltre a consolidare, in chi l'aveva vaga, e a creare, in chi non l'aveva affatto, la consapevolezza di appartenere a un unico stato e a una medesima entità civile e culturale.
Le loro voci, che fu possibile ricostruire attraverso le migliaia e migliaia di lettere spedite dal fronte alle persone care, i racconti fatti dagli stessi reduci e le testimonianze di chi visse loro accanto, costituiscono probabilmente lo specchio più fedele per restituire l'immagine di quell'insieme di paure, speranze represse, angosce e orrori che la guerra portò con sé e che fu dote comune di tutti gli uomini che vissero quell'esperienza

 

La Russia rivoluzionaria
La rivoluzione del 1917 
La rivoluzione comunista realizzata dai bolscevichi, l'ala più radicale del partito socialdemocratico russo, smentì nei fatti il teorema, suggerito da Marx, in base al quale l'idea socialista avrebbe dovuto necessariamente affermarsi nei paesi a più maturo sviluppo capitalistico. La correzione della teoria marxista dipese solo parzialmente dalle oggettive condizioni di prostrazione in cui versava la popolazione civile e militare russa nel momento che coincise con la sconfitta militare. Essa fu piuttosto dovuta in gran parte all'abilità strategica, al fine intuito politico e alla spregiudicatezza di Vladimir Iljic Ulianov, nome anagrafico di Lenin (1870-1924).
Vero e proprio capo carismatico della rivoluzione che nel 1917 aveva già alle spalle anni e anni di militanza politica in patria e all'estero, egli non esitò ad accantonare perfino alcune delle indicazioni emerse da sue analisi improntate allo spirito della Seconda Internazionale e influenzate dall'insegnamento di Plechanov, pur di cogliere l'eccezionale occasione offerta dalla congiuntura di guerra, da lui ritenuta la fase risolutiva della crisi del sistema capitalistico, e così malamente gestita da Kerenskij.
Il rientro di Lenin in Russia 
Lenin, nel corso del lungo periodo di esilio trascorso in Svizzera, aveva forse potuto comprendere in modo più chiaro la natura dei cambiamenti che, a partire dal 1905, erano intervenuti in Russia andando a intaccare i tradizionali equilibri di quella società rurale che ne costituiva la componente principale.
Fu soprattutto la politica agraria promossa dal primo ministro Petr Arkad'evic Stolypin fra il 1906 e il 1911 a rendere possibile, attraverso l'abbandono del sistema del "mir" (comunità di villaggio), l'abolizione della proprietà comune, i progetti di colonizzazione in Siberia, l'incoraggiamento di tecniche agricole più avanzate, il rafforzamento della classe di agiati proprietari contadini (i "kulaki"), liberando contemporaneamente una maggior quantità di manodopera per l'industria.
In realtà, il mancato coordinamento tra i tentativi riformisti attuati da Stolypin e la politica seguita per incrementare il tasso di industrializzazione ebbero come unica conseguenza quella di aumentare in maniera spaventosa il numero di disoccupati e di peggiorare ulteriormente le già precarie condizioni in cui versavano milioni di russi, accentuando di riflesso il clima di malcontento che serpeggiava nel paese.
Tutto ciò non toglie che, ancora fino a poco prima del suo rientro in patria, Lenin non aveva ancora pensato che la rivoluzione poteva essere imminente in Russia, precisando anzi come proprio i paesi a capitalismo avanzato costituivano il terreno più fertile  per lo sviluppo di una rivoluzione sociale.
Le "tesi di aprile" 
Tornato a Pietroburgo con un gruppo di dirigenti bolscevichi nei primi giorni di aprile del 1917 (è bene ricordare, per maggiore esattezza, che il calendario gregoriano venne adottato in Russia solo a partire da quell'anno), Lenin fu testimone diretto della crisi in atto tra il governo provvisorio e il movimento rivoluzionario. Il primo, guidato dal principe Georgij L'vov, favorevole al proseguimento di una guerra con fini espansionistici era concorde sulla prosecuzione dello sforzo bellico a fianco degli alleati occidentali ma solo in quanto opportunità per una trasformazione della realtà socio-economica russa, mentre il secondo era desideroso unicamente della fine della guerra e del miglioramento immediato delle condizioni di soldati e contadini. Dichiaratosi assolutamente contrario alle posizioni del governo provvisorio, Lenin enunciò le cosidette "tesi di aprile", con le quali tutto il potere veniva rivendicato ai soviet che dovevano porsi, tra gli altri, il compito di confiscare le terre dei grandi proprietari, di nazionalizzare le banche e di creare una nuova Internazionale per la realizzazione della rivoluzione socialista negli altri paesi.
Le premesse della Rivoluzione di Ottobre 
Dopo l'esperienza di un secondo governo provvisorio, anch'esso guidato da L'vov e costellato in un primo momento  dal tentativo insurrezionale bolscevico a seguito della sconfitta militare (luglio 1917), e in un secondo tempo dalla violenta repressione che ne seguì e che costrinse Lenin a riparare in Finlandia, la presidenza venne assunta da Kerenskij, al quale furono conferiti poteri eccezionali con il pieno consenso dei Soviet (agosto 1917).
Di fronte al tentativo controrivoluzionario messo in atto dal generale Kornilov (settembre 1917) e al quale il governo Kerenskij seppe far fronte in modo incerto e contraddittorio, fu chiaro l'apporto decisivo dei bolscevichi nell'organizzare la mobilitazione popolare e la resistenza al tentato colpo di stato.

 

Il comunismo al potere 
Forti del prestigio che avevano guadagnato, i bolscevichi conquistarono presto la maggioranza dei Soviet di Pietroburgo e di  Mosca, mentre alcuni dei loro maggiori esponenti (quali lo stesso Trotzkij) venivano rimessi in libertà.
Di fronte al persistere dell'atteggiamento di rifiuto del governo nei confronti della proposta di ritiro dal conflitto e della riaffermazione della linea contenuta nelle "tesi di aprile", i bolscevichi, riuniti nel comitato centrale del partito (Lenin aveva intanto fatto ritorno dalla clandestinità), decidevano definitivamente per la soluzione insurrezionale armata (10 ottobre 1917, secondo il vecchio calendario russo), nella convinzione che fosse imminente lo scoppio della rivoluzione su scala mondiale.
Il 26 ottobre 1917 (in realtà l'8 novembre), dopo che le truppe rivoluzionarie ebbero occupato i punti nevralgici della capitale e Kerenskij abbandonato precipitosamente il Palazzo d'Inverno, il secondo congresso panrusso dei Soviet investiva di ruoli governativi il neonato Consiglio dei Commissari del Popolo, diretto da Lenin, affidando il commissariato degli Esteri a Trotzkij e il commissariato per le Nazionalità a un altro dei principali protagonisti della rivoluzione, Giuseppe Stalin, il cui vero nome era Josif Vissarionovic Giugasvili.
I decreti rivoluzionari 
Tale organismo rivoluzionario emanò tra il 26 ottobre e il 2 novembre (secondo il calendario russo) una serie di decreti che davano immediatamente il senso e la misura del cambiamento avvenuto con l'affermazione della rivoluzione bolscevica: veniva innanzitutto lanciata la promessa offensiva di pace (invito ai popoli in guerra a una pace "senza annessioni né indennità"), quindi veniva stabilita l'espropriazione senza indennizzo dei latifondi e delle grandi proprietà terriere e sancito il trasferimento del controllo della terra ad appositi comitati agrari, fornendo in tal modo l'avvallo legale alla pratica già sperimentata dai contadini con l'occupazione degli appezzamenti.
Altri provvedimenti affidarono poi a operai e impiegati la gestione e il controllo delle fabbriche, mentre veniva contemporaneamente decretato il diritto all'autodeterminazione da parte dei popoli componenti l'impero.
In una seconda fase, che coincise con il periodo immediatamente successivo la rivoluzione e nel corso della guerra civile, il governo rivoluzionario adottò una serie di ulteriori provvedimenti (delineando quello che venne definito "comunismo di guerra") finalizzati alla subordinazione degli interessi privati alle necessità dello stato; furono autorizzate requisizioni di derrate alimentari e generi di prima necessità, venne transitoriamente abolito il diritto di proprietà trasferendolo dai privati allo stato, mentre vennero nazionalizzati interi settori industriali operanti nel settore bellico.
L'Urss 
Il nuovo stato, oramai totalmente e definitivamente improntato ai dettami rivoluzionari che delegavano ai Soviet l'intera gestione del potere, assumeva la forma federale, sancita dalla nuova carta costituzionale emanata il 10 luglio 1918, e, quattro anni più tardi, il nome di Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss). Uno dei problemi più delicati che il governo rivoluzionario si trovò ad affrontare nei suoi primi giorni di vita fu senza alcun dubbio quello del ritiro dal conflitto, scegliendo fra la necessità di sottostare a una pace onerosa e di subire le conseguenti ritorsioni da parte degli Alleati, e la prospettiva di proseguire il conflitto in condizioni sempre più precarie.
Alla fine prevalse la tesi di Lenin il quale, superando le violente resistenze opposte dai socialisti rivoluzionari che spingevano per una guerra a oltranza contro la Germania, si decise a firmare la pace di Brest-Litovsk (3 marzo 1918).

Rivoluzione e trasformazione della società

Uno dei risultati più evidenti della rivoluzione russa, al di là della nuova struttura dello stato e dei profondi cambiamenti attuati in campo economico, fu costituito dalla radicale trasformazione alla quale venne sottoposto ogni aspetto della vita sociale, attraverso lo scardinamento dalle fondamenta di tutto il sistema di rapporti stabilito da decenni e caratteristico dell'ordinamento semifeudale del vecchio regime.
La rivoluzione arrivò ad affermare e a sancire come inalienabili diritti per l'uomo il lavoro, l'istruzione (venne a questo proposito avviata una decisa campagna di alfabetizzazione in tutto il paese) e l'assistenza socio-sanitaria, demandata allo stato attraverso l'istituzione di un servizio sanitario pubblico; inoltre, per la prima volta nella storia, furono riconosciuti ufficialmente i diritti delle donne, mentre vennero eliminate sul piano giuridico tutte le disparità ancora presenti tra le nazionalità che formavano il composito stato sovietico.
Tutte queste misure, che ripensarono profondamente il concetto di essere umano, riconoscendolo finalmente una componente attiva e partecipe della società civile, furono oggetto di profonda ammirazione da parte dei movimenti operai e delle classi lavoratrici del resto del mondo, ancora molto lontani dal godimento di questi benefici.
E a partire dal 1917 fu proprio ispirandosi alla rivoluzione russa che i lavoratori di tanti paesi lottarono per ottenere il rispetto dei diritti democratici.
La guerra controrivoluzionaria 
Il ritiro unilaterale dal conflitto da parte sovietica ebbe, tra le varie conseguenze,  quella di provocare una reazione militare da parte delle potenze occidentali, reazione finalizzata da una parte a punire l'ex alleato, dall'altra tesa all'abbattimento del governo rivoluzionario.
Tale intervento militare si concretizzò soprattutto nella fornitura di aiuti economici e armamenti alle cosidette 'armate bianche' che vennero a costituirsi in diverse zone del paese agli ordini di generali di provata fede zarista.
Il mancato impegno diretto da parte degli Alleati, al di là dell'implicazione negli eventi bellici in corso, venne giustificato con il timore che le truppe, composte in massima parte da contadini e da operai, potessero solidarizzare con l'esercito di un paese apertamente schierato dalla parte delle classi lavoratrici.
Tre campagne militari condotte nel biennio 1918-1919 dalle armate bianche, che si presentarono come portatrici dei valori dell'antico ordine e che proprio per questo trovarono scarso appoggio popolare, non valsero a piegare la resistenza dell'"armata rossa" ottimamente organizzata da Trotzkij; questa, anzi, eliminati via via i focolai controrivoluzionari, ebbe anche ragione di un successivo tentativo di invasione polacco prontamente respinto oltre frontiera, determinando il definitivo successo delle forze sovietiche (1920).
Il cosiddetto "cordone sanitario" creato dalle potenze occidentali, ovvero l'appoggio fornito a governi anticomunisti nei paesi confinanti con la Russia, servì soltanto a rimandare di qualche anno la normalizzazione dei rapporti diplomatici a livello internazionale: in questo ambito, infatti, l'Unione Sovietica ottenne gradualmente il riconoscimento di Germania, Inghilterra, Francia, Italia e Giappone (1922-1925).
La terza Internazionale 
Una volta venuta meno la fiducia nell'imminenza della rivoluzione mondiale ed essendo consapevole dell'isolamento a livello internazionale, il partito bolscevico (che già nel 1918 aveva assunto il nuovo nome di "partito comunista") si trovò nella necessità di dover affrontare un processo chiarificatore che da una parte definisse in maniera netta la diversità delle proprie posizioni rispetto a quelle assunte dalla socialdemocrazia, mentre dall'altra stabilisse inequivocabilmente il suo ruolo di guida e di punto di riferimento obbligato per tutti i movimenti operai favorevoli all'azione rivoluzionaria.
Questo venne realizzato grazie alla costituzione della terza Internazionale (o Comintern) che, a partire dall'anno 1919, ebbe sede a Mosca. La nascita dell'Internazionale comunista venne in realtà a sottolineare in modo ancora più deciso la frattura che già si era delineata nel corso della guerra tra l'ala rivoluzionaria del movimento e la destra riformista, provocando un ulteriore spostamento a sinistra di parte del movimento operaio internazionale.
Sebbene la fondazione dell'Internazionale facesse della Russia il centro di una vasta attività rivoluzionaria per opera di quei partiti comunisti e di quelle parti del movimento operaio mondiale che si riconoscevano negli ideali leninisti, il paese, superati i primi tormentosi anni della lotta su tutti i fronti, procedeva coraggiosamente in un grande sforzo di assestamento e di stabilizzazione dell'economia. Tale sforzo, per impulso dello stesso Lenin, coincideva con il superamento dei più estremistici progetti di socializzazione forzata dell'economia e con l'abbandono definitivo del comunismo di guerra. In realtà la pianificazione centrale adottata in quella situazione di emergenza mostrò tutti i propri limiti, provocando una gravissima crisi che si riflesse nella catastrofica situazione alimentare, nell'aumento della disoccupazione e nel calo della produzione agricola e industriale.
La Nuova Politica Economica 
Di fronte a tali eventi Lenin istituì in un primo tempo la Commissione statale per la pianificazione (Gosplan, febbraio 1921), e subito dopo affermò la necessità che venisse adottata una politica economica più morbida, che conciliasse le esigenze di una conduzione collettiva e centralizzata delle attività produttive con l'opportunità di attuare il recupero di alcuni aspetti della gestione privatistica dell'economia.
Questa linea, che si concretizzò nei dettami della "Nuova Politica Economica" (NEP) in vigore dal 1921 al 1928, mirò alla realizzazione di quello che lo stesso Lenin definì "capitalismo di stato", in virtù del quale, fra l'altro, veniva restituita ai contadini la libertà di commerciare i loro prodotti (tranne una piccola imposta in natura da versare allo stato) e alle aziende di minori dimensioni la facoltà di mantenere una gestione privata; venne inoltre consentita la libertà di contrattazione dei salari e di circolazione delle merci all'interno del paese e fu autorizzata anche l'attività di imprese private finanziate da capitale straniero, mentre il commercio con l'estero, l'edilizia e l'industria pesante rimasero sottoposti al controllo statale. Tutte queste misure, ritenute provvisorie e comunque necessarie vista la particolare situazione in cui versava il paese, consentirono la ripresa industriale così fortemente auspicata e che da sola avrebbe permesso, secondo le teorie leniniste, la piena affermazione del socialismo.
L'adozione della Nuova Politica Economica permise al governo sovietico di cominciare a rompere l'isolamento internazionale con la riapertura dei rapporti economici con i paesi capitalistici.
Oltre a pronunciarsi su temi economici, il Congresso consolidò la dittatura del partito comunista, sottolineata dal divieto di qualsiasi forma di opposizione al suo interno. In questa direzione si colloca l'elezione a segretario generale di Stalin (aprile 1922), che si occupò di epurare il partito dagli avversari politici e di insediare nei posti-chiave elementi graditi all'Ufficio Politico (o Politburo).
La nascita dell'Unione Sovietica 
Il X Congresso panrusso dei Soviet (dicembre 1922) sancì di fatto la trasformazione del nuovo stato in Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss), attraverso la conclusione di un trattato federativo tra Russia, Transcaucasia, Bielorussia e Ucraina, al quale più tardi aderirono anche Uzbekistan, Turkmenistan e Tadzikistan.
Nel 1924 venne inoltre ratificato il nuovo ordinamento costituzionale. Questo ordinamento, pur non facendo esplicitamente riferimento al partito, di fatto ne decretava il ruolo di guida del paese e l'organo al quale venivano demandate le decisioni più importanti.
Il nuovo ordinamento escluse dal diritto di voto  borghesi e quanti parteggiavano per la restaurazione zarista, privilegiando contemporaneamente la rappresentanza di deputati di estrazione operaia piuttosto che contadina; la funzione di organo legislativo venne assunta dal Soviet Supremo, formato dai delegati dei Soviet delle varie repubbliche costituenti lo stato federale, il quale a sua volta eleggeva un comitato esecutivo, o "Praesidium", guidato da un presidente che svolgeva anche le funzioni di capo di stato.
I membri che componevano il governo vero e proprio, che veniva designato con il nome di  "Consiglio dei commissari del popolo", erano eletti direttamente dal Comitato centrale.
L'avvento di Stalin 
La scomparsa di Lenin (avvenuta nel mese di gennaio del 1924) lasciò libero il campo a una violenta lotta che si scatenò per la successione politica.
La contesa, senza alcuna esclusione di colpi, si svolse tra la teoria della "rivoluzione permanente", sostenuta da Trotzkij, e la linea del "socialismo in un solo paese" proposta da Stalin.
Questi, infatti, aveva individuato nel rafforzamento del regime sovietico e nella piena affermazione del socialismo in Russia, condizionato naturalmente a un rapido processo di industrializzazione, la vera funzione internazionale attribuita alla rivoluzione.
Fu proprio quest'ultima tesi, la quale venne formulata ufficialmente in occasione del XIV congresso del partito (1925), a trovare naturale affermazione. Essa offriva, peraltro, l'occasione a Stalin di avviare un processo di epurazione nei confronti di tutti coloro che ebbero come unico torto il fatto di opporsi alla sua visione politica.
A fare le spese di questo stato di cose fu lo stesso Trotzkij il quale, essendo stato espulso dal partito nel 1927, due anni più tardi venne costretto ad andare in esilio, finendo assassinato in Messico per mano di un sicario (1940).

Stalin e la svolta autoritaria

Nato nel 1879 a Tiblisi da famiglia di umili origini, dopo le prime esperienze politiche nel movimento marxista e nei moti insurrezionali del 1905 Stalin venne più volte incarcerato per l'attività sovversiva, affermandosi come uno dei leader della rivoluzione solo nel novembre del 1917, quando venne nominato Commissario per le Nazionalità con l'incarico di occuparsi delle minoranze etniche. Eletto segretario generale del partito comunista nel 1922, Stalin divenne in sostanza la figura centrale dello stato, oggetto di invidie e di dissensi politici prontamente messi a tacere anche con metodi violenti.
Pur essendo esplicitamente accusato da Lenin di anteporre l'ambizione personale agli interessi generali del movimento rivoluzionario, tuttavia Stalin fece in modo, soprattutto nella seconda fase del suo periodo di permanenza al potere in Urss, di accentuare al massimo il culto della personalità.
Preparò il terreno con l'esautoramento di tutti i principali avversari politici (1925-1927), ma fu solo a partire dal biennio 1927-1929, cioè nel periodo compreso fra l'espulsione di Trotzkij e Zinoviev dal partito e l'estromissione di Bucharin dal Politburo, che Stalin impresse al suo potere una decisa svolta autoritaria, affermandosi come il vero dominatore della scena sovietica e rimanendone incontrastato leader fino alla morte. Il tratto vincente di Stalin fu costituito proprio dall'affermazione che l'Unione Sovietica avrebbe dovuto mobilitare ogni risorsa e ogni essere umano nella lotta per la salvaguardia della propria rivoluzione, rigettando come utopica la tesi trozkijsta dell'internazionalizzazione dei moti insurrezionali.

 

Il nuovo ordine europeo
La fine della guerra 
Terminata nel novembre 1918 con un carico enorme di distruzione e di morte,  la "grande guerra" mise per la prima volta in serio dubbio il ruolo-guida dell'Europa nell'ambito della politica internazionale. Tuttavia questo particolare aspetto non venne, o non volle essere, colto immediatamente dalla classe dirigente del vecchio continente.
Gli artefici della pace fra i quali, è bene ricordarlo, gli Stati Uniti giocarono un ruolo decisivo, si trovarono al contrario a fare i conti con problemi che andavano ben al di là della risistemazione delle frontiere e della sicurezza del sistema europeo. Problemi che chiamavano direttamente in causa tutto il mondo extraeuropeo e che ne rimettevano in discussione i rapporti con l'Europa.
Il persistere nella convinzione che l'Europa costituisse ancora il fulcro del sistema, si basava sull'opinione ormai comune che tecnologia, idee e sistemi di governo europei (ivi compresa la dominazione coloniale), rappresentassero un modello inarrivabile e che comunque doveva essere imitato.

 

 La rivoluzione russa

Inoltre, la minaccia rivoluzionaria che si irradiava dalla Russia bolscevica costringeva i governi europei e i loro dirigenti a ripiegarsi ulteriormente su se stessi, trovando nel rafforzamento dei rispettivi apparati costituzionali un valido punto d'appoggio per la realizzazione di un "cordone sanitario" anticomunista.
D'altra parte, l'urgenza di chiudere il conto con la Germania addossando a essa sola la colpa morale e materiale della guerra e la necessità di creare dall'alto un nuovo sistema che supplisse al vuoto lasciato dal dissolvimento di grandi imperi sovranazionali si scontrava apertamente con le tesi della "pace giusta" proposta dal presidente americano Wilson e in nome della quale gli Stati Uniti avevano deciso l'intervento.
La conferenza di Parigi 
Fu in tale clima di latenti contraddizioni, arroventato da dissapori fra gli stessi Alleati, che il 18 gennaio 1919 si aprirono a Parigi i lavori della conferenza di pace. Erano presenti, in rappresentanza di Francia, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti, Georges Clemenceau, David Lloyd George, Vittorio Emanuele Orlando e Woodrow Wilson.
I colloqui ai quali non vennero ammessi i rappresentanti dei paesi sconfitti, se da una parte misero in luce una sostanziale concordanza di vedute riguardo la responsabilità tedesca, dall'altra misero in evidenza la netta divergenza che si era creata fra gli scopi perseguiti dagli Stati Uniti e gli obiettivi che gli alleati europei si erano proposti.
Wilson, deciso a impostare la risoluzione delle questioni in discussione sulla base dei "14 punti" da lui formulati in occasione di un messaggio al Congresso degli Stati Uniti esattamente un anno prima, riteneva essenziale porre all'ordine del giorno temi quali la condanna della diplomazia segreta, la libertà di navigazione al di fuori delle acque territoriali, il disarmo e la soluzione imparziale dei problemi coloniali, demandando a un organismo sovranazionale, la Società delle Nazioni, il compito di dirimere in maniera pacifica qualsiasi controversia fra gli stati.
I contrasti con i "14 punti" di Wilson 
Tuttavia, il bagaglio di idealismo che il presidente americano portava con sé male si conciliava con le urgenze immediate degli Alleati; le trattative dimostrarono anzi come i principi wilsoniani venissero via via interpretati sulla base degli interessi delle potenze vincitrici: così l'obbligo da parte della Germania di rimettere in condizioni di normalità i territori invasi si prestò ottimamente a giustificare le richieste di pesantissime riparazioni monetarie, mentre la spinosa questione delle colonie venne risolta attraverso la scappatoia giuridica dei "mandati", che di fatto sancivano, delimitandole, le aree di influenza sottoposte al governo di ciascuna nazione.
In sostanza, al di là delle buone intenzioni di facciata, la Conferenza di Parigi si limitò a realizzare gli obiettivi già fissati dai patti segreti stipulati nel corso del conflitto e che riflettevano solo ben precise preoccupazioni e determinate esigenze particolaristiche: su tutte, la neutralizzazione definitiva del militarismo tedesco, il bilanciamento dei rapporti di forza tra Francia e Italia, il sanzionamento della supremazia marittima inglese e il riconoscimento a Stati Uniti e Giappone del loro ruolo di massime potenze rispettivamente nel continente americano e in quello asiatico.
I trattati di pace 
Lo stesso principio di "autodeterminazione dei popoli", alla cui insegna si rifacevano i lavori della conferenza, parve soddisfare solo parzialmente l'aggregazione politica su base nazionale; ciò non toglie che i nuovi stati che sorsero dalle rovine dei quattro imperi (austriaco, russo, tedesco e turco) ebbero confini e rispecchiarono realtà meno forzate rispetto al passato. I trattati stipulati furono cinque; quello di Versailles, firmato il 28 giugno 1919, stabilì, oltre alle condizioni di pace con la Germania, anche la formale istituzione della Società delle Nazioni, che si sarebbe insediata a Ginevra l'anno successivo; gli altri trattati con Austria, Ungheria, Turchia e Bulgaria vennero siglati rispettivamente a Saint-Germain-en-Laye, Trianon, Sèvres e Neuilly. In base alle condizioni imposte dai paesi vincitori la Germania avrebbe restituito alla Francia l'Alsazia-Lorena, alla Danimarca lo Schleswig settentrionale e alla Polonia l'Alta Slesia, la Posnania e un corridoio che le consentisse l'accesso al mare nei pressi di Danzica, dichiarata "città libera".
Le sanzioni alla Germania 
La Germania dovette inoltre sottostare ad altre pesantissime sanzioni, quali per esempio la limitazione dell'esercito e degli armamenti, l'occupazione temporanea del bacino minerario della Saar da parte delle armate francesi e, soprattutto, il pagamento di una somma enorme (oltre 130 miliardi di marchi-oro) come riparazione dei danni di guerra. I possessi coloniali tedeschi vennero poi spartiti, con l'esclusione dell'Italia (alla quale pure erano state fatte delle vaghe promesse in tal senso) e degli Stati Uniti, fra Gran Bretagna, Francia, Belgio, Australia e Giappone.
La fine degli imperi austro-ungarico e ottomano 
L'ex impero austro-ungarico venne praticamente smembrato, dando vita a nuovi stati quali la Cecoslovacchia, la Iugoslavia e l'Ungheria, mentre altre porzioni di territorio appartenenti alla corona asburgica vennero inglobate dall'Italia, dalla Polonia e dalla Romania. Del nucleo storico costituente il vecchio impero rimase, ridottissima nelle dimensioni, la nuova repubblica austriaca. Minori cambiamenti riguardarono la risoluzione delle questioni di confine nei Balcani, dove anche la Bulgaria subì dei ridimensionamenti territoriali.
La sistemazione dell'ex impero ottomano si risolse a tutto vantaggio della Gran Bretagna e della Francia, alle quali venne rispettivamente affidata l'amministrazione di Iraq e Palestina e di Libano e Siria, mentre gli Stretti furono sottoposti a controllo internazionale. Alla Turchia, anch'essa ridimensionata dal punto di vista territoriale, rimasero solo l'Anatolia settentrionale e la città di Costantinopoli.
I problemi della pace 
L'idea che la fine della guerra sarebbe coincisa con una più giusta sistemazione dei rapporti tra le classi sociali e con una ricompensa tangibile ai combattenti era stata alimentata a più riprese dagli stessi uomini di governo e dai capi militari.
L'aspettativa di una imminente rigenerazione sociale che sarebbe dovuta partire dalla Russia dei Soviet si estese ben oltre la fine del conflitto e fornì un potente impulso alla rifondazione del fronte dell'opposizione di sinistra in Europa. Inoltre, la vita economica di tutte le nazioni era stata profondamente sconvolta dal conflitto e la stessa industria pesante, che pure aveva potuto godere di innumerevoli vantaggi nel corso del periodo bellico, si trovò a dover fare i conti con i gravissimi problemi che erano derivati dalla riconversione degli impianti e della produzione.
Ancora, contrariamente alle aspettative, il ritorno in patria di milioni di ex combattenti rappresentò un fattore di enorme portata e fonte di forti turbative sociali. L'indebitamento provocato dalle spese di guerra fu enorme per tutti i contendenti e anche nel campo degli Alleati tutte le potenze vennero in sostanza a dipendere fortemente sotto questo aspetto dagli Stati Uniti, il paese più ricco di risorse economiche.
Oltre a questi problemi la conferenza di pace di Parigi ne sollevò altri, i cui effetti non avrebbero tardato a manifestarsi; per esempio, lo spirito di assoluta intransigenza con il quale in special modo la Francia insistette e ottenne di far gravare sulla Germania il peso enorme delle riparazioni finanziarie si sarebbe presto rivelato un elemento decisivo di destabilizzazione politica ed economica per l'Europa, che avrebbe proiettato la sua ombra funesta sul continente fino quasi alla vigilia della seconda guerra mondiale. Inoltre, il vasto riordinamento politico e territoriale doveva necessariamente suscitare numerose proteste e reazioni negative che si sarebbero fatte sentire nel breve e nel lungo periodo in maniera molto pesante.
La rivolta nazionalista di Kemal 
Uno dei casi più eclatanti fu costituito da quanto avvenne in Turchia nel 1920, sull'onda della rivolta nazionalista guidata dal generale Mustafà Kemal e diretta all'abbattimento del sultanato e alla revisione del trattato di pace.
Nel 1923 Kemal, sconfitto l'esercito greco che dietro sollecitazione inglese era penetrato in territorio turco, proclamò la fondazione della repubblica, ottenendo contemporaneamente la revisione del trattato di Sèvres. Il nuovo trattato sostitutivo, firmato a Losanna il 24 luglio 1923, riconosceva nuovamente alla Turchia il controllo sugli Stretti, l'espansione in Tracia e nel Kurdistan, nonché la piena sovranità in campo economico grazie all'abolizione dei privilegi posseduti dai paesi dell'Europa occidentale.
Le condizioni di pace per l'Italia 
L'andamento e soprattutto gli esiti della conferenza di pace di Parigi ebbero per l'Italia conseguenze particolari e tutt'altro che limitate nel tempo. Giunto in visita a Roma proprio alla vigilia della conferenza parigina, Wilson venne accolto da grandi manifestazioni di entusiasmo popolare, interpretate come un segno di aperta adesione dell'opinione pubblica al suo progetto di pace basato sulla dottrina dei "14 punti".
Nel corso dei colloqui con Vittorio Emanuele Orlando, Wilson si dichiarò sostanzialmente d'accordo con le richieste italiane di estendere il confine settentrionale al Brennero respingendo invece le pretese sulla Dalmazia in quanto contrarie al principio di nazionalità.
Contro le soluzioni avanzate da Wilson, appoggiate peraltro da quanti avevano invocato l'intervento su basi democratiche, si formò uno schieramento compatto formato da nazionalisti, futuristi ed ex combattenti. Non appena la delegazione italiana ebbe presentato un memoriale in cui, oltre al pieno rispetto di quanto pattuito a Londra nel 1915, veniva rivendicata l'annessione di Fiume, i nazionalisti, guidati da Mussolini e da Marinetti, inscenarono una grossa manifestazione di protesta.
La città istriana, a maggioranza italiana e tuttavia da secoli appartenente alla corona asburgica, non faceva parte del pacchetto di rivendicazioni contenute nell'accordo stipulato con gli Alleati quattro anni prima; essa venne tuttavia inserita nelle trattative dal presidente del Consiglio Orlando e dal ministro degli Esteri Sonnino proprio sull'onda dell'imponente campagna nazionalista che era stata messa in atto in Italia a partire dalla fine del conflitto.
Le richieste italiane riguardanti le coste dalmate, già osteggiate dal presidente americano, trovarono una decisa opposizione anche da parte inglese e francese, al contrario interessate entrambe a creare nei Balcani una serie di stati-cuscinetto che delimitassero nell'area l'espansionismo di Italia e Germania.
A inasprire ulteriormente il clima che si era venuto a creare tra la delegazione italiana e gli Alleati intervenne il memorandum relativo al confine tra Italia e la neo costituita repubblica iugoslava presentato da Wilson, con il quale il presidente americano ribadiva ulteriormente le sue tesi in relazione all'Istria e alla Dalmazia.
La "vittoria mutilata" 
Di fronte al persistere di questo atteggiamento la delegazione italiana si assunse la grave responsabilità di ritirarsi dai lavori della conferenza, facendo ritorno a Roma circondata da grosse manifestazioni di consenso popolare; contemporaneamente all'interno di tutto il paese cominciò a diffondersi, alimentato da un'accesa campagna di stampa, il mito della "vittoria mutilata", che accomunava sia esponenti governativi e filonazionalisti sia figure di spicco e intellettuali appartenenti all'area dell'interventismo democratico.
Fra gli altri lo stesso Gaetano Salvemini, pure mosso da sentimenti democratici, si rivolse dalle colonne del settimanale "l'Unità" con toni estremamente duri nei confronti di Wilson, accusandolo di applicare i principi della pace democratica e delle nazionalità solo in funzione anti italiana.
La "vittoria mutilata", ovvero le aspirazioni italiane troncate a metà dalla presunta volontà prevaricatrice di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna costituì, insieme con la rivendicazione di Fiume, uno dei motivi di quella crisi politica e istituzionale che in breve tempo avrebbe portato alla nascita e all'affermazione del movimento fascista.
Con la Iugoslavia, la nascita della quale non era stata prevista da alcun trattato precedente lo scoppio del conflitto, lo stato italiano fu costretto a scendere a patti.
Dopo varie vicende che culminarono il 12 settembre 1919 con l'occupazione di Fiume e, due mesi dopo, di Zara da parte di un gruppo di militari guidati da D'Annunzio, Italia e Iugoslavia regolarono la questione dalmatica attraverso la stipulazione di due successivi trattati (quello di Rapallo, firmato nel 1920, e quello di Roma, nel 1924), in base ai quali la Dalmazia veniva attribuita alla repubblica iugoslava mentre l'Istria, inclusa la città di Fiume, e la stessa Zara entravano a far parte a tutti gli effetti del regno d'Italia.

 

I movimenti nazionalisti
La nascita delle aspirazioni indipendentistiche 
Il dopoguerra ebbe fra gli altri effetti  quello di nutrire, dove erano presenti, e di far nascere, dove non erano mai affiorati, sentimenti di profondo rancore per la dominazione e la sopraffazione esercitata dal dominio straniero.
Fu proprio agli inizi degli anni Venti e sull'onda di una sempre crescente consapevolezza che in Europa, in Africa, in Asia e in America andavano diffondendosi con sempre maggior forza una serie di agguerriti movimenti d'indipendenza a carattere nazionale.
Per altro verso è pur vero che la disoccupazione, l'inflazione galoppante e la drastica riduzione delle attività produttive furono tutti elementi che, almeno fino alla fine del biennio 1925-1926, afflissero in maniera pressoché uniforme tutte le potenze europee, favorendo un sia pur parziale processo di indebolimento del controllo che poteva essere esercitato sui domini coloniali.
Inoltre, anche il ritorno dal fronte dei soldati che avevano combattutto durante la guerra (su cui per altro le nuove forme di organizzazione e di propaganda politica mostravano di essere perfettamente in grado di far presa, ingigantendo soprattutto gli effetti psicologici provocati della rivoluzione russa) coincideva con un cambiamento qualitativo della battaglia parlamentare: essa divenne, in seguito a oggettive modifiche di carattere ambientale ed elettorale, un fenomeno di massa non più regolabile con i vecchi espedienti del sistema clientelare o elitario che caratterizzavano l'attività politica prima della guerra.
La progressiva democratizzazione della società civile occidentale, con la partecipazione di strati sempre più ampi di popolazione alla vita politica attiva, venne in qualche modo a intaccare dall'interno, anche se inizialmente in modo del tutto marginale, la politica coloniale perseguita dalle maggiori potenze europee.
L'impero coloniale inglese e la questione irlandese 
Anche la Gran Bretagna, i cui progressi in campo economico, sociale e giuridico ponevano il paese all'avanguardia in Europa e nel mondo, si trovò ben presto a fare i conti con problemi di questo tipo, e per di più su di un fronte estremamente vasto. Accantonata a causa dello scoppio della guerra (con la sospensione della legge di autonomia appena votata dal parlamento), la questione irlandese venne nuovamente e violentemente alla ribalta due anni più tardi.
Approfittando dello stato di debolezza in cui si trovava la Gran Bretagna, duramente impegnata nel conflitto, il 23 aprile 1916 formazioni armate indipendentiste occuparono gli edifici principali di Dublino, resistendo una settimana prima di arrendersi all'esercito inglese.
Ignorata la forte vocazione popolare all'indipendenza, sottolineata anche dal massiccio numero di seggi parlamentari raccolti dal Sinn Féin nelle elezioni politiche del 1918 (circa il 75% sul totale riservato alla rappresentanza irlandese), solo nel dicembre 1921 la Gran Bretagna giungeva a un accordo definitivo con l'Ira - Irish Republican Army - l'esercito repubblicano che aveva condotto la lotta di liberazione.
Il trattato di pace sancì la creazione dell'Éire, o Stato libero d'Irlanda, composto di ventisei contee e provvisto dello status di "dominion", nella parte centromeridionale dell'isola; sei delle nove contee dell'Ulster (la cosiddetta "Irlanda del Nord"), posto all'estremità nordorientale e a netta maggioranza protestante, rimasero sotto il diretto dominio della corona britannica. L'indipendenza irlandese, una tappa nella tragica storia dei rapporti con la vicina Inghilterra, sanzionò di fatto la sconfitta elettorale di laburisti e liberali consegnando il governo ai conservatori di Lord Baldwin.

Sinn Féin

Il Sinn Féin, "Noi stessi" o "Noi soli" in lingua gaelica, nacque tra il XIX e il XX secolo con uno spirito nettamente socialista e anticapitalista (infatti il nome completo è Sinn Féin partito dei lavoratori). Il fine del partito era quello di promuovere la totale indipendenza politica ed economica dell'Irlanda dalle vessazioni della vicina Inghilterra.
Le sue radici affondano nel risveglio nazionalistico che caratterizzò buona parte del 1800 e che si concretizzò tanto nella creazione della Lega Gaelica e nel rifiorire di una letteratura autoctona (attraverso il recupero delle tradizioni e della lingua irlandese) quanto nell'affermazione di una linea politica che portasse a una reale e definitiva separazione dal cordone ombelicale inglese.
Il movimento era sorto per iniziativa di Arthur Griffith e si era trasformato in un vero e proprio partito politico nel 1905 a Dublino. Fu soprattutto dopo la dura repressione inglese seguita all'insurrezione di Pasqua, avvenuta nel 1916, che il Sinn Féin vide ingrossare le sue file con una forte adesione popolare.
Dopo il grande successo conseguito nelle elezioni del dicembre 1918 con ben 73 deputati eletti e che si considerarono il nucleo del nuovo parlamento irlandese (o Dail Éireann), fu proprio il Sinn Féin a condurre le trattative con il governo inglese. Le trattative finalmente portarono, il 6 dicembre 1921, all'istituzione dello Stato libero d'Irlanda, primo passo verso l'obiettivo del totale affrancamento dalla dominazione britannica.
Gandhi 
La crisi interna della Gran Bretagna, nazione coloniale per eccellenza, contribuì a dare particolare slancio ai movimenti di liberazione proprio nei paesi dove per decenni essa aveva svolto un ruolo egemone e che più erano stati influenzati dai modelli politici anglosassoni.
Il movimento anticoloniale internazionale, che aveva trovato un importante momento di aggregazione nel congresso promosso dai sovietici e dalla Terza Internazionale tenutosi a Baku nel 1920, presentò modi e tempi di sviluppo alquanto particolari in India.
Qui infatti, portando a compimento un processo iniziato nel 1885, il Partito del Congresso, sotto la guida di Mohandas Karamechand Gandhi (1869-1948), diede vita a numerose campagne di disobbedienza civile, ispirate al concetto del "satyagraha", cioè letteralmente "afferrare la Verità" attraverso il metodo dell'ahimsa, "non violenza". Queste campagne, ispirate alla pratica della resistenza passiva e finalizzate alla rivendicazione della completa indipendenza, raccolsero ben presto l'adesione della gran parte della popolazione indiana, divenendo un vero e proprio movimento di massa capace di fronteggiare in maniera efficace la potenza inglese e le numerose manifestazioni repressive da essa promosse (fu il caso del famigerato Rowland Act, con cui venne istituita la legge marziale e furono ridotte le libertà civili degli indiani).
Più volte imprigionato senza processo, Gandhi fu tuttavia in grado di guidare il popolo in nuove e sempre più massicce campagne di disobbedienza civile (fra cui la famosa "marcia del sale", nel 1930) che portarono, agli inizi degli anni Trenta, al primo reale tentativo di superamento su base negoziale della questione dell'indipendenza indiana (conferenza di Londra, 1931).
Le divisioni etniche interne, il particolare sistema sociale che caratterizzava il paese (le caste), le gravi carenze economiche oltre la radicata resistenza inglese costituirono tuttavia al momento dei baluardi insormontabili sulla strada del raggiungimento dell'indipendenza nazionale.

La spartizione del Medio Oriente 
Alquanto articolata risulta la geografia dei movimenti indipendentistici sviluppatisi nell'area mediorientale, soprattutto in virtù del sovrapporsi alla vecchia dominazione ottomana di nuove potenze coloniali quali Francia e Inghilterra; gli inglesi e i francesi infatti, formalmente investiti del compito di riorganizzare gli antichi possedimenti turchi sulla base dei noti "mandati" stabiliti a Parigi, proseguivano nella spartizione di quell'area nevralgica, divenuta di grande importanza strategica in seguito alla scoperta di imponenti giacimenti petroliferi.
La politica anglo-francese dovette misurarsi, anche in questo settore, con le aspirazioni indipendentistiche delle popolazioni arabe, del tutto soggette alle scelte con cui le potenze europee, allo scopo di stabilizzare le rispettive aree di influenza, diedero vita a nuovi stati, alcuni posti sotto la diretta amministrazione inglese (Palestina) e francese (come nel caso di Libano e Siria).
Proprio la Siria, già autoproclamatasi regno indipendente nel 1920, prima cioé che la Francia procedesse all'occupazione militare, fu teatro di numerose e sanguinose rivolte in chiave anticoloniale. Altre zone formalmente indipendenti, rimasero tuttavia di fatto fedeli alleati della potenza britannica (Iraq, Transgiordania, Arabia).
Una più ampia autonomia riusciva a conquistarsi l'Iran, svincolatosi dal protettorato inglese attraverso la guida di un militare, il generale Reza Pahlevi (1878-1944) autoproclamatosi, nel 1925, Scià di Persia. La piena indipendenza, sebbene sotto la supervisione della Gran Bretagna che rimase saldamente in possesso della zona circostante il canale di Suez, riuscì a raggiungere nel 1922 l'Egitto, sotto la spinta del partito nazionalista del Wafd.
L'insediamento israelita in Palestina 
Tuttavia, una serie di continue rivolte venne ad agitare il già precario equilibrio raggiunto fra le potenze europee e le classi arabe privilegiate, che pure avevano tratto innumerevoli vantaggi dal processo di spartizione attuato in Medio Oriente; ciò accadde soprattutto in seguito all'ambiguo comportamento tenuto dalla Gran Bretagna la quale, per tener fede alla promessa fatta da Balfour ai sionisti e garantirsi contemporaneamente un punto d'appoggio per una successiva espansione nel Medio Oriente, favorì l'insediamento in Palestina, contro la netta opposizione delle popolazioni locali, di un cospicuo numero di coloni israeliti.
E i coloni, anche grazie all'aiuto finanziario dei banchieri israeliti dell'Occidente, riuscirono a rilevare dai grandi latifondisti indigeni diversi appezzamenti di terreno, dando vita a numerose e attive comunità agricole (i cosiddetti "kibbutz").
La situazione in Estremo Oriente 
Ancora più complessa si presentava la situazione in Estremo Oriente dove, fermo restando l'indiscusso predominio giapponese, paesi già pervenuti a completa indipendenza come la Cina fornivano lo spunto alle regioni limitrofe per sviluppare violente campagne anticoloniali.
È questo il caso dell'Indocina, dove i tentativi di emancipazione dal colonialismo francese vennero guidati da un partito nazionale vietnamita, modellato sull'esempio del Kuomintang cinese, dove le prime rivendicazioni sociali e nazionali vennero promosse a partire dal 1925, anno in cui venne fondato il locale partito comunista, da un leader come Ho Ci-Minh (1890-1969), vissuto a lungo in Francia e pratico dell'ambiente del Comintern.
Ciononostante, e a dispetto delle numerose rivolte militari e contadine che costellarono l'apertura degli anni Trenta, la resistenza francese a qualsiasi ipotesi di riforma in chiave autonomistica fu pressoché totale, accentuando ulteriormente l'odio e il rancore delle popolazioni locali per la dominazione straniera.
La conquista democratica in Messico 
Una serie di connotazioni del tutto particolari assunse la rivoluzione messicana, scoppiata sia per reazione alla pesante penetrazione economica da parte degli Stati Uniti e della Gran Bretagna sia per i profondi squilibri esistenti in materia di distribuzione della proprietà terriera accentuatisi durante la dittatura di Porfirio Diaz, svoltasi all'inizio del secolo, tra il 1910 e il 1920.
Tra il 1910 e il 1913 si attuò una prima fase rivoluzionaria, che fu condotta da Emiliano Zapata e da Pancho Villa e che coincise sostanzialmente con il periodo della presidenza dell'intellettuale liberale Francisco Madero.
Quest'ultimo, eletto presidente della repubblica nel 1910, quindi destituito e ucciso nel corso di un complotto ordito ai suoi danni tre anni più tardi, seguì la riorganizzazione del movimento per la riforma costituzionale sotto la guida di Venustiano Carranza.
Carranza, che venne eletto capo del governo nel 1914, era deciso ad attuare un programma di riforme radicali, anche al fine di stemperare gli eccessi della guerra civile in atto nel paese.
Il risultato di questo deciso sforzo politico fu la stesura della nuova carta costituzionale la quale, emanata nel corso del 1917, si dimostrò una delle più avanzate del mondo per quanto concerne la legislazione sociale e di tutela dei diritti dei lavoratori.
Tutto questo, pur fornendo alla società messicana del tempo il vivace stimolo per una sua decisa evoluzione politica, sociale e culturale, non valse tuttavia a risolvere in modo definitivo i gravi problemi che ne affliggevano la realtà economica oltreché quotidiana, lasciando sostanzialmente inalterati proprio quei rapporti di forza che la rivoluzione, invece, si era proposta di rovesciare.
Indipendenza e colonialismo in Africa 
La fine del primo conflitto mondiale comportò, per il continente africano, cambiamenti solo apparenti.
In realtà, il nuovo ordinamento uscito dai saloni di Versailles ridisegnò la geografia del paese sulla base degli esiti della guerra, rimescolando semplicemente il colore delle bandiere europee che sventolavano sulle porzioni di territorio africano, senza che ciò comportasse particolari concessioni ai popoli indigeni. Effettivamente, a parte alcuni casi isolati di paesi nei quali venne assecondata l'aspirazione all'indipendenza (come, per esempio, l'Egitto), sia pure sotto stretto controllo straniero, l'Africa mantenne nel corso del ventennio precedente la seconda guerra mondiale il ruolo di terra completamente subordinata al dominio coloniale delle nazioni appartenenti al Vecchio Continente.
Gli stati indipendenti 
Africa
Forse l'unico paese africano che riuscì a raggiungere un certo grado d'indipendenza fu l'Egitto; in realtà la Gran Bretagna, pur riconoscendo ufficialmente la piena autonomia del regno di Fuad I (1922), si riservò alcuni diritti in materia politica e militare.
La Gran Bretagna, infatti, si arrogò il diritto di gestire la politica estera e la difesa del paese, nonché di esercitare uno stretto controllo sulla zona del canale di Suez, con ciò limitando di molto il raggio d'azione del governo di Riad.
Re Fuad I, dopo aver combattuto aspramente il Wafd (vale a dire il partito del movimento per l'indipendenza guidato da Zaghlul Pascià), sciolse d'autorità l'intero parlamento instaurando un duro regime dittatoriale (1928).
L'indipendenza dell'Etiopia, dopo un periodo di reggenza durato circa un quindicennio, venne strenuamente difesa dal "negus neghesti" ("re dei re") Hailé Selassié I, il quale dovette tuttavia soccombere alle preponderanti forze dell'esercito italiano nel corso della guerra italo-etiopica del 1935-1936.
Inverso il percorso effettuato dal Sudafrica che, già turbato pesantemente dal problema razziale, riuscì a raggiungere l'indipendenza dal governo di Londra proprio alla vigilia dello scoppio del secondo conflitto mondiale, grazie alla guida congiunta dei generali Jan Christian Smuts e James Barry Munnick Hertzog (1939).
Il mondo coloniale 
A parte l'esempio offerto dall'Egitto, in tutto il continente africano il sistema di dominio coloniale rimase sostanzialmente invariato. Dopo la fine del conflitto, i movimenti nazionalisti, creati con lo scopo di abbattere il dominio straniero, stavano appena cominciando a muovere i primi passi.
La loro azione era ancora incerta perché all'interno convivevano diverse tendenze, tra loro in contrapposizione.
Da una parte si schieravano quanti, affratellati dalla comune coscienza del patrimonio culturale arabo-islamico, rifiutavano a priori qualsiasi contaminazione con il mondo e la civiltà europee, dall'altra parte vi erano coloro i quali (in special modo gli africani colti, che avevano studiato in Europa, soprattutto in Francia o in Inghilterra) non ritenevano in alcun modo più plausibile un ritorno all'antico ordinamento tribale, anche in virtù dell'esperienza cristiana da essi assorbita nel Vecchio continente.
Ciò nonostante, proprio l'esperienza culturale maturata all'estero e la rielaborazione critica delle tradizioni autoctone costituirono il viatico ideale per il rafforzamento del sentimento autonomistico che si sviluppò con crescente vigore in alcune zone dell'Africa.
Nelle colonie francesi (Africa Occidentale ed Equatoriale, Algeria), belghe (Congo), portoghesi (Angola, Mozambico) e nei protettorati e nei dominion inglesi (Rhodesia, Sudafrica, Nigeria) non era prevista in modo assoluto la partecipazione di africani alla gestione del potere e dello Stato.
Questi paesi furono amministrati da governatori direttamente responsabili solo nei confronti della monarchia o del primo ministro delle nazioni dominanti, senza permettere nessuna forma di partecipazione delle popolazioni originarie; soltanto in alcuni dei possedimenti britannici venne sperimentata la partecipazione di elementi indigeni all'amministrazione della giustizia, ma nella quasi totalità dei casi la preoccupazione primaria delle potenze coloniali fu quella di assimilare le popolazioni del luogo attraverso la soppressione delle tradizioni tribali.

 

La Cina di Mao Zedong
La rivoluzione repubblicana del 1911 
Dopo il 1905, sotto la guida di Sun Yat-sen, un intellettuale democratico uscito dalle fila della nuova borghesia, venne fondato il Kuomintang, il primo vero partito politico che avesse mai operato in Cina. Nel suo programma politico il Kuomintang da una parte riprendeva in maniera più organica il programma di emancipazione dalla dominazione straniera già al centro della protesta dei boxers, dall'altra proponeva in modo deciso il tema di una profonda riforma in senso democratico delle istituzioni politiche e della società cinese.
Nel 1911, rovesciata la dinastia Manciù ed eletto presidente della neonata repubblica, Sun Yat-sen non riuscì tuttavia a incidere profondamente sul tessuto sociale ed economico del paese, anche a causa della decisa resistenza opposta da quel mondo tradizionalista e conservatore che la rivoluzione repubblicana aveva tentato invano di estromettere dai ruoli di comando.
Ciò non toglie che l'esperienza riformista del Kuomintang, anche grazie alla meno assidua presenza occidentale dovuta agli eventi del primo conflitto mondiale, aveva consentito un rafforzamento della borghesia, la creazione di un sia pur piccolo nucleo industriale e la conseguente nascita di una classe operaia e proletaria, soprattutto in prossimità dei maggiori centri urbani.
Il Partito Comunista Cinese 
Una delle conseguenze della rivoluzione repubblicana fu la creazione di due centri di potere distinti, uno, a Canton, espressione delle tendenze innovatrici, l'altro, a Pechino, rappresentante delle forze reazionarie e conservatrici.
La situazione di stallo, esasperata dalla incombente presenza dei militari (i cosiddetti "signori della guerra") i quali erano in effetti i veri detentori del potere, venne a sbloccarsi solo con il diffondersi delle idee marxiste provenienti dalla vicina Unione Sovietica.
Fu sull'onda dell'influenza della rivoluzione russa che, nel 1921, un piccolo gruppo di intellettuali fra cui lo stesso Mao Zedong (1893-1976), diede vita al Partito comunista cinese (Pcc), il cui programma di base venne a coincidere, almeno inizialmente, con quello proposto dal Kuomintang: raggiungimento dell'indipendenza, attuazione di una profonda riforma agraria e democratizzazione radicale della società cinese.
Su tali principi di base il Partito comunista cinese e il Kuomintang iniziarono una stretta collaborazione, suggellata dal beneplacito sovietico che si evidenziò in più di una occasione con sostanziosi aiuti economici per la riorganizzazione dell'apparato militare.
Chiang Kai-shek e la lotta anticomunista 
Dopo la morte di Sun Yat-sen (1925), l'equilibrio fra le due anime del movimento rivoluzionario venne presto a mancare. La sempre maggior iniziativa messa in mostra dal Pcc, che rivendicava apertamente la guida della lotta indipendentista, diede l'opportunità al generale nazionalista Chiang Kai-shek di attuare una svolta anticomunista, dapprima estromettendo gli esponenti del partito dalla direzione del Kuomintang e poi attuando, nel biennio 1927-1928, una feroce repressione nel corso della quale vennero massacrati migliaia di sindacalisti e attivisti di sinistra. Di conseguenza costrinse i superstiti del movimento rivoluzionario a rifugiarsi nella regione del Kiang-tsi.
Mao Zedong 
Guidati da Mao e da Ciu Teh i comunisti superstiti, pur braccati dall'esercito nazionalista, riuscirono a elaborare un nuovo programma facendo leva sulle rivendicazioni e sulle aspirazioni delle masse contadine al possesso della terra e sulla loro avversione per i latifondisti (o "signori della terra"). Assunta la presidenza della repubblica nel 1928, Chiang Kai-shek cercò di dare il colpo di grazia alle ultime resistenze delle forze comuniste, arroccate in una piccola parte del territorio cinese, cercando di barattare questa sorta di 'operazione di pulizia' interna delle potenze occidentali in cambio della rinuncia alle concessioni territoriali e ai privilegi economici da esse ancora detenuti in Cina.
Gli sviluppi della situazione mostrarono tuttavia la lungimiranza del programma messo in atto da Mao Zedong e dai comunisti i quali, pur pressati dalle forze soverchianti dell'esercito di Chiang Kai-shek, riuscirono a superare, fra il 1934 e il 1935, la drammatica congiuntura di guerra; costretti a riparare prima nel Tibet e poi nella regione dello Shen-Tsi nel corso di una leggendaria "lunga marcia" di oltre 12 000 chilometri, davano infine vita alla repubblica sovietica dello Yenan.

 

Europa: anni Venti
I problemi del dopoguerra 
Il termine delle ostilità e il contemporaneo ritorno degli ex combattenti alle attività abituali crearono in Europa profondi squilibri, non solo economici, che esercitarono conseguenze non indifferenti nello sviluppo degli eventi successivi. Dal punto di vista economico l'Europa si trovò di fronte due ordini di problemi, intimamente connessi fra loro: da una parte la grave inflazione che colpì indiscriminatamente i paesi del vecchio continente erodendo in maniera drammatica il potere d'acquisto soprattutto delle classi medio-basse; dall'altra, l'accresciuta dipendenza degli stati europei dall'economia, e quindi dagli umori politici e monetari, degli Stati Uniti, che legava a filo doppio l'avvenire delle nazioni europee a quello del paese d'oltreoceano.
Tali problemi (in Estremo Oriente fu il Giappone ad approfittare dell'improvvisa latitanza dei paesi europei dai mercati asiatici, conquistandosi così una posizione di netto predominio) si rifletterono negativamente sia sugli sforzi messi in atto per la ricostruzione sia sui tentativi di riconvertire il più velocemente possibile l'industria bellica ai fini civili.
Ciò che gli anni Venti ereditarono dalla guerra fu soprattutto la consapevolezza, acquisita dalle masse popolari di essere oramai parte attiva della vita sociale e politica dei rispettivi paesi di appartenenza e di potere incidere in maniera decisiva, attraverso l'organizzazione e la disciplina ideologica, di qualunque colore essa fosse,  sugli sviluppi e i destini delle nazioni.
Le nuove forze politiche 
Per la prima volta  nella storia si assistette cioè a una mobilitazione politica di massa, che si tradusse nella creazione di forze politiche nuove, nell'adesione crescente ai sindacati e nell'entrata in scena delle donne, chiamate finalmente ad assolvere a ruoli e incarichi di responsabilità. Fu, quello degli anni Venti, un periodo di contraddizioni, all'interno del quale, sia pure a posteriori, non è difficile scorgere i primi segnali che di lì a poco avrebbero portato allo scoppio di un secondo e più vasto conflitto; un periodo caratterizzato, insieme, da vivi slanci riformistici (che mutarono profondamente la prospettiva della lotta sociale e politica) e da una altrettanto profonda crisi spirituale: tutti aspetti facilmente rintracciabili all'interno della produzione letteraria, figurativa e artistica in genere dell'epoca.
Rivoluzione e controrivoluzione  
L'idea di considerare la rivoluzione sovietica una sorta di scorciatoia all'industrializzazione può sembrare azzardata, e rappresenta in effetti il risultato di un'analisi possibile solo "a posteriori" (cioè uno studio non influenzato dall'estrema vicinanza temporale dell'avvenimento); di una simile teoria non poté certo farsi portavoce chi, nell'Europa del primo dopoguerra, elesse l'Unione Sovietica e il partito bolscevico a modelli da imitare nell'intento di realizzare anche in altri paesi la rivoluzione comunista. Sull'onda della spaventosa crisi che dalla fine della guerra attanagliava virtualmente tutti i paesi dell'Europa continentale, in Germania, in Austria e in Ungheria vennero messi in atto vari sforzi rivoluzionari da parte dei neonati partiti comunisti locali, appoggiati in modo sempre più massiccio dalle masse operaie dei diversi paesi.
Tanto più grave si presentava la situazione interna e tanto più facilmente veniva abbracciata l'idea di seguire il modello sovietico, cosa che condusse, come accadde in Germania, alla costituzione di organismi consiliari del tipo di quelli creati in Unione Sovietica e che raggruppavano soldati, operai e contadini. La loro forza, tuttavia, non si rivelò sufficiente per una affermazione definitiva,  tranne forse che in Ungheria, dove però anche il governo di ispirazione socialcomunista instaurato da Béla Kun (marzo 1919) fu costretto a cedere di fronte alla reazione militare guidata Nicola Horthy e spalleggiata dall'esercito rumeno.
La Lega di Spartaco 
Paradossalmente, poi, alcuni gruppi comunisti, quali la tedesca Lega di Spartaco (trasformatasi in seguito in partito comunista) guidata da Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, si trovarono a dover combattere contro governi  di ispirazione formalmente democratica e di impronta nettamente socialdemocratica. In realtà la radicalizzazione della lotta di classe aveva prodotto in molti casi uno spostamento ideologico e sociale rilevante, provocando una frattura oramai insanabile tra i fautori di soluzioni rivoluzionarie comuniste e quanti si dichiaravano sostenitori del metodo gradualista.
Questi ultimi, riformisti a pieno titolo, conservavano la denominazione di socialdemocratici, svuotando però in tal modo il concetto di "socialdemocrazia" del suo significato originario.
La Germania nei primi anni Venti 
Nella Germania dei primi anni Venti, retta da ministri socialdemocratici, si verificarono infatti tanti e tali esempi di repressione antioperaia e anticomunista affidati all'iniziativa di gruppi armati della destra reazionaria (i cosiddetti "corpi franchi"), da rendere pienamente legittimo non solo il cambiamento di significato del termine "socialdemocratico", ma anche il sospetto che si fosse verificato un netto capovolgimento di posizioni all'interno di uno dei più antichi partiti socialisti europei.
Effettivamente la reazione messa in atto dal governo repubblicano tedesco per iniziativa del ministro della Difesa Gustaf Noske fu estremamente violenta e, attraverso l'azione dei corpi franchi, mirò a stroncare i focolai rivoluzionari che si stavano diffondendo nel paese. Con l'appoggio dei militari prussiani e delle destre nazionalistiche, i socialdemocratici prima stroncarono nel sangue l'insurrezione comunista di Berlino (che si concluse con la cattura e l'assassinio dei due leader spartachisti Luxemburg e Liebknecht nel gennaio 1919), quindi bloccarono il tentativo di creare in Baviera una repubblica comunista assassinandone il presidente, il socialista Kurt Eisner (febbraio 1919) e reprimendone duramente la base operaia.
Dal punto di vista politico questo clima di violenze continue non danneggiò eccessivamente il partito socialdemocratico, che nelle elezioni per la nuova assemblea costituente ottenne oltre undici milioni di consensi (fra cui quello delle donne, alle quali per la prima volta era stato esteso il diritto di voto) e la maggioranza relativa dei seggi. Tuttavia ciò non fu sufficiente ad assicurargli il controllo esclusivo del governo, fin ad allora rettosi su coalizioni precarie, composte anche da partiti e gruppi politici del vecchio mondo guglielmino e conservatore.
La Repubblica di Weimar 
La Repubblica di Weimar, creata nell'agosto 1919 e così chiamata dal nome della città sede del nuovo parlamento, si trovò presto ad affrontare problemi enormi, che andavano ben al di là delle buone intenzioni e dei principi saldamente democratici espressi con la nuova carta costituzionale.
La prima difficoltà oggettiva risiedeva nella permanenza, all'interno della società tedesca, di forze e di gruppi di potere a forte vocazione autoritaria (si pensi solo al persistente militarismo prussiano) e nettamente contrari a qualsiasi svolta in senso democratico. Tali gruppi giocarono un ruolo fortemente destabilizzante all'interno del paese; del resto, la mancata sostituzione dei vertici militari con persone di fede repubblicana non favorì la vita dello stato. Ancora, la durezza delle clausole di pace imposte alla Germania, e l'accettazione di esse da parte dei nuovi governanti, provocarono un diffuso clima di malumore proprio in quanti mantenevano continuamente in vita il sogno di una ripresa del conflitto.
Inoltre, l'atteggiamento di tipo intransigente mantenuto da parte dei paesi vincitori, unito alla loro inflessibilità nell'esigere il pagamento delle riparazioni di guerra finirono per unirsi indissolubilmente ai generali disequilibri dell'intero sistema economico tedesco, mettendo in moto una spirale inflazionistica (peraltro già avviatasi nel corso del 1914) assolutamente inverosimile, che, oltre a ridurre in maniera drammatica il potere d'acquisto di numerosi cittadini, gettò letteralmente sul lastrico tutti i lavoratori che possedevano un reddito fisso, quindi fortemente influenzato da un'inflazione galoppante.
Il rafforzamento del dissenso di destra 
Fu proprio all'interno della massa di nuovi poveri, ovvero le classi piccolo-borghesi duramente colpite dalla crescita vertiginosa dell'inflazione, che trovarono adesioni e nuova linfa vitale i movimenti radicali e nazionalistici di destra.
Forza sotterranea mai sopita del mondo tedesco, la destra reazionaria diede una prima prova delle sue potenzialità attentando alla legalità repubblicana (con il tentativo di colpo di stato da parte del funzionario prussiano Wolfgang Kapp, avvenuto nel 1920). E in quell'occasione fu la strenua resistenza opposta da gruppi di lavoratori e di operai a impedire che il governo venisse definitivamente rovesciato.
Tra le forze di destra che vennero coagulandosi in quel periodo, vi fu anche il partito nazionalsocialista operaio tedesco fondato nel 1919 da Adolf Hitler, ex combattente austriaco, sulle ceneri del vecchio partito operaio. Hitler costituì all'interno del partito stesso anche un vero e proprio braccio armato, rappresentato dal gruppo paramilitare delle S.A. (Sturm-Abteilungen), con il quale si rese protagonista di un nuovo tentativo di sovversione dell'ordine pubblico (tentato colpo di stato di Monaco, novembre 1923), prontamente represso dalle forze militari del nuovo governo guidato da Gustav Stresemann.
Le riparazioni di guerra e il crollo del marco 
La congiuntura in cui quest'ultimo colpo di mano avvenne coincise probabilmente con il momento di crisi e di smarrimento più profondo che fu mai attraversato dal paese. Prostrata dalla crisi economica e in preda a violente convulsioni politiche interne (l'instabilità politica divenne una delle caratteristiche principali della vita tedesca dopo il 1920), la Germania si trovò anche a dover affrontare l'occupazione del bacino minerario della Ruhr da parte delle forze armate francesi e belghe (gennaio 1923) messa in atto per istigare il governo di Weimar al pagamento delle enormi riparazioni di guerra.
Questo avvenimento, che privò il paese di una importantissima fonte di approvvigionamento di tipo energetico, causò un ulteriore impoverimento delle casse dello Stato, il quale, come unico provvedimento, incrementò la produzione di cartamoneta.
Nel breve volgere di alcune settimane la svalutazione raggiunse punte inverosimili (nell'ottobre 1923 occorrevano 25 miliardi di marchi per acquistare un dollaro), provocando l'azzeramento del risparmio, l'inizio di una speculazione selvaggia e un aumento vertiginoso del numero dei disoccupati.
La ripresa economica 
La ripresa economica ebbe luogo sostanzialmente per due motivi: da una parte, il cambiamento di guida politica del paese, passata al popolare Stresemann, che permise un incremento dello slancio produttivo e degli investimenti industriali; dall'altro, la presa di coscienza, da parte delle potenze vincitrici, che il prolungamento dell'agonia economica inflitta alla Germania, attraverso il cappio delle riparazioni, sarebbe stata pericolosa per tutta la comunità internazionale.
Poiché gli stessi vincitori subordinavano a loro volta il pagamento agli Stati Uniti dei debiti contratti nel corso della guerra alla riscossione dei crediti tedeschi è evidente che, negli anni fra il 1924 e il 1930, una forte ripresa economica tedesca fosse resa possibile proprio dal sostegno esterno americano.
La graduale applicazione del piano di aiuti Dawes (1924) prevedeva poi l'abbandono delle terre tedesche occupate da parte degli alleati, particolare che, dando soddisfazione al rinato spirito nazionalistico serpeggiante nel paese, apriva la strada a una momentanea stabilizzazione del quadro politico interno. Questo equilibrio, peraltro, si realizzò soprattutto dopo la morte del socialdemocratico Ebert (1925), primo presidente della repubblica, con un netto spostamento a destra concretizzatosi nel trionfo elettorale del vecchio generale Hindenburg, candidato delle forze conservatrici e nazionaliste.

Verso la stabilità
Nella seconda metà degli anni Venti si concretizzò, di fronte al progressivo estendersi di forme di governo autoritarie che nel nazionalismo, nell'anticomunismo e nell'espansionismo trovavano i loro principali motivi ideologici, una politica estera più conciliante, soprattutto da parte di paesi che fino a pochi anni prima erano stati nemici.
Furono infatti i ministri degli Esteri tedesco, Gustav Stresemann, e francese, Aristide Briand, i firmatari del patto di Locarno (1925) con il quale avvenne la formale riconciliazione fra le due nazioni, sancita dal riconoscimento tedesco del trattato di Versailles e dal ritiro delle truppe di occupazione francesi dalla Renania. Sulla scia di questo accordo, la Germania rientrò a far parte a tutti gli effetti del consesso internazionale, che venne ufficializzato con l'ammissione alla Società delle Nazioni (1926). Il discorso pacifista venne ripreso, e da molti paesi fatto proprio, con la sottoscrizione del patto stipulato tra Kellog (dal nome dello statista e diplomatico americano) e Briand, con il quale veniva definito l'impegno comune a rigettare la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (1928).
La Francia nel primo dopoguerra 
La crisi che seguì l'immediato dopoguerra toccò, sia pure in maniera differente, anche i paesi economicamente più solidi e politicamente ancorati a forti tradizioni liberali e democratiche.
La Francia, che fu probabilmente uno dei paesi più colpiti dal conflitto, fu paradossalmente anche uno di quelli che visse in maniera meno drammatica l'ingresso nel nuovo decennio, anche grazie al totale riassorbimento di tutta la manodopera disponibile sul mercato, che venne impiegata nelle imponenti opere  di ricostruzione.
Certo, la conflittualità sociale fu anche qui elevata, ma la lotta operaia, coagulatasi nel neonato partito comunista (1920) e in forti sindacati di categoria, riuscì a ottenere importanti riforme, come la giornata lavorativa di otto ore e l'applicazione dei contratti collettivi di lavoro. La crisi politica, che travolse prima il governo Poincaré (1922-24), quindi quello presieduto dal radicale Herriot (1924-25), si risolse solo con la rielezione alla Presidenza del Consiglio dello stesso Poincaré, il quale seppe sfruttare abilmente l'onda della ripresa economica internazionale, incentivando contemporaneamente la ripresa della produzione industriale e il flusso delle esportazioni.
La crisi della Gran Bretagna 
La Gran Bretagna fu invece il paese che più di ogni altro subì in maniera devastante i contraccolpi del conflitto, sebbene lo scontro sociale all'interno del paese non raggiungesse mai il livello di guardia.
La guerra aveva dimostrato innanzi tutto una cosa: la Gran Bretagna ormai non era più la sola e unica potenza economica mondiale: le sue strutture industriali e i suoi metodi produttivi, per certi versi obsoleti in se stessi e comunque fortemente scossi dal conflitto, dovevano cominciare a fare i conti con un nemico che si presentava molto agguerrito, gli Stati Uniti, in rapida affermazione a livello mondiale.
Inoltre, la rete estesa di domini coloniali espose fortemente il paese alle ripercussioni negative dei vari movimenti indipendentistici che si andavano sviluppando, contribuendo a un aggravamento ulteriore del quadro generale.
Al calo drammatico della produzione e delle esportazioni corrispose un parallelo aumento del tasso di disoccupazione; a questa situazione i governi Lloyd George e Baldwin tentarono di porre rimedio da una parte definendo le questioni coloniali più scottanti (accettazione della parziale indipendenza irlandese, 1921), dall'altra reprimendo, anche in maniera brutale, le espressioni di malcontento operaio (si ricordi lo sciopero generale del 1926).
La potenza mondiale degli Stati Uniti 
Discorso opposto meritano invece gli Stati Uniti, che la grande guerra consacrò definitivamente quale potenza militare ed economica a livello mondiale. Qui, infatti, i problemi relativi alla riconversione post-bellica lasciarono immediatamente il posto a quelli relativi alla gestione della enorme crescita economica, strettamente legata all'imponente domanda di prodotti industriali e agricoli proveniente da ogni parte del mondo, mentre un clima di ottimismo e di fiducia si diffondeva in ogni settore e in ogni classe sociale.
Tuttavia, se l'economia permetteva lo stabilirsi di nuovi e più intensi legami con gli altri paesi, il rifiorire di forti correnti isolazioniste (le quali non furono estranee all'elezione a capo dello stato  del repubblicano Warren Harding, 1920-1923, al posto di Wilson) provocò un allontanamento degli Stati Uniti dalle vicende politiche europee (rifiuto di ratificare il trattato di Versailles da parte del Senato, 1920, e di adesione alla Società delle Nazioni, 1921).
Inoltre, la riaffermazione di spiccati sentimenti nazionalistici accentuò la diffusione di atteggiamenti di intolleranza verso immigrati e minoranze etniche (in particolare, neri, cino-giapponesi, ebrei), peraltro già presenti, mentre il pericolo di infezione bolscevica (la cosiddetta "paura rossa"), continuamente denunciato dalle classi privilegiate americane, rappresentò lo strumento che permise alle autorità di reprimere, o comunque limitare in misura consistente, la partecipazione di massa alla vita politica (le donne conquistarono il diritto di voto solo con le elezioni presidenziali del 1920) e la rivendicazione di precisi diritti sociali e civili da parte delle classi lavoratrici.
Forti della loro potenza economica e orgogliosi dell'"American way of life" (lo stile di vita americano), gli Stati Uniti si addentravano così, a pieno regime, in quelli che saranno anni di ottimismo, contrassegnati dalle presidenze repubblicane di Calvin Coolidge (1923-1929) e di Herbert Hoover (1929-1933).

 

L'avvento del fascismo

L'instabilità del dopoguerra in Italia 
Il fascismo, pur non essendo un fenomeno esclusivamente italiano - perlomeno nei suoi aspetti fondamentali di movimento reazionario di destra - rappresentò uno scarto notevole nell'organizzazione dittatoriale del potere e nella gestione autoritaria dello Stato.
Sorto sull'onda della grave crisi seguita alla fine della prima guerra mondiale, il fascismo fu per molti versi la valvola di sfogo di tutte le tensioni, le frustrazioni e le contraddizioni non risolte che avevano sempre contrassegnato il cammino dello Stato italiano, fino dal momento della sua fondazione.
I problemi del dopoguerra e la situazione di estrema instabilità che essi stessi avevano contribuito ad accentuare in tutto il mondo occidentale, trovarono un terreno ancora più fertile in Italia, divenuta in breve tempo il campo di sperimentazione ideale per quelle forme nuove di controllo politico e sociale che tanta fortuna avrebbero conosciuto negli anni immediatamente successivi. A partire dal 1919, infatti, in Italia si manifestarono i sintomi di un diffuso malessere sociale e politico.
Tali problemi furono acuiti dalle enormi difficoltà incontrate dal processo di riconversione industriale postbellico e dalla relativa questione del riassorbimento della manodopera in eccesso, resasi improvvisamente disponibile per via del ritorno dal fronte di centinaia di migliaia di soldati.
A una situazione interna di per sé già critica, si aggiunsero: il progressivo azzeramento del tradizionale sbocco emigratorio verso gli Stati Uniti (a seguito della politica isolazionista americana), i nodi già allora irrisolti della questione meridionale, nonché il sentitissimo problema della "vittoria mutilata".
Mussolini tra populismo e opportunismo 
Il fascismo fu, o tentò di essere, reazione a tutto questo; ma fu anche il delirio di onnipotenza di un uomo, Benito Mussolini, nel quale convissero l'anima di socialista della prima ora, una buona dose di demagogia e l'intima convinzione di essere in grado di cambiare, attraverso l'imposizione di una rigida disciplina mentale e materiale, l'anima e il carattere di un popolo, nella utopistica prospettiva di creare l'uomo nuovo. Certo, il fascismo riscosse, specie a cavallo degli anni Trenta, un certo consenso sia in Italia sia all'estero.
Tuttavia, il sistema instaurato da Mussolini più che per l'incondizionata adesione popolare rimase saldo soprattutto grazie alla permanenza al potere della sua guida e fin tanto che venne assicurata la continuità di alcune istituzioni. La gestione dell'economia conobbe anzi brusche frenate e inversioni di rotta, lasciando in eredità all'Italia repubblicana solo quel sistema di economia mista,  pubblica e privata, che pure si sarebbe rivelata nel corso del tempo fonte di enormi contraddizioni e inadatta al superamento dei periodi di crisi.

Benito Mussolini
Benito Mussolini nacque il 29 luglio 1883 a Predappio, in provincia di Forlì, terra conosciuta per le tradizioni fortemente libertarie. Era figlio di un fabbro ferraio, Alessandro, e di una maestra elementare, Rosa Maltoni.
Avvicinatosi giovanissimo al socialismo (1902), Mussolini trascorse un decennio di frenetica attività propagandistica, svolta fra Italia, Svizzera e Austria.
Tornato in patria, ricoprì incarichi di sempre maggior importanza all'interno del partito, fino ad arrivare, in occasione del congresso di Reggio Emilia (luglio 1912), ad assumere il ruolo di capo riconosciuto della corrente rivoluzionaria.
Direttore del quotidiano socialista "Avanti!" dal 1912 al 1915, fino cioè al momento della sua uscita dal partito in seguito alla svolta interventista, Mussolini si dimostrò dotato di innate capacità di mediazione e di opportunismo politico, qualità che lo misero in condizione di destreggiarsi con abilità nelle più differenti situazioni. Rivoluzionario e conservatore, anticlericale per formazione e filopapista per convenienza, Mussolini racchiuse nel suo animo le più grandi contraddizioni, riuscendo tuttavia a sfruttarle abilmente, una a una, per arrivare alla conquista del potere.
Come ebbe a dichiarare esplicitamente in occasione di un suo discorso: " Noi ci permettiamo di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti e illegalisti, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente".
La crisi dello stato liberale 
Giunta relativamente tardi all'interno del circolo dei paesi industrializzati e tuttavia ancora alle prese con enormi scompensi economici e sociali, l'Italia si era ritrovata alla fine del conflitto con una parte dei suoi sogni di grande potenza frustrati e sostanzialmente impreparata ad affrontare i problemi che comportava la condizione di moderna democrazia parlamentare.
Infatti, colta di sorpresa dall'irrompere prepotente sulla scena di nuovi partiti e organizzazioni sindacali (che si facevano forti del consenso e della partecipazione di quanti, fino ad allora, erano stati costretti ai margini della vita politica), la classe dirigente liberale si dimostrò globalmente incapace di incanalare la lotta politica nei giusti binari del dibattito parlamentare, finendo per dare in tal modo ragione a quanti la accusavano di avere sempre e soltanto tollerato il sistema democratico, senza tuttavia averlo mai fatto totalmente proprio.
Il processo di maturazione civile di gran parte della popolazione - in special modo quella più povera - si scontrò duramente con il ritorno alla normalità quotidiana, che non volle dire, come da più parti era stato promesso, il raggiungimento di migliori condizioni di vita.
Di fronte a questo stato di cose, la tensione raggiunse presto il livello di guardia in tutto il paese e l'apparente compattezza del fronte governativo, liberale nella forma, ma autoritario, conservatore e paternalista nella sostanza, non fu in grado di opporsi costruttivamente alle agitazioni sociali che scossero la penisola e che fecero temere come imminente una svolta rivoluzionaria sul modello di quella avvenuta in Russia.
I governi Nitti e Giolitti 
Testimonianza dell'incapacità di far fronte alle crescenti tensioni che dilagavano nel paese furono sia il fallimento del governo guidato dal liberale Francesco Saverio Nitti (1868-1953), costretto alle dimissioni dai risultati negativi ottenuti con le elezioni politiche (novembre 1919), sia di quello presieduto dal vecchio Giolitti.
Quest'ultimo, infatti, pur riuscendo a ottenere alcuni importanti risultati sia in politica estera, con la liquidazione della questione della città di Fiume e l'annessione definitiva di Zara (trattato italo-jugoslavo di Rapallo, del novembre 1920), sia interna, attraverso l'accorta mediazione che pose fine all'occupazione operaia delle fabbriche (settembre 1920), si scontrò da una parte con le pesanti difficoltà economiche (rese più consistenti dalla grave crisi che attanagliò il paese nel 1921), e dall'altra con la condotta contraddittoria che tenne nei confronti del partito fascista, erroneamente ritenuto soggetto politico strumentalizzabile, transitorio e comunque riconducibile alle regole del gioco parlamentare.
Le nuove forse politiche: i "popolari" di Don Sturzo 
Uno degli elementi più significativi che caratterizzarono il panorama politico di questo periodo fu la nascita del Partito Popolare Italiano (Ppi). Sorto nel gennaio 1919 a opera di Luigi Sturzo (1871-1959), il Ppi rappresentò il definitivo riavvicinamento dei cattolici italiani alla vita politica, superando d'un tratto il rigido astensionismo imposto dal Vaticano negli anni seguenti l'unità d'Italia.
La nuova formazione politica raccolse immediatamente un larghissimo consenso, facendosi portatrice delle istanze più composite, da quelle dei gruppi conservatori a quelle delle masse contadine dell'Italia centro-settentrionale.
Il Partito Popolare divenne il portavoce ufficiale di queste forze, facendo precise richieste in materia politica e sociale che andarono bene al di là delle tradizionali rivendicazioni del mondo cattolico (tutela dell'associazionismo, libertà di culto e di insegnamento ecc.).
Il programma del partito, stilato dalla cosiddetta "piccola costituente cattolica" presieduta dallo stesso don Sturzo, prevedeva infatti la riforma del sistema elettorale in senso proporzionale con allargamento del voto alle donne, la difesa della piccola proprietà contadina, il riordino del sistema tributario e dell'amministrazione pubblica, nonché l'applicazione di una vera legislazione sociale a difesa delle categorie di cittadini e lavoratori più deboli.
Il Partito Comunista di Gramsci e Bordiga 
Diverso il percorso politico che portò alla nascita del Partito Comunista d'Italia (Pcd'I), sezione italiana dell'Internazionale comunista (il nome venne cambiato in Partito Comunista Italiano solo nel 1943).
Il Pcd'I nacque in occasione del congresso socialista di Livorno (gennaio 1921), dall'incontro tra il gruppo raccolto attorno alla rivista torinese "Ordine Nuovo", guidato da Antonio Gramsci (1891-1937), e una corrente dissidente del Partito socialista capitanata da Amadeo Bordiga (1889-1970).
Alla base del programma comunista erano innanzi tutto la convinzione dell'imminente carattere rivoluzionario della situazione italiana, quindi la necessità di contrapporre al blocco liberale-reazionario un blocco formato da operai, contadini e intellettuali.
Al fine di garantire la necessaria compattezza, il partito venne organizzato con una struttura centralizzata e sottoposta a rigida disciplina. Fra gli esponenti che occuparono le posizioni più rilevanti, oltre a Gramsci e Bordiga, Nicola Bombacci, Umberto Terracini, Angelo Tasca e Anselmo Marabini, componenti del comitato centrale al quale era delegato ogni potere decisionale.
Il Partito Nazionale Fascista 
La nascita del Partito Popolare e del Partito Comunista non costituirono le uniche novità del quadro politico italiano postbellico. Ben altro effetto dirompente avrebbe infatti avuto la costituzione, a Milano, del movimento dei Fasci italiani di combattimento (23 marzo 1919), in piena crisi politica.
Promosso da Mussolini e sostenuto da importanti gruppi industriali, il movimento fascista si presentò come un confuso calderone di dichiarazioni rivoluzionarie antiborghesi, entusiasmi nazionalistici e rivendicazioni democratiche, che rivolgeva le sue attenzioni principalmente agli ex combattenti e a quei ceti medi preoccupati di perdere le posizioni faticosamente conquistate.
A dispetto della sconfitta elettorale maturata nel 1919, Benito Mussolini seppe convogliare sul movimento l'attenzione e le simpatie del mondo industriale e agrario, che cominciò a vedere in lui un possibile baluardo all'avanzata socialista.
La trasformazione del movimento in Partito Nazionale Fascista (Pnf, novembre 1921) rappresentò un momento di decisa rottura all'interno della linea politica seguita fino ad allora dal fascismo, con l'abbandono dei toni anticapitalistici e della richiesta di riforme sociali, a fronte di una decisa accentuazione dell'antiparlamentarismo in nome dei supremi interessi dello Stato.
Coerentemente con le sue inclinazioni estremistiche e spregiudicate, alle quali neppure la lunga militanza socialista aveva saputo porre un freno, Mussolini inizialmente preferì non caratterizzare il movimento con tratti politici ben definiti. Egli si accontentò di sfruttare i vantaggi di una situazione nella quale miti come quello della "vittoria mutilata" si sposavano, nei ceti medi, alle più tradizionali richieste di tranquillità sociale e di sicurezza economica.
L'ascesa del consenso al fascismo 
Ammantando di roboanti proclami rivoluzionari i sentimenti di fastidio provati da molti per il cattivo trattamento riservato all'Italia al tavolo della pace, e colorando con i simboli della collaudata retorica nazionalistica i diffusi timori della piccola e media borghesia, assediata dalla duplice minaccia proletaria e capitalistica, Mussolini riuscì a far crescere in maniera decisa il consenso attorno al fascismo, trasformandosi ben presto nell'ago della bilancia della confusa situazione politica.
Tuttavia la scarsa attenzione riservata ai problemi della piccola e media borghesia, la debolezza dimostrata dai governi Bonomi e Facta e l'applicazione sistematica della violenza non bastano, da sole, a spiegare l'ascesa fascista.
Furono infatti altri gli elementi che determinarono, nel volgere di pochi mesi, la presa del potere da parte di Mussolini: la sconfitta del progetto rivoluzionario delle sinistre, il susseguirsi delle crisi economiche che avevano prostrato la capacità di lotta dei partiti di massa, del movimento operaio e dei sindacati, la stabilizzazione del dominio capitalista, la radicalizzazione della lotta politica e, soprattutto, l'incapacità del sistema liberale di aprirsi alle nuove forze sociali e politiche emerse alla fine del XIX secolo cooptandole nel governo dello Stato (le stesse elezioni del 1921 furono indette con la speranza di eliminare o di ridurre l'influenza sociale dei partiti).
Le squadre d'azione 
Certamente, la soluzione fascista della crisi venne facilitata dalle azioni di violenza esercitata dalle squadre d'azione, che intervennero a dirimere contrasti di lavoro o, più semplicemente, a intimidire e a eliminare gli avversari politici; tuttavia esse non furono l'elemento che in assoluto determinò l'ascesa del Pnf al governo del Paese, che venne invece decisa, o comunque accettata, in sede politica.
Emerse una precisa volontà di evitare una ferma lotta al fascismo; furono soprattutto esponenti liberali che, rassicurati dalle dichiarazioni filomonarchiche e a favore di un riavvicinamento al Vaticano (specie dopo l'elezione al soglio pontificio di papa Pio XI, nel febbraio 1922), tolsero ogni veto all'avanzata fascista, commettendo l'errore di considerare il fascismo come un occasionale e prezioso alleato del quale servirsi per contrastare l'ascesa dei partiti democratici di massa, e del quale poi sarebbe stato facile sbarazzarsi in un secondo momento.

La battaglia elettorale tra 1919 e 1921
Nel novembre 1919 si tennero le prime elezioni politiche del dopoguerra, in un clima arroventato dalle polemiche sull'impresa di D'Annunzio a Fiume, dalle incertezze del governo Nitti e dalle crescenti tensioni a livello sociale.
I risultati delle votazioni,  alle quali presero parte quasi sei milioni di elettori e che si svolsero con il sistema proporzionale, premiarono il partito socialista (32,4% dei voti, 156 seggi), seguito dal partito popolare (20,6%, 100 seggi) e dal raggruppamento misto liberaldemocratico.
I Fasci di combattimento, presentatisi nella circoscrizione milanese con personaggi del calibro del futurista Marinetti e del grande direttore d'orchestra Arturo Toscanini, non ottennero alcun seggio. Completamente diverso il panorama che si presentò al termine dello spoglio delle schede avvenuto due anni dopo.
Le preferenze dei 6 700 000 elettori si divisero infatti fra il Psi (123 seggi), i popolari (108), il neonato Pcd'I (15 seggi) e il cosiddetto "blocco nazionale" (265), nel quale era incluso il partito nazionale fascista. Il movimento mussoliniano, ammesso al gioco politico dai sottili equilibrismi di Giolitti, faceva in tal modo il suo ingresso ufficiale nel Parlamento.
Le tappe di avvicinamento alla conquista del potere esecutivo si susseguirono veloci: nell'incapacità di tenere insieme la maggioranza, Giolitti si ritirò nel giugno 1921, lasciando il mese successivo il testimone a Ivanoe Bonomi. Ma neppure Bonomi riuscì a governare perché fu costretto anch'egli alle dimissioni in seguito alla vicenda del fallimento della Banca di Sconto (febbraio 1922).
In un clima di crescente violenza, mentre si moltiplicavano le azioni squadristiche nelle Camere del lavoro, nei circoli operai, nelle sedi dei giornali e dei partiti, la guida del governo venne affidata a uno dei più fedeli luogotenenti di Giolitti, Luigi Facta (1861-1930), da più parti ritenuto inadeguato per un incarico simile e comunque non dotato della necessaria autorevolezza per contrastare efficacemente l'inasprirsi dello scontro politico.
Mentre si spegneva il tentativo giolittiano di conciliare le posizioni di popolari e fascisti, una nuova ondata di violenze fasciste costrinse Facta alle dimissioni (luglio 1922). Il fallimento del secondo governo a lui affidato (agosto 1992), nato con il preciso intento di restaurare l'ordine e caratterizzato invece da nuovi e ancora più cruenti fatti di violenza (culminati con la devastazione della sede milanese del quotidiano "Avanti!"), nonché l'ulteriore indebolimento del PSI - minato al suo interno da una nuova frattura che portava alla creazione del Partito socialista unitario (guidato dai riformisti Claudio Treves, Filippo Turati e Giacomo Matteotti) - spalancarono definitivamente le porte di Palazzo Chigi a Mussolini.
 

Fascismo agrario e fascismo urbano 
L'espansione, avvenuta nel biennio 1920-1921, modificò notevolmente la struttura e le dimensioni del movimento fascista. L'offensiva condotta dalle squadre d'azione, vista da buona parte dell'opinione pubblica liberale come una giusta reazione all'avanzata socialista, fu accompagnata da un considerevole aumento del consenso.
Nel corso del 1921, tuttavia, all'interno del movimento fascista venne a crearsi una situazione di pericolosa ambiguità tra un'anima urbana, sostanzialmente coincidente con le posizioni normalizzatrici di Mussolini e dei suoi più diretti collaboratori (che miravano a sfruttare il consenso dei ceti medi), e un'anima agraria, dominante nelle zone rurali e in alcune città provinciali, caratterizzata da una adesione molto più eterogenea e dal ricorso costante alla violenza come mezzo di affermazione.
Fu, questa, una duplicità che rimase, sia pure in modo latente, anche nella fase successiva, quando il fascismo si era oramai insediato saldamente ai posti di comando dando vita allo Stato totalitario.
I "ras" 
Proprio all'interno dell'anima "provinciale", o agraria, del fascismo venne sviluppandosi il fenomeno dei "ras" (dal nome dei signori feudali dell'Etiopia e dell'Eritrea), capizona che erano stati protagonisti dell'organizzazione delle squadre nere e che, accompagnati dalla fama delle loro imprese, acquisirono un'ampia notorietà locale.
Questi uomini (i più famosi furono Roberto Farinacci, a Cremona, aderente al movimento dalla sua costituzione, deputato fortemente antisemita, e Italo Balbo, a Ferrara, comandante delle squadre d'azione e creatore della milizia fascista) continuarono a rendersi protagonisti di azioni violente fino a tutto il 1924, nonostante i tentativi effettuati dallo stesso Mussolini per cercare di arginarne gli eccessi.

Le basi sociali del fascismo
Il personale politico del fascismo proveniva per la maggior parte dalla piccola e media borghesia. Il conflitto, se aveva mostrato i limiti del predominio politico borghese (liberi professionisti, proprietari terrieri, "benestanti" in genere), dall'altra aveva consentito agli strati intermedi urbani e rurali, formati da commercianti, impiegati, artigiani e piccoli e medi industriali, di prendere piena coscienza della propria forza.
Costoro, nell'immediato dopoguerra, reclamavano una partecipazione diretta alla vita dello Stato e, dato che le loro aspirazioni di ascesa sociale non potevano essere soddisfatte dal socialismo a causa della sua pregiudiziale classista e antiborghese, diedero pieno credito a quelle ideologie che recuperavano il valore della vittoria, della nazione e della conciliazione sociale. L'alleanza si consolidò così sulla destra dello schieramento politico, tra la borghesia e ceti medi emergenti. Poiché la prima di queste due componenti si presentava con uno schieramento sostanzialmente esiguo, mentre la seconda lamentava una totale mancanza di guida ideologica e sociale, l'alleanza si risolse in una specie di compromesso, che vedeva la partecipazione al potere dei nuovi arrivati in cambio del rispetto degli interessi sociali ed economici fondamentali della borghesia.
Patrimonio comune sarebbero stati profonde istanze nazionaliste e fermi convincimenti antisocialisti.
Ciò spiega anche alcuni caratteri particolari che il fascismo assunse successivamente alla conquista del potere e che si risolsero, almeno fino al 1925, nella epurazione pressocché totale dei dirigenti e dei quadri intermedi, con ripercussioni estremamente negative sul funzionamento dell'apparato statale.
La marcia su Roma 
All'inizio di ottobre 1922, la crisi delle diverse forze in campo era così profonda e così alto il clima di tensione che Mussolini ritenne giunto il momento di porsi come obiettivo immediato la conquista del potere.
Rifiutata l'ipotesi di un accordo per la formazione di un governo a guida giolittiana, Mussolini abbracciò definitivamente l'idea di un colpo di mano, stilando così il programma della prevista dimostrazione di forza.
Dopo averne definito i particolari con Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono e Cesare De Vecchi, il futuro "quadrumvirato", in una riunione presso la sede del fascio milanese (16 ottobre) e dopo aver ribadito le sue intenzioni minacciose in occasione del convegno del Pnf a Napoli (24 ottobre), Mussolini iniziò a negoziare la sua posizione con il re e Facta, mentre da tutta Italia le squadre fasciste cominciarono a convergere su Roma, accampandosi alle porte della città (28 ottobre 1922).
Subito dopo il formale rifiuto a firmare il decreto di stato d'assedio presentatogli dal dimissionario Facta, Vittorio Emanuele III, cedendo anche alle pressioni degli ambienti militari e nazionalisti, invitò Mussolini a Roma, offrendogli l'incarico di formare il nuovo governo.
In realtà, la "marcia su Roma", almeno da un punto di vista militare, fu un autentico bluff: la città era infatti ben presidiata dalle forze dell'esercito regolare e non sarebbe stata per loro un'impresa impossibile avere ragione di un manipolo di uomini, per quanto numeroso, oltretutto male armato e privo di riserve e rifornimenti. Questa è probabilmente la più viva testimonianza che nei vertici dello Stato vi fu una reale mancanza di volontà politica d'opposizione all'avanzata del fascismo.
Il governo Mussolini 
Giungendo ossequioso dinanzi al re il 30 ottobre, Mussolini presentò immediatamente il suo governo.
La composizione della compagine ministeriale, a dispetto della formale presenza di liberali, popolari e indipendenti (che inizialmente convinse tutti delle buone intenzioni mussoliniane di far rientrare il fascismo nella legalità) oltre ai fascisti e ai nazionalisti, era la dimostrazione evidente della volontà di aggressione alle strutture portanti dello Stato da parte di Mussolini.
È significativo un passo famoso del discorso da lui tenuto alla Camera dei Deputati per ottenere la fiducia al nuovo governo (16 novembre 1922): "Io sono qui per difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle "camicie nere" [...] con trecentomila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti a un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il fascismo. Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli [...] potevo sprangare il parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto".
Dopo il voto di fiducia favorevole (306 voti a favore, 116 contrari), il parlamento si espresse anche a favore della concessione dei pieni poteri a Mussolini per il ristabilimento dell'ordine interno e per la riorganizzazione dei sistemi amministrativo e tributario. Le Camere, con il loro voto, concessero al fascismo di ripagare immediatamente i favori di quanti, nel mondo imprenditoriale e finanziario, ne avevano aiutato l'ascesa. Le misure finanziarie a suo tempo adottate da Giolitti (il quale, con una sovratassa sui profitti di guerra e con la legge sull'obbligo della nominatività dei titoli azionari, aveva aumentato il peso fiscale a carico dei ceti più elevati), vennero immediatamente smantellate, mentre venne dato avvio a una politica economica di ispirazione liberista, fondata sull'incoraggiamento dell'iniziativa privata. Queste misure, unitamente alla ripresa della congiuntura economica internazionale e alla progressiva perdita di peso politico dei sindacati e della sinistra, ebbero l'effetto di rassicurare il padronato italiano, il quale poté così dare inizio a una serrata campagna di drastica riduzione dei salari.
Lo smantellamento dello stato liberale 
Per quanto nel triennio 1922-25 la vita politica potè conservare una parvenza di normalità (pur fra enormi difficoltà e pericoli crescenti), nello stesso periodo Mussolini cominciò a gettare le basi per l'abbattimento definitivo di ogni residuo dello stato liberale.
Per fare ciò, egli, oltre ad assicurarsi l'appoggio dei tradizionali centri di potere (l'esercito, la monarchia, il capitale industriale e agricolo) e dei ceti piccolo e medio borghese, attese contemporaneamente al consolidamento del suo potere personale e del Pnf attraverso la creazione del Gran Consiglio del Fascismo (formato dai maggiori esponenti del partito, dicembre 1922) e della Mvsn-Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (gennaio 1923) - nella quale confluirono i componenti delle squadre fasciste.
Dopo aver costretto i popolari ad abbandonare il governo (aprile 1923) e aver favorito le dimissioni di don Sturzo dalla carica di segretario politico, Mussolini fece approvare dalle Camere la riforma della legge elettorale in senso maggioritario ("legge Acerbo", luglio 1923), che prevedeva la concessione di un premio di maggioranza (cioè i due terzi dei seggi) alla lista che avesse ottenuto il maggior numero di voti.
Nelle elezioni politiche, tenutesi nell'aprile 1924 in un clima di esasperata intimidazione e di violenze, il cosiddetto "listone" governativo - nel quale erano confluiti con i fascisti anche molti notabili e pressoché tutti gli esponenti conservatori - ottenne il 64,9% dei voti, riscuotendo il maggior successo nell'Italia centro-meridionale.
Delitto Matteotti, Aventino e leggi fascistissime 
I numerosi episodi di brogli elettorali (falsificazione di voti, pestaggi nelle sedi dei seggi ecc.) furono prontamente denunciati in parlamento dagli esponenti dell'opposizione: il primo fra costoro, Giacomo Matteotti, rappresentante del Partito Socialista Unitario, venne barbaramente ucciso dai fascisti, pagando con la vita il suo gesto coraggioso.
Il delitto Matteotti parve rimettere in discussione tutto l'edificio faticosamente eretto da Mussolini; uno sdegno unanime attraversò tutto il Paese e si ripercosse sul comportamento, peraltro velleitario, delle opposizioni parlamentari, le quali, per protesta, disertarono i lavori della Camera (scissione dell'"Aventino", giugno 1924). Guidata da giovanni Amendola, l'opposizione decise di non tornare in aula finché non fosse stata ripristinata la legalità democratica, ma aspettò invano perché da parte del re non venne alcuna iniziativa.
Per il fascismo, che dell'inconsistenza pratica di tale decisione finì per avvantaggiarsi, fu la salvezza e l'inizio di una nuova fase, libero da qualsivoglia esitazione o remora liberale. La nuova era del fascismo venne inaugurata da Mussolini con il celebre discorso del 3 gennaio 1925, che apriva la strada al varo di decreti finalizzati alla totale soppressione delle libertà costituzionali ("leggi fascistissime", 1925-1926).

 

Storia contemporanea riassunti

 

 

Il regime fascista

Lo stato totalitario 
Con il discorso del 3 gennaio 1925 Mussolini impresse una virata di centottanta gradi al suo governo, connotandolo definitivamente come un regime dittatoriale.
Il programma mussoliniano venne immediatamente attuato attraverso provvedimenti quali la soppressione della libertà di stampa, la messa al bando dell'opposizione, lo scioglimento dei sindacati e la persecuzione e l'epurazione degli antifascisti. L'instaurazione della dittatura e il rafforzamento enorme dell'esecutivo dovevano di pari passo consacrare l'autorità personale e assoluta del "duce" (dal latino dux, guida), incarnata dallo stesso Mussolini (sanzionata da un'apposita legge del novembre 1925), e soprattutto il suo ruolo preponderante rispetto al partito.
Subito dopo l'assunzione dei poteri dittatoriali, la preoccupazione principale di Mussolini e dei suoi fedeli fu non solo quella di colpire le opposizioni - peraltro sorprese e abuliche nella loro passività iniziale - ma anche di prevenire qualsiasi colpo di mano del fascismo locale più intransigente.
Come è testimoniato da una comunicazione del 4 gennaio 1925 dello stesso Mussolini ai prefetti: "Prego chiamare immediatamente dirigenti federazioni provinciali fasci et tener loro seguente discorso: dopo seduta camera tre gennaio ogni ulteriore incidente disordine illegalismo sporadico nuocerebbe gravemente Governo et fascismo et gioverebbe esclusivamente opposizioni. Governo intende reprimere ogni tentativo di disordine che non avrebbe più alcuna nemmeno remota giustificazione. Nazione unanime chiede laboriosa calma lavoro disciplinato e fascisti devono dare essi per primi esempio ...".
La fascistizzazione dello stato 
Immediatamente dopo il 3 gennaio il fascismo si pose il problema di attuare la "fascistizzazione" dello Stato, rispondendo in tal modo alle critiche di quanti vedevano il movimento ancora incapace di dare un contenuto sostanziale alla rivoluzione da esso attuata.
In tal senso andarono i lavori di una apposita commissione di studio per la riforma costituzionale (detta "dei diciotto", gennaio 1925), la nomina di Augusto Turati alla segreteria del Pnf al posto dell'irrequieto ras di Cremona, Roberto Farinacci (marzo 1926), la nomina dall'alto di tutte le massime cariche dello Stato e dei sindaci (i "podestà" fascisti) e, infine, la cosiddetta "legge per la difesa dello Stato" (ispirata dal ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Rocco e con la quale veniva istituito il Tribunale speciale, novembre 1926), buona parte delle cui norme sarebbero poi state trasfuse nel nuovo codice penale del 1931.
L'opera di fascistizzazione dello Stato non si limitò alla vita politica ed economica, ma toccò anche altri ambiti, quali l'istruzione pubblica, i mezzi di comunicazione, la cultura e tutto quanto atteneva alla vita sociale. Il regime si appropriò in maniera totale dei mezzi di informazione (caratteristica, questa, tipica di tutti i regimi dittatoriali) che cercò di sfruttare per manipolare, o quanto meno per orientare a proprio favore, il consenso delle masse.
Nel campo dell'istruzione pubblica il regime mussoliniano impose i riti, la propaganda e l'ideologia del fascismo come strumenti essenziali alla crescita e alla maturazione dell' "uomo nuovo", creando associazioni studentesche a vari livelli, tutte dipendenti direttamente dal partito.
Nella stessa direzione andarono quindi la creazione dell'Eiar-Ente Italiano Audizioni Radiofoniche (l'antesignano della Rai) e dell'Istituto Luce (produttore dei cinegiornali trasmessi settimanalmente nelle sale cinematografiche).
L'opposizione antifascista 
La svolta mussoliniana del gennaio 1925 e l'applicazione immediata delle leggi "fascistissime" costrinse moltissimi oppositori del regime a fuggire all'estero. L'esilio, al quale molti furono costretti (da Nitti a Sturzo, da Turati a Salvemini, da Tasca a Togliatti, da Trentin a Nenni), fu comunque una via di uscita meno dura rispetto a quella toccata in sorte a oppositori antifascisti della base operaia e socialista, a insigni liberali e scomodi cattolici, che furono condannati alla pena capitale o incarcerati fino allo stremo delle forze su condanna del famigerato Tribunale speciale (come accadde nel caso di Antonio Gramsci).
Senza dubbio l'esilio - e, con esso, la possibilità di continuare la lotta antifascista al di fuori dei confini dello Stato - rappresentò una scelta di gran lunga più difficile (ma non per questo più coraggiosa) di quella compiuta da quanti preferirono rimanere, alcuni isolandosi dalla vita pubblica e proseguendo le proprie attività in settori neutri, altri esponendosi apertamente e rischiando in prima persona le conseguenze del loro gesto.
Fra questi, particolare rilevanza assunsero le figure di liberali come Benedetto Croce (che dopo il 1924 prese nettamente le distanze dal fascismo), Piero Gobetti e il gruppo raccolto attorno alla rivista "Rivoluzione liberale", Gaetano Salvemini e i fratelli Nello e Carlo Rosselli.
Fra i comunisti, i ranghi dei quali erano stati falcidiati dalla persecuzione fascista, assunse sempre maggior peso la figura di Antonio Gramsci, il quale, sia pure dal carcere (dove, tra l'altro, scrisse la sua opera forse più famosa, i Quaderni del carcere), rappresentò un costante punto di riferimento per tutto l'antifascismo militante di sinistra.
All'estero cominciò intanto la riorganizzazione dei partiti sciolti da Mussolini in seguito alla svolta autoritaria, sebbene tali sforzi non riuscissero - almeno inizialmente - a incidere in maniera decisiva nella conduzione della lotta antifascista. Vennero così ricostituiti in Francia i vertici e le strutture organizzative del Partito Socialista (guidato dal vecchio Filippo Turati, da Ferruccio Parri e da Sandro Pertini), del Partito Socialista Unitario, del Partito repubblicano e della stessa Cgil.
Maggiore efficacia sortì l'azione del movimento "Giustizia e libertà" (sorto nel 1929 per iniziativa di Emilio Lussu e Carlo Rosselli), che pose l'accento sulla necessità di creare in Italia una rete clandestina per condurre dall'interno la lotta contro il fascismo.
La politica economica fascista 
Il periodo iniziale del governo Mussolini coincise con una sostanziale ripresa economica internazionale, la prima dopo i mesi bui immediatamente successivi alla fine del conflitto.
Facendo leva sulle aspettative generali del mondo finanziario e del capitale industriale che molto si aspettavano da lui, Mussolini inaugurò una politica economica di stampo dichiaratamente liberista, incoraggiando l'iniziativa privata e limitando quanto più possibile l'intromissione dello Stato nella gestione degli affari. In realtà, la sua concezione rigidamente liberistica delle funzioni economiche statali aveva radici profonde e comunque risalenti al periodo antecedente la presa del potere.
Come egli stesso scrisse in un articolo pubblicato sul "Popolo d'Italia" del 7 gennaio 1921: "Lo Stato è oggi ipertrofico, elefantiaco, enorme e vulnerabilissimo, perché ha assunto una quantità di funzioni d'indole economica, che dovevano essere lasciate al libero gioco dell'economia privata. Lo Stato oggi fa il tabacchino, il postino, il ferroviere, il panettiere, l'assicuratore, il navigatore, il caffettiere, il biscottiere, il bagnino [...] Ogni azienda statale è un disastro economico. Manca nella burocrazia la molla dell'interesse individuale e non c'è nemmeno l'ombra di una preoccupazione per l'interesse collettivo [...] Chi dice Stato economico e monopolistico, dice fallimento e rovina. [...] Lo Stato deve esercitare tutti i controlli possibili immaginabili, ma deve rinunciare a ogni forma di gestione economica. Non è affar suo. Anche i servizi cosiddetti pubblici devono essere sottratti al monopolio statale. [...] Riassumendo, la posizione del fascismo di fronte allo Stato è questa: lotta contro lo Stato economico-monopolistico, essenziale allo sviluppo delle forze della nazione; ritorno dello Stato alle funzioni d'ordine politico-giuridico, che sono le essenziali. In altri termini: rafforzamento dello Stato politico, graduale smobilitazione dello Stato economico".
La pressione sui ceti più deboli 
Valendosi dell'aiuto del ministro delle Finanze Alberto de Stefani, Mussolini seppe abilmente mettere a frutto l'indebolimento del movimento operaio e dei sindacati tradizionali (ai quali venne opposta l'alternativa dei sindacati fascisti guidati da Edmondo Rossoni), inasprendo la pressione sui generi di prima necessità (e quindi colpendo direttamente le fasce più deboli della popolazione), decurtando via via le quote dei salari e, soprattutto, lasciando mano libera agli imprenditori a proposito della licenziabilità della manodopera.
Nello stesso senso andarono altri provvedimenti, quali, per esempio, l'abolizione di tutte le imposte sui sovraprofitti di guerra e, in parte, sui beni immobili, mentre venne definitivamente messa da parte la legge che prevedeva l'obbligo della nominatività dei titoli azionari (novembre 1922).
Naturalmente, il pretesto di liberare lo Stato dai rami improduttivi o comunque di snellirne la struttura, secondo le istanze liberiste (tra il febbraio e l'aprile 1923 furono privatizzati sia il servizio telefonico sia le assicurazioni), servì a Mussolini anche per colpire direttamente le masse operaie più direttamente colluse con l'ideologia socialcomunista (fu il caso del licenziamento di quasi quarantamila ferrovieri e di parte dei lavoratori civili dell'Arsenale di La Spezia, gennaio-luglio 1923).
La politica fiscale 
Alle nuove difficoltà economiche sorte intorno alla fine del 1924 (e testimoniate dalla progressiva perdita di valore della lira rispetto alle altre monete) il fascismo reagì prendendo una serie di provvedimenti che ebbero come cardini fondamentali la fissazione del cambio ufficiale della sterlina a "quota novanta" (cioè il valore di ogni sterlina inglese venne fissata in 90 lire), l'ulteriore inasprimento del carico fiscale, nell'incentivazione della produzione di cereali (la cosiddetta "battaglia del grano") e, paradossalmente, un maggiore intervento statale a sostegno dell'economia (con l'introduzione di dazi protettivi e di sgravi fiscali per le imprese).
Tutti questi provvedimenti produssero  da un lato l'effetto di impoverire ulteriormente le classi operaie e contadine (come testimoniato dalla progressiva diminuzione dei salari), dall'altro garantirono un discreto sviluppo dell' industria, sostenuto da grandi migrazioni interne e da diffusi processi di urbanizzazione, e dell'agricoltura.
Il corporativismo 
Tutto l'impianto della politica sociale ed economica abbozzata nel corso del ventennio fascista si è trascinata, con aggiustamenti vari o aggiornamenti di rito, in epoche molto vicine ai nostri giorni (in realtà le vestigia del periodo fascista non si sono limitate a quegli ambiti, basti pensare al famigerato "codice Rocco", al quale si è rifatta la giustizia penale italiana fino agli anni Settanta).
L'alibi ideologico sotteso all'accentramento della gestione economica da parte dello Stato (emblematico fu il processo di statalizzazione di banche e imprese, avviato ancora prima che la grave crisi del 1929 ne rendesse urgente l'attuazione) fu il corporativismo, sorta di "terza via" tra socialismo e capitalismo, già cara ai cattolici dell'Ottocento e che assumeva a dogma l'eliminazione di ogni conflittualità sociale.
Il corporativismo, i principi fondamentali del quale erano stati enunciati dal nazionalista Alfredo Rocco nel 1914, prevedeva una totale subordinazione del mondo del lavoro a quanto veniva stabilito dallo Stato. Ciò implicava, come diretta conseguenza, l'abbandono completo del principio della lotta di classe, per arrivare a operare solo nel senso della collaborazione tra forza lavoro e imprenditori, finalizzata al raggiungimento del bene supremo della nazione.
Questo programma, ripreso nel momento in cui i sindacati tradizionali cominciarono a riacquistare consenso fra i lavoratori (1924-1925), contribuì in maniera determinante all'annullamento delle libertà sindacali.

L'azzeramento dei sindacati 
Il programma di economia corporativa venne attuato sia attraverso il disconoscimento del diritto di sciopero, dichiarato "strumento eccezionale di lotta" (aprile 1925) sia tramite il riconoscimento, da parte degli imprenditori, dei sindacati fascisti come unici rappresentanti legali dei lavoratori (accordo di Palazzo Vidoni, ottobre 1925). Tuttavia, concepiti come emanazione dello Stato, gli stessi sindacati fascisti apparivano privi di reale libertà di manovra, costretti all'interno di organi nazionali di coordinamento suddivisi per aree di attività (le "corporazioni") insieme alle rispettive associazioni dei datori di lavoro, per di più governati da un ministero delle Corporazioni appositamente creato (luglio 1926).
In realtà, il corporativismo rimase, con il lungo strascico di discussioni e di polemiche che lo accompagnarono, più una bardatura ideologica che un reale strumento politico-economico dello Stato fascista.
Le stesse corporazioni, istituite formalmente nell'aprile 1926, rimasero praticamente sulla carta fino al 1934.
Lo stesso, velato contrasto esistente fra i sindacalisti fascisti, spesso provenienti dall'esperienza del sindacalismo rivoluzionario primonovecentesco, e i teorici più convinti del corporativismo, che predicavano (come Ugo Spirito) la partecipazione operaia agli utili delle aziende, rivelò la sostanziale inattuabilità del progetto corporativo.
Il Concordato del 1929 
Se comunisti e socialisti furono duramente perseguitati dalla violenta repressione fascista e le loro organizzazioni praticamente smantellate, diversa sorte toccò alle masse cattoliche. Costoro furono, infatti, l'unica forza politica e ideologica a conservare il privilegio di una autonomia che, sotto il velo delle motivazioni religiose, potè articolarsi in fenomeni di aggregazione non impediti apertamente dal fascismo.
Mussolini, con innegabile fiuto politico, intuì peraltro quale formidabile riserva di consensi avrebbe costituito per il suo regime un movimento cattolico svuotato della sua guida politica (don Sturzo) e ricondotto invece nell'alveo della completa obbedienza al papa.
Un ulteriore fattore di consolidamento del regime fascista fu l'inizio del processo di normalizzazione dei rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa che venne infine sancito dalla stipulazione dei Patti Lateranensi (febbraio 1929). In virtù di tali accordi, venne riconosciuta al papa la piena sovranità sul territorio della Città del Vaticano (considerato a tutti gli effetti Stato indipendente), oltre a una sostanziosa indennità per gli espropri effettuati dall'Italia in occasione dell'annessione di Roma nel 1870.
I rapporti fra i due Stati vennero regolati da un concordato che, nei suoi punti cardine (validità civile del matrimonio religioso, insegnamento della religione cattolica nelle scuole di ogni ordine e grado, proibizione di ogni attività politica all'Azione Cattolica ecc.), veniva meno ai presupposti risorgimentali della netta separazione tra Stato e Chiesa.
Tuttavia, al di là di quelle poche voci che si levarono in maniera netta contro l'accordo (tra le quali è bene ricordare quella del filosofo napoletano Benedetto Croce), il concordato procurò al fascismo un'indiscussa aureola di prestigio, che risentì poco o nulla anche del contrasto sorto due anni più tardi con la Chiesa in relazione ai problemi dell'educazione giovanile e a proposito del ruolo da assegnare all'attività svolta dai membri dell'Azione Cattolica.

Il fascismo in Italia
Coloro che gestirono la vita politica durante il ventennio furono quegli stessi giuristi, intellettuali, amministratori, economisti e funzionari che il fascismo aveva reclutato numerosi nelle fila del movimento nazionalista.
Questo particolare, che sottolinea la funzione e il ruolo di uomini come Alfredo Rocco, Luigi Federzoni, Arrigo Serpieri e altri ancora, risulta particolarmente importante in quanto fornisce la spiegazione più plausibile di quelli che furono i reali scopi del fascismo che, se ebbe effettivamente qualche carattere specifico e originale, molti altri ne trasse da una tradizione di pensiero e da una pratica di governo consolidate.
Una formazione economico-sociale così complessa quale quella italiana prevedeva, a partire fin dalla prima fase di industrializzazione del Paese, forme di gestione assai accentrate e di tipo autoritario che il fascismo, in un contesto storico oramai mutato, si preoccupò immediatamente di assecondare in ogni modo.
In sostanza, il fascismo non fu semplicemente il portavoce del grande capitale o degli agrari, ma piuttosto esso si propose come la migliore soluzione possibile per le esigenze del modello di sviluppo italiano giunto a una nuova fase.
Esso non fu quindi il frutto delle distorsioni e dell'arretratezza di un paese arrivato tardi nella fase dell'industrializzazione e del sistema borghese di governo, ma costituì invece la risposta ai bisogni di un tipo di crescita che, fino dalla costituzione dello Stato unitario, si era venuta realizzando all'ombra di un rigoroso controllo esercitato dai gruppi moderati con l'appoggio incondizionato dello Stato.
Le cause dell'onnipotenza attribuita dal fascismo allo Stato non vanno perciò rintracciate tanto nell'idealismo del filosofo Giovanni Gentile, quanto nelle condizioni storiche nelle quali lo Stato italiano era nato e si era consolidato. Il fascismo non fu quindi una semplice parentesi, un'interruzione anomala del percorso storico, come alcuni lo hanno interpretato, ma solo il logico risultato di una particolare, oggettiva evoluzione delle condizioni nelle quali si svolse il processo unitario.

 

 

 

 

Grande crisi e New Deal

La centralità finanziaria degli Stati Uniti 
Lo spostamento del baricentro finanziario negli Stati Uniti (divenuti, grazie ai sostanziosi aiuti forniti ai paesi del vecchio continente, arbitri incontrastati della ripresa), sebbene le potenze occidentali avessero dimostrato energie insospettate superando la grave crisi economica seguita alla fine della guerra, aveva messo in moto un pericoloso meccanismo, che avrebbe legato a filo doppio il destino dell'Europa a quello dell'America. Quando questa, per diversi motivi (saturazione del mercato interno, speculazione selvaggia, crollo dei prezzi agricoli) non fu più in grado di sostenere la propria crescita economica, tutto il sistema ne risentì, in un "effetto domino" che coinvolse creditori e debitori, paesi ricchi e poveri in ogni parte del globo.
Inoltre, altri fattori quali la progressiva intromissione delle banche nella gestione delle imprese, il permanere di vaste sacche di disoccupazione, la scarsità di investimenti nei settori produttivi, le stesse difficoltà legate alla riconversione industriale non completamente superate, contribuirono non solo ad accelerare il verificarsi della crisi, ma anche a dilatare l'entità delle conseguenze sull'intero sistema economico mondiale.
Nonostante la sdrammatizzazione della questione delle riparazioni tedesche, alle quali si cercò di porre rimedio con un apposito programma di pagamento (piano Young, giugno 1929), si diffuse un clima di generale incertezza, del quale fecero le spese le aree più deboli dello scacchiere internazionale.
Si trattava solo del preludio a quella immane catastrofe che, nel breve volgere di settimane, avrebbe bruciato intere fortune, gettando sul lastrico milioni di famiglie e di imprenditori.
L'illusione che la stabilizzazione capitalistica potesse agire da toccasana per le questioni socio-economiche si stava rivelando quanto mai fallace.
La crisi, di proporzioni immense, non risparmiò l'Europa, dove né l'Inghilterra, anch'essa arroccatasi in un rigido protezionismo, né l'Unione Sovietica o l'Italia, dove vennero invece accentuati gli indirizzi dirigistici dell'economia, riuscirono a limitarne gli effetti.
La crisi del 1929 
Tecnicamente, la miccia che fece scoppiare la crisi fu innescata dal crollo della Borsa di New York, quando circa tredici milioni di azioni furono praticamente svendute nel cosiddetto "venerdì nero" (25 ottobre 1929). La vastità della catastrofe non venne percepita immediatamente, e, solo quando le prime banche americane cominciarono a sospendere i pagamenti e a dichiarare il fallimento si evidenziò la gravità della situazione.
La rapida ascesa dei titoli azionari in Borsa, sostenuta da uno sviluppo vertiginoso della produzione industriale e dalla progressiva influenza delle banche nel sistema delle imprese, aveva nascosto alla vista i gravi problemi che una crescita economica così rapida comportava. Essa illuse tutti che la corsa in avanti non avrebbe più conosciuto soste. Per esempio, non fu tenuto nella debita considerazione il problema della saturazione del mercato interno, dove la distribuzione della ricchezza era ancora limitata e non tutti erano nelle condizioni di poter accedere all'acquisto di beni di consumo.
Inoltre, la questione della sovrapproduzione agricola venne quasi del tutto ignorata, fatto tanto più grave se si considera che la ripresa economica postbellica dei paesi europei lasciava ampiamente prevedere un relativo aumento della produzione di generi agricoli e quindi la minore dipendenza dagli approvvigionamenti statunitensi. Quest'ultimo particolare lasciò i contadini americani (già duramente colpiti dalla politica filoindustriale delle precedenti amministrazioni repubblicane) completamente prostrati e impreparati di fronte al crollo dei prezzi.
Hoover e il precipitare della crisi 
Esacerbata dall'inettitudine o dalla mancata adozione di provvedimenti veramente efficaci da parte dell'amministrazione Hoover, la crisi si tradusse in una fulminea paralisi produttiva (- 54% nel triennio 1929-1932) e dei traffici commerciali, mentre la fornitura di crediti, all'interno e all'estero, venne immediatamente bloccata. Tra la fine del 1929 e l'inizio del 1930 si registrarono in tutto il paese centinaia e centinaia di fallimenti di banche, di imprese commerciali, di aziende industriali e agricole, mentre il tasso di disoccupazione arrivò a toccare la cifra astronomica di oltre 13 milioni di persone. Il presidente Herbert Hoover non riuscì a fronteggiare la situazione in maniera adeguata, limitando i suoi interventi, improntati a un vacuo ottimismo, al rialzo dei dazi protettivi e alla costituzione del Rfc-Reconstruction Finance Corporation (Ente finanziario per la ricostruzione).
Le ripercussioni in Europa 
Nel corso dell'estate 1930 i contraccolpi della crisi colpirono duramente anche il vecchio continente, rivelando all'improvviso l'instabilità delle fondamenta sulle quali si reggeva la ripresa europea. Anche prima che i mercati mostrassero la loro sfiducia nella più grande e ricca società capitalistica del mondo vi erano stati segnali che preludevano allo scoppio del sistema: già a partire dal 1928, i prezzi agricoli erano in forte ribasso, mentre numerosi scandali finanziari avevano rivelato un clima di esasperata speculazione e il flusso dei prestiti americani - principale contributo alla ricostruzione economica europea - aveva cominciato a contrarsi.
Lo shock derivato dalla caduta di Wall Street, nell'ottobre 1929, contribuì quindi solo ad assestare il colpo di grazia a un mondo che già si era pericolosamente avvicinato all'orlo del baratro.
Il crollo verticale dei prezzi agricoli e delle materie prime, principale voce nell'economia dei paesi dell'Est europeo, viaggiò di pari passo con la diminuzione dell'esportazione di prodotti finiti da parte dell'area centro e nordeuropea, con conseguente crescita vertiginosa del numero dei disoccupati.
Nei due maggiori paesi industrializzati d'Europa, Germania e Inghilterra, i lavoratori rimasti senza lavoro salirono in breve tempo a circa dieci milioni, mentre in Italia, alla fine del 1930, la disoccupazione subì un incremento medio di quasi il 60%; dovunque, si assistette a un netto calo nella produzione agricola e industriale. Contemporaneamente, la crisi di liquidità americana, spingendo gli investitori statunitensi a bloccare i finanziamenti, se non addirittura a esigere la restituzione dei prestiti a breve scadenza, impedì a quei paesi la ripresa  basata prevalentemente sull'afflusso di capitali stranieri (vedi il caso della Germania) e di continuare nella loro politica di finanziamento di lavori pubblici.
La crisi monetaria del 1931 
La situazione risultò aggravata, nel 1931, da una pesantissima crisi monetaria, che ebbe immediate ripercussioni sul sistema bancario e finanziario europeo: la più importante banca austriaca, la Osterreicher Creditanstalt, chiuse gli sportelli, seguita da lì a poco dalla Darmstadter und Nationalbank tedesca, che sospese anch'essa i pagamenti. Per cercare di porre rimedio a questa situazione, l'Inghilterra abbandonò il sistema della parità aurea e svalutò immediatamente la sua moneta (settembre 1931), seguita dalla maggior parte dei paesi industrializzati.
Con la disoccupazione in aumento e una sfiducia strisciante nei confronti delle istituzioni finanziarie, la risposta data dai governi fu l'adozione di una politica antinflazionistica, nel tentativo di recuperare la fiducia dei mercati risanando i bilanci, abbassando i salari, tagliando le spese e il personale. In questo modo, tuttavia, il potere d'acquisto dei salari diminuì, mentre la disoccupazione continuò a crescere.
L'inasprimento dei conflitti sociali 
La crisi economica, crescendo in intensità all'apertura degli anni Trenta, colpì dunque in maniera indiscriminata e, oltre a sollevare numerosi dubbi per quanto riguarda l'avvenire del sistema capitalistico, pose anche alcuni problemi politici estremamente urgenti. Dovunque si acuirono notevolmente i sentimenti nazionalistici, favoriti dall'adozione delle barriere doganali; allo stesso modo, i conflitti sociali vennero di colpo inasprendosi, offrendo alla borghesia lo spunto per rintracciare nuovi metodi di difesa delle sue posizioni.
In Germania furono i partiti dell'estrema sinistra (comunisti) e dell'estrema destra (nazionalsocialisti) a trarre il maggior vantaggio dalla situazione, facendo intravvedere la possibilità di soluzioni radicali alla crisi.
La Francia, forse il paese europeo meno toccato dalla catastrofe economica (in realtà gli effetti della crisi colpirono con un certo ritardo, facendosi avvertire soltanto verso il 1934), fece valere la grande quantità di oro accumulata negli anni precedenti, rimanendo in tal modo meno vincolata ai prestiti provenienti da oltreoceano e attuando una politica estera nell'insieme autonoma.
L'età rooseveltiana 
L'incapacità dimostrata da Hoover nel fronteggiare la crisi economica con misure di carattere sociale veramente radicali costituì il pesante fardello con il quale il Partito repubblicano americano si presentò alle elezioni presidenziali del 1932. A lui, al suo ottimismo di maniera e alla sua presunzione di ritenere che gli Stati Uniti potessero rialzarsi per virtù taumaturgiche, gli americani attribuirono infatti gran parte della responsabilità della situazione.
In virtù di tali premesse, il democratico Franklin Delano Roosevelt (1882-1945) divenne il nuovo presidente degli Stati Uniti, superando nettamente il rivale (oltre sette milioni di voti separarono alla fine i due contendenti).
Quanto mai significativo fu il discorso di insediamento, una vera e propria dichiarazione d'intenti, pronunciato da Roosevelt nel marzo 1933, quando oramai la crisi aveva raggiunto l'apice: "i mezzi di pagamento, congelati, bloccano gli scambi commerciali; le foglie morte delle nostre imprese ingombrano il terreno; i nostri agricoltori non trovano più mercato per i loro prodotti; le economie di milioni di famiglie sono scomparse; un esercito di cittadini senza lavoro si trova di fronte al duro problema di vivere. Bisogna essere degli ottimisti molto sciocchi per negare la tragica realtà del momento. La Nazione esige azioni e azioni immediate. Nostro primo compito sarà di rimettere questo paese al lavoro".
Roosevelt si circondò di collaboratori ed esperti di prim'ordine, una concentrazione di cervelli (il famoso brain trust) che lo avrebbe coadiuvato nell'opera di risanamento sociale ed economico del paese e con il quale avrebbe sostituito al liberismo senza freni dei repubblicani un sistema misto, all'interno del quale lo Stato sarebbe intervenuto energicamente.
Il new deal 
Sin dai primi mesi del suo mandato Roosevelt mise chiaramente in luce i capisaldi del new deal (nuovo corso): riattivazione di parte del sistema bancario, con preferenza per gli istituti "sani", collegati con il Federal Reserve System e rigido controllo statale sulla Borsa e sul mercato azionario (attraverso la Securities Exchange Commission); divieto di esportazione e di accumulo di valuta straniera e di oro; svalutazione del dollaro del 40% per innalzare il livello dei prezzi e, infine, tutela dei proprietari di case a rischio di esproprio.
Per favorire maggiormente il mondo agricolo, Roosevelt attuò una rivoluzionaria riforma agraria (la Agricultural Adjustment Act, cioè la "legge per il riassetto agricolo", maggio 1933), con la quale veniva limitata la produzione di alcune derrate in eccesso a fronte di un risarcimento da parte dello Stato.
Roosevelt si preoccupò inoltre di rimettere velocemente in moto il mercato del lavoro, al fine di permettere un rapido riassorbimento della disoccupazione. Ciò venne reso possibile dallo stanziamento di un vastissimo piano di lavori pubblici, finanziati direttamente dallo Stato, che andava dalla costruzione di nuove linee ferroviarie, al rafforzamento delle comunicazioni stradali, fino alla realizzazione di dighe e bacini artificiali. In quest'ottica venne istituita la Tennessee Valley Authority (Ente per la Valle del Tennessee, maggio 1933), preposta alla costruzione di centrali idroelettriche e di impianti industriali, alla irregimentazione dei corsi d'acqua, alla realizzazione di opere di irrigazione e allo sfruttamento dell'energia idroelettrica per usi civili e industriali.
Anche il mondo industriale, pesantemente segnato dalla crisi, fu oggetto di un apposito provvedimento legislativo - il National Industrial Recovery Act (Nira, o legge per la ricostruzione industriale, giugno 1933) - che introdusse per la prima volta norme di tutela dei lavoratori (aumento dei salari, limitazione dell'orario di lavoro, riconoscimento dei sindacati nelle fabbriche, divieto del lavoro minorile) e degli stessi imprenditori (fissazione dei prezzi minimi, limitazione della produzione, blocco della concorrenza sleale ecc.).
Attenzione venne riservata anche al mondo delle classi più deboli (disoccupati, anziani, inabili), con una campagna mirata alla realizzazione di alloggi popolari per i meno abbienti e all'istituzione di norme pensionistiche e di previdenza sociale (Social Security Act, "legge per la sicurezza sociale", agosto 1935).
L'opposizione al programma di Roosevelt 
Questo dinamismo e questa indubbia tendenza alla programmazione economica furono fortemente osteggiati dalla corte costituzionale. La Corte giudicò infatti incostituzionali nel 1935 una parte di quelle norme che erano contenute nel Nira. Furono ostili anche diversi settori delle classi privilegiate, ma la politica e l'azione del governo, ingigantendo e razionalizzando la pratica dei lavori pubblici e tenendo sotto stretto controllo l'attività finanziaria del paese, crearono nuovi posti di lavoro, non soltanto riassorbendo la manodopera che era in eccesso, ma stimolando la macchina produttiva inceppata alla ripresa, favorendo il raggiungimento di un nuovo stato di benessere.
A dispetto delle pur forti opposizioni al suo programma, l'appoggio delle maggiori organizzazioni sindacali e delle masse popolari consentì al presidente  Roosevelt di riconfermarsi vincitore nelle elezioni successive del 1936.
Il contributo di John Maynard Keynes 
Le basi teoriche del nuovo credo economico prodotto dall'intervento rooseveltiano sono rintracciabili nell'opera dell'economista inglese John Maynard Keynes fautore di una visione innovativa del funzionamento del sistema economico basata sul concetto di domanda effettiva. Egli sottolineava come i difetti peggiori della società capitalistica a lui contemporanea consistessero nell'incapacità di provvedere a una piena occupazione e nel persistere del disequilibrio nella distribuzione delle ricchezze, aspetti legati all'erronea concezione monetarista secondo la quale gli investimenti sono generati dal risparmio.
Ovviare a questi difetti voleva dire ristrutturare radicalmente il sistema dall'interno, stimolando al massimo il ruolo dello Stato come utile guida allo sviluppo: "I sistemi moderni di Stato autoritario sembrano risolvere il problema della disoccupazione a scapito dell'efficienza e della libertà. È certo che il mondo non tollererà ancora per molto tempo la disoccupazione, che è associata - e, a mio parere, inevitabilmente associata - con l'individualismo capitalistico di oggi. Ma può essere possibile, mediante una corretta analisi del problema, guarire la malattia pur conservando l'efficienza e la libertà".
Gli Stati Uniti nell'America Latina 
Per quanto riguarda la straordinaria e vivace ripresa che permise agli Stati Uniti d'America di risollevarsi dalla pericolosa situazione di depressione generalizzata intervennero parecchi altri fattori.
Uno di questi fu senz'altro la possibilità di usufruire nell'enorme subcontinente americano di una valvola di compensazione quanto mai salutare e divenuta addirittura necessaria nel momento in cui le economie europee si chiudevano a riccio, attuando una politica di stampo rigidamente protezionista.
L'America Latina, infatti, era oramai divenuta un vero e proprio feudo degli Stati Uniti e la sua dipendenza economica dalla maggiore potenza continentale non poteva che accentuare gli antichi fenomeni di squilibrio politico e sociale, già manifestatisi con la prosecuzione della tradizione ottocentesca a dar vita a sistemi di governo autoritari, quando non addirittura dittatoriali.
Economie fondate sulla monocoltura e dipendenti, per tutta una serie di bisogni primari, dagli Stati Uniti, non conobbero sul piano politico corrispettivi diversi da quelli tradizionali, scanditi (con la sola eccezione di Messico e Cile) dall'avvento di regimi di stampo fascista.
Tale situazione risultò particolarmente evidente a Cuba, in Brasile e in Perú, dove dittatori come Fulgencio Batista, Getulio Vargas e Augusto Leguias s'impadronirono del potere traendo profitto dal susseguirsi di tensioni, di rivoluzioni e di faide interne, comuni a tutto il continente latino-americano.
Il rafforzamento del rapporto di subordinazione agli Stati Uniti, nonché il consolidarsi di ristrette oligarchie fondiarie e finanziarie, peraltro non sempre coincidenti con il fronte delle borghesie nazionali, finirono per confinare l'America Latina in una sorta di limbo di sottosviluppo, testimoniato dall'estrema miseria, dall'analfabetismo e dall'arrendevolezza delle sue masse popolari.

 

Europa: anni Trenta

La tendenza autoritaria e antiliberale in Europa 
Se in Italia il fascismo era apparso, come più tardi il nazismo in Germania, il risultato di una ben precisa evoluzione storica delle strutture produttive e degli equilibri istituzionali e di classe, altrove esso, o quanto di simile a esso vi fu, costituì la maschera del nuovo dietro la quale si celavano antiche propensioni reazionarie e accentratrici. Tali tendenze potevano anche rammentare, per certi voluti richiami e per alcuni obiettivi riscontri, il gesto compiuto da Mussolini con la marcia su Roma e con l'instaurazione del suo regime; tuttavia, esse assomigliavano piuttosto al risultato di lunghe crisi interne e di scompensi, che in Italia non erano mai emersi sotto tale forma.
Certo è che nel decennio 1920-30 sorsero, in molti paesi europei, movimenti nei quali alcuni aspetti del fascismo italiano - squadre armate, una guida prestigiosa ecc. - si univano a ispirazioni fondamentalmente antidemocratiche e fortemente impregnate di nazionalismo, oltre a una generica paura per il potenziale contagio da parte della rivoluzione bolscevica e un latente sentimento di ostilità nei confronti degli ebrei. Ciononostante, essi non riuscirono quasi mai (tranne in rarissimi casi) a organizzare una qualche forma di consenso, a differenza di quanto avvenne in Italia o in Germania.
Alla fine del decennio in questione solo pochissimi paesi europei oltre alla Francia e all'Inghilterra, conservavano ancora vivo il senso e le istituzioni di uno Stato democratico; anche in questi paesi - per esempio nella Cecoslovacchia di Masaryk e di Benes, o nella Romania di Juliu Maniu - era distintamente percepibile l'avvicinarsi di soluzioni di evidente stampo autoritario.
Altrove, come nella Grecia ancora incerta fra repubblica e monarchia (era caduta nel 1924 ma fu restaurata un decennio più tardi), la stessa gestione democratica di statisti quali Venizelos lasciò intravedere un deciso rafforzamento del potere esecutivo e un progressivo accentramento delle funzioni nella figura del capo del governo.
Il Portogallo di Salazar  
Il Portogallo fu tra quei paesi che non si limitarono alle semplici dichiarazioni di simpatia nei confronti del fascismo italiano misero in atto un robusto attacco alle istituzioni democratiche.
L'instaurazione della repubblica (1910) non valse a risolvere gli annosi problemi che affliggevano il paese, ma anzi contribuì a esasperarli, mettendo in luce la sostanziale insipienza della classe politica parlamentare. La rivolta militare che ne seguì, dopo che diversi tentativi per imporre una soluzione autoritaria erano andati a vuoto, condusse al potere il generale Oscar Carmona (1926). Carmona chiamò, in qualità di ministro delle finanze, l'economista António de Oliveira Salazar, personaggio dalle spiccate simpatie nei confronti del movimento filofascista dell'Action Française e delle istanze clericali più retrive presenti nel paese.
Divenuto nel 1932 capo del governo (carica che mantenne ininterrottamente per trentasei anni), Salazar impose la creazione del cosiddetto "Estado Novo" (Stato Nuovo), in base al quale il Portogallo diveniva una repubblica unitaria e corporativa, con poteri fortemente accentrati nella persona del presidente del Consiglio e la soppressione totale di ogni opposizione politica, del diritto di sciopero e della libertà di associazione. Il regime autoritario, che pure venne definito in maniera impropria "fascista", fu in realtà espressione e voce degli istinti reazionari della destra cattolica più retriva e conservatrice.
La situazione politica spagnola 
L’'analoga soluzione adottata in Spagna dal generale Primo de Rivera (1923) nacque da motivi differenti e a essa, come a quella portoghese, venne a mancare completamente un qualsiasi consenso di massa. La Spagna, stretta nella morsa della crisi economica susseguente la fine del conflitto - venuti meno i benefici dello stato di neutralità - si trovò a fare i conti da una parte con il pericolo di una soluzione "sovietica" all'interno, dall'altra con la rivolta indipendentista marocchina che minacciava di metterne seriamente in discussione il ruolo di potenza coloniale (l'esercito spagnolo venne poi duramente sconfitto nella battaglia di Annual, nel 1921).
Chiamato a dirigere il governo dal re Alfonso XIII, Primo de Rivera mise fine a un periodo di profonda instabilità politica, durante il quale la sfiducia nella democrazia parlamentare era venuta via via crescendo, di pari passo con l'ostilità alla monarchia da parte delle Cortes (cioè il Parlamento spagnolo) e le tentazioni golpiste da parte dei militari.
Instaurato il regime autoritario ed esautorate di fatto le stesse Cortes, de Rivera riuscì a ristabilire l'ordine pubblico e a migliorare notevolmente le condizioni economiche del paese, grazie anche a un vasto programma di opere pubbliche e di intensificazione del processo di industrializzazione. La parentesi all'interno della vita costituzionale e democratica del paese si chiuse momentaneamente nel 1930, con l'abbattimento della dittatura, al quale fece seguito, l'anno successivo, anche quello della monarchia.
Gli stati balcanici 
Una delle aree geografiche europee che maggiormente subì il fascino del movimento mussoliniano fu quella balcanica. Sovrani, reggenti e capi di Stato vennero concentrando nelle proprie mani una quantità sempre maggiore di potere, sopprimendo via via le istituzioni parlamentari nei paesi a tradizione democratica, e ritardandone all'infinito la creazione in quelli dove non erano mai esistite.
Regimi autoritari furono istituiti in Ungheria, dove i grandi proprietari terrieri e la Chiesa fornirono il loro incondizionato appoggio al governo di estrema destra dell'ammiraglio Horthy (1920), in Polonia, con l'instaurazione del governo Pilsudski (1926), in Albania, con la monarchia di re Ahmed Zogu (1928), e in Iugoslavia, con re Alessandro I (1929).
Tutti questi regimi, o "governi forti", concorrevano a formare il quadro di una situazione in cui il fascismo aveva attecchito come simbolo della risoluta reazione anticomunista e come argine all'avanzata di ideologie e dottrine economiche capaci di terrorizzare i ceti più elevati e i conservatori di tutta Europa. Anche in altri paesi - in Romania, in Bulgaria, in Grecia - la destra conservatrice, pur non riuscendo ad attuare una rivoluzione di tipo fascista, venne comunque esercitando una pressione crescente sull'attività dei governi, condizionandone pesantemente l'operato in senso anticomunista.
I regimi autoritari a base di massa 
Se la pregiudiziale antibolscevica fu una delle caratteristiche comuni ai regimi reazionari di destra, è altrettanto vero che fu soprattutto il consenso di massa (e dei ceti medi in particolare) a caratterizzare il fascismo italiano rispetto alle dittature monarchiche o militari.
Sotto questa luce, molto più simili al movimento inaugurato da Mussolini erano i governi di monsignor Seipel e, in seguito, di Dollfuss in Austria, oppure quello guidato dai nazionalisti del Fianna Fail in Irlanda, tutti più vicini al modello italiano per la natura di regimi reazionari a base di massa.
L'Unione Sovietica di Stalin 
Stalin arrivato al potere dopo la morte di Lenin (1924) diede immediatamente avvio a una radicale ristrutturazione dell'intero del sistema economico, abbandonando bruscamente il processo che era stato iniziato nel 1921 con l'inaugurazione della Nuova Politica Economica.
Nel 1927 venne pertanto affidato al Gosplan, che era la Commissione statale per la pianificazione istituita sei anni prima, il compito di elaborare un piano quinquennale di sviluppo economico finalizzato alla trasformazione dell'Urss da paese prevalentemente agrario a stato moderno sorretto da una struttura industriale avanzata.
Benché i dibattiti fra gli economisti avessero sin dagli anni Venti sottolineato la necessità di ancorare le premesse dello sviluppo industriale a un deciso incremento della produzione agricola, e nonostante vi fossero anche alcuni esponenti del partito che premevano affinchè il trasferimento di risorse dal mondo agricolo a quello industriale avvenisse in maniera graduale, Stalin scelse la via più intransigente, attingendo dall'agricoltura in modo indiscriminato tutte quelle risorse che avrebbero invece potuto garantire maggiore slancio al processo di industrializzazione.
Venne così attuata una radicale trasformazione dell'assetto giuridico del mondo rurale sovietico, caratterizzato ora da una forte collettivizzazione delle attività agricole, anche a prezzo di sofferenze e sacrifici inauditi da parte di tutta la popolazione delle campagne; furono letteralmente cancellati i "kulaki", o contadini-proprietari, attraverso violente misure repressive, e istituite aziende agricole collettive a gestione cooperativa (kolkhoz) oppure a diretta gestione statale (sovkhoz); la produzione industriale, in special modo quella pesante e di base, venne quasi triplicata anche grazie allo sfruttamento di nuovi giacimenti carboniferi e alle pesanti limitazioni imposte alla realizzazione di beni di consumo, mentre venne dato un grande impulso per la produzione e per la diffusione di energia elettrica.
I risultati della pianificazione economica forzata 
Mentre l'agricoltura riusciva ancora ad assicurare la copertura del fabbisogno interno, anche in virtù della rigorosa politica di restrizione dei consumi, l'Unione Sovietica si avviò negli anni Trenta a diventare una delle maggiori potenze politiche ed economiche mondiali, riuscendo a esercitare meglio, da un punto di vista ideologico e pratico, il suo ruolo di nazione-guida per le forze di opposizione comuniste in tutti gli altri paesi.
Lo sforzo immane e i sacrifici ai quali il popolo sovietico aveva dovuto piegarsi per recuperare le posizioni che lo dividevano dai paesi più industrializzati sembrava, almeno apparentemente, aver dato i suoi frutti: la produzione industriale venne triplicata tra il 1928 e il 1933, mentre nello stesso periodo venne completamente riassorbita la manodopera (grazie anche al gigantesco piano di opere pubbliche finanziato dallo Stato) e il prodotto interno lordo fece un balzo di quasi il 130%.
Progressi minori fece registrare invece il comparto agricolo, che pure venne attraversato da radicali processi di ristrutturazione, con la liquidazione completa della classe dei kulaki e oltre 9 milioni di aziende contadine riunite nei kolchoz. Il successo dell'industrializzazione a tappe forzate, se da un lato aveva rafforzato l'immagine e la posizione di Stalin, oramai considerato il principale artefice dei progressi sovietici in campo economico, dall'altro non aveva eliminato i contrasti politici interni alla classe dirigente del paese.
L'opposizione ai seguaci della pianificazione forzata nasceva sia dal rinvigorirsi delle forze controrivoluzionarie sia dall'atteggiamento fortemente critico di quegli esponenti del partito, come Bucharin, Zinov'ev e l'esiliato Trockij, che giudicavano estremamente pericolose per la rivoluzione le condizioni nelle quali erano stati costretti i contadini in nome della collettivizzazione imposta.
Le "purghe" staliniane 
Per fronteggiare il malcontento che sempre più serpeggiava nel partito e anche tra le fila dei suoi più stretti collaboratori, Stalin diede il via a una serrata campagna di epurazione che, prendendo le mosse dall'assassinio di Kirov (1934), portò nel giro di quattro anni alla persecuzione e all'eliminazione violenta di centinaia di migliaia di persone. Nessun ambito della vita sociale, culturale, politica ed economica del paese rimase al riparo dalla furia vendicativa di Stalin e del Commissariato del popolo per gli Affari Interni (Nkvd), al quale furono demandati i compiti di polizia e di salvaguardia delle istituzioni rivoluzionarie; il partito e l'esercito furono letteralmente decapitati, con la soppressione della maggior parte dei membri del Comitato centrale del partito (processo dei Sedici, 1936, e dei Diciassette, 1937) e praticamente di tutto lo stato maggiore dell'Armata Rossa (processo dei Ventuno, 1938).
Milioni di persone in tutta l'Unione Sovietica, intellettuali, insegnanti, operai, furono costrette a subire persecuzioni, interrogatori e privazioni, e alla fine vennero avviati nei campi di lavoro della Russia settentrionale e in Siberia, e di molti di loro non si ebbero più notizie.
L'Unione Sovietica  nella comunità internazionale 
A fronte di questi aspetti negativi, determinati in massima parte dalla rigida interpretazione staliniana del marxismo-leninismo, si ebbero anche risvolti di segno opposto, come il riconoscimento dell'Unione Sovietica da parte degli Stati Uniti (soprattutto per contrastare l'ascesa giapponese nel continente asiatico, 1933) e l'ammissione nell'alveo della Società delle Nazioni (1934).
Tali provvedimenti, che attenuarono notevolmente l'isolamento internazionale dell'Unione Sovietica, favorirono successivamente l'avvicinamento a paesi come la Francia e la Cecoslovacchia (trattati franco-sovietico e ceco-sovietico di mutua assistenza e non aggressione, 1935). Inoltre, nel campo della lotta al fascismo, particolare importanza assunse l'abbandono della deleteria dottrina del "socialfascismo" e l'avallo, fornito dal VII Congresso del Comintern (1935), alla nuova linea dei partiti comunisti europei, autorizzati ora a ricercare alleanze tattiche con la socialdemocrazia e la borghesia liberale.
L'Italia e l'abbandono della politica filoccidentale 
L'ascesa di Hitler in Germania ebbe immediate ripercussioni sul sistema degli equilibri determinatisi nel decennio successivo alla fine della guerra, influendo in modo determinante sul rimescolamento delle alleanze.
I tempi mostravano, in seguito ai recenti sviluppi, come le posizioni dell'Italia e dei suoi alleati, Francia e Inghilterra, non potessero più coincidere, certamente non sulla base di quell'accordo di Locarno del 1925 che garantiva, da parte italo-inglese, sia le frontiere francesi sia quelle tedesche in caso di attacco dell'una o dell'altra potenza.
Se è vero che in occasione del fallito colpo di stato nazista in Austria (1934) l'Italia aveva mostrato una certa determinazione, inviando dei reparti armati al Brennero, e sebbene la conferenza di Stresa (aprile 1935) mostrasse ancora una sostanziale concordanza di vedute fra i vecchi alleati del fronte antitedesco (dichiaratisi uniti nell'opporsi con ogni mezzo a qualunque revisione dei trattati stabiliti a Versailles e tale da mettere a repentaglio la pace in Europa), Mussolini cominciò a guardare con spirito sempre più competitivo al collega tedesco, lasciandosi trascinare da Hitler sul terreno minato dell'espansionismo territoriale.
Le remore relative al progressivo abbandono della politica filo-occidentale da parte di Benito Mussolini risultarono affievolite dal comportamento ambiguo tenuto dall'Inghilterra, che soltanto due mesi dopo l'incontro di Stresa, concluse un accordo navale con la Germania nazista (giugno 1935).
La guerra in Etiopia 
Oltre ai problemi di ordine diplomatico, anche la crisi economica e, soprattutto, la necessità di garantire, dopo un periodo di tredici anni di potere, quel dinamismo indispensabile a tenere desta l'attenzione e il consenso popolare al regime, svolsero un ruolo determinante nell'orientare il fascismo verso l'avventura coloniale. Nel contesto internazionale appena descritto maturò la decisione mussoliniana di dare avvio alla spedizione militare in Etiopia.
Prendendo come spunto gli scontri avvenuti a Ual Ual, presso il confine tra Somalia ed Etiopia (dicembre 1934), Mussolini - dopo aver eluso il parere contrario della Società delle Nazioni e i tentativi di mediazione di Francia e Inghilterra - ordinò l'avvio delle operazioni militari (3 ottobre 1935).
Superando anche il velleitario spirito sanzionatorio della Società delle Nazioni - tra l'altro, i provvedimenti economici adottati l'11 ottobre riguardarono solo alcuni aspetti marginali, escludendo qualsiasi limitazione nelle forniture all'Italia di petrolio, carbone e acciaio - con il quale l'organismo ginevrino mostrò la propria inadeguatezza di struttura finalizzata alla risoluzione pacifica delle controversie internazionali, Mussolini poté trionfalmente annunciare, dopo sette mesi di guerra, la conquista dell'Etiopia e la successiva creazione dell'impero (9 maggio 1936).
La vittoria nell'anacronistica guerra coloniale contribuì indubbiamente a consolidare il regime, facendo crescere al suo cospetto un vastissimo consenso testimoniato anche dalle adesioni individuali di personaggi fino ad allora rimasti nel campo dell'opposizione.
Gli antifascisti, che all'estero guardavano al conflitto come a una delle possibilità di innescare un processo di rivolta generale contro Benito Mussolini e il fascismo, furono costretti, almeno per il momento, a ricredersi.
Le conseguenze  sulla politica estera italiana 
L'avventura africana ebbe implicazioni immediate sulla politica estera italiana. Oltre a screditare definitivamente il ruolo attribuito alla Società delle Nazioni, all'interno della quale Francia e Inghilterra mostrarono i loro limiti nell'esercitare il ruolo di potenze mondiali, il gesto bellico italiano andava oramai nella direzione di uno scioglimento delle antiche alleanze, avvicinando sempre di più l'Italia alla Germania.
Nel corso del 1936, i contatti diplomatici fra i due paesi si infittirono e il tacito sostegno offerto dal nazismo all'impresa etiopica venne immediatamente ricambiato con la decisa opposizione da parte italiana a qualsiasi proposta di sanzione nei confronti della decisione tedesca di militarizzare la striscia di territorio lungo il confine franco-belga in Renania (marzo 1936).
Di contro, si assistette, sempre nel medesimo periodo, a un crescendo di atteggiamenti contro gli inglesi nelle campagne di stampa orchestrate dal regime e dalla propaganda fascista.
I forti punti di contatto tra le due dittature, primo fra tutti la condivisa avversione nei confronti del comunismo, avrebbero funzionato da collante ideologico indissolubile, trascinando definitivamente l'Italia nell'orbita tedesca.
La situazione di instabilità in Francia 
L'insegnamento e l'esempio fornito dai regimi autoritari tedesco e italiano non fecero proseliti soltanto nell'Est dell'Europa. Anche in Francia, la destra radicale si strutturò in raggruppamenti e movimenti organizzati - l'Action Française fu forse il più conosciuto fra questi - che miravano alla destabilizzazione dello stato democratico.
Sintomatico fu l'inutile tentativo di colpo di stato messo in atto nel febbraio 1934. Nella lotta contro l'affermazione di una destra autoritaria filofascista, la Francia poté contare oltre che su uno schieramento politico compatto, anche su di un grosso movimento popolare democratico, che manifestò in maniera decisa contro ogni tentativo di sovversione dell'ordine costituzionale.
Ciononostante, la situazione politica all'interno del paese rimaneva contrassegnata da un'estrema instabilità, a causa anche della pesante recessione che stava colpendo tutti i settori dell'economia francese; nel giro di nemmeno due anni, dal febbraio 1934 alla fine del 1936, si succedettero, con scarsa fortuna, i governi di Gaston Doumergue, di Pierre-Étienne Flandin, di Pierre Laval e di Albert Serraut, senza che venissero peraltro avanzate soluzioni valide sia per quanto riguarda le tentazioni sovversive della destra sia per ciò che concerne il superamento della crisi.
La nascita del Fronte Popolare 
A smuovere la situazione venne il consenso del Comintern, riunito a Mosca nel VII congresso (1935), alla nuova linea dei partiti comunisti europei: la pericolosa avanzata del fascismo spingeva in secondo piano le prevenzioni di ordine ideologico contro la socialdemocrazia "socialfascista" ed esigeva la creazione di un fronte unitario, che raccogliesse le diverse forze politiche schierate a difesa della democrazia.
Fu proprio il Partito comunista francese, alla guida di Maurice Thorez, a proporre la creazione di un'alleanza democratica (maggio 1934) che fosse in grado di riunire, oltre ai comunisti e ai socialisti, tutte le forze politiche antifasciste.
Nasceva in tal modo il Fronte Popolare che, dopo il netto successo nelle elezioni per il rinnovo del parlamento (giugno 1936), consentì la formazione di un governo di coalizione guidato dal socialista Léon Blum. Il governo del Fronte Popolare rappresentò la concreta espressione dell'unità di azione fra comunisti, socialisti e radicali.
Esso manifestò il suo carattere profondamente innovativo non solo nella esplicita volontà di emarginare i movimenti eversivi di destra, ma anche nella vasta attività riformatrice diretta al miglioramento delle condizioni economiche e sociali delle classi lavoratrici.

 

L'ascesa del nazismo

  La situazione critica della Germania 
La Germania fu forse il paese europeo nel quale le ripercussioni della crisi scaturita dal"venerdì nero" di Wall Street si fecero sentire in modo più impressionante e gravido di conseguenze per il futuro del continente e del mondo intero. La ripresa economica tedesca era stata propiziata dal cospicuo flusso di capitali provenienti dagli Stati Uniti che, sprofondati ora nel vortice della recessione economica, si vedevano costretti a ritirare in tutta fretta, o comunque a ridurre drasticamente, le somme investite all'estero.
Questa circostanza, insieme agli altri fattori che stavano attanagliando in una morsa di ferro l'agricoltura e l'industria europea, portò a una paralisi totale dell'apparato produttivo tedesco: il primo sintomo della crisi fu il rapido aumento dei disoccupati.
A distanza di pochissimi anni, sembravano ripresentarsi le condizioni di disagio conosciute all'indomani della guerra. Lo spettro della terribile crisi, ad allontanare il quale parevano impotenti gli uomini di governo della repubblica di Weimar, non si abbatté soltanto sui lavoratori tedeschi più deboli; colpì indistintamente vasti strati del mondo operaio, agricolo e impiegatizio, senza peraltro risparmiare la media borghesia.
Fu il terreno di coltura ideale per quel virus nazista che dagli anni Trenta cominciò a diffondersi incontrollato nell'organismo appena convalescente della Germania e dell'Europa, con tempi e modalità che ricordavano da vicino l'avvento della dittatura mussoliniana.
Il nazismo e le trasformazioni degli anni Trenta 
Il nazionalsocialismo (o "nazismo", come venne meglio conosciuto), alla formazione ideologica del quale Hitler aveva conferito (in un libro scritto in carcere, Mein Kampf, La mia battaglia, 1925), i caratteri del reazionarismo fascista, non solo fu in grado di inserirsi con forza nel campo degli scontri di piazza, ma, come in parte era già avvenuto in Italia, riuscì anche a guadagnarsi la fiducia di una massa enorme di persone rovinate dalla recessione economica.
Senza nemmeno fare ricorso a gesti clamorosi, quale era stata circa dieci anni prima la marcia su Roma, il nazismo fece leva sul malcontento di queste masse emarginate, su questi "nuovi poveri" o potenzialmente tali, per arrivare, nel 1932, a impadronirsi legalmente del potere. In ultima analisi, il successo di Hitler e del nazionalsocialismo fu in larga parte il risultato dell'abilità nel battere insistentemente il tasto di una paura collettiva e nel mettere intelligentemente a frutto quella che un critico ha definito la "politica dell'angoscia".
Gli anni Trenata videro anche altre importanti trasformazioni in tutto il mondo: la diffusione a macchia d'olio dei regimi autoritari filofascisti, la stabilizzazione del potere staliniano in Unione Sovietica, la crescita del consenso al regime in Italia, la guerra civile in Spagna, la formidabile ripresa degli Stati Uniti, la prepotente ascesa giapponese nel continente asiatico. Tutti questi elementi contribuirono, in forma più o meno accentuata, a preparare il terreno allo scoppio di un nuovo e più terribile conflitto mondiale.
La Germania tra gli anni Venti e Trenta 
La ripresa seguita alla fine del primo conflitto mondiale aveva in parte contribuito a rafforzare le istituzioni democratiche della repubblica di Weimar, la cui esistenza era garantita proprio dall'appoggio di quella piccola borghesia (impiegati e operai) che aveva tratto i maggiori benefici in termini occupazionali dal miglioramento della situazione economica. Tuttavia la sopravvivenza della repubblica fu continuamente messa in discussione dalla prolungata fase di instabilità politica, alla quale neppure il governo di coalizione guidato dal socialdemocratico Hermann Müller - e composto da cattolici, liberali e socialdemocratici (giugno 1928) - riuscì a porre rimedio. L'aggravarsi della situazione economica, con i primi segnali della recessione da oltreoceano, provocò immediatamente una frattura insanabile all'interno del governo, acuita dal pesante attacco rivolto dai sindacati al mondo industriale e allo stesso esecutivo, ritenuti colpevoli di far pagare alle classi più deboli il prezzo maggiore della crisi.
Di fronte all'apparente irrimediabilità della situazione, Müller cedette il posto di cancelliere a uno degli esponenti del partito di centro, il cattolico Heinrich Brüning (1885-1970), sprezzante delle istituzioni parlamentari e fervido ammiratore dell'ordine e della disciplina che avevano caratterizzato lo stato guglielmino.
Con il passaggio di consegne alla guida del governo (marzo 1930), venne decretato il fallimento della parentesi weimariana, caratterizzato, oltre che dalla conversione a destra della piccola borghesia e dal forte ostruzionismo esercitato dalle opposizioni di sinistra, anche dall'elevato grado di politicizzazione delle forze armate, dalla mancata ristrutturazione dell'apparato burocratico e, soprattutto, dalla difettosa stabilizzazione economica del paese anche dopo l'arrivo degli aiuti finanziari stranieri.
Le elezioni del 1930 
Brüning impostò il suo programma anti-crisi puntando su una politica antinflazionistica (difesa della moneta, aumento delle tasse sul reddito, riduzione dei salari e dei prezzi), che fece attuare per decreto presidenziale (sulla base dell'articolo 48 della Costituzione) con l'appoggio dell'ottantaduenne capo dello Stato, Hindenburg, non essendo egli in grado di contare su una maggioranza parlamentare affidabile.
Superata in tal modo l'opposizione del Reichstag (il parlamento tedesco), Brüning sciolse d'autorità le Camere indicendo nuove elezioni. I risultati delle votazioni (settembre 1930), a dispetto delle speranze del capo del governo, premiarono le forze politiche situate alle ali estreme dell'arco costituzionale, i comunisti (77 deputati e + 2,5% di voti rispetto alle elezioni del 1928) e soprattutto i nazionalsocialisti di Hitler (107 deputati e + 15,7%), a fronte della sostanziale tenuta del partito di Centro (68 deputati) e del sorprendente arretramento dei socialdemocratici (143 deputati e -5,3% rispetto al 1928).
I risultati mostravano, nella crudezza delle cifre, che il malcontento per la situazione era piuttosto diffuso e il bisogno di un governo forte evidente; inoltre, l'atmosfera creata dalla pesante crisi istituzionale - aggravata dallo stato di profonda tensione nel quale si era svolta la campagna elettorale, con la violentissima propaganda antidemocratica della destra e dei nazisti - venne ulteriormente arroventata dai provvedimenti governativi miranti alla riduzione dei sussidi di disoccupazione.
Il mondo agrario era anch'esso in forte subbuglio per il timore che la caduta verticale dei prezzi agricoli sui mercati mondiali pregiudicasse in maniera definitiva le sue posizioni. Lo spettro della disoccupazione si aggirava sempre più minaccioso fra le masse operaie (i senza lavoro passavano, nel solo biennio 1931-1932, da 4,4 a 6 milioni), mentre anche le istituzioni finanziarie e le banche cominciavano a mostrare i primi segni della crisi (fallimento della Danat Bank, risalente al luglio 1931).
L'ascesa del nazismo 
Le condizioni della Germania agli inizi degli anni Trenta erano, quindi, tali da offrire numerose occasioni a qualunque politicante o demagogo avesse promesso ordine e risanamento dell'economia. Hitler fece molto di più, e la sua ascesa fu dovuta in parte alla sua abilità nel convincere diversi settori della popolazione che i loro desideri erano coincidenti con gli obiettivi nazionalsocialisti, in parte alla sua grande capacità di manipolare gli uomini e gli eventi.
Hitler cercò immediatamente di trarre il maggior vantaggio possibile da una situazione quale quella ora descritta, avanzando presso l'anziano presidente Hindenburg l'esplicita richiesta di una partecipazione nazista al governo, mentre nuove massicce dimostrazioni di forza da parte delle formazioni paramilitari hitleriane (le Sturm-Abteilungen, o SA) portavano al massimo grado il clima di tensione nel paese.
La passività dimostrata dal capo del governo Brüning nel fronteggiare l'evolvere della situazione, risultò ancora più evidente dopo la rielezione di Hindenburg alla massima carica dello Stato (aprile 1932). Il suo atteggiamento si tradusse addirittura in completa arrendevolezza di fronte all'incalzare delle pressioni della destra, risolvendosi nella consegna delle sue dimissioni da capo del governo (maggio 1932).

Adolf Hitler e le basi del nazionalsocialismo

Nato a Braunau, in Austria, Adolf Hitler (1889-1945) si nutrì dei sentimenti del nazionalismo pantedesco e dell'antisemitismo nel clima della Vienna di inizio secolo. Trasferitosi a Monaco nel 1913, entrò a far parte dell'esercito tedesco, con il quale partecipò al primo conflitto mondiale.
Dopo la guerra, entrato nel Partito dei lavoratori tedeschi, ne divenne in breve una delle figure carismatiche. Parallelamente alla trasformazione del partito in "nazionalsocialista" (febbraio 1920), Hitler enunciò il suo programma, basato sulla revisione del trattato di Versailles, sulla creazione di un grande Reich (impero) tedesco, sulla discriminazione razziale e su riforme radicali a favore della piccola borghesia.
Condannato a un breve periodo di reclusione in seguito al fallito tentativo di colpo di stato di Monaco (novembre 1923), Hitler perfezionò in carcere i principi della sua dottrina.
Nel Mein Kampf, testo redatto nel corso della sua detenzione, egli espose il principio della lotta per la sopravvivenza tra i popoli, il metro del successo dei quali era rintracciabile nella purezza della razza e, di conseguenza, nell'eliminazione del pericolo di contaminazione costituito dall'elemento ebraico.
Il nucleo centrale dell'ideologia hitleriana e nazionalsocialista, imperniato sul "Führerprinzip" (che significa "principio del capo"), deve essere ricercato nella tesi della superiorità della razza ariana (o nordica in genere) sugli altri popoli, nel mito del superuomo (desunto dalle teorie del filosofo Friedrich Nietzsche) e nella necessità, per la Germania, di conquistare un proprio "Lebensraum" (o spazio vitale), individuato nei territori a est del paese, dove collocare la popolazione in eccesso.
Uscito dal carcere nel 1924, Hitler si rese conto che per giungere al potere avrebbe dovuto creare una struttura di partito decisamente più solida e, più di ogni altra cosa, rafforzare il consenso popolare alla sua azione, assicurandosi, almeno fino a che la recessione non gli procurò una base di massa, l'appoggio economico di esponenti della grande industria e della finanza.
Quando la crisi colpì la Germania, il meccanismo della macchina nazista si mise immediatamente in moto, e le promesse hitleriane giocarono un ruolo decisivo nell'attirare le simpatie di una gran parte dell'elettorato.
La conquista del potere 
L'erede di Brüning fu il nobile cattolico Franz von Papen (eletto nel giugno 1932), che, di fatto, preparò il terreno alla partecipazione ufficiale del nazionalsocialismo al governo. Hitler aveva promesso di appoggiare il nuovo governo di von Papen in cambio di nuove elezioni e della revoca del decreto di scioglimento delle SA (provvedimento sul quale si era arenato Brüning).
Convinti di poter ricondurre in qualche modo il nazismo nei binari della legalità parlamentare e di smussarne gli eccessi di violenza, i conservatori e la destra in genere finirono per rimanere ammaliati dal gioco di Hitler, soggiacendo alle sue richieste sempre più pressanti. Von Papen, da poco insediatosi alla cancelleria, si affrettò quindi ad attuare importanti provvedimenti in tal senso, procedendo non solo alla riabilitazione delle SA (giugno 1932) e allo scioglimento del governo prussiano Braun-Severing che aveva reclamato contro il susseguirsi delle violenze naziste (luglio 1932), ma accettando di indire immediatamente nuove elezioni per il rinnovo del parlamento.
I risultati mostrarono in modo inequivocabile la crescita del Partito nazionalsocialista, che, rispetto alle votazioni del 1930, vide più che raddoppiato il numero dei consensi (37,4% dei voti per un totale di 230 seggi, il primo partito tedesco in assoluto), mentre sia i socialdemocratici sia i popolari mostrarono preoccupanti segni di cedimento.
Hitler cancelliere: la fine della democrazia 
Dopo che Hitler ebbe rifiutato un suo coinvolgimento al governo come vicecancelliere, von Papen si vide costretto a sciogliere il parlamento e a fare nuovamente ricorso alle urne. Nelle elezioni che seguirono (novembre 1932) i nazisti persero circa due milioni di voti (33,1% del totale), alimentando, soprattutto nelle opposizioni, la speranza illusoria che il fenomeno avesse oramai toccato il punto più alto e non potesse proseguire oltre nella sua ascesa.
A fronte della riluttanza del presidente Hindenburg a incaricare Hitler, il governo venne affidato alla guida del generale Kurt von Schleicher, che tentò di formare una maggioranza parlamentare con l'appoggio dell'ala moderata del Partito nazionalsocialista e dei sindacati cristiani (dicembre 1932 - gennaio 1933). Fallito questo tentativo, Hindenburg, fatto oggetto di pressioni da parte dello stesso von Papen, si rassegnò ad affidare la carica di cancelliere a Hitler, che coronava così il suo sogno di affossare definitivamente il regime costituzionale e democratico della Repubblica di Weimar (gennaio 1933).
La propaganda del nazismo 
Nella Germania dell'epoca hitleriana, ancora più che nello stato italiano, una grande importanza strategica ai fini della stabilizzazione del regime e del rafforzamento del consenso venne attribuita al ruolo della propaganda.
La nazistificazione del paese ("Gleichschaltung", o uniformazione) e dell'apparato burocratico e statale su vasta scala poteva avvenire non solo con l'appoggio incondizionato di industriali e alta finanza, ma anche e soprattutto attraverso l'adesione più o meno entusiastica dell'opinione pubblica all'ideologia nazionalsocialista.
Ecco allora la necessità di instillare nelle masse tedesche la coscienza di appartenere a una entità statuale unica e superiore, resa forte dall'ancestrale legame tra uomini appartenenti alla stessa razza e vincolati da un patto di sangue.
Hitler puntò quindi sull'esaltazione di temi, valori, miti e simboli che si rifacevano al "Volk", al popolo, cercando di far riemergere ciò che di più genuinamente germanico vi era nei tedeschi attraverso il loro riconoscersi nelle proprie tradizioni e nella propria cultura.
Il nazismo, a differenza del fascismo italiano, non puntò di conseguenza sulla creazione di un "uomo nuovo", che scaturisse dall'acquisizione di nuovi valori; esso cercò, al contrario, di proporsi come ideale momento di recupero di tutto quel bagaglio culturale e ideologico - irrazionalismo, medievalismo, saghe dei Nibelunghi - che avrebbe dovuto riportare l'uomo tedesco alla purezza dell'età barbarica.
Goebbels ministro della cultura 
Hitler decise quindi di affidare il compito, delicatissimo, di orientare il consenso al giovanissimo Joseph Goebbels (1897-1945). Messosi in luce alla direzione del giornale berlinese "Angriff", Goebbels entrò nelle fila del partito nel 1925, divenendo nel breve volgere di tre anni il responsabile della propaganda.
Dopo il 1933, in seguito alla nomina a cancelliere di Hitler, divenne ministro per la cultura popolare e la propaganda, sovrintendendo all'intera vita culturale e a tutti mezzi d'informazione del paese. Egli fece uso in maniera instancabile di tutti i nuovi mezzi di comunicazione di massa (dal cinema, alla radio, alla fotografia), delle parate e delle adunate oceaniche per propagandare le parole d'ordine, gli slogan e le immagini della retorica nazista. Le stesse scuole di ogni ordine e grado e le università, dalle quali furono espulsi i docenti non ariani (cioè, di pura razza tedesca), vennero totalmente subordinate alle esigenze formative del partito; allo stesso modo, l'educazione delle masse studentesche venne ispirata a criteri e principi di tipo nazista, e lo stesso Mein Kampf fu adottato come libro di testo obbligatorio per la formazione politica.
L'operato della censura 
Mentre la Camera della cultura del Reich regolava le attività culturali di ogni genere, mettendo al bando chiunque non avesse fatto pubblica dichiarazione di fede nazista, la censura colpiva indiscriminatamente autori comunisti ed ebrei, o comunque tutti coloro che coltivavano idee ritenute pericolose per la sicurezza del regime. In questo clima   si svolse, il 10 maggio 1933, la cerimonia della messa al rogo dei libri condannati dal regime e, da allora in avanti, le opere di molti fra i più noti scrittori tedeschi e stranieri sarebbero state messe al bando. Centinaia di uomini di cultura - fra gli altri, Thomas Mann, Walter Gropius, Bertolt Brecht, Karl Jaspers - e decine e decine di scienziati - fra i quali lo stesso Albert Einstein - che non aderirono al nuovo corso furono costretti a riparare all'estero.

 

La commedia cinematografica durante il nazismo

Il cinema, durante i tredici anni del dominio nazista, non fu fatto soltanto di enfatiche ricostruzioni storiche e di appelli per il Führer e per la patria.
C'era anche il genere leggero e d'evasione (o "d'intrattenimento", come si direbbe oggi), fatto di trame sostanzialmente stereotipate, intrecci a lieto fine, con risvolti comici e sentimentali.
Proprio alle commedie cinematografiche Goebbels attribuì compiti pedagogici, che in alcuni casi erano più importanti di quelli pensati per i film di pura propaganda o per le opere dichiaratamente militanti, quali, tanto per citare un esempio Hitlerjunge Quex, di Hans Steinhoff, o Suss l'ebreo, di Veit Harlan.
I protagonisti e i registi dovevano diventare accompagnatori fidati del popolo, affiancandolo nei momenti di gioia e in quelli di dolore, assumendo ora il ruolo di trascinatori, ora di consolatori. Le commedie divennero, nella mente acutissima di Goebbels, una potente arma segreta da poter usare sul fronte interno per arginare contemporaneamente la depressione e il disfattismo. In tal senso vennero usate soprattutto nel periodo immediatamente successivo alla disfatta di Stalingrado, quando i film sentimentali e le pellicole musicali superarono il 50% della produzione nazionale.
Se durante il periodo prebellico lo sforzo compiuto dalla cinematografia leggera tedesca venne diretto prevalentemente a mettere in luce, dietro la parodia della commedia, le caratteristiche di dominatore dell'uomo nazista, con lo scoppio della guerra esso fu teso invece alla mobilitazione di forze strategiche, finalizzate a rafforzare il consenso alla lotta imperialistica del regime.
L'incendio del Reichstag 
Il nuovo governo di coalizione, formato da nazionalisti, indipendenti, cattolici e nazisti, comprendeva solo tre ministri hitleriani e per ciò stesso a molti apparì come una vittoria delle posizioni normalizzatrici, di quanti vedevano nella sua partecipazione alla gestione del potere uno smussamento delle punte più estreme del nazionalsocialismo.
In realtà, il carattere eversivo del regime fu messo in chiaro sia dalla volontà di Hitler di far fallire i negoziati con il Centro, atti al raggiungimento di una maggioranza stabile (e che si risolse con un ennesimo scioglimento delle Camere e la chiamata a nuove elezioni) sia dall'incendio che, nella notte del 27 febbraio 1933, distrusse completamente il palazzo del Reichstag e la responsabilità del quale venne immediatamente addossata ad attentatori comunisti. Quest'ultimo episodio, nel pieno della campagna elettorale, fornì ai nazisti il pretesto per esasperare il clima politico e colpire le opposizioni, presentandosi alle urne nelle vesti di salvatori della Germania dal "pericolo rosso".
Le elezioni del 1933 e il rafforzamento della dittatura 
I risultati delle elezioni (5 marzo 1933) confermarono le più rosee aspettative di Hitler e dei suoi seguaci, dando al Partito nazionalsocialista la maggioranza relativa (43,9%) e la possibilità, attraverso la quota aggiuntiva dell'alleato Partito nazional popolare (8,8%), di ottenere il formale controllo del Parlamento. Mentre il Reichstag, dal quale erano stati espulsi i comunisti, votava la legge sui pieni poteri demandando al governo ogni futura decisione (23 marzo 1933), le "leggi per la difesa del popolo tedesco" sospendevano di fatto i diritti e le libertà che erano state sancite dalla carta costituzionale.
Subito dopo, venivano sciolti i parlamenti regionali e il potere trasferito a governatori di nomina presidenziale su proposta del capo del governo (31 marzo 1933). Annientate le opposizioni e i sindacati, ed esautorato il parlamento, nei due anni successivi al suo insediamento Hitler procedette al progressivo rafforzamento della dittatura.
Una volta sbarazzatosi degli oppositori interni e di molti avversari politici ("notte dei lunghi coltelli", 30 giugno 1934) e aver assunto la carica di Presidente della repubblica dopo la morte di Hindenburg (2 agosto 1934), Hitler affidò la guida della polizia al nuovo braccio armato del nazismo, le SS, e il ruolo di polizia segreta di Stato alla Geheime Staatspolizei, o Gestapo.
La creazione della Suprema corte popolare e del Tribunale del popolo, che venivano preposti al giudizio dei crimini commessi da antinazisti, rafforzò il regime anche dal punto di vista dell'amministrazione della giustizia.
I rapporti con la Chiesa 
I rapporti con il Vaticano, durante la prima fase della dittatura nazista, furono regolati da un Concordato (settembre 1933) in base al quale la Chiesa, pur sciogliendo le sue organizzazioni politiche e sociali, conservava il diritto di gestire scuole e sovrintendere alle sue funzioni educatrici. Ben presto, tuttavia, il regime mise fortemente in discussione proprio il ruolo pedagogico della Chiesa, avocando a sé il monopolio assoluto dell'educazione.
Le alte gerarchie ecclesiastiche, di fronte all'irrigidimento tedesco, presero inizialmente posizione, ma si trattò quasi sempre di iniziative isolate, che non sortirono altro effetto se non quello di inasprire ulteriormente i termini della contesa. L'apice dello scontro, in seguito allargatosi fino a toccare tutti gli eccessi totalitari del nazionalsocialismo, fu raggiunto con la pubblicazione dell'enciclica Mit Brennender Sorge (1937), con la quale papa Pio XI non soltanto denunciava le violazioni del Concordato compiute da Hitler, ma additava anche ateismo e razzismo come le peggiori perversioni alle quali potesse giungere la società moderna.
Dopo la morte di Pio XI (1939) e l'elezione al soglio pontificio di Pio XII (che in precedenza era stato nunzio apostolico in Germania, paese da lui sinceramente amato), i rapporti tra il Vaticano e il governo di Berlino divennero meno tesi, tanto che mai, fino alla fine della guerra, la Chiesa si sarebbe espressa con toni di condanna nei confronti del regime hitleriano. A partire da quel momento in avanti furono i sacerdoti, i preti di provincia, i canonici che cercarono, per quanto era nelle loro limitatissime possibilità, di arginare gli arbitri e gli eccessi anticlericali del regime nazista, arrivando a pagarne in prima persona le dirette conseguenze.

Il "problema" ebraico

La purezza della razza ariana 
La concezione del popolo tedesco come popolo superiore presupponeva, come indispensabile corollario, l'annientamento totale di tutti gli altri popoli considerati inferiori, primo fra tutti quello aebraico. Valendosi di teorie scientifiche inattendibili e adattandone altre ai propri scopi, i nazisti arrivarono a stabilire l'esistenza di razze più o meno nobili, il grado di purezza delle quali era determinabile da apposite misure somatiche e, addirittura, dai particolari tratti del corpo e del viso, ai quali corrispondevano deterministicamente relative caratteristiche intellettive.
Di tutti gli aspetti terrificanti che caratterizzarono il nazismo, l'antiebraismo fu senza dubbio il più odioso, che mise in mostra il volto disumano e lo sprezzo di ogni dignità che contraddistinsero il regime hitleriano. L'offensiva contro gli ebrei ebbe inizio fin dal momento dell'ascesa al potere di Hitler, nel 1933, e continuò in un tragico crescendo, fino ad arrivare alla concezione e all'applicazione della cosiddetta "soluzione finale", ovverossia lo sterminio indiscriminato condotto su larga scala in campi appositamente attrezzati.
La soluzione finale 
I metodi usati, le tecnologie lasciano appena intravvedere quale lucida determinazione sia stata alla base della follia nazista. Non necessita di commenti l'agghiacciante dichiarazione resa da Rudolf Hess, uno dei comandanti del campo di sterminio di Auschwitz, in occasione del processo di Norimberga, nel 1946: "La soluzione finale del problema ebraico significava il completo sterminio di tutti gli ebrei d'Europa. Mi fu dato l'ordine, nel giugno 1941, di creare ad Auschwitz, installazioni per lo sterminio. [...] Feci una visita a quello di Treblinka per vedere come si procedeva allo sterminio. Il comandante del campo di Treblinka mi disse di aver liquidato 80 000 persone nel corso di un semestre. [...] Egli usava monossido di carbonio. Ma io non ritenni che i suoi metodi fossero molto efficienti, per cui quando ad Auschwitz organizzai i locali per lo sterminio usai il Zyklon B, acido prussico in cristalli che veniva fatto cadere nella camera della morte da una piccola apertura. Per uccidere coloro che vi si trovavano bastavano da tre a quindici minuti, a seconda delle condizioni atmosferiche. [...] Rispetto a Treblinka, un altro progresso fu la costruzione di camere a gas che contenevano 2000 persone alla volta: mentre a Treblinka le dieci camere a gas del campo potevano servire solo per 200 persone ognuna". (da Storia del Terzo Reich, W. Shirer)
Nel 1933 si verificò una serie di boicottaggi e pestaggi nei confronti di industriali, professori, studenti e commercianti ebrei, mentre il sistema scolastico tedesco venne progressivamente a escludere gli israeliti.
Di lì a poco vennero promulgate le prime leggi discriminatorie (aprile 1933), in base alle quali migliaia e migliaia di famiglie vennero gradualmente messe ai margini della società, discriminate e derise: avvocati, medici, insegnanti, attori e liberi professionisti in genere furono radiati dai rispettivi albi professionali, mentre dipendenti pubblici e funzionari furono dichiarati decaduti dai loro incarichi. Le leggi razziali (o leggi di Norimberga, "sulla cittadinanza del Reich" e "per la difesa del sangue e dell'onore tedesco", 1935), che negavano i diritti costituzionali agli ebrei e sanzionavano in maniera pesantissima i matrimoni misti (durante la guerra addirittura con la pena capitale), e la successiva, tragica "notte dei cristalli" (distruzione di luoghi di culto, cimiteri, negozi ebraici, 9 novembre 1938), costituirono solo un momento di passaggio verso altri provvedimenti - ghettizzazione, privazione di ogni avere, deportazione - che avrebbero condotto a morte oltre sei milioni di persone.
Razzismo ed espansione nazista 
Se già nel 1930 la pretesa tedesca di ottenere parità di diritti, anche sul piano militare, con gli altri stati (poi riconosciuta dalla convenzione di Ginevra, 1932) cominciava a creare alcune turbative agli equilibri postbellici, il senso di rivincita tedesco, del quale Hitler si fece portatore, creò problemi ben più seri per la stabilità dell'intero sistema europeo. Hitler, infatti, cominciò ad attaccare i trattati di pace stipulati a Versailles, presentandosi sulla scena internazionale come portavoce di una nuova Germania, completamente differente da quella che aveva dovuto subire l'umiliante occupazione francese e il pesantissimo obbligo delle riparazioni.
Liquidato il conto con la Società delle Nazioni (la Germania ne uscì nell'ottobre 1938), Hitler iniziò parallelamente a mettere in atto la sua politica di espansione che avrebbe dovuto portare in breve tempo la Germania a rintracciare il suo spazio vitale a Oriente (i territori sovietici) e nei paesi di lingua tedesca (Austria, dove nel 1934 fallì un tentativo di colpo di stato, parte della Polonia e della Cecoslovacchia).
Così, nel Mein Kampf, il Führer del nazismo prefigurava l'avvenire della Germania, ricollegandolo direttamente al periodo imperiale del basso Medioevo: "Noi, nazional-socialisti, tiriamo una riga sulla politica estera tedesca dell'anteguerra, e la cancelliamo. Noi cominciamo là dove si terminò sei secoli fa.
Mettiamo termine all'eterna marcia germanica verso il sud e l'ovest dell'Europa e volgiamo lo sguardo alla terra situata all'est. [...] Ma quando, oggi, parliamo di nuovo territorio in Europa, dobbiamo pensare in prima linea alla Russia o agli Stati marginali a essa soggetti. Sembra che il destino stesso ci voglia indicare queste regioni. [...] Più d'una volta, popoli inferiori aventi alla testa organizzatori e padroni germanici, diventarono stati formidabili e sussistettero fino a quando durò il nucleo della razza che creò lo Stato.

 

Da secoli la Russia si nutrì di questo nucleo germanico dei suoi ceti dirigenti: ma questo è, oggi, quasi del tutto estirpato e abolito. Al suo posto è subentrato l'ebreo. [...] Ma gli ebrei non possono, a lungo andare, conservarsi quel formidabile Stato. Perché l'ebreo non è un elemento di organizzazione ma un fermento di disorganizzazione.
Il colossale impero orientale è maturo per il crollo. E la fine del dominio ebraico in Russia sarà pure la fine della Russia come Stato. Noi siamo eletti dal destino ad essere testimoni di una catastrofe che sarà la più poderosa conferma della teoria nazionalista delle razze".
Risulta a questo punto comprensibile come, in quest'ottica, il nazismo fu sin dall'inizio determinato a indirizzare l'economia (che era caratterizzata, sull'esempio del fascismo, da una struttura corporativa) in direzione di un rafforzamento dell'industria pesante e dell'agricoltura, a fronte di una minore dipendenza dalle forniture straniere, subordinando l'intero l'apparato produttivo tedesco allo sviluppo poderoso dell'industria bellica.

 

 

La guerra civile spagnola

La politica del Fronte Popolare in Spagna 
La politica del "fronte popolare" riuscì vincente anche nella vicina Spagna. Dopo la caduta della monarchia (aprile 1931), la borghesia liberale e parte delle le forze di sinistra si erano unite nello sforzo di rinnovamento delle strutture socioeconomiche del paese, incontrando tuttavia una forte resistenza non solo da parte dei settori più retrivi e conservatori, coalizzati nella Confederazione Spagnola delle Destre Autonome di Gil Robles, ma anche da parte dei sindacalisti anarchici e dei socialisti rivoluzionari guidati da Francisco Largo Caballero.
Persa la guida del governo per un triennio (1933-1936), socialisti, radicali e comunisti si presentarono uniti nel Fronte Popolare alle elezioni per il rinnovo del parlamento (febbraio 1936), riscuotendo un clamoroso successo.
Il Fronte Popolare, una volta giunto al potere, lasciava chiaramente intendere come fosse sua intenzione dare mandato al capo del governo, Manuel Azana, perché avviasse una concreta politica di riforme, la quale, tenendo anche conto delle istanze autonomistiche di intere regioni del paese, affrontasse risolutamente la questione agraria e i problemi delle classi operaie e contadine.
L'acuirsi della tensione politica 
L'apertura democratica del governo e il rafforzamento dei sindacati mobilitarono tutte le forze conservatrici e reazionarie, terrorizzate all'idea di perdere privilegi oramai consolidati e i cospicui interessi nel campo della finanza, dell'industria e della proprietà terriera.
L'espressione materiale di questi sentimenti venne affidata ai militari, che nell'occasione videro la possibilità di ripercorrere i fasti della gestione diretta del potere assaporata poco più di un decennio prima con il pronunciamento di Miguel Primo de Rivera.
Il susseguirsi oramai incalzante degli avvenimenti - dichiarazione di illegalità del movimento filofascista della Falange e arresto del suo fondatore, José Antonio Primo de Rivera (15 marzo 1936), destituzione del presidente della repubblica Alcalá Zamora (7 aprile) e sua sostituzione con Azana (10 maggio), formazione del nuovo governo presieduto da Casares Quiroga (12 maggio), assassinio del deputato della destra Calvo Sotelo (13 luglio) - portò il clima politico del paese a tensioni elevatissime, prologo allo scontro armato che avrebbe messo le opposte fazioni in gioco le une di fronte alle altre.
La guerra civile 
La reazione dell'esercito non si fece attendere: il 17 luglio si ribellarono i contingenti di stanza in Africa, seguiti, nei giorni immediatamente successivi, da altre guarnigioni dislocate nel paese.
A fronte dell'impossibilità di ricondurre all'ordine le forze ribelli, guidate dai generali Mola, Queipo de Llano, Cabanellas e Francisco Franco, e appoggiate dai filomonarchici e dai cattolici reazionari, il governo repubblicano si vide costretto a ordinare la mobilitazione popolare.
Intanto, il fallimento del tentativo di mediazione con i ribelli portava alla sostituzione di Quiroga con José Giral, mentre i golpisti formavano una Giunta di difesa nazionale, presieduta da Cabanellas.
Sin dalle battute iniziali, la guerra civile che dilagò a macchia d'olio nel paese, apparve come la prova generale del conflitto che, di lì a quattro anni, avrebbe contrapposto fascismo e antifascismo in tutto il mondo.
Hitler e Mussolini colsero al volo l'occasione propizia, usando a loro volta il conflitto spagnolo come utile banco di prova per verificare lo stato dei rispettivi armamenti, saggiare la forza del fronte antifascista a livello internazionale e contemporaneamente rinsaldare i reciproci rapporti. Fu in quest'ottica che i due dittatori decisero di fornire agli insorti sostanziosi aiuti militari e finanziari, a dispetto dell'adesione formale alla proposta francese di non-intervento, avanzata il 2 agosto 1936.
Tali aiuti si concretizzarono nell'invio di un corpo di spedizione italiano, composto da circa 70 000 unità, e di un contingente tedesco (la famigerata "Legione Condor"), dotato di mezzi e armamenti estremamente sofisticati e moderni, ai quali si aggiunsero discreti rinforzi dal vicino Portogallo.
Mentre il sindacalista Largo Caballero succedeva a Giral alla guida del governo repubblicano (4 settembre 1936), la Giunta di difesa nazionale nominava Francisco Franco capo del governo insurrezionale (30 settembre), che puntava immediatamente le sue truppe in direzione di Madrid.
Tuttavia, l'esercito repubblicano, sostenuto dagli aiuti provenienti dall'Unione Sovietica (i primi giunsero in Spagna in ottobre) e dalle "Brigate internazionali" (composte di volontari antifascisti di ogni parte del mondo), riuscì, almeno nella prima fase del conflitto, a tenere validamente testa alla preponderanza di mezzi e di uomini dello schieramento fascista.
L'inasprirsi del conflitto 
Dal 1937 in avanti le tappe della guerra civile si susseguirono a ritmo incalzante e con esiti favorevoli agli insorti; dopo i fallimenti dei tentativi di attacco alla capitale e la sconfitta subita a Guadalajara (18 marzo 1937), l'esercito franchista cominciò a scardinare il sistema di difesa governativo, anche grazie a episodi che - come il bombardamento terroristico della città di Guernica (26 aprile 1937) - inflissero ferite non rimarginabili allo stato d'animo dei combattenti repubblicani.
Dopo aver spezzato in due parti il territorio governato dal Fronte Popolare (15 aprile 1938), i franchisti sferravano prima una violenta offensiva in Catalogna che culminava con la presa di Barcellona (23 dicembre 1938-26 gennaio 1939), quindi prendevano definitivamente possesso di Madrid (28 marzo 1939).
Il 1° aprile 1939, dopo oltre trentadue mesi di lotte sanguinose, Francisco Franco poteva trionfalmente annunciare la resa dell'esercito repubblicano.

 

Verso il conflitto

Il Giappone di Hirohito 
Come succedeva in gran parte dell'Europa negli anni Trenta anche in Estremo Oriente si assisteva al consolidarsi di un regime autoritario fortemente militarizzato e con nettissime propensioni imperialistiche.
Il Giappone, guidato ora dall'imperatore Hirohito (che sino dal periodo della reggenza, 1921-1926, si era espresso in favore delle caste militari e delle forze più conservatrici), aveva oramai compiuto completamente la sua fase di stabilizzazione. Traendo anzi profitto dai disagi e dalla crisi che avevano colpito duramente l'economia dei paesi occidentali, il Giappone si era lanciato alla conquista dei mercati asiatici lasciati liberi da europei e americani, inondandoli con i suoi prodotti e monopolizzandone le fonti di materie prime. Questo elemento, unitamente all'indiscussa egemonia politica esercitata in qualità di erede diretto dei possedimenti coloniali tedeschi nell'area, aveva consentito un netto rafforzamento e, contemporaneamente, un deciso ammodernamento del suo apparato produttivo, all'interno del quale vennero privilegiati i comparti della chimica, del tessile, della siderurgia e dell'industria bellica.
Il dinamismo commerciale giapponese venne a urtare non soltanto contro i comuni interessi dell'Australia e della Nuova Zelanda (e, di riflesso, anche della Gran Bretagna), ma soprattutto contro quelli degli Stati Uniti.
Costoro, infatti, intenzionati a salvare il vecchio principio della "porta aperta" (Open Door) sul continente asiatico e i rapporti di forza stabiliti dalla conferenza di Washington sul disarmo (novembre 1921 - febbraio 1922), avevano già costretto i giapponesi ad abbandonare i loro possedimenti in Cina, della quale venne riconosciuta la piena sovranità. Che, tuttavia, si trattasse di un compromesso temporaneo apparve chiaro nel 1931 quando, con un paese oramai avviato a ricalcare i modelli d'organizzazione nazifascisti, Hirohito inaugurò una nuova fase di espansione militare sul continente.
La politica imperialista giapponese 
L'imperialismo nipponico, che trovava una sua giustificazione teorica nel memorandum del generale Tanaka che inneggiava al predominio giapponese sull'Asia (1927), si concretizzò nell'occupazione militare della Manciuria, trasformato in un paese satellite del Giappone (stato del Manciukuò, 1932) e affidato alla guida del deposto imperatore cinese Pu Yi.
In seguito alla condanna dell'atto da parte della Società delle Nazioni (1933), Hirohito decretò l'uscita del paese dalla compagine dell'organismo ginevrino, imprimendo anzi un ulteriore impulso all'avanzata delle sue forze armate in territorio cinese (creazione dei governo-fantoccio nelle province di Jehol e Chahar).
Mentre la tensione con gli Stati Uniti raggiungeva punte preoccupanti (denuncia giapponese degli accordi di Washington, 1935-1936) - culminata con la denuncia americana del trattato commerciale del 1911 (1939) - la progressiva penetrazione nel continente asiatico portò allo scoppio di un aperto conflitto con la Cina (1937). Questo atteggiamento nei confronti del vicino provocò l'accantonamento delle discordie interne cinesi e l'alleanza tra le forze nazionaliste di Chang Kai-shek e quelle comuniste di Mao Zedong, unite per l'occasione nella lotta all'invasore.
L'aggressiva politica imperialistica condotta nell'area asiatica condusse ben presto il Giappone a gravitare nell'orbita del regime nazista, al quale legò i propri destini con la stipulazione del patto anti-Comintern in funzione antisovietica (novembre 1936).
Verso il conflitto  
Tutti questi foschi segnali di guerra, che riportavano in primo piano il problema del confronto oramai maturo fra gruppi di nazioni ideologicamente contrapposte non vennero tenuti nella debita considerazione dai paesi occidentali.
In special modo l'Inghilterra mostrò la corda, nel tentativo quanto mai velleitario di contenere l'aggressività nazista attraverso una linea di condotta pacifista (politica dell'appeacement).
Tale politica, inaugurata dal governo nazionale di Stanley Baldwin (1935-1937) e della quale si fece accanito sostenitore il primo ministro Neville Chamberlain (1937-1940), si tradusse in realtà in una supina accettazione dei ricatti hitleriani, e non sortì altro effetto se non quello di spianare la strada ai propositi del dittatore nazista.
Né ebbe miglior fortuna il tentativo inglese di ammorbidire le posizioni dell'Italia, la componente più debole dell'Asse, attraverso la stipulazione del "Gentlemen's Agreement" per il mantenimento dello status quo nel Mediterraneo (1937) e il riconoscimento della sovranità sull'Etiopia (aprile 1938).
Per quanto gli ondeggiamenti iniziali di Mussolini autorizzassero tali tentativi,  fu poi chiaro che il duce si era oramai legato a doppio filo al nazismo, compiendo la scelta di campo definitiva.
In tale contesto, le relazioni italo-tedesche divennero via via più strette; l'alleanza tra i due paesi venne ufficializzata a Berlino con la firma, da parte dei rispettivi ministri degli Esteri Galeazzo Ciano e Konstantin von Neurath, di un protocollo di intesa che impegnava Italia e Germania a collaborare nella lotta anticomunista, nel sostegno alle truppe franchiste in Spagna e nella risoluzione della questione austriaca (asse Roma-Berlino, ottobre 1936).
L'adesione mussoliniana al patto anti-Comintern stretto tra Germania e Giappone (novembre 1937), l'annessione dell'Austria al Reich con il beneplacito dello stato italiano ("Anschluss", marzo 1938), il lancio della campagna razziale, alla quale aderì lo stesso regime fascista (luglio 1938), furono segni di un'accelerazione della spinta aggressiva da parte dei regimi autoritari e furono solo gli episodi più vistosi nell'ambito di una sistematica campagna di demolizione della politica pacifista.
La conferenza di Monaco 
La vacuità degli sforzi fatti dalle democrazie europee per una risoluzione pacifica delle controversie in atto si fece evidente al momento delle rivendicazioni tedesche nei confronti della Cecoslovacchia. Presa a pretesto la presenza di un consistente nucleo germanofono nella zona dei Sudeti, Hitler inviò al governo cecoslovacco un ultimatum, rivendicando l'annessione della regione al Reich (26 settembre 1938).
A fronte del rischio di un conflitto generalizzato (la Francia, alleata della Cecoslovacchia, aveva già iniziato la mobilitazione), il primo ministro inglese Chamberlain invitò Mussolini a svolgere un'azione di mediazione nei confronti di Hitler per prorogare il termine dell'ultimatum e indire una conferenza fra le quattro potenze (28 settembre).
A Monaco, il giorno successivo, con la delegazione cecoslovacca esclusa dai colloqui, Mussolini propose, gradita ai tedeschi, che i Sudeti fossero ceduti alla Germania, mentre parte del territorio restante sarebbe stato sottoposto al controllo di Polonia e Ungheria.
Chamberlain e Daladier accettarono supinamente, convinti di aver appagato, con il sacrificio della Cecoslovacchia, gli appetiti nazisti. In realtà si trattava solo dell'inizio del processo annessionistico tedesco, che venne realizzato con l'occupazione totale del territorio cecoslovacco: Boemia e Moravia furono sottoposte a protettorato tedesco, mentre la Slovacchia, formalmente indipendente, venne affidata al governo-fantoccio del filonazista monsignor Tiso (marzo 1939).
Tali avvenimenti scossero profondamente la fiducia dell'opinione pubblica inglese e francese nella possibilità di una soluzione negoziale della crisi; in più, essi provocarono in Stalin un profondo risentimento e un atteggiamento di sospetto nei confronti dei paesi occidentali, nel timore di un dirottamento della politica aggressiva nazista in direzione dell'Unione Sovietica.
Il patto d'acciaio e il patto russo-tedesco 
L'occupazione italiana dell'Albania (6 aprile 1939) e la sottoscrizione del "patto d'acciaio" fra le due potenze dell'Asse (che legava indissolubilmente i destini dei due paesi in caso di guerra, 22 maggio 1939) portarono la tensione a livelli mai raggiunti nel corso dell'ultimo ventennio, lasciando intravvedere soltanto foschi sviluppi.
Nel frattempo la Germania, dopo aver presentato al governo polacco la lista delle sue insostenibili rivendicazioni (21 marzo 1939), si preoccupò di eliminare per via diplomatica alcuni degli ostacoli che avrebbero potuto pararsi dinanzi ai suoi propositi bellicosi.
In tale chiave vanno interpretati i numerosi accordi che la diplomazia hitleriana concluse con i paesi baltici (31 maggio 1939), con la Danimarca (6 giugno 1939) e con l'Unione Sovietica (patto Molotov-Ribbentrop, 28 agosto 1939) nel breve periodo di tempo che precedette lo scoppio delle ostilità.
Soprattutto il patto di non-aggressione russo-tedesco, che gettò nello sconforto più totale coloro i quali vedevano nell'Unione Sovietica uno degli ultimi baluardi contro ogni tipo di fascismo, permise alla Germania di concentrare tutte le sue forze in direzione del preventivato attacco alla Polonia.
Il fallimento dei negoziati tra Francia, Inghilterra e Unione Sovietica per prevenire una simile eventualità - che portò alla conclusione dell'accordo Molotov-Ribbentrop - fece precipitare la situazione. Con l'attraversamento del confine polacco da parte delle truppe naziste (1° settembre 1939), l'espansione tedesca verso Oriente aveva inizio.

 

La seconda guerra mondiale
Hitler e la guerra lampo 
Hitler aveva sempre ritenuto che, per conseguire gli obiettivi che si era proposto - revisione in chiave revanscista dei trattati stipulati nel 1919 a Versailles, conquista di un "Lebensraum" per una più grande Germania - la guerra fosse assolutamente necessaria.
I piani di riarmo, formulati a partire dal marzo 1935, furono finalizzati appunto a preparare materialmente l'esercito, la marina, l'aviazione e - moralmente - tutto il paese, all'appuntamento con la guerra, prevista per il 1940.
Nel frattempo, la Germania avrebbe dovuto garantirsi indispensabili vantaggi diplomatici, oltre a procurarsi adeguate scorte di materie prime in caso di conflitto prolungato. Per evitare comunque il rischio che il paese potesse rimanere impantanato nelle sacche di pericolosi blocchi commerciali, Hitler teorizzò la realizzazione di una "Blitzkrieg", una guerra-lampo che consentisse il raggiungimento della vittoria finale nel giro di brevissimo tempo.
Questo fatto, sotto un profilo strettamente militare, sorprese completamente gli stati maggiori avversari che erano abituati a ragionare in termini di guerra di posizione, nel corso della quale le lunghe attese in trincea e il logoramento del nemico divenivano fattori decisivi, in alcuni casi più importanti degli stessi armamenti.
Le cause latenti del conflitto 
Dal punto di vista delle responsabilità, è fuori ogni dubbio che la volontà espansionistica propria dei regimi autoritari, in Europa come in Oriente, giocò un ruolo determinante nello scoppio del conflitto che fu, come si è visto, premeditatamente orchestrato nel corso di diversi anni.
Anche le tensioni latenti in tutto il mondo, le mai sopite questioni nazionalistiche, la stessa crisi economica pesantissima che colpì ovunque nel corso degli anni Trenta non facilitarono i processi di distensione internazionale.
Tuttavia, la passività delle democrazie occidentali, lo svilimento del ruolo degli organismi sovranazionali (della Società delle Nazioni nella fattispecie) e il disinteresse iniziale degli Stati Uniti contribuirono certamente, e in modo non meno determinante, a creare i presupposti per lo scoppio del conflitto.
La seconda guerra mondiale, che ben presto si venne delineando come un confronto tra blocchi ideologicamente contrapposti piuttosto che come guerra tra nazioni, segnò la momentanea sconfitta della democrazia e l'oscuramento totale - per un quinquennio - di tutti i valori positivi dell'uomo.
Soprattutto, essa comportò distruzioni, odi e lutti inauditi, che avrebbero lasciato il loro segno indelebile per molto tempo sulle generazioni a venire.
L'invasione della Polonia e l'inizio della guerra 
Preparata da un imponente lavorio diplomatico teso a garantirgli il non-intervento sovietico, Hitler diede ordine al suo stato maggiore di mettere in atto il piano di invasione della Polonia.
Al fine di dare una giustificazione all'intervento, venne favorita la creazione di uno stato di tensione nella libera città di Danzica - oramai sotto controllo nazista - facendo esplicita richiesta al governo di Varsavia di cederne il territorio al Reich. Francia e Inghilterra, pur trovandosi completamente spiazzate dalla firma del patto di non-aggressione tra Germania e Unione Sovietica, ribadirono il loro impegno militare precedentemente sottoscritto con la Polonia in caso di attacco tedesco.
La garanzia offerta alla sicurezza del territorio polacco - ribadita da Chamberlain in una lettera personale a Hitler nell'immediata vigilia del conflitto - rappresentava una svolta nella politica estera del governo di Londra, che proprio a una condotta di deresponsabilità aveva sacrificato l'integrità dello stato cecoslovacco l'anno precedente. Alle prime luci dell'alba del 1° settembre 1939, l'attacco tedesco, basato sull'impiego coordinato di fanteria, aviazione e truppe corazzate, ebbe inizio.
L'esercito polacco, pur combattendo con estremo valore e coraggio, venne rapidamente annientato dalla velocità con la quale i reparti tedeschi colpirono i punti nevralgici del sistema difensivo. Nel giro di meno di un mese lo stato della Polonia cedette di schianto, sopraffatta da un contemporaneo attacco russo lungo il suo confine orientale (28 settembre 1939).

 

L'attesismo italiano e l'intervento sovietico  
Intanto l'Italia, militarmente impreparata ad affrontare un conflitto generalizzato, mantenne inizialmente un ambiguo stato di non-belligeranza, mentre l'Unione Sovietica decideva di guadagnare ulteriore spazio ai suoi confini occidentali.
Se una serie di accordi vincolanti costringevano gli stati baltici - Estonia, Lettonia, Lituania - nell'orbita sovietica, il rifiuto finlandese a cedere alcune basi militari portò all'invasione del suo territorio da parte dell'Armata Rossa (30 novembre 1939). L'attacco alla Finlandia, che costò all'Urss l'espulsione dalla Società delle Nazioni, si concluse alla fine dell'inverno successivo, con la cessione di parte della Carelia finlandese e il diritto di transito per le truppe sovietiche (12 marzo 1940).
La campagna d'Occidente  
Di fronte alla velocità dell'attacco tedesco gli alleati franco-inglesi, che avevano dichiarato guerra alla Germania il 3 settembre, rimasero sconcertati. Mentre la Francia restò inizialmente arroccata alle fortificazioni della "linea Maginot", lungo il confine occidentale con la Germania, l'Inghilterra limitò l'attività bellica a una intensa campagna propagandistica antitedesca, delegando al blocco economico il compito principale di debellare la macchina nazista. La sostanziale inattività del fronte alleato consentì a Hitler di procedere indisturbato nel suo programma di conquiste.
Dopo aver violato la neutralità della Danimarca e averne occupato il territorio senza incontrare resistenza, le forze armate tedesche passarono in Norvegia, nazione ritenuta di grande importanza strategica per la possibilità di accedere direttamente alle riserve minerarie svedesi e ottenere basi avanzate per la guerra sottomarina (9 aprile 1940). Mentre re Haakon VII era costretto a lasciare in tutta fretta il paese insieme al governo (che veniva reinsediato, in esilio, a Londra) e a truppe alleate che avevano appoggiato la resistenza interna, i nazisti insediarono nel paese un governo-fantoccio guidato dal fiancheggiatore fascista Vidkun Quisling (10 giugno 1940).
L'offensiva contro la Francia 
Parallelamente all'invasione della Norvegia, i tedeschi iniziarono la loro offensiva contro la Francia. Attaccando direttamente l'Olanda e il Belgio i tedeschi distolsero dal loro obiettivo principale le forze alleate, aprendosi di fatto la via verso il confine francese: a dispetto del comune stato di neutralità, le difese dei due paesi vennero rapidamente annientate e i rispettivi territori sottoposti alla ferrea giurisdizione nazista.
Mentre l'Olanda, sottoposta a micidiali bombardamenti preventivi (la città di Rotterdam, per esempio, fu duramente colpita il 14 maggio 1940), era costretta a capitolare il 15 maggio, il Belgio si arrendeva alle forze nemiche il 28.
La resa di Parigi e il regime di Vichy 
Le truppe francesi intanto, convinte dall'andamento delle operazioni, che Hitler avesse deciso l'attacco passando dalle Fiandre piuttosto che attraverso le Ardenne - a torto ritenute impraticabili dai mezzi corazzati - cedettero di schianto nella zona compresa tra Namur e Sedan (10 maggio 1940).
Verso la fine del mese di maggio una buona parte delle forze tedesche costringeva l'esercito anglofrancese, oramai allo sbando, a concentrarsi a Dunkerque, sulla costa atlantica, da dove riuscì fortunosamente a imbarcarsi per l'Inghilterra (3 giugno 1940).
Intanto, il grosso dell'esercito tedesco procedeva a tappe forzate in direzione del cuore della Francia e, dopo lo sfondamento della linea difensiva allestita dal generale francese Weygand, aveva via libera verso la capitale. Il 14 giugno 1940 le truppe tedesche entravano a Parigi, sfilando lungo gli Champs Elysées tra due ali di folla attonita.
Successivamente le posizioni assunte dal capo del governo Paul Reynaud (succeduto a Daladier), fautore di una lotta a oltranza contro l'occupante tedesco, risultavano perdenti di fronte alla visione del maresciallo Pétain, disposto invece a patteggiare con il nemico. Estromesso Reynaud dalla guida del governo, fu lo stesso Pétain ad accettare, sottoscrivendole, le condizioni imposte da Hitler.
L'armistizio, firmato a Compiègne (22 giugno 1940), sanciva l'occupazione militare tedesca del settore nordoccidentale del paese, mentre la parte rimanente veniva eretta a stato formalmente indipendente (in realtà asservito al regime nazista), con capitale Vichy.
Pétain e De Gaulle 
Pétain, che non nascondeva le sue simpatie per i metodi autoritari ed era favorevole a un accordo con la Germania, impostò il suo governo sulle parole d'ordine travail, famille e patrie (lavoro, famiglia e patria). Fattosi scudo della destra radicale locale, si autoproclamò capo dello stato (10 luglio 1940), nominando Pierre Laval alla guida del governo collaborazionista. Ma buona parte della popolazione, alla quale il regime di Vichy era inviso, cominciò a guardare con fiducia in direzione di Londra.
Da qui il movimento patriottico creato dal generale Charles De Gaulle - France libre (Francia libera) - incitava apertamente alla resistenza e alla lotta a oltranza nei confronti dell'esercito invasore e dei collaborazionisti di Vichy. Il consenso ricevuto da gran parte della nazione e l'adesione dell'esercito coloniale alla guerra antifascista furono gli elementi che consentirono alla Francia di presentarsi, alla fine della guerra, dalla parte delle potenze vincitrici.
L'intervento dell'Italia  
Avuto il sentore che l'esito della campagna d'Occidente volgeva a favore dell'alleato nazista, e superate le ritrosie del fronte antitedesco interno (guidato dal genero Galeazzo Ciano e dallo stesso re), Mussolini non esitò a gettare nella mischia anche l'Italia (10 giugno 1940). Tuttavia le operazioni, iniziate quando oramai la Francia aveva già chiesto l'armistizio alla Germania, si risolsero in conquiste limitatissime (smilitarizzazione del confine italofrancese, cessione del porto di Gibuti) sancite dagli accordi di Villa Incisa (24 giugno 1940).
L'Inghilterra di Churchill 
Sia l'Inghilterra sia la Francia, nel periodo antecedente l'armistizio di Compiègne, erano andate incontro a notevoli cambiamenti dell'assetto politico interno in conseguenza della bruciante avanzata nazista. La Francia aveva assistito al drammatico passaggio del testimone da Daladier, a Reynaud, a Pétain, passaggio che era stato scandito dal parallelo dissolvimento della Terza Repubblica e dall'instaurazione del regime autoritario di Vichy.
L'invasione della Norvegia era stata la causa della caduta del primo ministro inglese Neville Chamberlain (10 maggio 1940) e della sua sostituzione con un governo di coalizione guidato da Winston Churchill.
Il fallimento del tentativo di Hitler di indurre alla resa la Gran Bretagna, oramai isolata dal resto dell'Europa, passò proprio attraverso la volontà di resistenza del nuovo primo ministro, che seppe infondere fiducia nelle capacità difensive del paese. Una volta rifiutate le offerte tedesche di pace, che erano basate sulla restituzione delle ex-colonie e l'accettazione della nuova situazione politico-militare europea (22 luglio 1940), gli inglesi seppero infatti opporsi validamente anche ai tentativi militari messi in atto dagli avversari.
La battaglia d'Inghilterra 
Pur dotata di un numero maggiore di aerei e di piloti, la Luftwaffe (l'aviazione militare tedesca) non riuscì ad avere ragione della tenace resistenza opposta dalle forze britanniche, che riuscirono in tal modo a sventare i piani di invasione ideati da Hitler ("battaglia d'Inghilterra", luglio-settembre 1940).
Le frequentissime incursioni nemiche, le privazioni, i bombardamenti a tappeto, pur validamente contrastati dalla Raf (Royal Air Force, l'aviazione britannica) non valsero a piegare il morale e la resistenza della popolazione civile, della quale venne anzi accresciuta la consapevolezza di rappresentare l'ultimo baluardo civile all'avanzata della barbarie nazista. A fronte dell'impossibilità di raggiungere la superiorità nei cieli - condizione indispensabile per uno sbarco sull'isola - Hitler decise di revocare definitivamente l'attacco allo stato inglese (12 ottobre 1940).

Winston Churchill, o dell'ottimismo
Nato nel 1874 a Woodstock, sir Winston Leonard Spencer Churchill entrò giovanissimo (1900) a far parte della Camera dei Comuni, dopo cinque anni trascorsi in qualità di soldato-corrispondente di guerra in tutto il mondo.
Dopo un breve periodo nel partito conservatore, Churchill passò tra le fila dei liberali, dove rimase fino al 1924. Più volte ministro in vari dicasteri ed eccellente scrittore (nel 1953 venne insignito del premio Nobel per la letteratura), Churchill si oppose fermamente alla politica di pacificazione nei confronti di Hitler messa in atto dalla Gran Bretagna nel corso degli anni Trenta.
Nominato primo Lord dell'Ammiragliato all'interno del governo Chamberlain allo scoppio del secondo conflitto (carica da lui già ricoperta nel periodo 1911-15), lo sostituì pochi mesi dopo, di fronte al precipitare degli eventi bellici.
Furono proprio le qualità di guida geniale e dinamica di quest'uomo a tenere alto il morale della nazione inglese proprio nei momenti più bui, quando sembrava che l'avanzata nazista fosse inarrestabile, personificando la volontà di resistenza dell'intera nazione. Memorabile, a tale proposito, il celebre discorso da lui tenuto alla Camera dei Comuni il 4 giugno 1940, quando oramai già si prospettava la sconfitta francese: "[...] Continueremo fino alla fine, ci batteremo in Francia, ci batteremo sui mari e sugli oceani, ci batteremo con sempre maggior fiducia e con maggior forza nel cielo, ci batteremo sulle spiagge, ci batteremo sui terreni di sbarco, ci batteremo nei campi e nelle strade, ci batteremo sulle alture; non ci arrenderemo mai, e perfino se quest'isola o gran parte di essa dovesse essere soggiogata e morire di fame [...] il nostro impero al di là dei mari, armato e guardato dalla flotta inglese, continuerebbe la lotta fin quando, a Dio piacendo, il nuovo mondo interverrà con tutta la sua forza e la sua potenza per salvare e liberare il vecchio mondo" (tratto dal volume di W. Churchill In guerra: discorsi pubblici e segreti, trad. italiana G. Cicconardi, Milano 1948).
Abbandonata la carica di primo ministro una volta conclusosi il conflitto, la riassunse per un altro quinquennio (1951-55), abbandonando subito dopo la politica attiva. Morì a Londra, celebrato con tutti gli onori, nel 1965.
La politica dell'Asse per isolare la Gran Bretagna  
Non essendo riuscito a colpire direttamente la Gran Bretagna, l'Asse cercò allora di completarne l'isolamento, tagliando i rifornimenti che le arrivavano dalle colonie. Obiettivi principali della marina italiana, alla quale venne demandato tale compito, furono le basi navali inglesi nel Mediterraneo (in special modo Malta e i porti egiziani).
Tuttavia, i ripetuti tentativi di scardinare il sistema difensivo avversario ebbero scarso successo, sia a causa della cronica mancanza di carburante che limitava il raggio d'azione della flotta sia per la mancanza di un efficace coordinamento con l'aviazione.
La supremazia navale britannica nel Mediterraneo venne definitivamente ristabilita con l'attacco alla base di Taranto (11 novembre 1940) e la battaglia di capo Matapan (28 marzo 1941).
In entrambe le occasioni, la flotta italiana subì pesanti perdite, che ne limitarono ulteriormente l'operatività nel corso del conflitto.
L'esercito italiano in Africa 
Maggiore fortuna non incontrarono i tentativi dell'esercito italiano di contrastare la potenza inglese in Africa settentrionale.
Dopo gli iniziali successi, che consentivano l'avanzata delle truppe italiane - guidate dal generale Rodolfo Graziani - fino alla cittadina egiziana di Sidi-el-Barrani (16 settembre 1940), la controffensiva inglese costringeva l'esercito di Mussolini dapprima a una rovinosa ritirata (8 dicembre 1940-5 gennaio 1941) che lasciava nelle mani dei britannici circa 120 000 prigionieri, quindi si spingeva fino a Bengasi (febbraio 1941) e ad Addis Abeba (6 aprile 1941).
Hailé Selassié, il negus etiopico deposto in occasione della guerra coloniale del 1936, veniva reinsediato al trono nel maggio 1941. Stessa sorte aveva il tentativo di invasione della Grecia che, iniziato senza che Hitler fosse preavvertito del progetto e contro il parere dello stato maggiore italiano (28 ottobre 1940), si concluse anch'esso con una cocente sconfitta (3 dicembre 1940).
Il patto tripartito 
Frattanto il dittatore nazista, in previsione di un ulteriore allargamento a oriente del fronte bellico (con il preventivato attacco all'Urss), procedeva a un allargamento dell'alleanza italo-tedesca al Giappone (patto tripartito, 27 settembre 1940).
La politica balcanica di Hitler 
Nella stessa direzione andava la politica balcanica tedesca, mirante all'inglobamento di Romania, Ungheria, Slovacchia, Bulgaria e Jugoslavia nell'ambito della sfera d'influenza nazista.
L'adesione dei primi quattro paesi all'alleanza con le potenze del patto Tripartito fu favorita dalla presenza interna di regimi collaborazionisti (tipico il caso della Romania, dove venne insediato il governo-fantoccio del generale Jon Antonescu, o dell'Ungheria dell'ammiraglio Horthy).
Al contrario, l'asservimento della Iugoslavia alla politica tedesca richiese un'apposita quanto breve campagna militare. Infatti, il rischio che il nuovo governo di Belgrado tentasse una politica di riavvicinamento all'Unione Sovietica ("patto di amicizia e di non-aggressione", 5 aprile 1941), spinse i tedeschi ad accelerare i tempi per escludere la possibilità che Mosca potesse crearsi una pericolosa testa di ponte nell'Europa centromeridionale.
Dopo il violento bombardamento di Belgrado (6 aprile 1941) e l'occupazione della stessa capitale (12 aprile 1941), l'esercito jugoslavo era costretto alla resa nella regione bosniaca (17 aprile 1941).
La conquista della Grecia 
Un discorso a parte merita la Grecia che, invasa nello stesso lasso di tempo nel quale avveniva l'occupazione dello stato jugoslavo, entrò nelle mire tedesche per un duplice ordine di motivi. Innanzi tutto Hitler, accogliendo le richieste di aiuto avanzate dall'alleato italiano, in grave difficoltà di fronte alla controffensiva greca, eliminava di fatto la potenza inglese dal continente europeo. In secondo luogo, completando l'occupazione della penisola balcanica, egli poteva garantirsi una solidissima retrovia per il tanto atteso attacco all'Unione Sovietica, che avrebbe dovuto scatenarsi di lì a poco.
Usando la Bulgaria come base di partenza, l'esercito tedesco penetrava in profondità nel territorio greco aggirando la linea di difesa Metaxas (4 aprile 1941) ricongiungendosi con le armate italiane che avevano condotto l'attacco partendo dal fronte albanese (13 aprile 1941). La presa di possesso di Atene (27 aprile 1941) e la conquista dell'isola di Creta (1° giugno 1941) decretavano la fine della campagna balcanica tedesca.

Lo smembramento della Iugoslavia
Dopo la fuga del giovanissimo re Pietro II a Londra e la formazione di un governo in esilio, lo stato jugoslavo venne sottoposto a una durissima repressione militare e a un vero e proprio smembramento.
Mentre intere regioni passarono sotto il diretto controllo tedesco (Carniola, Stiria Inferiore) o nelle mani degli avidi vicini oramai entrati nell'orbita del Terzo Reich (l'area del fiume Drava venne assegnata all'Ungheria, parte della Macedonia alla Bulgaria), la regione slovena e la Dalmazia fino al confine albanese furono assoggettati all'Italia, che coronava finalmente il sogno infrantosi a Versailles poco più di vent'anni prima.
Contemporaneamente in Serbia venne insediato un governo collaborazionista sotto la diretta giurisdizione tedesca, mentre la Croazia venne eretta a Stato formalmente indipendente, sotto la guida del filofascista Ante Pavelic e la supervisione del governo italiano. Gli "ustascia" fascisti, ovvero il corpo armato che appoggiò il governo autoritario di Pavelic, si resero protagonisti di una serie di tremende repressioni non solo nei confronti degli oppositori al regime, ma anche nei riguardi di tutte le minoranze etniche presenti in territorio croato.
Anche il ricordo delle violenze perpetrate in questo periodo, insieme a numerosi fattori legati alla questione delle nazionalità, ha contribuito ad aumentare quel clima di tensione che sarebbe poi sfociato, mezzo secolo più tardi, in aperto conflitto.

 

1941-1942: la guerra si estende
La campagna italo-tedesca in Africa 
Sollecitato dal governo fascista, in difficoltà anche sul fronte coloniale, Hitler si impegnò a fornire un apposito corpo di spedizione (l'Afrika Korps) per contrastare la potenza inglese sul continente africano. La mossa del capo nazista di presentare l'invio del contingente come un'operazione tesa a liberare il mondo arabo dal dominio britannico non nascose la vera intenzione di sostituire il dominio tedesco a quello inglese, garantendosi gli importanti giacimenti petroliferi dell'area.
L'arrivo in Libia delle prime divisioni corazzate tedesche (febbraio 1941), impresse un'immediata svolta allo svolgimento delle operazioni. Guidate dal generale Erwin Rommel, le forze italo-tedesche procedevano dapprima alla rioccupazione della città di Bengasi (4 aprile 1941), e si spingevano in seguito fino a Tobruk, al confine tra Egitto e Cirenaica (12 aprile 1941).
Mentre in Africa Orientale le sorti dell'esercito italiano volgevano definitivamente al peggio (battaglie dell'Amba Alagi, 19 maggio, e di Dembi Dolo, 4 luglio), il contingente italo-tedesco veniva costretto a una precipitosa ritirata (7 dicembre 1941), che lasciava via libera alla riconquista inglese della Cirenaica (24 dicembre 1941).
Ricompattati i ranghi, Rommel riuscì a impostare una nuova controffensiva (21 gennaio 1941) che, recuperato tutto il territorio perduto, si arrestò solo all'altezza di El Alamein (30 giugno 1942), a soli 100 km da Alessandria d'Egitto.
Fu in questa località che le forze nazifasciste, nettamente inferiori per uomini e mezzi, furono costrette a una cocente sconfitta (23 ottobre - 4 novembre 1942). Il ripiegamento coincise con la poderosa avanzata inglese che, nel maggio 1943, avrebbe portato all'estromissione definitiva del contingente italo-tedesco dal settore nordafricano.
La Carta Atlantica 
Per quanto rimasti sin dall'inizio estranei al conflitto, gli Stati Uniti già nel 1938 avevano dato il via a una intensa politica di riarmo, mentre era dell'anno successivo la revoca della legge sulla neutralità (stabilita nel 1935) a favore dell'Inghilterra e dei suoi alleati. Ciò non toglie che, fino a quel momento, all'interno degli ambienti politici statunitensi avessero prevalso le tesi di quanti vedevano nell'area del Pacifico la zona di maggior interesse per l'America.
Le cose cambiarono completamente in seguito alle vicende belliche che nel periodo 1940-1941 portarono al progressivo isolamento della Gran Bretagna. Quest'ultima, fortemente dipendente dai rifornimenti americani, si trovò nell'impossibilità di far fronte agli impegni finanziari contratti con gli Stati Uniti. Il presidente americano Roosevelt, che già in passato era stato tra i fautori di un maggiore coinvolgimento del paese nel conflitto europeo, fece approvare dal parlamento la "Lend-Lease Act" (legge affitti e prestiti, 11 febbraio 1941).
In base a tale provvedimento, al capo dello Stato veniva concessa la facoltà di fornire materiale bellico all'Inghilterra e ai suoi alleati anche in assenza di un  pagamento immediato.
Dopo la rottura delle relazioni diplomatiche con le potenze dell'Asse (16 giugno 1941), un ulteriore segnale del riavvicinamento americano alle vicende europee fu il documento sottoscritto il 14 agosto 1941 nell'isola canadese di Terranova dallo stesso Roosevelt e da Churchill.
La Carta atlantica - questo era il nome del documento, che sarebbe stato in seguito sottoscritto da altri sedici paesi - conteneva i principi ai quali le due nazioni contraenti avrebbero dovuto ispirarsi nella comune lotta contro i regimi nazifascisti e i criteri di base della riorganizzazione mondiale dopo la fine della guerra. Tali presupposti avrebbero costituito la base per la futura costituzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu).
L'operazione Barbarossa e la sacca di Stalingrado 
Dopo essersi preparato il terreno con l'occupazione della penisola balcanica (alla quale lo stesso Stalin, per guadagnare tempo, non oppose alcuna resistenza), Hitler mise in atto la famosa "direttiva 21" (operazione Barbarossa) emanata nel dicembre 1940.
Il 22 giugno 1941 le armate tedesche, alle quali si associarono via via contingenti rumeni, slovacchi, ungheresi e italiani (questi ultimi organizzati nell'Armir, Armata Italiana in Russia), sfondarono le linee di difesa in diversi punti, addentrandosi in profondità nel territorio sovietico.
I dissapori sorti a partire dalla firma dell'accordo Molotov - Ribbentrop di due anni prima erano in realtà il sintomo del profondo contrasto ideologico esistente tra i due paesi e della necessità, vitale per il nazismo, di una continua espansione a oriente.
Tuttavia, la corsa verso il cuore dell'impero, che nei piani di Hitler avrebbe dovuto risolversi in tempi brevissimi (il periodo di resistenza dell'esercito sovietico era stato stimato in soli tre mesi), si trasformò in un conflitto durissimo ed estenuante. Ancora alla fine dell'anno, per quanto penetrati profondamente in Russia, i tedeschi si trovarono ad affrontare l'eccezionale volontà di resistenza dell'Armata Rossa (guidata dal generale Zukov) e del popolo russo, ancora intatta a dispetto delle spaventose perdite e delle innumerevoli privazioni subite.
L'assedio a Leningrado, iniziato nella prima fase dell'attacco, si concluse solo dopo due anni e mezzo, con oltre 600 000 morti e sofferenze indicibili per la popolazione civile, senza che l'esercito invasore riuscisse ad avere la meglio. L'offensiva tedesca si fermò alle porte di Mosca (8 dicembre 1941) e dove venne bloccata dalla rigidità del clima russo. Dopo alterne vicende belliche, scandite dalla risposta sovietica (dicembre 1941) e da una nuova controffensiva tedesca nel corso della primavera-estate successive (maggio - settembre 1942), l'attacco finale dell'Armata Rossa giunse con la battaglia di Stalingrado (22 novembre 1942 - 2 febbraio 1943), che portava alla resa definitiva delle forze tedesche.
La vittoria dell'Unione Sovietica, che seppe sfruttare appieno i vantaggi del patto di non-aggressione siglato in precedenza con il Giappone (13 aprile 1941), fu possibile anche grazie al forte e diffuso movimento partigiano organizzatosi nelle zone di occupazione tedesca. L'esito del confronto rappresentò, soprattutto, un lampo di speranza nel buio dell'oppressione nazista; esso instillò il dubbio, anche nei più fanatici sostenitori del regime, che Hitler, nonostante tutto, non fosse imbattibile.
Pearl Harbor e l'entrata in guerra degli Stati Uniti 
Il contrasto che contrapponeva Giappone e Stati Uniti nel Pacifico era di lunga data. La tensione si acuì quando i giapponesi, per ampliare il proprio raggio d'influenza nel continente asiatico, occuparono l'Indocina settentrionale, direttamente controllata dal governo di Vichy (giugno-luglio 1941).
Mentre Roosevelt intratteneva complicate quanto velleitarie trattative con il governo giapponese per ritardare il più possibile il conflitto, un attacco aereo sorprendeva la flotta statunitense alla fonda nel porto hawaiano di Pearl Harbor, distruggendola quasi completamente (7 dicembre 1941).
Tuttavia, il proditorio attacco di Pearl Harbor, al quale il parlamento americano rispose con l'immediata dichiarazione di guerra (Germania e Italia dichiararono a loro volta guerra agli Stati Uniti l'11 dicembre 1941), e lo stesso patto di non-aggressione sottoscritto con l'Urss (13 aprile 1941) consentirono inizialmente al Giappone di avere mano libera nel suo programma di espansione territoriale nel Pacifico. Nel giro di pochissimi mesi l'esercito nipponico, guidato dal generale Tojo, estese l'influenza giapponese su un'area immensa, che andava dai confini orientali dell'India fino alle isole Marshall a oriente, e dall'isola di Sakhalin, nell'estremo nord, fino al limite delle acque territoriali australiane.
L'ingresso nel conflitto del colosso americano, oltre ad ampliare ulteriormente il fronte dei contendenti, gettò sul piatto della bilancia il peso di una economia fortissima e di un patrimonio immenso di uomini e di mezzi. Ciò costituì, insieme alla partecipazione dell'Unione Sovietica al conflitto, uno dei momenti determinanti per gli esiti della seconda guerra mondiale.

 

1942-1943: la riscossa alleata
La controffensiva alleata  
Tra il 1941 e il 1942, tutto il continente europeo, fatta eccezione per la Svezia, la Svizzera e la Spagna franchista, era sotto il giogo nazista. Fu proprio nel momento di massima espansione del dominio nazifascista che si scatenò l'offensiva generalizzata delle forze alleate. Rinforzate militarmente e rincuorate spiritualmente dall'apporto americano, gli eserciti del fronte antifascista cominciarono gradatamente a riorganizzarsi e, nel giro di pochissimo tempo ripresero l'iniziativa quasi su tutti i fronti. Dopo gli illusori successi della primavera 1942, le forze tripartite venivano duramente sconfitte in Russia, nell'Africa settentrionale e nel Pacifico.
Mentre in Unione Sovietica lo sforzo offensivo tedesco veniva neutralizzato nella sacca di Stalingrado, la sconfitta di El Alamein, in Egitto, a opera dell'esercito inglese, segnava l'inizio del declino per l'avventura nordafricana italo-tedesca.
Nel medesimo tempo, la flotta americana riconquistava il dominio dei mari nel Pacifico e, sconfiggendo i giapponesi nelle battaglie navali del mar dei Coralli (8 maggio 1942) e delle isole Midway (7 giugno 1942), poneva le premesse per un graduale recupero delle posizioni precedentemente perdute.
Si trattava di una svolta estremamente significativa, accentuata dal fatto che Germania e Italia si trovavano ora a fare i conti sia con gli effetti disastrosi dei bombardamenti aerei alleati, sia con la diffusione di sempre più ampie sacche di resistenza armata nei paesi occupati. Dal punto di vista degli equilibri internazionali, il 1942 segnò probabilmente anche il momento di definitivo declino dell'Europa e di quella sua funzione di riferimento unico e imprescindibile, che in parte era già stata scalfita dal precedente conflitto mondiale.
La dipendenza da un aiuto esterno - nella fattispecie, dell'America e dell'Unione Sovietica - per la salvaguardia della sua sicurezza fu il passo decisivo verso quella perdita di autonomia politica che avrebbe caratterizzato la sua storia futura dopo la fine della guerra.

La riscossa del fronte antifascista
Il 1942 rappresentò il momento nel quale il fronte antifascista internazionale invertì a proprio favore l'esito dello scontro. L'industria bellica americana, sovietica e inglese funzionava oramai a pieno regime e la produzione di mezzi corazzati (finalmente all'altezza dei mitici "panzer" tedeschi), aerei, navi e mezzi di trasporto veniva continuamente incrementata. Anche le tecnologie impiegate divennero progressivamente più sofisticate, mentre si fece sempre più ardita la ricerca di nuove armi che risultassero decisive per le sorti del conflitto.
Vennero via via perfezionandosi il collegamento tra i reparti e il coordinamento tra le diverse armi impiegate in battaglia. L'impiego di nuovi comandanti, dotati finalmente di un'ampia visione strategica, permise di contrastare efficacemente gli stati maggiori avversari.
Inoltre, decisiva si dimostrò la capacità di allestire velocemente efficaci linee di collegamento tra il fronte e le retrovie: ciò consentì di rifornire rapidamente le prime linee e di sostenere in modo continuativo le successive ondate offensive, permettendo il rafforzamento delle posizioni via via conquistate.
Un aspetto nuovo presentato dal conflitto, che a lungo termine risultò decisivo, ma che ebbe risvolti altamente drammatici, fu l'intensificarsi dei bombardamenti aerei sulle città tedesche. Ciò significò infatti il coinvolgimento diretto della popolazione civile nella tragica esperienza della guerra come mai era successo in precedenza.
L'esperimento terroristico di Guernica durante la guerra di Spagna (immortalato su tela in un celeberrimo dipinto di Pablo Picasso) fece immediatamente proseliti anche nel campo Alleato.
Con il perfezionamento dei mezzi impiegati e lo sviluppo delle tecnologie radar le incursioni aeree ebbero effetti sempre più devastanti, concludendosi con veri e propri disastri (bombardamento di Amburgo, luglio-agosto 1943, e di Dresda, febbraio 1945).
Lo sbarco alleato in Africa  
La posizione degli eserciti alleati si rafforzò ulteriormente alla fine del 1942. L'esplicita richiesta avanzata da Stalin perché venisse aperto un nuovo fronte che alleggerisse lo sforzo sovietico venne finalmente esaudita con lo sbarco in Marocco e in Algeria di un nutrito contingente angloamericano guidato dal generale Eisenhower (8 novembre 1943). Firmato l'armistizio con l'ammiraglio François Darlan, capo del governo di Vichy (per ritorsione, Hitler ordinerà l'immediata occupazione di tutto il territorio francese), le forze alleate ingaggiarono duri scontri con il nemico. Dopo cinque mesi di aspri combattimenti, oramai incalzati dalle manovre convergenti di Montgomery da sud-est e di Eisenhower da ovest, gli italo-tedeschi si ritiravano in Tunisia, dove capitolavano il 13 maggio 1943.
La sconfitta dell'Asse e la sua estromissione dal continente africano consentì piena libertà di movimento agli alleati nel mar Mediterraneo.
La caduta del fascismo 
Facendo seguito a quanto stabilito nell'incontro di Casablanca (14 gennaio 1943), Churchill e Roosevelt diedero il via alle preventivate operazioni di sbarco in Sicilia (10 luglio 1943).
Mentre le truppe alleate avevano ragione delle difese dell'isola e dilagavano nell'intera penisola meridionale (sbarco in Calabria, 3 settembre, a Salerno, 9 settembre, e liberazione di Napoli, 27-30 settembre 1943), a Roma si consumava il dramma politico di un ormai stanco Mussolini.
Destituito dall'incarico di capo del governo dopo il voto di sfiducia del Gran Consiglio del Fascismo (25 luglio 1943), Mussolini venne arrestato e condotto prigioniero a Campo Imperatore, sul Gran Sasso. In realtà lo sfacelo del regime fascista, decretato dalla seduta del Gran Consiglio, era già evidente ben prima dello sbarco alleato in Sicilia, che funzionò solo da detonatore per lo scoppio della crisi.
Già in febbraio, Mussolini, appena riavutosi da un lungo periodo di malattia, aveva proceduto a un rimpasto governativo teso ad allontanare i principali oppositori (Galeazzo Ciano e Dino Grandi) dai posti chiave; il mese successivo aveva dovuto fronteggiare una dura contestazione operaia a Torino, presto diffusasi a buona parte dell'Italia settentrionale; infine il 19 luglio, a Feltre, la delusione di un nuovo incontro con Hitler che, pur vantando le grandi risorse ancora in possesso del Reich, gli negava i rinforzi richiesti.
La notizia della caduta di Benito Mussolini, la sera del 25 luglio, venne immediatamente salutata in tutto il paese attraverso grandi manifestazioni di gioia. Si trattava dell'espressione diretta della totale mancanza di adesione, da parte del popolo, al progetto bellico portato avanti dal regime fascista e dimostrava quanto profondo fosse ormai il solco tra il regime e la nazione reale.

Il governo Badoglio
Alle 22,45 del 25 luglio 1943, cioè la sera stessa del pronunciamento del Gran Consiglio contro Mussolini, le trasmissioni radiofoniche subirono una interruzione. Un comunicato annunciò: "Sua Maestà il re e imperatore, ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del Governo, primo ministro e segretario di Stato di Sua Eccellenza il cavaliere Benito Mussolini e ha nominato capo del Governo, primo ministro e segretario di Stato il cavaliere Maresciallo d'Italia, Pietro Badoglio". Mentre il comando delle forze armate veniva ripreso dal sovrano, nel suo messaggio personale alla nazione Badoglio lasciava solamente intravvedere il carattere del nuovo governo: "Assumo il governo militare del paese con pieni poteri.
La guerra continua. La consegna ricevuta è chiara e precisa: chiunque tenti di turbare l'ordine pubblico sarà inesorabilmente colpito".
Così Badoglio disilluse immediatamente quanti avevano visto in lui il purificatore del paese dalla guerra e dalla dittatura fascista. Presentatosi come restauratore della Costituzione, dell'ordine e della legalità, Badoglio fu in realtà il continuatore ideale dei metodi repressivi e dei soprusi perpetrati dal defunto regime. Proclamato lo stato d'assedio, furono vietati gli scioperi e la detenzione di armi, il coprifuoco venne imposto dall'alba al tramonto, mentre la censura sulla stampa si fece ancora più feroce. Nei quarantacinque giorni successivi alla caduta del regime si contarono novantatré morti, trecentocinquantasei feriti, oltre trentamila fermi e ben tremilacinquecento condanne a pene detentive: più di quanto il fascismo seppe fare contro l'opposizione interna nel giro di un ventennio.

 

Dalla Resistenza alla pace

L'8 settembre e la Repubblica di Salò 
In Italia il nuovo governo, presieduto dal maresciallo Pietro Badoglio (che nei quarantacinque giorni del suo mandato instaurò un vero e proprio regime poliziesco), gelò gli entusiasmi per la caduta del regime fascista.
La guerra continuava e, per evitare di irritare Hitler, Badoglio manteneva la parola data, rimanendo al fianco della Germania. I tedeschi, tuttavia, insospettiti dall'imprigionamento di Mussolini, risposero con una intensificazione della presenza militare nella penisola. Tale presenza si trasformò in aperta occupazione non appena venne diffusa la notizia che il governo italiano, per mano del suo plenipotenziario generale Castellano, aveva concluso un armistizio con le potenze Alleate a Cassibile, in Sicilia (3 settembre 1943).
La diffusione della notizia, cinque giorni più tardi (8 settembre 1943), non solo non diede all'esercito il tempo materiale di organizzare una qualsiasi difesa in senso antitedesco, ma lasciò il paese allo sbando, in completa balìa degli eventi. Mentre la famiglia reale e lo stesso Badoglio, con scelta peraltro discutibile, abbandonavano in tutta fretta la capitale e si recavano a Brindisi sotto tutela alleata (9 settembre 1943), Roma veniva occupata dalle truppe tedesche e dichiarata "città aperta" (10 settembre 1943). Ovunque, i contingenti militari italiani, quando non smobilitarono di propria iniziativa, si trovarono nella più assoluta indecisione sul da farsi.
Soltanto in alcune zone essi tentarono di opporsi con le armi agli ex alleati, pagando con la vita il coraggio del loro gesto (per esempio nella battaglia di Cefalonia, 14 settembre 1943). In certi casi le truppe, abbandonate a se stesse, si aggregarono alle formazioni partigiane, come accadde nei Balcani o nella stessa Italia settentrionale nel corso dell'ultimo anno e mezzo di guerra.
Mentre gli alleati, dopo ulteriori sbarchi, proseguivano nella loro marcia verso nord, Mussolini veniva liberato dai tedeschi (12 settembre 1943) e dava l'annuncio della formazione di uno stato fascista repubblicano nelle regioni ancora sottoposte all'occupazione nazista.
La Repubblica sociale italiana, o Repubblica di Salò (così chiamata dalla sede del nuovo governo), fu in realtà uno Stato fantoccio del tutto soggetto alla volontà di Hitler, il quale, fra l'altro, inglobò direttamente nel Reich l'Alto Adige e gran parte del Veneto (1 ottobre 1943).
Il CLN e l'organizzazione partigiana 
La Rsi costituì per il nazismo un importante punto di appoggio nella lotta contro le sempre più agguerrite formazioni partigiane nell'Italia settentrionale. A Mussolini, che aveva accettato di esserne la guida e che rispolverava per l'occasione antiche velleità di socializzazione anticapitalistica, venne a mancare totalmente l'appoggio delle masse popolari e operaie (il numero dei renitenti alla leva dell'esercito repubblichino fu elevatissimo), che andarono invece a ingrossare le fila del movimento di liberazione nazionale.
Politicamente, esso venne coordinato dai Comitati di Liberazione Nazionale (CLN), all'interno dei quali confluirono le sei anime del movimento antifascista: comunista, socialista, democristiano, liberale, d'azione e demolaburista.
La parte militare venne gestita dai comandi delle diverse brigate combattenti ("Garibaldi", "Matteotti", Gap e "Giustizia e Libertà" furono le più famose). Proprio l'attività partigiana agevolò notevolmente l'avanzata angloamericana nella penisola, finendo per condizionare anche le vicende politiche del neocostituito regno del Mezzogiorno (cioè nelle zone liberate). Qui, infatti, la contrapposizione tra Vittorio Emanuele III e Badoglio da una parte, e i Cln dall'altra a proposito del futuro assetto istituzionale dello Stato venne definitivamente accantonata, solo quando le autorità Alleate non si opposero ad avere come interlocutori diretti le forze del movimento di liberazione.
La svolta decisiva venne dall'appello all'unità di tutte le forze antifasciste lanciato da Palmiro Togliatti ("svolta di Salerno", 2 aprile 1944), tornato in Italia dopo diciotto anni di esilio. Il giorno successivo alla liberazione di Roma (4 giugno 1944), il re nominava il figlio Umberto luogotenente del regno, ritirandosi definitivamente a vita privata.
Il governo Bonomi, diretta emanazione del Comitato Centrale di Liberazione Nazionale di Roma (Ccln), e al quale partecipavano in qualità di ministri i massimi esponenti dell'antifascismo militante (da Togliatti, a De Gasperi, a Gronchi, a Saragat), fu costituito ufficialmente il 10 giugno 1944.
La Resistenza europea 
In tutti i paesi europei che nel corso della seconda guerra mondiale caddero sotto il giogo nazista vennero organizzandosi dei movimenti di liberazione nazionale. Questi, attraverso forme di opposizione sia passiva sia attiva, diedero vita alla "resistenza", quel fenomeno storico-sociale che tanta parte ebbe nel porre le basi per la ricostruzione post-bellica del continente.
La lotta si caratterizzò da una parte come guerra di liberazione contro l'esercito invasore, dall'altra come proposta - politica e ideologica - di temi e valori contrapposti a quelli propugnati dal nazifascismo. Solo in questa ottica è possibile comprendere come l'importanza della Resistenza europea non consistette solo nel contributo materiale che essa diede alla guerra alleata, ma anche e soprattutto nel sostegno psicologico e morale che seppe fornire alla popolazione civile martoriata, tenendo viva la speranza che una parvenza di vita normale e democratica fosse ancora possibile pure nel mezzo dei rastrellamenti, delle deportazioni e dei bombardamenti.
Soprattutto, il movimento della Resistenza ebbe la funzione di "contenitore" ideale di tutte le diverse anime che composero la galassia antifascista.
Al di là di qualsiasi divisione o caratterizzazione ideologica o confessionale, essa coagulò gli sforzi di comunisti, liberali, cattolici e socialisti e fece loro individuare in chi aveva soppresso gli istituti democratici e la dignità dell'uomo l'unico vero nemico da combattere.
Le diverse realtà europee 
La portata e il carattere stesso della Resistenza variarono a seconda della conformazione geografica e sociale di ciascun paese. Nelle steppe russe, in Jugoslavia, nella penisola balcanica e nella stessa Italia settentrionale essa assunse le forme di un vero e proprio movimento di guerriglia, caratterizzato da veloci attacchi alle colonne tedesche e di altrettanto repentine ritirate nel fitto dei boschi e sui monti.
In altri paesi, come in Olanda, in Belgio e in parte nella stessa Francia, la Resistenza fu piuttosto un fenomeno urbano, strettamente coordinato da apposite strutture clandestine ben collegate tra loro e in diretto contatto con emissari dei governi alleati.
Particolare rilevanza nell'ambito della guerra di resistenza - che fu, è bene ricordarlo, un conflitto nel conflitto - assunse l'esperienza jugoslava. Qui, infatti, i partigiani comunisti sotto la guida di Josip Broz "Tito" (1892-1980), superato il dualismo con l'altro movimento di resistenza interno capeggiato dal nazionalista Draza Mihajlovic, riuscirono a liberare il paese in modo del tutto autonomo, prima dell'arrivo delle forze alleate.
Dal punto di vista numerico, imponente fu la partecipazione francese alla lotta dei "maquis" (circa tre milioni di persone).
In Unione Sovietica il numero dei partigiani assommò a circa mezzo milione, mentre in Italia, alla vigilia della liberazione, l'esercito combattente raggiunse le duecentomila unità.
La resa della Germania 
Su altri fronti si assisteva a un progressivo inasprimento delle operazioni militari. La speranza di vittoria di Hitler, al di là dei proclami reboanti, scemava di giorno in giorno. Neppure il massiccio ricorso alle tanto vantate armi segrete avrebbe probabilmente cambiato i destini del conflitto.
Qualche risultato gli scienziati e i militari tedeschi riuscirono a conseguirlo, accelerando la produzione delle cosiddette "bombe volanti", ossia di aerei telecomandati carichi di ordigni (V1) e di veri e propri missili a testata esplosiva (V2). Tuttavia, la capacità distruttiva di tali armi, che vennero usate soprattutto per colpire la città di Londra (giugno 1944), non era minimamente paragonabile a quella dispiegata dai grandi bombardieri angloamericani che, ormai quasi quotidianamente, martellavano le città tedesche.
Nel frattempo, mentre sul fronte orientale le armate sovietiche riuscivano a riconquistare il terreno perduto con sempre maggiore facilità (liberazione dell'Ucraina e della Crimea, dicembre 1943-aprile 1944), un nuovo fronte veniva aperto nella zona dell'Europa occidentale con lo sbarco di truppe alleate nel nord della Francia ("operazione overlord", 6 giugno 1944).
L'operazione, decisa da Churchill, Stalin e Roosevelt in occasione della conferenza di Teheran (28 novembre 1943), ebbe un contraccolpo immediato sugli equilibri del conflitto.
Una volta liberata la Francia (il generale De Gaulle entrava trionfalmente a Parigi il 25 agosto 1944), le forze alleate si raccolsero nei pressi del confine con la Germania, riuscendo a rintuzzare anche un'ultima offensiva tedesca nelle Ardenne (16 dicembre 1944). In rotta su tutti i fronti, l'esercito tedesco fu costretto ad arretrare rapidamente, mentre l'accerchiamento della Germania divenne pressoché totale.
Dopo un ultimo inverno di durissimi e disperati combattimenti sul fronte delle Ardenne e lungo la linea gotica in Italia, l'epilogo fu repentino: penetrate ovunque in territorio tedesco, le truppe alleate oramai minacciavano direttamente Berlino, dove Hitler rimaneva asserragliato dall'inizio del 1945.
In Italia, il crollo di qualsiasi resistenza tedesca (25 aprile 1945) portò anche la fine della Repubblica sociale di Salò e, di lì a poco, alla cattura e all'uccisione di Benito Mussolini da parte dei reparti partigiani a Dongo, nelle vicinanze di Como. Dopo il suicidio di Hitler (30 aprile 1945) e dei maggiori gerarchi nazisti, il successore designato, l'ammiraglio Doenitz, accettava le condizioni alleate per una resa incondizionata della Germania (7-8 maggio 1945).
Bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki 
Il 9 maggio 1945 segnava la fine del conflitto mondiale in Europa. In guerra rimaneva ormai il solo Giappone, per quanto duramente colpito dagli americani in occasione della battaglia navale di Leyte (ottobre 1944) e dello sbarco di Iwojma (19 febbraio 1945).
Il colpo finale alla resistenza nipponica veniva inferto con il tragico bombardamento delle città di Hiroshima (6 agosto 1945) e Nagasaki (9 agosto 1945) deciso da Harry Truman, nuovo presidente degli Stati Uniti. Le due città furono le prime a essere colpite con bombe atomiche nel corso della seconda guerra mondiale.
Dopo l'inizio dell'attacco sovietico (8 agosto), concordato nell'incontro di Jalta a febbraio, il Giappone accettava la resa incondizionata (14 agosto 1945). Il fungo atomico che si innalzava dalle fumanti rovine delle città giapponesi suscitava nuove ombre sull'immediato futuro che attendeva l'umanità.

 

 

Il dopoguerra

 

Il tragico bilancio della guerra 
Il bilancio del secondo conflitto mondiale fu, in termini di distruzione, morti e dispersi, enorme. Oltre cinquanta milioni furono le vittime, circa il 50% delle quali si contò fra la popolazione civile; intere città furono completamente rase al suolo, e molte regioni necessitavano di una completa riorganizzazione delle strutture economiche e politiche.
L'Unione Sovietica fu il paese che pagò il più alto tributo in termini di vite umane (circa 17 milioni), seguito dalla Cina, dalla Polonia e dalla stessa Germania. L'economia mondiale uscì completamente sconvolta dalla guerra; gli stessi Stati Uniti, che erano riusciti a mantenere intatto il proprio patrimonio industriale nel corso della guerra, si trovarono a fare i conti con una spesa bellica che in soli quattro anni aveva superato i trecento miliardi di dollari e che rischiava di incidere in modo pesante sui programmi di riconversione.
Un'altra conseguenza che derivò dal conflitto, sicuramente fra le più tragiche e che ebbe proporzioni immani, fu costituita dagli esodi di massa e dalle deportazioni alle quali furono sottoposti  circa trenta milioni di europei (tra scambio di minoranze etniche, rimpatrio di tedeschi, emigrazione ebraica verso Israele ecc.) e che si originarono nel tentativo di far coincidere i nuovi confini politici, spesso stabiliti in modo del tutto astratto, con quelli etnici.
Il sistematico sterminio nazista del popolo ebraico (si ricordi che si è trattato di circa sei milioni di persone, alle quali vanno aggiunti i quattro milioni di zingari, omosessuali, comunisti e handicappati) macchiò il regime hitleriano, prima e durante il conflitto, di tutta una serie di orrori duramente sanzionati con il processo contro i crimini di guerra perpetrati dai gerarchi nazisti, celebrato nella città tedesca di Norimberga nel biennio 1945-1946.
La nuova sistemazione territoriale 
La conferenza di pace, dopo numerosi colloqui preliminari, si aprì a Parigi (luglio 1946). Come in quella precedente del 1919, ogni decisione fu rimessa al parere dei rappresentanti delle maggiori potenze: Molotov per l'Unione Sovietica, Bevin per la Gran Bretagna, Byrnes per gli Stati Uniti e Bidault per la Francia. Analogamente a quanto si era verificato al termine del primo conflitto mondiale, i paesi sconfitti non ebbero diritto di parola, né poterono in alcun modo interferire nelle decisioni prese dall'apposita commissione.
Sulla base dei colloqui parigini vennero firmati solo alcuni trattati di pace (febbraio 1947) i quali, garantendo l'insediamento di regimi parlamentari, imposero ai vinti il disarmo, pesanti riparazioni economiche e rilevanti perdite territoriali. In tal senso andarono, per esempio, le condizioni imposte all'Italia (perdita delle colonie e cessione di Trieste alla Iugoslavia), alla Romania (cessione della Bucovina e della Bessarabia all'Urss), alla Finlandia (cessione della Carelia) e all'Ungheria (che ritornava agli originari confini d'anteguerra).
Tempi più lunghi, al contrario, richiese la soluzione della situazione giapponese: dopo la smilitarizzazione del paese, e la creazione di una carta costituzionale modellata sull'esempio di quella americano, il trattato di pace (non sottoscritto dall'Urss) venne firmato solo nel 1951, a San Francisco.
La questione tedesca 
Più complesso si presentò, invece, il problema relativo alla composizione della questione tedesca.
Sia la conferenza inter-alleata di Potsdam (luglio 1945) sia quella successiva di Mosca (marzo - aprile 1947) misero in luce forti contrasti fra l'Unione Sovietica e i paesi occidentali vincitori del conflitto a proposito della nuova sistemazione della Germania.
Essa si risolse, o, per meglio dire, rimase cristallizzata, nella suddivisione del territorio tedesco in due parti politicamente e costituzionalmente distinte, l'una gravitante nell'orbita occidentale e l'altra in quella sovietica.
La creazione della Repubblica Federale Tedesca (Bundesrepublik Deutschland, o Brd, 23 maggio 1949), o Germania occidentale, e della Repubblica Democratica Tedesca (Deutsche Demokratische Republik, o Ddr, ottobre 1949), o Germania orientale, rispecchiò il criterio della spartizione secondo zone d'influenza che era stato sancito durante la conferenza di Jalta nel 1945.
Il breve processo di distensione internazionale, inaugurato con la creazione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu), ente sovranazionale concepito con lo scopo di salvaguardare la pace mondiale e che accolse inizialmente cinquanta stati (26 giugno 1945), si era già interrotto.
La questione inerente le due Germanie si trascinerà stancamente, tra reciproche accuse e malcelati sospetti.
La creazione della Repubblica democratica tedesca aveva fatto da contraltare alla decisione occidentale di rendersi garante della sicurezza della Germania Ovest, ma non aveva certo posto fine alle discussioni.
A seguito di una nuova situazione di crisi appositamente provocata dall'Urss, con la giustificazione di voler evitare il passaggio di Berlino all'Occidente, il 13 agosto 1961 venne eretto il muro di demarcazione fra le due parti della città. Da quel momento il muro di Berlino, che improvvisamente separò affetti, sentimenti e rapporti di lavoro, avrebbe rappresentato non solo una barriera fisica, ma anche e soprattutto un profondo fossato ideologico tra i due blocchi che si contrapponevano.
Contrasti ideologici e politici tra USA e Urss 
Il conflitto aveva provocato un'alleanza militare e un momentaneo avvicinamento tra l'Unione Sovietica e i paesi dell'Occidente capitalistico.
Tuttavia, la concordanza di obiettivi - nella fattispecie, la sconfitta della Germania e del nazifascismo - ebbe termine nel momento stesso nel quale vennero sottoscritte la capitolazione tedesca e quella giapponese. Le ragioni del contrasto erano alimentate in parte dal dissidio ideologico di fondo, in parte dalle antitetiche strutture socioeconomiche che ne contraddistinguevano il rispettivo percorso storico. Ancora prima che i trattati di pace intervenissero a regolare i rapporti tra vincitori e vinti, il mondo si trovò quindi suddiviso in due blocchi contrapposti, inaugurando il lungo periodo (durato circa un quarantennio) della così detta "guerra fredda", caratterizzato da punte di tensione estreme, timori e sospetti reciproci.
Ai processi di distensione non giovarono certo né il rapido processo di trasformazione degli stati occupati durante la guerra in democrazie popolari governate da consulenti e da partiti ligi alle direttive emanate da Mosca (creazione del sistema dei "paesi satelliti", 1945-48); né l'enunciazione della "dottrina Truman", in base alla quale gli Stati Uniti si arrogano il diritto di intervenire in qualunque paese considerino minacciati gli interessi nazionali (1947).
In quest'ottica vanno inquadrate l'immediata attuazione da parte occidentale del piano Marshall del 1947 che stabiliva gli aiuti economici per la ricostruzione in Europa - attuazione formalmente subordinata all'espulsione dei vari partiti comunisti dal governo e alla accettazione della supremazia statunitense - e il rafforzamento della presenza militare nella Germania occidentale.
La risposta del blocco orientale coincise con gli aiuti sovietici ai partiti comunisti occidentali e con il rafforzamento dei legami politici ed economici tra l'Urss e i paesi satelliti (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Iugoslavia e Albania).
Lo sganciamento dall'orbita sovietica della Iugoslavia (che nel 1948 sancì la "via nazionale al socialismo", la teoria politica cioè che sostiene la preminenza delle situazioni nazionali, rispetto all'ortodossia leninista, per la costruzione del socialismo) e il suo schieramento su posizioni non allineate, provocarono un ulteriore ricompattamento nel blocco degli stati orientali.
Che la spartizione in rispettive zone d'influenza fosse oramai un dato comunemente accettato, apparve evidente in occasione della crisi greca, quando l'insurrezione comunista nel Nord del paese venne sedata grazie agli aiuti angloamericani e senza che Stalin opponesse alcuna resistenza.
Riarmo, alleanze e aiuti economici 
La "guerra fredda", inoltre, accelerò i processi di riarmo.
Mentre il deterrente atomico, fino a quel momento in possesso solo degli Stati Uniti, divenne patrimonio anche dell'Urss, l'alleanza militare tra i paesi occidentali stabilita dal patto Atlantico (aprile 1949) e dalla costituzione della Nato (North Atlantic Treaty Organization, settembre 1950) venne controbilanciata dalla successiva creazione del patto di Varsavia (14 maggio 1955).
Anche la corsa alla conquista dello spazio, iniziata con la messa in orbita delle prime sonde russe (1957), fu il riflesso diretto dei profondi contrasti che ormai mettevano di fronte, schierati su sponde opposte, le tecnologie, gli uomini e le risorse delle due superpotenze.
Gli organismi internazionali 
I paesi occidentali non tardarono a riconoscere negli Stati Uniti la nazione-guida. Ciò fu dovuto non solamente ai già accennati motivi militari, ma influivano anche, e in modo ben più pesante, questioni di ordine puramente economico, per il fatto che gli Stati Uniti erano divenuti il maggior creditore del disastrato continente europeo.
Il varo dell'Erp (European Recovery Program, 1947), il piano di aiuti economici per la ricostruzione, non fece altro che rafforzare il legame di dipendenza dell'Europa dall'America.
Venne inoltre incoraggiato il potenziamento di già collaudati indirizzi di integrazione economica, favorendo in Europa la creazione dell'Oece (Organizzazione Europea di Cooperazione Economica, 1948) per l'assegnazione e la distribuzione dei fondi Erp.
Nella Nato, organismo di mutua difesa, frutto del patto Atlantico, confluirono tutti i paesi europei non comunisti, ai quali si aggiunsero successivamente la Grecia "normalizzata", la Turchia e la stessa Germania occidentale.
La vittoria conseguita in Cina dalla rivoluzione comunista guidata da Mao Zedong (1949) suggerì agli Stati Uniti di estendere poi il sistema di alleanze anche all'area asiatica e del Pacifico.
In tale direzione andarono, infatti, la firma del patto del Pacifico (Anzus) con Australia e Nuova Zelanda (1951) e la successiva sottoscrizione del trattato dell'Asia sudorientale (Seato) con paesi quali Australia, Filippine, Francia, Gran Bretagna, Nuova Zelanda, Pakistan e Thailandia (1954).
La lotta anticomunista e il maccartismo 
Gli anni di massimo attrito fra i due blocchi furono senza dubbio quelli compresi fra il 1948 e il 1953.
Le rigide pregiudiziali anticomuniste che si vennero affermando dopo la guerra furono scontate, in Europa occidentale come in America, dai sostenitori dei partiti di sinistra e dai fautori di radicali riforme democratiche, i quali vennero spesso discriminati e sottoposti a vere e proprie persecuzioni.
Mentre nella Germania occidentale il potere venne assunto sin dalle prime elezioni libere (agosto 1949) dal cancelliere democristiano Konrad Adenauer, dichiaratamente anticomunista, sia in Francia sia in Gran Bretagna le forze conservatrici scalzarono dalle rispettive posizioni di governo radicali progressisti e laburisti, che già avevano dato il via a un vasto programma di riforme sociali.
Fu tuttavia negli Stati Uniti che la sconfitta della Cina nazionalista (appoggiata dagli americani) e l'inizio degli esperimenti atomici sovietici innescarono una vera e propria psicosi anticomunista. La "caccia al rosso" divenne una delle principali occupazioni dell'amministrazione nordamericana, e si tradusse in delazioni, episodi di spionaggio e processi sommari contro intellettuali e sindacalisti comunisti, o almeno presunti tali.
Soprattutto su ispirazione del senatore repubblicano Joseph McCarthy vennero emanati diversi provvedimenti legislativi finalizzati alla riduzione dell'attività sindacale (Taft Hartley Act, 1947), alla schedatura di tutte le organizzazioni comuniste (McCarran - Nixon Act, 1950) e alla restrizione delle norme sull'immigrazione (McCarran - Walter Act, 1952).
Tali fatti vennero a inasprire sempre di più il clima internazionale, concorrendo a far aumentare i rischi di un confronto aperto fra le due superpotenze.
La guerra di Corea 
La guerra di Corea (1950-1953) arrivò a dimostrare quale livello avesse raggiunto la tensione Est-Ovest. Il ritiro delle forze di occupazione russe e americane alla fine del secondo conflitto mondiale aveva determinato la nascita di due distinte repubbliche, una a nord del 38° parallelo, di ispirazione comunista, l'altra a sud, dichiaratamente filo-occidentale. Il rifiuto opposto nel 1950 da Syngman Rhee (1875-1965), presidente sudcoreano, alla proposta comunista di effettuare un referendum sul problema della riunificazione nazionale, fornì alla Corea del Nord il pretesto per un attacco militare. L'aggressione nordcoreana, apparentemente destinata ad avere solo effetti locali, venne immediatamente condannata dall'Onu, che affidò il compito di ripristinare lo status quo a un contingente militare multinazionale guidato dal generale Douglas Mac Arthur, vincendo le resistenze dell'Urss e dei suoi alleati.
Dopo alterne vicende, contrassegnate dall'invio di aiuti militari sovietici alla Corea del Nord e dall'intervento nel conflitto di contingenti di "volontari" cinesi, la linea del fronte si stabilizzò lungo la linea del 38° parallelo.
L'armistizio di Panmunjon (1953), giunto dopo numerosi momenti di altissima tensione, venne non soltanto a sanzionare la divisione fra le due Coree, ma anche a inaugurare un periodo di relativa distensione internazionale.
La ripresa del Giappone 
Gli anni successivi alla seconda guerra segnarono la ripresa del Giappone. Radicali riforme economiche (drastica riduzione del latifondo e del potere monopolistico esercitato da pochi gruppi industriali) e incentivazione della partecipazione popolare alla vita politica garantita da una costituzione ispirata al modello americano, consentirono una rapida ascesa del paese nelle graduatorie internazionali.
Sublimato il tradizionale militarismo nell'ambito della competizione economica il paese conobbe una crescita intensissima, tanto più singolare se si considera la cronica mancanza di materie prime nel paese del Sol Levante.
Un interventismo statale limitato, il ruolo dell'imprenditoria privata e, non ultimo, la necessità per gli Stati Uniti di ricreare un mercato ricettivo nel Pacifico, costituirono gli ingredienti cardine che hanno rappresentato la rinascita economica giapponese.

 

 

Il dopoguerra in Europa

L'influenza statunitense sull'Europa occidentale 
Se la dipendenza politica dall'Unione Sovietica comportava una pressoché totale subordinazione economica dei paesi satelliti, analoga situazione si verificava nell'ambito dell'Occidente.
Il prezzo pagato dalle democrazie liberali europee per la conservazione delle proprie strutture istituzionali, fu, infatti, estremamente elevato.
Gli Stati Uniti, che di quella conservazione si fecero garanti, si avvalsero del loro ruolo dominante per attuare uno sfruttamento sistematico - in forme più o meno evidenti, ma sempre propagandate come utili alla salvaguardia della democrazia - delle risorse e dei mercati degli alleati europei. Il concetto di centralità del continente europeo, già messo fortemente in discussione dagli esiti del primo conflitto bellico, veniva ora definitivamente accantonato. L'Europa, anche nelle sue componenti più ricche e vitali, si vedeva relegata a posizioni e a ruoli totalmente subalterni. La perdita di peso e di prestigio, sulla quale influiva anche il processo di decolonizzazione in atto, venne accentuata dalla politica dei governi occidentali che, nell'intento di conservare il ruolo egemone della borghesia, si modellò interamente sulle scelte effettuate a Washington.
Questo progressivo infeudamento dell'Europa agli Stati Uniti toccò innanzitutto i paesi più deboli, come l'Italia (dove vennero favorite le coalizioni di centro-destra), o come la Spagna e il Portogallo (dove venne mantenuto l'appoggio ai regimi dittatoriali affermatisi prima della guerra). L'Inghilterra e la Francia riuscirono a mantenere una certa autonomia e, pur conservando un rapporto di stretta collaborazione con gli Stati Uniti in tema di politica estera, i due paesi se ne servirono per promuovere ulteriori trasformazioni dell'assetto socioeconomico interno.
La Gran Bretagna di Elisabetta II 
In Gran Bretagna, l'avvento al potere dei laburisti nel 1945, sotto la guida di Clement Atlee (1883-1967), segnò da una parte l'inizio di un progressivo aumento dell'intervento statale in campo economico (nazionalizzazione della Banca d'Inghilterra, dell'aviazione e di diversi settori industriali), dall'altra determinò una crescita generalizzata dei redditi e del livello di vita.
Vennero introdotti alcuni elementi del così detto "welfare state", come la gratuità dell'insegnamento scolastico e dei servizi socio-assistenziali (National Health Service Act, 1946). Il ritorno al governo del partito conservatore per quasi un quindicennio (gabinetto Churchill, 1951-1955, gabinetto Eden, 1955-1957, e gabinetto Macmillan, 1957-1963) coincise all'interno con una rigida politica di austerità tesa al raggiungimento della stabilità monetaria e del pareggio del bilancio, in politica estera con l'assunzione del ruolo di potenza atomica (1957) e la lenta ma progressiva dismissione dell'impero coloniale.
Gli evidenti progressi compiuti dal paese sulla strada del miglioramento delle condizioni di vita consentì un rafforzamento del legame tra i cittadini e le istituzioni, incarnate nella figura della nuova regnante, Elisabetta II, succeduta al defunto Giorgio VI.
La Francia di De Gaulle 
In Francia una radicale politica di nazionalizzazioni, che coinvolse la banca centrale e ampi settori dell'economia, venne a cambiare profondamente il volto della Quarta repubblica (1946-1958).
Le prime elezioni libere, che avevano sancito la vittoria delle sinistre sui democristiani (Pcf e Psf ottennero circa il 48% dei voti, a fronte del 23% del Mouvement Républicain Populaire, ottobre 1945) e provocato le dimissioni del generale De Gaulle (gennaio 1946), furono all'origine di un lungo periodo di instabilità interna. Dopo il succedersi al potere di vari governi, sempre più attratti nell'orbita americana a dispetto della loro variegata composizione, e la quasi immediata esclusione dei comunisti, la Quarta repubblica fu scossa profondamente dal problema della colonizzazione.
Se l'indipendenza del Marocco e della Tunisia (1956) venne raggiunta in modo quasi indolore, le questioni algerina e indocinese vennero a interferire vistosamente sugli sviluppi della lotta politica francese.
Ciò provocò una serie di lacerazioni dell'assetto interno che si risolsero, nel 1958, con il ritorno sulla scena politica di De Gaulle, nominato primo ministro dal presidente René Coty. De Gaulle fece modificare l'assetto costituzionale dello Stato (Quinta repubblica, 1958) che, pur mantenendo inalterate le basi del confronto democratico e parlamentare, prevedeva ora un notevole rafforzamento dell'aesecutivo e della figura del presidente della Repubblica. Il successo della scelta di De Gaulle venne confermato sia dai risultati delle elezioni politiche del novembre 1958 (vittoria del movimento gollista Unione per la Nuova Repubblica) sia dalla sua nomina a presidente della Repubblica (1959).
Anche la Francia, nel pieno della guerra fredda, operò la scelta della costituzione di un arsenale atomico (1960).
Il caso dell'Italia: la ricostruzione 
L'Italia subì nell'immediato dopoguerra un'evoluzione del tutto particolare: sull'onda del rinnovamento proposto dalla lotta di liberazione partigiana, coordinata dai Comitati di Liberazione Nazionale (Cln), si risolse alla decadenza della monarchia sabauda e all'instaurazione della Repubblica (referendum sull'assetto istituzionale, 2 giugno 1946). La nuova carta costituzionale, entrata in vigore il 1° gennaio 1948 si scontrò ben presto con la situazione reale del paese, lacerato nel suo tessuto sociale e urbano dalle ferite prodotte dalla guerra. Lo stesso apparato legislativo appariva vetusto e totalmente inadeguato ad affrontare l'emergenza.
Le ripercussioni del pesante clima internazionale si fecero avvertire anche nel mondo politico italiano. Esse portarono alla spaccatura del Partito socialista tra filocomunisti e filoccidentali (fondazione del Partito socialista dei lavoratori italiani, in seguito "socialdemocratico", guidato da Giuseppe Saragat, nel gennaio 1947) e, dopo il ricevimento dei primi fondi Erp, all'esclusione dei comunisti dal governo di Alcide De Gasperi (2 febbraio 1947).
Il predominio democristiano venne confermato nelle prime elezioni politiche del dopoguerra del 18 aprile 1948 (la Dc ottenne il 48% dei voti, Pci e Psiup uniti nel Fronte democratico popolare solo il 35%,). La base elettorale della Democrazia cristiana, sorretta anche da un'imponente campagna elettorale svolta dalla Chiesa (sotto gli auspici del radicato anticomunismo di Pio XII), oltre che da una grande ramificazione di organismi collaterali (Acli, Coldiretti) fortemente radicati, consentì alla Dc di non presentarsi unicamente come il partito del padronato (del quale tuttavia godeva il massimo appoggio), ma piuttosto come intreprete e il portavoce degli interessi di una vasta parte della popolazione.
Dal centrismo al centrosinistra 
I governi centristi che si susseguirono (5°, 6°, 7° e 8° governo De Gasperi), decretando la ripresa della destra (venne permessa, tra le altre cose, la formazione del Movimento sociale italiano - Msi, di chiara impronta fascista) e il blocco della spinta riformistica messa in moto dalla lotta antifascista, contribuirono notevolmente all'acuirsi dello scontro sociale nel paese, sempre più diviso fra un Nord industrializzato e un Mezzogiorno depresso e con scarse prospettive di sviluppo. L'attuazione di una parziale riforma agraria (legge Sila) e tributaria (legge Vanoni), l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e lo sviluppo economico che toccò il paese tra gli anni Cinquanta e Sessanta, non riuscirono a risolvere le questioni sul tappeto.
L'uscita di scena di De Gasperi non coincise con la fine del centrismo, che si protrasse ancora per un quinquennio con i governi Scelba (1954-1955), Segni (1955-1957) e Zoli (1957-1958).
Le elezioni del 1958, che decretarono una nuova vittoria della Dc e un relativo avanzamento di Pci e Psi, aprirono la via al nuovo progetto di governo di "centro-sinistra". Tale progetto, momentaneamente messo in mora da un violento rigurgito della destra (i governi Segni, 1959, e Tambroni, 1960, verranno sostenuti dall'Msi), venne inaugurato da Amintore Fanfani con la creazione di un governo quadripartito (Dc, Pri, Psdi, Psi) nel febbraio 1962.
Dal punto di vista della politica internazionale, l'Italia seguì una linea di totale allineamento alle direttive imposte dagli Stati Uniti, riuscendo solo parzialmente a perseguire l'obiettivo di creare nuovi rapporti fra gli stati europei che consentissero una pur limitata equidistanza tra i blocchi (creazione del Consiglio d'Europa, 1949).

 

 

Lo stato di Israele

La proclamazione della Repubblica di Israele 
La fine della seconda guerra mondiale aveva evidenziato nel settore mediorientale le aspirazioni unitarie e indipendentistiche delle popolazioni arabe. Questo sentimento era stato rafforzato dalla creazione della lega Araba (marzo 1945), comprendente, fra gli altri, Algeria, Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Iraq e Libia, che aveva funzioni di coordinamento e controllo in materia di politica estera. Il raggiungimento della piena indipendenza da parte di Siria e Libano (1946), che aderirono a loro volta alla lega, parve dare una sistemazione geopolitica definitiva all'area mediorientale.
La situazione si trasformò in maniera radicale nel momento in cui i sempre più numerosi coloni ebraici, organizzatisi in comunità agricole collettivistiche (i "kibbutz") e dotatisi di strutture sociali e militari estremamente efficienti, avanzarono formale richiesta al governo inglese di rispettare la promessa relativa alla costituzione di uno Stato ebraico in Palestina.
Non essendo in grado di far fronte al precipitare degli eventi - gli scontri, sempre più frequenti, fra la comunità ebraica e quella araba coinvolsero presto anche civili e militari inglesi - la Gran Bretagna rimise la questione alla decisione dell'Onu. Dopo il rifiuto arabo alla proposta delle Nazioni Unite di dividere in due parti il territorio palestinese (1947) e la successiva rinuncia di Londra all'esercizio del suo mandato, il governo ebraico provvisorio presieduto da David Ben Gurion proclamò la repubblica di Israele (maggio 1948).
La nascita del nuovo paese, subito osteggiata da un velleitario attacco armato da parte della lega Araba (guerra arabo-israeliana, 1948-1949), si risolse con la spartizione della città santa di Gerusalemme e con il massiccio esodo della popolazione araba dalla Palestina.
Tensioni tra arabi e israeliani 
Il problema dei profughi palestinesi, al quale non potevano certo offrire una soluzione duratura la formazione del regno hascemita di Giordania (1949) né tantomeno la creazione di campi di raccolta in Libano o in Siria, sarebbe rimasto, per quasi cinquant'anni, uno dei nodi più intricati e drammatici dell'intera vicenda e uno degli ostacoli maggiori sulla strada della pace. La fase storica successiva venne quindi contrassegnata da un continuo stato di tensione.
Esso fu caratterizzato all'interno da sanguinosi attacchi terroristici da parte dei combattenti palestinesi - i cosiddetti "feddayn" - e da violente rappresaglie israeliane, all'esterno da veri e propri conflitti con i paesi arabi vicini: dalla partecipazione alla spedizione anglo-francese in occasione della crisi di Suez (ottobre 1956), alla "guerra dei sei giorni" (5-10 giugno 1967) e a quella così detta del Kippur (ottobre 1973) - episodi che comportarono, fra l'altro, importanti acquisizioni territoriali per Israele (Sinai, striscia di Gaza, alture del Golan).
La crisi di Suez 
Il momento più drammatico dell'intero processo di decolonizzazione in Medio Oriente fu quello che si verificò in occasione della crisi di Suez.
Il progressivo avvicinamento egiziano all'Europa orientale (acquisto di forniture militari dalla Cecoslovacchia, 1955) provocò un blocco dei crediti occidentali per la costruzione della diga di Assuan, sul Nilo. Per finanziarne la realizzazione il nuovo primo ministro egiziano, il colonnello Gamal Abd El Nasser (1918-1970), successore del deposto re Faruk, e fautore di una via araba al socialismo, procedette alla nazionalizzazione del canale di Suez (luglio 1956), suscitando la reazione armata anglo-francese (ottobre 1956). La condanna congiunta di Stati Uniti e Onu, e le minacce d'intervento sovietico, provocarono il ritiro del contingente franco-britannico. A partire da questo momento l'Unione Sovietica cominciò ad attuare il suo programma di aiuti finanziari e militari ad alcuni paesi dell'area (come Egitto e  Iraq), inserendosi così a pieno titolo nella politica mediorientale.
I paesi arabi, alcuni dei quali si riunirono nel 1958 a formare la Repubblica Araba Unita (Rau, Egitto, Siria e Yemen), iniziarono ad assumere una importanza strategica enorme nell'ambito degli equilibri politici mondiali, soprattutto in virtù delle ingenti risorse petrolifere da essi detenute.
La guerra arabo-israeliana 
Il peso acquisito dai paesi del Terzo mondo, soprattutto di quelli appartenenti all'area mediorientale, risultò evidente in occasione della quarta guerra arabo-israeliana (ottobre 1973), vinta da Egitto e Siria.
In quella circostanza, infatti, i paesi aderenti all'Organizzazione dei paesi arabi esportatori di petrolio (Opec, fondata nel settembre 1968) misero in atto una politica di contingentamento dei prodotti petroliferi, innescando una crisi di proporzioni mondiali. Questo fatto, mettendo in luce l'ormai indissolubile dipendenza dello sviluppo industriale occidentale dagli approvvigionamenti petroliferi di provenienza mediorientale, spinse i paesi industrializzati, da un lato, ad attuare una politica di austerità, dall'altro ad accentuare gli investimenti per la ricerca nel campo dello sfruttamento dell'energia nucleare, con i conseguenti rischi connessi allo smaltimento delle scorie radioattive e a incidenti non previsti (come accadde in occasione del guasto a uno dei reattori della centrale nucleare di Three Mile Island, nel 1979).
Il conflitto arabo-israeliano non si esaurì con l'armistizio (ottobre 1975). La tensione salì progressivamente di intensità in Libano, dove fattori concomitanti (presenza di etnie e religioni differenti, profughi palestinesi) provocarono ben presto un conflitto tra cristiani e musulmani, al quale fecero seguito un intervento siriano a Nord (occupazione di Beirut, giugno 1976) e uno israeliano a Sud (bombardamento dei campi-profughi, marzo 1978).
Il caso dell'Iran 
L'area mediorientale venne sconvolta nel corso degli anni Settanta anche da un altro avvenimento di capitale importanza.
In Iran, la rivolta popolare condotta contro lo scià Reza Pahlevi (1978) si risolse con l'abbattimento della monarchia e l'istituzione di una teocrazia guidata dall'ayatollah Khomeini, dal carattere fortemente antioccidentale. Tale indirizzo venne, anche simbolicamente, ribadito con l'occupazione dell'ambasciata americana a Teheran da parte di fondamentalisti islamici (novembre 1979). I cinquantadue ostaggi vennero rilasciati soltanto un mese e mezzo più tardi, dopo che un tentativo per liberarli, messo in atto da reparti speciali dell'esercito americano, era fallito miseramente.

 

La decolonizzazione

La crisi del modello coloniale 
Le cause della rivolta con la quale, in un arco di tempo più che ventennale, i popoli asiatici e africani pervennero all'indipendenza erano già tutte implicite nelle stesse forme di dominio esercitate dall'Occidente. Per quante differenziazioni vi fossero, i vari modelli coloniali - francese, belga, italiano, inglese, olandese e tedesco - avevano caratteristiche  costanti, in quanto prevedevano un rapporto di netta subordinazione fra dominanti e dominati, che si risolveva nell'attuazione di metodi di controllo ben determinati (quali, per esempio, lavoro coatto, discriminazioni salariali, disoccupazione intermittente, saccheggio delle risorse locali ecc.).
Il moto di reazione che in maniera istintiva o premeditata si fece largo, trasse legittima determinazione dalla necessità di attuare una vera e propria politica nazionale. Una politica che consentisse lo sfruttamento a proprio vantaggio delle risorse interne abolendo, di fatto, il monopolio esercitato dalle potenze coloniali europee.
Vi furono quindi ragioni materiali sul fondo della rivolta, ma non solo. Giocarono un ruolo importantissimo anche altri fattori, quali la orgogliosa riaffermazione di una dignità etnica calpestata, l'aspirazione alla conquista di una identità nazionale e culturale ben precisa e, non ultimo, l'indebolimento postbellico delle grandi potenze europee che durava ininterrottamente dall'epoca dei primi insediamenti coloniali.
In casi particolari, si creò una specie di legame ideale tra gli sforzi che andavano compiendo i popoli afro-asiatici per liberarsi dal giogo coloniale e le lotte che avevano caratterizzato nel XIX secolo i movimenti d'indipendenza europei. Infine, l'anticolonialismo si collegò spesso, specie nel continente africano, all'ideologia comunista, coinvolgendo direttamente il sud e l'est del mondo nel clima della guerra fredda.
La questione algerina 
Drammatiche furono le tappe che contrassegnarono il raggiungimento dell'indipendenza da parte dell'Algeria.
La sanguinosa guerra combattuta dal Fronte di liberazione nazionale algerino a partire dal 1954, contrastato all'interno dal gruppo terroristico di stampo filofrancese dell'Oas (Organisation de l'Armée Secrète), ebbe pesantissime ripercussioni anche sull'assetto politico della Francia (dissoluzione della Quarta repubblica e presa del potere da parte del generale De Gaulle, 1958), lacerata tra una difesa a oltranza della linea colonialista e la rinuncia ai domini d'oltremare. La crisi venne risolta, dopo scontri violentissimi e rivolte represse nel sangue, con la firma degli accordi di Evian e la concessione dell'indipendenza all'Algeria (13 marzo 1962).
L'apartheid in Sudafrica 
Il Sudafrica, staccatosi dal Commonwealth nel 1961, costituì un caso a parte nel contesto generale africano. In questo paese, infatti, una minoranza bianca, di origine boera e inglese, teneva saldamente nelle proprie mani le leve del potere, relegando la maggioranza nera (poco meno di venti milioni di persone) a posizioni di totale subordinazione, perseguendo una rigidissima e radicale politica di segregazione razziale (politica dell'apartheid).
Più di tre quarti della popolazione veniva esclusa dal godimento dei diritti politici, dall'istruzione superiore e dalla possibilità di una sia pur minima elevazione nella scala sociale. La condanna dell'Onu (1963) e l'embargo attuato nei confronti del governo di Pretoria, sortirono l'effetto di un inasprimento della legislazione sull'apartheid (1964). Molti leader dei movimenti di liberazione, fra i quali Nelson Mandela, furono arrestati e condannati al carcere a vita.
La tensione crescente esplose più volte, sia in aperte dimostrazioni di protesta, sempre duramente represse dalla polizia e dall'esercito (come accadde nel ghetto di Soweto, 1976), sia sotto forma di campagne di disobbedienza civile, orchestrate in massima parte dal movimento clandestino dell'African National Congress (Anc).
La lotta al colonialismo, che si sostanziò anche nella ricerca di una politica comune da opporre a quella dei due blocchi Est-Ovest (conferenza di Bandung, 1955), fu caratterizzata da sviluppi e tempi differenti negli altri paesi ancora soggetti al dominio europeo.
Il caso del Congo 
La meta dell'indipendenza, raggiunta da alcuni in maniera rapida, anche se non sempre indolore, provocò in più di una occasione violente tensioni internazionali. Tipico fu il caso del Congo, resosi indipendente dal Belgio sotto la guida del movimento nazionale congolese diretto da Patrice Lumumba (1960). Il paese dovette infatti sopportare un lungo periodo di lotte intestine fomentate dalla Union Minière, società europea proprietaria di ricchissimi giacimenti nella regione del Katanga, e nel corso delle quali perse la vita lo stesso leader del movimento d'indipendenza.
La situazione venne normalizzata soltanto nel 1965, con l'avvento al potere di Joseph Mobutu, dopo che lo stesso segretario generale dell'Onu, lo svedese Dag Hammarskjold, era caduto vittima degli scontri.
L'India dopo Gandhi 
Preparata dal movimento non-violento guidato da Gandhi, l'indipendenza dell'India divenne realtà nel 1947. L'opera di ammodernamento della nuova repubblica si scontrò immediatamente con le difficoltà legate alla pacifica convivenza delle diverse etnie e dei due grandi gruppi religiosi (induisti e musulmani) presenti nel paese.
La creazione di uno stato musulmano confinante a nord, il Pakistan (1947), non fu sufficiente a normalizzare la situazione di estrema tensione e della quale rimase vittima lo stesso Gandhi (1948). Lo Stato venne riorganizzato dal punto amministrativo e militare sotto la guida di Jawaharlal Nehru ed eretto a repubblica federale (1950).
I rapporti con il vicino Pakistan e con la Cina, alla quale lungamente l'India contese il primato nel continente asiatico, si mantennero estremamente tesi per tutto il corso del ventennio successivo all'indipendenza (contenzioso della regione del Kashmir, 1948-1957, questioni di confine indocinese, 1959, e appoggio alla lotta indipendentistica del Bangladesh, 1971). In tema di politica estera la linea indiana coincise, comunque, con il mantenimento dell'equidistanza tra il blocco americano e quello sovietico, e nel potenziamento militare autonomo (armamento atomico, 1974).
La penisola indocinese 
Anche nel sud-est asiatico i movimenti di indipendenza seguirono strade e tempi differenti; essi avrebbero comunque avuto, nell'immediato futuro, pesanti ripercussioni sia nell'ambito degli equilibri della regione sia a livello mondiale. Se pure i processi che portarono all'indipendenza di Ceylon e della Birmania dall'Inghilterra (1948), e dell'Indonesia dall'Olanda (1949) non furono totalmente privi di difficoltà, di tipo ben diversa fu la resistenza opposta dalla Francia al movimento di liberazione vietnamita.
Quest'ultimo, promosso dai comunisti e guidato da Ho Ci Minh, riuscì infine ad avere ragione dello sforzo bellico francese, sconfiggendo l'esercito avversario nella battaglia di Dien Bien Phu (aprile 1954).
Il riconoscimento francese dell'indipendenza delle nuove entità statuali (Viet Nam, Laos e Cambogia), sancito nella conferenza di pace di Ginevra, non bastò a superare le difficoltà sorte in seguito alla divisione del Viet Nam in due parti distinte (Viet Nam del Nord, comunista, e Viet Nam del Sud, filoccidentale).
I progetti di riunificazione avanzati dal movimento dei "vietcong" vennero fortemente osteggiati dagli Stati Uniti. Furono, questi, i primi sintomi di quella grave crisi che sarebbe poi sfociata, nel 1959, nell'intervento militare americano e che sarebbe stata onte di un ulteriore aggravamento delle tensioni in atto con il blocco comunista.
Il movimento dei paesi "non-allineati" 
Il problema che si presentò ai paesi resisi indipendenti dal giogo coloniale fu quello di scegliere il modello al quale ispirare il proprio sviluppo economico e politico. Nella maggior parte dei casi, questi paesi, ai quali erano comunque necessari forti sostegni economici dall'estero, optarono per un sistema misto, che utilizzava da una parte il principio della apianificazione, e dall'altra incentivava l'iniziativa privata.
Pur non omogeneo - per le esperienze passate, per il modo nel quale era stata raggiunta l'indipendenza, per il tipo di governo instauratosi - il fronte dei paesi del Terzo Mondo si impegnò nella ricerca di una comune linea d'azione che ne garantisse l'indipendenza e l'equidistanza dai due blocchi, sovietico e statunitense. Questo obiettivo, perseguito sino dalla conferenza di Bandung (aprile 1955), ebbe in personaggi come Nehru, Nasser e Tito i maggiori sostenitori.
Tuttavia la politica di non-allineamento, che pure fu utile a contrastare i rigurgiti del vecchio colonialismo, non ebbe quel ruolo risolutore nei riguardi dei grandi problemi mondiali - sviluppo economico più equilibrato, disarmo - da più parti sperato. Il movimento dei paesi non-allineati venne messo in crisi soprattutto dalle ricorrenti intromissioni delle due superpotenze nelle principali questioni concernenti il Terzo Mondo.
Il neocolonialismo, del quale si fecero interpreti soprattutto gli Stati Uniti (attacco militare in Viet Nam e asservimento politico dell'America Latina) rappresentò una caratteristica tipica degli anni Sessanta e si esercitò in modi e tempi diversi rispetto al passato colonialismo europeo (instaurazione di regimi consenzienti, sfruttamento economico con la gestione diretta delle risorse, fornitura di aiuti economici e militari ecc.).

 

 

Rivoluzioni in Cina

La rivoluzione comunista 
In Cina, quasi contemporaneamente, la fine dell'occupazione giapponese aveva coinciso con una forte ripresa del movimento nazionalista di Chiang Kai-shek il quale, anche grazie agli aiuti militari forniti dagli Stati Uniti, era riuscito a instaurare una dittatura militare (1945). Il processo di riavvicinamento con i comunisti, provocato dall'attacco giapponese, subì una brusca interruzione.
Falliti i tentativi per la costituzione di un governo di coalizione, gli scontri armati tra le due fazioni si inasprirono notevolmente (1946) e sfociarono in guerra aperta non appena l'esercito comunista iniziò la sua avanzata.
Dopo l'iniziale conquista della Manciuria, avvenuta nel corso del 1947, l'esercito popolare guidato da Mao attraversò le montagne della Cina per evitare l'attacco frontale dell'esercito ufficiale e nel contempo per raccogliere ulteriori forze tra i contadini. L'offensiva comunista provocò il totale disfacimento dell'esercito nazionalista e portò alla proclamazione della Repubblica popolare cinese (1° ottobre 1949), mentre Chiang Kai-shek e il governo del Kuomintang riparavano a Formosa.
La rivoluzione culturale 
Il contrasto - non solo ideologico - con l'Unione Sovietica fece da sfondo al piano di Mao per l'ammodernamento del paese. Tuttavia il "grande balzo in avanti" (1958), basato sull'istituzione delle comuni popolari e che avrebbe dovuto consentire alla Cina una radicale trasformazione delle sue strutture socioeconomiche e un aumento verticale degli indici produttivi, non ottenne tutti i risultati sperati.
Il fallimento dell'operazione, dovuto anche al venir meno degli aiuti finanziari sovietici, inasprì i contrasti all'interno del mondo politico cinese. Le tendenze revisioniste affioranti nel partito furono fronteggiate da Mao attraverso la cosiddetta "grande rivoluzione culturale proletaria" (settembre 1965 - ottobre 1968), movimento che intese risolvere una delle "contraddizioni interne" (Mao) del socialismo: quella tra intellettuali e lavoratori.
Il movimento intendeva forzare a un incontro tra le due "classi" affinché gli intellettuali apprendessero dai lavoratori a pensare concretamente le contraddizioni. Purtroppo la vastità del territorio accrebbe la difficoltà di controllare la "rivoluzione culturale", che in molti luoghi degenerò in una persecuzione politica.

 

 

Lotte in Sudamerica

L'ingerenza statunitense in America latina 
Ingerenze di tipo neocoloniale, che si concretizzarono in aiuti economici e nella fornitura di armi e consiglieri militari, furono nel corso degli anni Sessanta pratica comune a Unione Sovietica e Cina, che le indirizzarono prevalentemente nei confronti dei paesi afro-asiatici. Nell'ambito dei processi di neocolonizzazione l'America Latina costituì, tuttavia, un capitolo particolare. Le condizioni di estrema arretratezza dell'intero subcontinente americano, peggiorate dalle conseguenze del secondo conflitto mondiale, e la presenza di un capitalismo arretrato non disposto a investimenti produttivi e di un latifondo estesissimo, costituirono il retroterra ideale per un rafforzamento del controllo statunitense dell'area.
Tuttavia, il fallimento in Argentina del tentativo parafascista a opera di Juan Domingo Perón e la scomparsa dalla scena brasiliana del dittatore Getulio Vargas provocarono una incrinatura profonda all'interno dell'Organizzazione degli Stati Americani (Oas, sancita dal patto di Rio, 1947-1948), che era stata promossa dagli Stati Uniti con finalità di controllo economico e con funzioni di filtro anticomunista.
La rivoluzione di Cuba 
L'episodio della rivoluzione cubana, che avrebbe potuto segnare una svolta sulla strada dell'emancipazione dell'America Latina, costituì in realtà solo una parentesi - anche se densa di significati ideologici e in sé duratura - nella linea di ingerenza seguita da Washington. La guerriglia contro il regime dittatoriale di Fulgencio Batista (1956-1959) aveva portato all'instaurazione di un governo rivoluzionario, guidato da Fidel Castro e dal celebre guerrigliero argentino Ernesto "Che" Guevara.
L'attuazione di misure quali l'esproprio delle raffinerie americane, l'introduzione di radicali riforme agrarie e, soprattutto, la creazione di uno Stato a base socialista con l'appoggio sovietico provocarono l'immediata reazione degli Stati Uniti.
In seguito alla rottura delle relazioni diplomatiche (3 gennaio 1961) e la fallita invasione dell'isola da parte americana (sbarco nella baia dei Porci), il paese si trovò al centro di un momento di altissima tensione internazionale per aver concesso all'Urss la facoltà di installare alcune basi missilistiche sul proprio territorio (ottobre 1962).
Superato il momento più acuto della crisi, che tenne tutto il mondo con il fiato sospeso, Cuba riprese in tutta autonomia il proprio cammino. L'allineamento sempre più marcato alle posizioni sovietiche portò il paese, verso la fine degli anni Settanta, a divenire il braccio armato di Mosca in occasione di rivolte e contese scoppiate in terra d'Africa.
Cile: da Allende al colpo di stato di Pinochet  
L'esempio rivoluzionario cubano non venne seguito, se non in parte, dai popoli latinoamericani. Essi, anzi, si trovarono a subire nel corso degli anni Sessanta e Settanta un vero e proprio ritorno di fiamma dei regimi dittatoriali, tutti appoggiati in forma più o meno diretta dall'amministrazione statunitense.
Un caso tipico fu quello del Cile dove, nel settembre 1970, una schiacciante vittoria elettorale consegnava il potere all'esponente dell'Unidad Popular (fronte delle sinistre), Salvador Allende.
L'intensa politica di riforme e di nazionalizzazioni da lui avviata non ebbe il benestare di Washington, che giudicò più opportuna una campagna destabilizzante nei confronti del nuovo governo cileno. Il golpe militare, capitanato dal generale Augusto Pinochet e culminato nell'uccisione dello stesso presidente Allende, diede il via all'instaurazione di un nuovo regime dittatoriale filoamericano (11 settembre 1973), con il suo triste e immancabile corredo di morti, di persecuzioni e di totale soppressione delle libertà costituzionali.

 

L'Urss da Krusciov a Breznev

L'Unione Sovietica e Stalin 
Nel periodo immediatamente successivo la fine del secondo conflitto mondiale, l'Unione Sovietica si pose principalmente due obiettivi. Innanzi tutto una graduale estensione della sua sfera d'influenza attraverso un radicale processo di sovietizzazione dei paesi dell'Est europeo, sia dal punto di vista della struttura statale (governi a guida comunista ed estromissione di tutte le opposizioni), sia dal punto di vista dell'organizzazione economica (pianificazione). In secondo luogo, si verificò un'abnorme concentrazione del potere politico nelle mani di Stalin, segretario del Pcus, il quale instaurò un vero e proprio regime di terrore.
Gli stessi organi storici del partito comunista vennero di fatto esautorati, mentre venne perseguita e condannata in modo inflessibile qualsiasi deviazione interna ed esterna dalla linea dettata dal segretario (condanna del "titoismo" e della svolta jugoslava del 1948).
La svolta revisionista di Nikita Krusciov 
La morte di Stalin (1953) rappresentò un importante punto di svolta non solo nella vita politica interna dell'Unione Sovietica, ma anche nell'ambito dei delicati equilibri internazionali.
Dopo un periodo di gravi contrasti interni, culminati nell'uccisione del capo della polizia segreta Berija (10 luglio 1953), Nikita Krusciov, primo segretario del comitato centrale, si affermò come una delle personalità più forti dell'intero gruppo dirigente.
Immediate furono le ripercussioni: in politica estera venne perseguita una linea di disgelo nei rapporti con il blocco occidentale, che fu teorizzata nel principio della "coesistenza pacifica" (1953); all'interno si profilò la tendenza verso una progressiva liberalizzazione (riforma delle procedure giudiziarie, pene più miti, abolizione dei campi di lavoro) e una incentivazione delle attività agricole (campagna per la messa a coltura delle terre siberiane e kazahke, 1954) e della produzione dei beni di consumo. Simbolo del nuovo corso sovietico fu il discorso tenuto dallo stesso Krusciov in occasione del XX congresso del Pcus (14 febbraio 1956).
In quel contesto, Krusciov non esitò a denunciare apertamente i metodi autoritari e il culto della personalità che furono tipici di Stalin e della sua gestione del potere. L'atteggiamento ostile caratteristico del clima di tensione della guerra fredda lasciò il posto, nelle parole di Krusciov, a una proposta di distensione dei rapporti internazionali ispirata ai principi della pacifica convivenza, pur non implicando con ciò alcuna abdicazione ideologica.
Mentre lo sforzo in direzione di un maggiore sviluppo veniva esteso anche alle regioni asiatiche e l'amministrazione economica veniva completamente riformata (politica di decentramento, 1957-1958), la produzione fu decisamente orientata verso il settore dei beni di consumo, per consentire un aumento del tenore di vita della popolazione.
La rivolta ungherese 
La linea di apertura nei confronti delle "vie nazionali al socialismo", dichiarata nel corso del XX congresso del Pcus, spinse molti paesi del blocco orientale a operare con maggiore autonomia e a tentare soluzioni analoghe a quelle sperimentate in Unione Sovietica.
Tali mutamenti, unitamente alle speranze create dal processo di destalinizzazione avviato da Krusciov, suscitarono enorme entusiasmo nell'Est europeo, e una certa effervescenza sia nei settori della piccola borghesia sia nelle masse operaie. Segni evidenti del malessere e dell'insofferenza nei confronti della sovietizzazione forzata furono le rivolte di Berlino e di Poznan (giugno 1956), entrambe soffocate dall'esercito sovietico. Specie in Polonia il sentimento nazionale antirusso, fomentato dalla Chiesa locale guidata dal vescovo Stefan Wyszynsky, rimase vivissimo.
Esso non si spense nemmeno al momento dell'arrivo al potere di Wladislaw Gomulka (1956), dirigente comunista riabilitato dopo le pesanti accuse di deviazionismo di cui venne fatto oggetto nel 1951, e della successiva estromissione dei politici filostalinisti.
Fu tuttavia in Ungheria che il malessere popolare per il ritorno al potere del filosovietico Mátyas Rákosi si coagulò rapidamente in rivolta generalizzata contro il sistema sovietico e a favore del ripristino delle libertà civili.
Nell'ottobre 1956, facendo seguito alle proteste degli intellettuali raccolti intorno al circolo Petöfi, una sollevazione popolare degli abitanti di Budapest, presto estesasi a tutto il paese, condusse a sanguinosi scontri con le truppe sovietiche. Uno degli effetti della rivolta fu il ritorno al governo di Imre Nagy (1896-1958) - esautorato due anni prima da Rákosi e anch'egli accusato di revisionismo - il quale si impegnò a ripristinare il sistema democratico e ad attuare una politica estera autonoma (uscita dell'Ungheria dal patto di Varsavia, novembre 1956).
Il nuovo intervento di truppe sovietiche, favorito dalla richiesta di János Kádar, segretario del partito comunista polacco, portò alla repressione militare della rivolta e alla restaurazione di un governo ligio ai voleri dell'Unione Sovietica. Questo gesto brutale, che provocò l'unanime condanna internazionale e una ferita duratura nei rapporti tra i partiti comunisti occidentali e Mosca, in qualche modo circoscriveva rigorosamente i confini del processo di destalinizzazione avviato da Krusciov, in nome del quale l'Urss non era comunque disposta a sopportare lo sgretolamento del blocco comunista.

 

I rapporti con la Cina 
La crisi di Suez del 1956 (animata dalla nazionalizzazione egiziana del canale, che comportò da un lato le proteste anglo-francesi e il ritiro dei loro contigenti e dall'altro gli aiuti sovietici all'Egitto), controbilanciando a livello politico e psicologico gli echi negativi prodotti dalla sanguinosa repressione della rivolta ungherese, consentì a Krusciov di uscire indenne da un periodo alquanto travagliato.
Egli trovò anzi il modo, una volta sbarazzatosi dell'opposizione interna (estromissione di Malenkov, di Kaganovic e di Molotov, 1957), di rafforzare il ruolo dell'URSS a livello internazionale attraverso un'attenta politica diplomatica volta a intrecciare relazioni amichevoli con molti paesi afro-asiatici (fase delle "iniziative dinamiche" e inaugurazione della linea terzomondista, 1957-62). Nuovi sviluppi ebbero anche i rapporti con la Cina che, subito dopo l'avvento al potere di Mao, furono regolati da un patto trentennale di amicizia, alleanza e reciproco aiuto (1950).
L'immenso paese asiatico si era venuto organizzando secondo modelli che tenevano nel debito conto le iniziali condizioni di sottosviluppo e di semidipendenza coloniale. Paese a fortissima vocazione agricola e guidato da uomini che, a dispetto delle coloriture ideologiche, tenevano in grande considerazione le tradizioni locali, la Cina non commise l'errore di Stalin di reprimere la classe dei contadini-proprietari e di attuare uno sfruttamento indiscriminato delle risorse agricole.
Pur includendo l'industrializzazione fra i propri obiettivi primari, il governo cinese mise in atto una politica di radicali riforme agrarie - volte alla redistribuzione delle terre ai contadini e alla creazione di grandi comunità agricole - che contribuirono a liberare il paese dagli spettri della fame, della disoccupazione e della mortalità infantile.
L'interpretazione ortodossa del marxismo-leninismo costituì lo spartiacque ideologico nei confronti di quello che Mao definì il "revisionismo sovietico" affermatosi dopo la morte di Stalin. Il conflitto con Mosca si giocò non soltanto sul piano ideologico, con il netto rifiuto del principio kruscioviano della coesistenza pacifica (conferenze di Bucarest e di Mosca, 1960), ma anche su quello più reale dei contrasti relativi alle rispettive aree di influenza.
La crisi dei rapporti tra Cina e Unione Sovietica sanzionò il definitivo sganciamento della Cina dall'orbita russa. Questo fatto, che avrebbe posto seriamente in discussione il ruolo egemone dell'Urss nei confronti dei paesi interessati dai processi di decolonizzazione, propose la Cina maoista come il modello più attendibile sulla strada della conquista dell'indipendenza.
La Russia di Breznev 
La seconda fase della destalinizzazione, inaugurata con il XXII congresso del Pcus (novembre 1960), pose molti interrogativi sul futuro dell'Unione Sovietica. La svolta del 1956, seriamente messa in discussione dalla violenta repressione dei moti ungheresi, parve sospesa in una sorta di limbo, incerta fra un ulteriore rafforzamento dei processi riformisti e il semplice recupero dell'ortodossia marxista-leninista.
Più netta parve la linea seguita in politica estera, dove i dettami kruscioviani della coesistenza pacifica superarono anche l'ardua prova di forza sostenuta con gli Stati Uniti in occasione della crisi di Cuba. Tuttavia, gli insuccessi della politica di decentramento economico, le ricorrenti crisi agricole - che costrinsero il Cremlino all'importazione di una grande quantità di cereali americani fra il 1962 e il 1963 - e la rottura definitiva con la Cina a proposito della sospensione dei test nucleari portarono alle dimissioni di Krusciov (15 ottobre 1964).
Il suo successore, Leonid Breznev (1906-1982), se proseguì - ma in maniera più cauta (condanna dell'intervento americano in Viet Nam) - la linea kruscioviana di distensione internazionale, dall'altra si preoccupò di attuare una più efficace riforma dell'economia.
A tale scopo venne abbandonata la politica di decentramento, privilegiando nuovi investimenti e garantendo una maggiore autonomia alle imprese, senza peraltro abbandonare il rigido controllo centralizzato. L'era brezneviana coincise con un periodo di forte oscurantismo in campo culturale e sociale; tutte le manifestazioni di dissenso vennero prontamente represse (emblematico fu il caso del fisico nucleare Andrej Sacharov), mentre la vita intellettuale venne decisamente incanalata nei binari di una supina accondiscendenza alle restrizioni imposte dall'alto.
La primavera di Praga 
Nei riguardi dei paesi satelliti, Mosca si trovò a dover fronteggiare analoghi tentativi di riforme in campo economico (come accadde in Ungheria nel 1968, con l'adozione del "nuovo meccanismo economico"), che il più delle volte coincisero con l'esigenza, ormai ineluttabile, di riforme politiche. Il caso più eclatante e che parve riproporre i medesimi scenari ungheresi del 1956 fu rappresentato dalla "primavera di Praga".
In Cecoslovacchia, la nomina a segretario di partito di Alexander Dubcek (1968) si accompagnò alla volontà di cambiamento degli strati intellettuali e popolari del paese. Timorosa che il processo riformista di Dubcek (principio del "socialismo dal volto umano", aprile 1968) incrinasse il fronte del patto di Varsavia, Mosca decise l'intervento armato. Il 21 agosto 1968 l'ingresso a Praga dell'Armata Rossa terminava l'esperimento riformista cecoslovacco.
L'Urss e il comunismo asiatico 
Il processo di parziale distensione avviato dal trattato di cooperazione pacifica con la Germania occidentale (agosto 1970) e proseguito con le visite dei presidenti americani Nixon e Ford e gli accordi sulla limitazione della proliferazione nucleare subì un brusco arresto in seguito all'intervento militare in Afghanistan (dicembre 1979 - gennaio 1980). In politica interna il rafforzamento del potere personale di Breznev, che arrivò a riunire nelle proprie mani le cariche di capo del partito e di presidente della repubblica, coincise con la conferma della linea della repressione del dissenso.
La Cina, uscita dallo stato di isolamento internazionale con l'ammissione all'Onu (ottobre 1971), mise in atto, nella prima metà degli anni Settanta, un processo di riavvicinamento al Giappone (firma del trattato di pace, agosto 1978) e agli Stati Uniti (normalizzazione dei rapporti diplomatici, dicembre 1978).
La morte di Mao Zedong (9 settembre 1976) segnò un definitivo allontanamento dalla linea della rivoluzione culturale e l'abbandono delle strutture collettivistiche in campo economico a favore di una progressiva modernizzazione delle strutture produttive e di una parziale liberalizzazione del mercato.

 

 

Da Kennedy a Reagan

Kennedy e la "nuova frontiera" 
Negli Stati Uniti, proprio all'apertura degli anni Sessanta, una amministrazione democratica succedeva alla gestione repubblicana di Eisenhower (1953-1960) caratterizzata in senso profondamente anticomunista.
Il nuovo esecutivo era capeggiato da un giovane cattolico di origine irlandese, John Fitzgerald Kennedy (1960-1963), che già nel suo primo appello ufficiale al paese (discorso sullo stato dell'Unione, 29 gennaio 1961), pose l'accento sulla necessità di uno sforzo comune per l'abbattimento delle barriere sociali e razziali e per il superamento delle tensioni internazionali.
La politica kennedyana della "nuova frontiera" si ricollegava idealmente alle tradizioni del pionierismo americano e della corsa all'Ovest. Inoltre, essa si poneva come obiettivo primario il superamento delle forme di ingerenza nei paesi latino-americani, privilegiando nuovi rapporti di collaborazione che ne favorissero una reale evoluzione democratica.
L'attentato di Dallas 
Il processo di distensione dei rapporti internazionali avviato da Kennedy, superando anche momenti di estrema tensione (crisi di Cuba, 1961-1962), venne tuttavia bruscamente interrotto dall'attentato di cui rimase vittima a Dallas (22 novembre 1963), nel corso di una parata elettorale.
Il presunto assassino, Lee Oswald, fu ucciso in carcere il giorno dopo l'arresto. A dispetto dei dubbi e delle contestazioni sul rapporto finale, la commissione Warren, appositamente istruita, confermò che Oswald fu l'unico autore e ideatore dell'attentato. In realtà, Kennedy cadde vittima di un complotto conservatore, non meno preoccupato delle tendenze riformistiche del presidente che dell'appoggio fornito al movimento dei neri d'America.
Il riarmo e i programmi spaziali 
Anche a causa del breve lasso di tempo nel quale rimase a capo dell'amministrazione americana, Kennedy non riuscì a incidere in maniera duratura sui processi di distensione.
A dispetto della parziale apertura nei confronti dell'Urss (incontro di Vienna con Krusciov, 1961), egli non riuscì a modificare l'orientamento di fondo assunto dal suo paese a proposito della questione neocoloniale.
È un dato di fatto che nei due anni di presidenza Kennedy vennero concessi dal Congresso maggiori stanziamenti per i programmi spaziali e per i piani di riarmo (potenziamento dell'arsenale nucleare e convenzionale) e venne avanzata la proposta di una forza atomica multilaterale della Nato; non sorprende quindi come proprio sotto l'amministrazione Kennedy si innescò il processo che, nel giro di pochi mesi, avrebbe condotto alla guerra contro il Viet Nam.
La guerra in Viet Nam 
La situazione di questo paese, nell'aria asiatica sudorientale, ricordava quella della vicina Corea.
Resosi indipendente dal predominio francese, il Viet Nam era formalmente suddiviso in due parti - l'una, a nord, sottoposta a un governo comunista guidato da Ho Ci Minh e capitale Hanoi, l'altra, a sud, retta da un regime filoccidentale con capitale Saigon - ma vincolato dall'obbligo di indire entro il 1956 un referendum popolare per verificare l'assetto istituzionale definitivo.
A tale referendum i governanti di Saigon si erano opposti più volte, provocando la violenta reazione armata delle fazioni democratiche e dei comunisti (i "vietcong"). Costoro, appoggiandosi al governo di Hanoi, ingaggiarono una dura guerriglia per abbattere la dittatura di Ngo Dinh Diem, a sua volta appoggiato dagli Stati Uniti.
Questi ultimi, dopo l'invio di 10 000 "consulenti militari" e di aiuti finanziari (1962), rimasero sempre più invischiati nel conflitto che, dopo l'eliminazione del dittatore sudvietnamita (1963), si ampliò a dismisura.
La nomina a presidente di Lyndon Johnson (che venne riconfermato in carica nelle elezioni del 1964) coincise con il diretto intervento americano, provocato da un attacco nordvietnamita a navi statunitensi nel golfo del Tonchino. Il sacrificio enorme di vite umane e di risorse economiche e la drammatica brutalità con la quale gli Stati Uniti caratterizzarono il loro intervento provocarono una grande ondata di proteste nel paese e in tutto l'Occidente.

La resistenza dei vietcong 
L'enorme impegno bellico profuso dal governo americano non riuscì tuttavia ad avere ragione della resistenza dei vietcong e dei nordvietnamiti, sostenuti militarmente da russi e cinesi.
Al graduale disimpegno che venne annunciato dal nuovo presidente americano, il repubblicano Richard Nixon (settembre 1969), fece seguito la definitiva affermazione nordvietnamita (capitolazione del Viet Nam del Sud, 30 aprile 1975) e la riunificazione del paese sotto l'egida comunista (2 luglio 1976).
Anche il Laos e la Cambogia, coinvolti nel conflitto a partire dal biennio 1970-1971, videro la contemporanea affermazione della guerriglia comunista.
Grazie al lavoro del movimento laotiano Pathet Lao e di quello cambogiano dei "khmer rossi" (i guerriglieri comunisti che detennero il potere nel quinquennio dal 1975 al 1979) vennero successivamente insediate delle repubbliche popolari gravitanti nell'orbita di Mosca e di Pechino (1975).
Martin Luther King e la questione razziale 
Una delle piaghe che sconvolse l'America degli anni Sessanta fu senza dubbio quella della questione razziale.
Il problema, acuitosi enormemente a causa delle forti migrazioni interne - da sud a nord - della popolazione nera e della sua costrizione in enormi ghetti urbani, provocò scontri e tensioni crescenti (gravi sommosse avvennero nelle maggiori città americane fra il 1964 e il 1968). Se la militanza più radicale era organizzata attorno a gruppi quali "Black power" (Potere nero) o "Black muslims" (Musulmani neri), il movimento favorevole a una progressiva integrazione dei negri nella società americana, che pure ebbe alcuni riconoscimenti politici (sentenza della Corte Suprema sulla parità razziale nelle scuole, 1954, e approvazione del "voting rights act", o legge sui diritti di voto), trovò il suo massimo esponente nel pastore protestante Martin Luther King (1929-1968).
Impostando la protesta su basi moderate e facendo affidamento sulla forza persuasiva delle grandi manifestazioni popolari (come a Washington, nell'agosto 1963), Martin Luther King cercò anche un collegamento diretto con le forze democratiche e progressiste bianche. Tuttavia, come l'opera riformista di Kennedy, anche il processo di integrazione inaugurato dal leader negro subì una brusca interruzione.
Martin Luther King, insignito nel 1964 del premio Nobel per la pace, fu ucciso in un attentato a Memphis, nel 1968.
La presidenza Nixon 
Nel 1969 l'elezione di Richard Nixon  alla presidenza degli Stati Uniti non portò a significativi cambiamenti nella politica interna, continuando a prevalere una linea tesa a un  profondo risanamento della situazione economica. Diverso, invece, il discorso nell'ambito delle relazioni internazionali, dove gli Stati Uniti non solo si disimpegnarono definitivamente dalla gravosa guerra del Vietnam, ma trovarono anche il modo di attuare un riavvicinamento alla Cina di Mao (diplomazia del "ping-pong" e viaggio di Nixon a Pechino, febbraio 1972).
Il successo della politica estera americana, affidata all'abile diplomatico Henry Kissinger, fu uno dei fattori che consentirono la riconferma dell'amministrazione Nixon (elezioni del novembre 1972). La credibilità presidenziale venne tuttavia messa seriamente in discussione dallo scoppio dello scandalo Watergate (spionaggio illegale ai danni degli avversari politici) che, nel 1973, costrinse Nixon alle dimissioni per evitare l'incriminazione dinanzi alla Corte Suprema. Al sostituto Gerald Ford (1973-1977), l'era del quale fu contrassegnata da un sia pur lieve allentamento del clima di tensione con l'Unione Sovietica (dichiarazione congiunta di Vladivostok sull'intesa Salt, novembre 1974), successe il presidente democratico Jimmy Carter (1977-1981).
Da Carter a Reagan 
Impegnatosi in una vasta campagna in difesa dei diritti umani, Carter operò anche in direzione di una limitazione degli armamenti nucleari (accordo Salt 2, giugno 1979, poi non ratificato dal Congresso americano) e di una soluzione pacifica della contesa mediorientale (accordi israelo-egiziani di Camp David, settembre 1978).
Costretto a fronteggiare una difficile crisi economica sul finire del suo mandato, venne ritenuto, dall'elettorato americano, il principale responsabile dell'insuccesso della spedizione volta a liberare un gruppo di connazionali da sei mesi tenuti prigionieri in Iran (aprile 1980).
Le elezioni che si svolsero nel novembre 1980 segnarono così il ritorno alla Casa Bianca di un presidente conservatore, Ronald Reagan (1980-1988), apertamente favorevole a una totale liberalizzazione dell'economia e a un rafforzamento della potenza militare americana, tutto a scapito degli investimenti in campo socio-assistenziale.

 

Venti di novità: fine anni Sessanta

La nascita del Mercato Comune 
La coscienza della perduta egemonia politica nel mondo non fece che accelerare il processo di integrazione economica dell'Europa. Furono soprattutto i paesi dell'occidente europeo (Belgio, Olanda, Italia, Lussemburgo, Francia e Germania Occidentale), già passati attraverso la creazione della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (Ceca, 1951), a dar vita alla Comunità Economica Europea (Cee) e all'Euratom (ente per lo sfruttamento pacifico dell'energia atomica), istituiti nel 1957.
Dopo il brusco rallentamento causato dal divieto francese all'ingresso della Gran Bretagna nella Cee (1963), il processo di integrazione venne riavviato con la creazione della Commissione Europea (l'organo governativo della Comunità, 1° luglio 1967). Nuove trattative per un allargamento della base comunitaria portarono all'adesione dell'Irlanda, della Danimarca e, con dieci anni di ritardo, dell'Inghilterra (Comunità dei nove, 1° gennaio 1973).
L'entrata in vigore del Sistema monetario europeo (Sme, 13 marzo 1979) e le prime elezioni del parlamento europeo (7 giugno) chiusero la prima fase dell'unione economica continentale.
Il movimento studentesco del maggio 1968 
Fra gli avvenimenti che caratterizzarono la fine degli anni Sessanta vi fu senz'altro il fenomeno della contestazione giovanile che, a partire dal maggio 1968, dilagò dalla Francia fino a coinvolgere tutti i paesi dell'area occidentale. Il movimento, identificato in seguito con il termine più generico di "sessantotto", si rifece a esempi di rivolta studentesca già emersi negli Stati Uniti all'inizio degli anni Sessanta e produsse effetti rilevanti sia dal punto di vista del costume sia dal punto di vista politico.
La richiesta di riforme che ne accompagnò la nascita, inizialmente limitata all'ambito scolastico, si estese a tutti i settori della vita socioculturale. Alla fine, pur sconfitto politicamente, il movimento studentesco riuscì a porre le basi per un effettivo rinnovamento della sinistra in tutta Europa.
La nuova missione universale della Chiesa 
Il clima della distensione e della coesistenza pacifica, per quanto a fasi intermittenti, produsse nel mondo numerose revisioni di atteggiamenti mentali, di posizioni politiche e di pregiudiziali ideologiche. Un segno evidente di mutamento venne anche dalla Chiesa cattolica, che abbandonò finalmente la pregiudiziale conservatrice e anticomunista che aveva caratterizzato il regno di Pio XII.
Essa pervenne, sotto il pontificato di Giovanni XXIII (Angelo Roncalli, 1958-1963), a una più larga e adeguata comprensione dei problemi del mondo contemporaneo, in particolare di quelli relativi alla pace, alla giustizia sociale e al sottosviluppo.
Oltre che in documenti ufficiali particolarmente significativi (come le encicliche Mater et magistra e Pacem in terris) l'ansia cattolica di rinnovamento si tradusse anche in atti concreti e, a loro modo, rivoluzionari. Tale fu, per esempio, la convocazione del Concilio Vaticano II (1962-1965), destinato a segnare, con parecchie riforme di ordine interno e liturgico-formali, una svolta importantissima nella storia più recente della Chiesa e del mondo cattolico.
L'opera di Giovanni XXIII venne in parte modificata dal suo successore, Paolo VI (Giovan Battista Montini, 1965-1978) il quale, conservandone intatte le propensioni ecumeniche, privilegiò l'interesse verso un dialogo con tutte le religioni e le chiese monoteiste.

 

Italia: anni Settanta

Dal centro-sinistra alla nascita del terrorismo 
In Italia i governi di centro-sinistra fronteggiarono enormi problemi, accentuati dalla ormai cronica disomogeneità tra Nord e Sud, dal sempre più profondo squilibrio tra città e campagna (a causa dei forti fenomeni migratori interni) e dal sensibile affievolimento della crescita economica.
Dopo la breve esperienza del gabinetto democristiano di Giovanni Leone (aprile 1963), i tre successivi governi di centro-sinistra guidati da Aldo Moro (dicembre 1963 - maggio 1968) si scontrarono con ulteriori ostacoli che ne misero in forse i già deboli piani di riforma.
Lo scandalo del Sifar (i servizi segreti dell'esercito), con i relativi progetti di destabilizzazione dello stato democratico (1966), le prime avvisaglie della contestazione studentesca (1966-1967) e la progressiva crescita elettorale del Pci (guidato da Luigi Longo), furono solo le prime tappe nella strada verso un periodo di violente tensioni e di scontri sociali.
I tentativi del monocolore democristiano Leone (giugno-dicembre 1968) e del successivo centro-sinistra Rumor (dicembre 1968 - luglio 1969), si scontrarono con la protesta montante nel paese che culminò in una stagione di violenti ascioperi e rivendicazioni sindacali (autunno caldo, 1969).
In un clima cupo, avvelenato dalle pressanti richieste conservatrici per un governo forte e dalla approvazione del pacchetto di garanzie per la popolazione germanofona del Trentino, l'Italia entrava nel lungo tunnel del terrorismo con il tragico attentato di Piazza Fontana, a Milano, che provocò 16 morti e decine di feriti (12 dicembre 1969).
Gli anni di piombo 
L'Italia visse, negli anni Settanta, il periodo più buio della sua storia unitaria.
La formula del centro-sinistra, riaffermatasi dopo la strage di piazza Fontana, non riuscì a bloccare ulteriori tentativi di destabilizzazione dell'ordine costituzionale (tentato golpe Borghese, dicembre 1970, strage di Brescia, maggio 1974, attentato del treno "Italicus", agosto 1974). La nascita di numerose organizzazioni paramilitari di destra (Ordine Nuovo) e di sinistra (Brigate rosse, Prima Linea) fu il preludio della lunga stagione del terrorismo, che culminò con il rapimento e l'uccisione del leader democristiano Aldo Moro da parte delle Br (16 marzo - 9 maggio 1978).
Le riforme e il compromesso storico 
Ciononostante, il paese riuscì ad attuare nel corso del decennio importanti riforme, quali l'approvazione dello statuto dei lavoratori (14 maggio 1970), l'attuazione del decentramento regionale già previsto dalla Costituzione (7 giugno 1970), la legge sul divorzio (1° dicembre 1970, ribadita dal referendum del maggio 1974), l'approvazione della legge 180 (abolizione dei manicomi) e di quella sulla legalizzazione dell'aborto (entrambe nel maggio 1978).
Dal punto di vista politico una novità fu la proposta di Enrico Berlinguer di un "compromesso storico" fra la Democrazia cristiana e il Partito comunista.
In campo economico l'Italia fronteggiò un periodo di depressione, acuito dalla crisi petrolifera internazionale, ma sul quale influirono anche i grandi processi di ristrutturazione dell'industria.
D'altro canto, venne sempre più affermandosi la classe della piccola e media impresa in aree che precedentemente erano sottosviluppate (il cosiddetto modello della "terza Italia").

 

Europa: anni Settanta

La caduta dei regimi dittatoriali: la Grecia 
In Europa il clima di rinnovamento scaturito dalla contestazione studentesca e dalle lotte per uno svecchiamento degli apparati statali si diffuse presto ai paesi ancora soggetti a regimi autoritari.
La Grecia, dopo il colpo di stato che aveva portato al potere una giunta militare guidata dal colonnello Georgios Papadopoulos (21 aprile 1967), si reincamminò sulla strada del ripristino della legalità costituzionale con la destituzione della giunta e la sua sostituzione con il governo moderato presieduto da Konstantin Karamanlis (1974).
La caduta del "regime dei colonnelli" ebbe come conseguenza anche un riassetto istituzionale della Grecia, che si pronunciò a favore della repubblica.
Questi cambiamenti causarono, seppure indirettamente, l'umiliante sconfitta militare subita a Cipro, dove un colpo di stato delle destre sostenute da Atene - che aveva ottenuto l'allontanamento dell'arcivescovo Makarios, presidente della repubblica cipriota - venne contrastato vittoriosamente da truppe turche giunte in aiuto della minoranza turco-cipriota.
La fine del franchismo in Spagna 
Anche la Spagna si incamminò verso la democrazia intorno alla metà degli anni Settanta.
A partire dal 1969 il regime franchista aveva dovuto fare i conti sia con la recrudescenza del movimento armato indipendentista basco (Eta), sia con l'aumento della conflittualità sociale, riuscendo solo a fatica a contenerne la carica destabilizzante.
La morte del dittatore (20 novembre 1975) consegnò il potere nelle mani del successore designato, il giovane re Juan Carlos. Costui, disilludendo quanti avevano visto in lui il continuatore ideale del regime, attuò una immediata apertura alle forze democratiche e una liberalizzazione della vita sociale, consentendo la ricostituzione del Pce (Partito comunista di Spagna) e garantendo la libertà di associazione sindacale (1977). La netta affermazione dell'Unione del centro democratico di Adolfo Suárez, del Partito socialista operaio (Psoe) di Felipe Gonzáles e dei comunisti di Santiago Carrillo nelle prime elezioni libere dopo quasi un quarantennio di dittatura (15 giugno 1977) confermarono appieno la svolta democratica del paese.
La democratizzazione in Portogallo 
Il percorso di democratizzazione portoghese fu parzialmente diverso e maggiormente irto di difficoltà. Fu attuato grazie alle aspirazioni liberali della gran parte della popolazione ma anche in seguito ai contrasti sorti all'interno della giunta militare a proposito del destino coloniale del paese. Dimessosi Salazar (1968), il successivo governo di Marcelo Caetano veniva infatti rovesciato da un colpo di stato militare ("rivoluzione dei garofani", 25 aprile 1974) guidato dal colonnello Gonçalves e appoggiato dalle forze antifasciste.
Liquidato l'anacronistico impero coloniale (Angola e Mozambico riacquistarono l'indipendenza nel 1975), varato un radicale programma di nazionalizzazioni e approvata la nuova Costituzione, il paese si avviò sulla strada della normalizzazione democratica con le prime elezioni libere dai tempi dell'avvento della dittatura (aprile 1976).
La Germania di Willy Brandt 
Pur rimanendo vincolata alle decisioni di Washington, la politica europea fece registrare negli anni Settanta i primi timidi accenni di affermazione di una linea autonoma, caratterizzata da un maggiore interesse per i problemi del sottosviluppo e per la piena affermazione dei principi democratici.
In Germania il decennio fu caratterizzato dall'affermazione del Partito socialdemocratico (Spd) guidato da Willy Brandt (cancelliere dal 1969 al 1974). La Spd, che aveva abbandonato la pregiudiziale marxista nel congresso di Bad Godesberg (1959), si propose come la forza politica trainante non solo nel processo di sviluppo economico interno, ma anche nella riapertura del dialogo internazionale Est-Ovest.
Il paese si trovò ad affrontare il gruppo armato di sinistra extraparlamentare Rote Armee Fraktion (Raf) responsabile dell'assassinio del presidente degli industriali Schleyer, avvenuto nell'ottobre 1977.
Inghilterra e Francia 
L'Inghilterra, dal canto suo, affrontava il nuovo decennio divisa tra la nostalgia per la irreversibile perdita di prestigio a livello internazionale (alla quale aveva contribuito il progressivo disimpegno dall'impero coloniale) e il perseguimento di una politica europeista (ingresso nella Cee, 1° gennaio 1973).
I governi succedutisi al potere si trovarono a dover fronteggiare una forte conflittualità sociale interna l'accentuarsi della pesante crisi economica e la recrudescenza della tensione e della lotta indipendentista nelle sei contee dell'Ulster ("domenica di sangue" a Derry, 30 gennaio 1972).
Nonostante i primi successi segnati dalla politica economica del laburista Callaghan (1976-1979), le elezioni legislative del maggio 1979 segnarono il successo del partito conservatore di Margaret Thatcher, fautrice di una linea economica neoliberista.
In Francia l'uscita di scena di De Gaulle (1969) pose le premesse per una ripresa della vita democratica, sia pure sotto l'egida di governi conservatori.
Tuttavia la crisi economica, solo in parte fronteggiata con il ricorso all'interventismo statale, costituì una delle premesse per la forte ripresa della sinistra.

 

L'Italia da Moro a Prodi
La criminalità organizzata nei primi anni Ottanta 
L'inizio degli anni Ottanta rappresenta per l'Italia un periodo di grave crisi, sotto il profilo economico e politico.
Ancora scosso dal sequestro e dall'omicidio di Aldo Moro avvenuto nel 1978, lo Stato si trova a dover fronteggiare il perdurare della pericolosa offensiva terroristica. Il 2 agosto 1980 una bomba esplosa nella sala d'aspetto della stazione di Bologna provoca una strage: i morti sono ottantacinque, duecento i feriti. Altre quindici persone muoiono il 23 dicembre 1984 per una nuova bomba fatta esplodere sul treno Italicus, in servizio da Napoli a Milano.
I responsabili di queste stragi, attribuite a movimenti eversivi di estrema destra, non verrano mai individuati, anche a causa dei numerosi e continui depistaggi messi in opera da alcune frange dei servizi segreti. Non meno pericoloso e destabilizzante è il terrorismo politico di estrema sinistra, che attraversa in questi anni la sua crisi finale: dopo l'omicidio dell'economista Ezio Tarantelli (27 marzo 1985), le Brigate Rosse soccombono, vinte dalla lunga lotta ingaggiata contro di loro dallo Stato, che si avvale dei sempre più numerosi "dissociati" (terroristi che, pur non rinnegando il loro passato, ammettono la sconfitta del loro movimento e decidono di collaborare con la giustizia).
Più pressante si fa anche l'attacco della mafia: nel 1982 cadono a Palermo Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista, e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, inviato come prefetto a Palermo dopo l'assassinio di La Torre senza avere però poteri di coordinamento della lotta alla mafia. È l'inizio di una grande offensiva delle organizzazioni mafiose, che sempre più tenderanno a sostituirsi allo Stato in vaste aree dell'Italia, e particolarmente in Sicilia.

La mafia
L'organizzazione denominata Cosa Nostra ha radici profonde nella cultura e nella vita politica siciliana. Le prime forme di potere mafioso risalgono all'epoca borbonica e, più incisivamente, all'instaurazione dello stato italiano unitario (1860). Lo stato nazionale, infatti, appariva alle popolazioni del meridione d'Italia come un'entità del tutto estranea, incapace di risolvere i loro problemi.
Il solco venutosi a creare tra opinione pubblica e autorità statale venne gradualmente colmato dalle ricche famiglie locali di proprietari terrieri, che in pratica si sostituirono allo Stato nella gestione del potere e nel controllo dell'ordine pubblico. La mafia di oggi è l'erede dell'ottocentesca aristocrazia terriera, abilmente e opportunamente adattatasi alle grandi trasformazioni economiche e politiche avvenute nel corso del tempo. La mafia è diretta dalla cosiddetta "cupola", formata dai capi delle "famiglie" (o cosche). Lo scopo di questa associazione è l'arricchimento derivante dal controllo di attività illecite (contrabbando, droga, appalti truccati, riciclaggio di denaro sporco).
Attraverso questi canali, Cosa nostra, spesso protetta da politici compiacenti, mira a conseguire il completo controllo economico della Sicilia, con ramificazioni in tutta Italia e anche all'estero. Tutti coloro che sono di ostacolo al raggiungimento di tale obiettivo vengono eliminati: imprenditori, giornalisti e cittadini comuni che denunciano soprusi, uomini politici che non si adeguano alle regole mafiose e, naturalmente, magistrati e rappresentanti dello Stato.
Interminabile è la lista delle personalità assassinate dalla mafia tra il 1979 e il 1992: il presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella, l'ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco e molti altri, fino alle orrende stragi di Capaci e di via D'Amelio (1992), dove hanno perso la vita i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, insieme agli agenti della loro scorta e alla moglie di Falcone.
È grazie all'intenso lavoro di questi magistrati, da anni impegnati nella lotta alla mafia, che siamo arrivati a conoscere la capillare organizzazione di Cosa nostra e il suo pericoloso intreccio con la vita politica; ed è ancora grazie a loro che è stato possibile catturare boss mafiosi latitanti da decenni, come Totò Riina, Nitto Santapaola e Leoluca Bagarella.
Il secondo miracolo economico 
La grave crisi economica degli anni Settanta prosegue anche all'inizio del decennio successivo: il Pil (prodotto interno lordo) continua a essere negativo e l'inflazione, che nel 1980 era arrivata al 21,3%, tre anni dopo non è ancora scesa al di sotto del 15%.
A partire dal 1984, però, si verifica una netta ripresa economica, determinata sia da fattori esterni (ribasso del prezzo del petrolio, forte spinta in avanti dell'economia statunitense, nella cui orbita si trova quella italiana) sia da motivazioni interne: tra queste, una ritrovata disponibilità agli investimenti da parte delle aziende italiane e una minore conflittualità sociale, dovuta a un certo indebolimento del sindacato. Si incrina, infatti, l'unità e la rappresentatività di Cgil, Cisl e Uil, mentre nascono nuove organizzazioni sindacali autonome, come i Cobas, particolarmente attivi nel settore dei servizi pubblici.
In questa situazione, mentre trova nuovo impulso la grande industria attraverso fusioni societarie e massicce ristrutturazioni aziendali e lancio di nuovi prodotti, fiorisce soprattutto la piccola e media impresa, che contribuisce ad affermare nel mondo il cosiddetto "made in Italy" (cioè le manifatture italiane), principalmente nel settore dell'abbigliamento e dell'alta moda.
Cresce l'occupazione, particolarmente nel settore terziario (dei servizi), a scapito di quello primario (agricoltura). Si approfondisce nettamente, però, il divario tra nord e sud del paese: se le regioni centro-settentrionali raggiungono punte di espansione economica tra le più alte in Europa, in quelle meridionali la ripresa economica è molto lenta, se non addirittura assente.
Questo "boom" economico, inoltre, non cancella i tradizionali limiti dell'economia italiana: anzitutto l'aumento incontrollato del debito pubblico, che nel 1989 arriva a superare la ricchezza prodotta in Italia nello stesso anno; poi l'elevatissima evasione fiscale, favorita dalla crescita del lavoro "sommerso", cioè difficilmente individuabile, e dalla complessità del sistema fiscale italiano; infine l'eccessiva burocrazia dei servizi, che provoca difficoltà ai cittadini ma anche problemi alle aziende e, in generale, alla gestione dell'economia.
Gli anni del pentapartito e la nascita del Pds 
Dal punto di vista politico, gli anni Ottanta si caratterizzano per un susseguirsi di governi all'insegna di un'alleanza (più o meno litigiosa, a seconda dei momenti e delle circostanze) tra cinque partiti: Dc (Democrazia cristiana, partito di maggioranza relativa), Psi (Partito socialista italiano), Psdi (Partito socialdemocratico italiano), Pri (Partito repubblicano italiano) e Pli (Partito liberale italiano). La novità di maggior rilievo, nella sostanziale staticità del quadro politico, è che, per la prima volta dal dopoguerra, guidano il governo anche esponenti non appartenenti alla Democrazia cristiana, come il repubblicano Giovanni Spadolini (1981-1982) e il socialista Bettino Craxi (1983-1987).
La formula politica del pentapartito chiude in questo modo la stagione dei governi di "solidarietà nazionale" che, alla fine degli anni Settanta, avevano fatto entrare il Pci (Partito comunista italiano) nell'orbita di governo.
Gli anni Ottanta sanciscono anzi il progressivo isolamento del Partito comunista, penalizzato dalla stretta alleanza tra la Dc e il Psi di Bettino Craxi (eletto segretario del partito nel 1976). Dopo la morte di Enrico Berlinguer (giugno 1984), leader carismatico del Pci e artefice dell'allontanamento del partito dall'orbita sovietica, il Pci sembra anzi attraversare una fase di "sbandamento", che lo porta a subire una progressiva emorragia di consensi elettorali.
Il crollo dei regimi comunisti dell'Europa orientale, poi, impone necessariamente anche al Pci un'opera di revisione culturale e programmatica, che culmina nella svolta del 1989-1990, con la quale il nuovo segretario Achille Occhetto sancisce la fine del Pci e la nascita di un nuovo partito progressista e riformatore che si muove nel solco dell'Internazionale socialista: il Partito democratico della sinistra (Pds).
Alcuni esponenti del vecchio Pci formano invece un nuovo partito, Rifondazione comunista, che si propone di raccogliere in maniera più diretta l'eredità politica e culturale del comunismo.
La crisi dei partiti 
Tutti i numerosi partiti tradizionali della vita politica italiana attraversano in questo periodo una crisi profonda e sostanziale: è la crisi dell'intero sistema politico che ha retto l'Italia per quasi mezzo secolo, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale.
Ad avviare quella che molti hanno definito la "rivoluzione italiana" contribuiscono sia eventi esterni (la scomparsa della minaccia comunista, con il crollo dei regimi dell'Est europeo e dell'Unione Sovietica, che era stata una delle principali cause della lunga permanenza al potere della Dc), sia fattori interni, tra i quali la progressiva degenerazione morale e politica dei partiti stessi.
All'inizio degli anni Novanta viene alla luce in tutta la sua gravità un esteso e radicato sistema di corruzione che coinvolge, oltre a numerosi e importanti imprenditori privati e ad alti funzionari pubblici, esponenti di quasi tutti i partiti politici, colpevoli di essersi finanziati in maniera illecita o di aver accumulato ingenti ricchezze personali frutto di tangenti e altre pratiche illegali.
Nelle inchieste giudiziarie, avviate in particolare dal cosiddetto "pool Mani Pulite" della procura di Milano, sono ben presto implicati tutti i maggiori leader politici: Bettino Craxi, ex presidente del Consiglio e segretario del Psi (che per sfuggire alla giustizia troverà riparo nella sua villa tunisina di Hammamet), Arnaldo Forlani, Ciriaco De Mita, Giorgio La Malfa, Renato Altissimo, Gianni De Michelis, Francesco De Lorenzo e altri personaggi "eccellenti" della vita politica italiana.
Accanto a essi, le indagini della magistratura investono i vertici delle principali aziende pubbliche e private italiane (Fiat, Olivetti, Enimont, Fininvest, varie case farmaceutiche): tutti hanno contribuito a creare un gigantesco e capillare sistema di corruzione mirante all'arricchimento personale e al finanziamento illecito delle forze politiche.
A queste inchieste se ne affiancano altre, condotte soprattutto dalle procure di Napoli e Palermo, volte ad accertare presunte collusioni di alcuni illustri esponenti politici (Giulio Andreotti, Antonio Gava, Vincenzo Scotti, Paolo Cirino Pomicino ecc.) con la mafia e con la camorra. Particolarmente gravi sono le accuse mosse contro Andreotti, coinvolto in alcuni tra i più oscuri delitti di mafia, come gli omicidi del giornalista Pecorelli e del generale Dalla Chiesa.
Il mutamento del quadro politico 
A fare le spese del "ciclone Mani Pulite" sono anzitutto la Democrazia cristiana e il Partito socialista. Quest'ultimo, dopo il massiccio coinvolgimento nell'inchiesta del suo carismatico segretario Bettino Craxi, subisce un rapido declino che lo porta, in pratica, alla scomparsa dalla scena politica.
La Democrazia cristiana, invece, intraprende un profondo processo di rinnovamento che sfocia, nel gennaio 1994, nella trasformazione del partito in una nuova formazione politica: il Partito popolare italiano, che si richiama alle radici più genuinamente cattoliche e popolari del movimento originariamente fondato da don Luigi Sturzo nel 1919 e del quale la Dc aveva inteso raccogliere l'eredità nel secondo dopoguerra.
Un gruppo di ex parlamentari democristiani, però, essendo in netto disaccordo con la linea politica del nuovo partito, decide di staccarsi e di dar vita al Centro cristiano democratico.
Un anno dopo la sua creazione, tuttavia, il Partito popolare deve affrontare un nuovo, grave problema: le profonde divergenze createsi tra la segreteria politica e la direzione del partito provocheranno, nella primavera del 1995, la spaccatura del Ppi in due formazioni politiche, che sceglieranno programmi e alleanze politiche contrapposte.
Al declino dei partiti tradizionali corrisponde l'ascesa di movimenti nuovi attorno ai quali si raccoglie con sempre maggiore evidenza "l'ansia di rinnovamento del popolo italiano".
Tra questi movimenti, quello che con più forza si pone come elemento di rottura rispetto al passato è la Lega Nord. Nata nel 1982 come movimento autonomista ostile a quello che chiama il "parassitismo" delle regioni meridionali e alla politica accentratrice di Roma capitale, la Lega lombarda, divenuta poi Lega Nord e guidata dal carismatico segretario Umberto Bossi, va in seguito progressivamente attenuando i toni della sua campagna antimeridionalistica e, forte di un crescente consenso elettorale, arriva a proporsi come forza di governo mirante alla creazione di un vero e proprio stato federale.
L'altro movimento che si affaccia prepotentemente sulla scena politica a metà degli anni Novanta è Forza Italia, "creatura" politica dell'imprenditore televisivo Silvio Berlusconi: si tratta di una forza politica di centro-destra, che, insieme al Centro cristiano democratico e ad Alleanza nazionale (la nuova formazione di destra nata dalle ceneri del vecchio Movimento sociale italiano), dà vita al cosiddetto Polo delle Libertà.
Del Polo fa parte, in un primo tempo, anche la Lega nord, ma ben presto le divergenze tra Berlusconi e Bossi divengono tali da provocare l'uscita della Lega dalla coalizione di centro-destra.
L'emergenza economica: i governi Amato e Ciampi 
A partire dal 1991-1992 tutto il mondo occidentale attraversa una fase di grave recessione economica. In Italia, dove da tempo il debito pubblico ha raggiunto cifre da capogiro, l'emergenza economica è particolarmente pressante ed è inoltre complicata da una crisi valutaria senza precedenti: la lira italiana, colpita da una pesante speculazione, perde progressivamente terreno di fronte a tutte le principali valute estere.
I governi che si susseguono in questo periodo - prima quello del socialista Giuliano Amato (1992-1993) e poi quello dell'ex governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi (1993-1994) - devono quindi anzitutto fronteggiare la grave crisi economica, che, tra l'altro, ha fatto salire il tasso di disoccupazione a livelli mai raggiunti in precedenza.
Nel luglio 1992 viene abolito il meccanismo della scala mobile, che per molti anni aveva garantito l'equiparazione dei salari al tasso di inflazione.
Nel settembre dello stesso anno la lira italiana esce dal Sistema monetario europeo, anche se la speculazione nei confronti della nostra moneta si protrarrà ancora per anni. I governi perseguono una politica di contenimento della spesa pubblica e di aumento delle entrate, attraverso una maggiore pressione fiscale e la privatizzazione di alcune aziende pubbliche. I primi segni di ripresa economica si faranno sentire solo verso la fine del 1994 e l'inizio del 1995, ma saranno accompagnati da una certa ripresa dell'inflazione.
Le elezioni del 1994 e il governo Berlusconi 
Il 27 e 28 marzo 1994 gli italiani vengono chiamati alle urne anticipatamente per rinnovare il Parlamento. Si tratta della prime elezioni politiche dopo l'approvazione (agosto 1993) della nuova legge elettorale che sostituisce il sistema proporzionale puro, in vigore fin dal dopoguerra, con un sistema misto, maggioritario per il 75% e proporzionale per il restante 25%.
Nelle intenzioni dei suoi promotori tale sistema elettorale dovrebbe favorire la creazione di due schieramenti politici contrapposti, arginando in questo modo l'eccessiva frammentazione del quadro politico italiano in una congerie di partiti anche piccoli o piccolissimi. In realtà, così concepita, la riforma elettorale, frutto di un compromesso tra i fautori del sistema maggioritario puro e i nostalgici del proporzionale, non darà i risultati sperati e il panorama politico italiano continuerà a essere quanto mai composito e variegato.
Le elezioni politiche del marzo 1994 sanciscono in maniera chiara la vittoria del Polo delle Libertà, la coalizione di centro-destra guidata da Silvio Berlusconi, che diventa presidente del consiglio l'11 maggio 1994.
La vita del neonato esecutivo, tuttavia, appare subito molto difficile, soprattutto a causa della scarsa coesione interna alla maggioranza di governo. Le divergenze tra la Lega di Bossi e il presidente del consiglio si fanno via via più profonde e i ministri leghisti, che occupano importanti dicasteri come quelli degli interni, finanze e bilancio, si trovano in una posizione sempre più scomoda, in bilico tra la fedeltà al governo e quella al segretario del loro partito.
Pesa inoltre su Berlusconi il nodo del conflitto di interessi tra il suo ruolo di "premier" e quello di imprenditore proprietario delle tre reti televisive della Fininvest. Ma il vero colpo di grazia al già traballante governo Berlusconi è dato dall'avviso di garanzia che gli viene notificato dalla procura di Milano il 21 novembre 1994: l'accusa è di corruzione in relazione a presunte tangenti pagate alla Guardia di finanza per evitare controlli fiscali su alcune società del gruppo di cui Berlusconi è presidente. Tre mozioni di sfiducia presentate da Pds, Rifondazione comunista, Ppi e Lega nord costringono Berlusconi a rassegnare le dimissioni il 22 dicembre 1994.
Lamberto Dini e il "governo dei tecnici" 
Dopo tre lunghe settimane di acceso dibattito politico e arroventate polemiche, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro sceglie la via del "governo dei tecnici" e affida l'incarico di formare il nuovo governo a Lamberto Dini, già direttore generale della Banca d'Italia e ministro del tesoro nel precedente governo Berlusconi.
Dini si propone di dare vita a un governo cosiddetto "di tregua": vale a dire un governo non politico bensì tecnico, formato da ministri non parlamentari, scelti esclusivamente in base alla loro competenza ed esperienza professionale nelle singole discipline.
Approntata la lista dei ministri, Dini si presenta alle Camere il 1° febbraio 1995 e, nonostante le speranze di dotare il suo governo di una larga maggioranza parlamentare, ottiene un "via libera" di stretta misura, grazie unicamente ai partiti di centro-sinistra.
Il nuovo premier si trova anzitutto a dover affrontare la grave emergenza economica e occupazionale, complicata da una delle crisi valutarie più acute degli ultimi decenni: a causa della disastrosa situazione del debito pubblico e della sfiducia degli investitori esteri nelle possibilità di riscossa della nostra economia, la lira italiana ha subito un vero e proprio tracollo nei confronti di tutte le monete estere e soprattutto del solido marco tedesco.
Per restituire credibilità all'Italia e placare le forti speculazioni che si abbattono sulla nostra moneta, Dini procede a una rigorosa manovra finanziaria volta ad avviare il risanamento dei conti pubblici; egli riesce inoltre a portare a termine quella riforma del sistema previdenziale che si invocava da più di vent'anni e che era ormai divenuta indispensabile per evitare il collasso finanziario dell'Inps (Istituto nazionale della previdenza sociale).
Lentamente la bufera che aveva investito i mercati valutari si attenua e la lira, pur tra alti e bassi, si assesta su quotazioni accettabili, mentre la produzione industriale attraversa una fase di grande espansione e i bilanci di molte aziende tornano in attivo.
Malgrado una leggera ripresa dell'inflazione e il perdurare di un'evasione fiscale su larga scala, il "governo dei tecnici" sembra dunque aver riportato un po' di ottimismo nell'economia italiana.
Dal governo Dini al governo Prodi 
L'11 giugno 1995 i cittadini italiani sono chiamati alle urne per pronunciarsi su dodici quesiti referendari. Tre riguardano le concessioni e la raccolta pubblicitaria per le reti televisive: il problema concerne soprattutto le reti commerciali, che sulla pubblicità fondano la loro stessa sopravvivenza, e quindi riveste un'importanza fondamentale per la Fininvest di Silvio Berlusconi.
La maggioranza della popolazione voterà "no" all'abrogazione delle leggi vigenti: Berlusconi può quindi registrare una vittoria che è insieme economica e politica. L'estate seguente, sulla scia dell'esito referendario e di fronte all'esigenza sempre più impellente di garantire al paese un governo stabile e capace di "portare l'Italia in Europa", si fanno da più parti pressanti richieste di un ulteriore scioglimento anticipato delle Camere. L'eventualità di un nuovo ricorso alle urne rimette in gioco gli equilibri politici soprattutto nell'area delle forze di centro-sinistra, che fin dall'autunno 1995 danno vita alla coalizione elettorale dell'Ulivo, capeggiata dal popolare Romano Prodi e alla quale aderisce anche Lamberto Dini.
Le elezioni politiche del 21 aprile 1996 assegnano la vittoria all'Ulivo e portano alla formazione, un mese più tardi, del primo governo a maggioranza di sinistra dell'Italia repubblicana, presieduto dallo stesso Prodi.
Tra i molti problemi che il nuovo governo si trova ad affrontare, dalla mobilitazione della Lega per la secessione dell'Italia centrosettentrionale (Padania) dal resto del paese (agosto-settembre) alla questione delle riforme istituzionali, quello più spinoso riguarda l'adesione dell'Italia alla moneta unica europea, obiettivo in parte avvicinato dal rientro della lira nello Sme (novembre 1996), ma che comporta una manovra finanziaria di vaste dimensioni (62 500 miliardi di lire).

 

 

Europa: anni Ottanta

L'era di Margaret Thatcher in Gran Bretagna 
Le elezioni politiche del 1979 affidano, dopo cinque anni di leadership laburista, la guida del governo britannico a Margaret Thatcher, capo del Partito conservatore. Anche la vittoria elettorale della Thatcher, come quella di Reagan negli Stati Uniti, risponde anzitutto a un'esigenza di riscossa dell'opinione pubblica inglese, scoraggiata da una pesante crisi economica e di prestigio, oltre che da crescenti tensioni sociali.
Questa donna energica e volitiva, poco incline ai compromessi, sembra appagare l'esigenza di rinnovamento, di ordine e di richiamo ai valori della tradizione che serpeggia nella popolazione e, facendo leva su questi sentimenti, saprà guidare la Gran Bretagna per 11 anni, ottenendo l'investitura elettorale per ben tre volte consecutive (1979, 1983 e 1987) e superando in questo senso perfino Winston Churchill.
Il suo governo pratica fin dall'inizio una politica di rigore economico e di austerità caratterizzata da una forte limitazione della spesa pubblica, specie  nei settori della sanità e dell'istruzione, e dalla privatizzazione di gran parte dell'industria di Stato.
Come negli Usa, anche in Gran Bretagna la politica economica assume un'impostazione decisamente liberista, che tende a privilegiare l'iniziativa individuale e a proteggere i ceti imprenditoriali affinché producano ricchezza e, di conseguenza, occupazione.
La resistenza dei sindacati a questa sua linea viene poi fiaccata attraverso duri scontri e una legislazione restrittiva dell'esercizio dello sciopero.
A lungo andare, però, il malessere sociale causato dal forte ridimensionamento dello stato sociale, dalla crescente piaga della disoccupazione e da una pressione fiscale che tendeva a penalizzare maggiormente i lavoratori dipendenti piuttosto che le imprese, finiscono per determinare un aperto contrasto tra la Thatcher e i dirigenti del suo stesso partito, costringendo il premier alle dimissioni (novembre 1990).
La politica estera della Thatcher 
Pur dichiarandosi sostenitrice di una "cultura europea", la Thatcher assume un atteggiamento di estrema cautela di fronte al progetto di unificazione dell'Europa. Il suo lungo braccio di ferro con gli altri paesi della Cee riesce ad assicurare alla Gran Bretagna condizioni più vantaggiose di partnership, ma non ottiene l'auspicato effetto di arrestare il processo di integrazione europea; anzi, da questo punto di vista la Thatcher diviene, nella seconda metà degli anni Ottanta, un alleato decisamente scomodo per i partner europei, e questo sarà uno dei motivi del contrasto che la opporrà allo staff dirigente del partito conservatore.
Sul problema dell'Ulster la lady di ferro mantiene un atteggiamento rigido e intransigente che finisce per provocare un'ulteriore radicalizzazione del conflitto e un'ondata di gravi e ripetuti attentati terroristici da parte dell'Ira (l'Esercito repubblicano irlandese).
La guerra delle Falkland 
Nella primavera del 1982 l'Inghilterra si trova poi improvvisamente a dover affrontare la questione delle isole Falkland-Malvinas, un arcipelago al largo della costa argentina sul quale il governo di Buenos Aires rivendica da sempre la sovranità, considerando l'appartenenza delle isole alla Gran Bretagna come un retaggio del periodo coloniale. Nell'aprile 1982 le forze armate argentine invadono l'arcipelago (che conta circa 1800 abitanti) e ne dichiarano unilateralmente l'annessione all'Argentina. Per il generale Leopoldo Galtieri, capo della giunta militare al potere a Buenos Aires, si tratta di un diversivo che dovrebbe servire soprattutto a distrarre l'opinione pubblica argentina dai gravi problemi politici ed economici suscitando un'ondata di nazionalismo popolare. La Gran Bretagna non esita a raccogliere la sfida e, dopo una serie di scontri duri e sanguinosi, riconquista la sovranità sulle isole (giugno 1982).
L'episodio determinerà la caduta della giunta di Galtieri e il passaggio dell'Argentina a  un regime democratico.
La Germania di Kohl 
Anche in Francia e in Germania Federale i primi anni Ottanta vedono importanti avvicendamenti al vertice, sebbene di segno politicamente diverso.
In Germania si afferma la leadership di Helmut Kohl, che diventa cancelliere nel 1982 in seguito alla rottura tra socialdemocratici e liberali e all'alleanza di questi ultimi con i democristiani. Kohl avvia subito un programma neoliberista che mira a tenere sotto controllo la spesa pubblica pur senza capovolgere completamente la politica dello stato sociale che aveva caratterizzato i governi di Willy Brandt e Helmut Schmidt nel decennio precedente.
La Francia di Mitterrand 
In decisa controtendenza è invece la Francia della prima metà degli anni Ottanta. Qui, nel 1981, diviene presidente della Repubblica il socialista François Mitterrand, espressione di un'alleanza tra il Partito socialista e quello comunista di Georges Marchais.
Il nuovo governo di sinistra intraprende una linea politica ed economica pressoché antitetica rispetto al reaganismo che in questo periodo rappresenta quasi la regola per il mondo occidentale: vengono attuate numerose nazionalizzazioni di banche e industrie, abbassati i tassi di interesse e innalzati i salari, ridotto l'orario lavorativo e fissato un limite più basso all'età pensionabile.
Ne risulta una crescita economica e occupazionale, accompagnata però da un forte aumento del debito pubblico e da una svalutazione della moneta francese, il franco. Per risolvere quest'ultimo nodo, considerato essenziale per una reale stabilità economica, Mitterrand è dunque costretto a mutare decisamente rotta e ad avviare, a partire dal 1984, una politica di rigore fondata su tagli consistenti alla spesa pubblica e sul contenimento dei salari. Questa svolta provoca l'uscita dal governo del partito comunista, che da questo momento inizia la sua parabola discendente.

 

 

Nuove tensioni nel mondo

L'intervento sovietico in Afghanistan  
Se gli anni Settanta avevano rappresentato, nel complesso, un momento di relativa distensione tra Usa e Urss, grazie ad alcuni accordi commerciali e militari e all'apertura politica dimostrata nei confronti dell'Unione Sovietica dalla Germania di Willy Brandt, gli anni Ottanta si aprono all'insegna di una nuova tensione bipolare, caratterizzata dalla corsa agli armamenti e dallo scontro ideologico e propagandistico.
In questi anni si formano i nuovi governi conservatori in Gran Bretagna, guidati da Margaret Thatcher, e soprattutto negli Stati Uniti, con i due mandati quadriennali consecutivi del presidente repubblicano Ronald Reagan. E sono anche gli anni nei quali nel blocco sovietico si manifestano le prime crepe.
Nel dicembre 1979 l'Armata Rossa invade il vicino Afghanistan, con lo scopo di abbattere con la forza delle armi il governo comunista di Afizullah Amin (che muore durante l'operazione), sostituendolo con un governo-fantoccio dipendente direttamente da Mosca, capeggiato da Babrak Karmal.
I vari governi che si erano succeduti a Kabul (capitale dell'Afghanistan) a partire dal colpo di stato comunista del 1978 non erano infatti riusciti a stroncare la resistenza del movimento islamico, che, col favore dell'opinione pubblica, minacciava di strappare l'Afghanistan dall'orbita sovietica.
Tuttavia, quella che nelle intenzioni del Cremlino avrebbe dovuto configurarsi come una rapida e pressoché indolore operazione politica, si rivela quasi subito una sorta di boomerang: da un lato infatti si scontra con l'agguerrita resistenza della popolazione afghana che si trasforma in un'instancabile guerriglia contro le truppe di occupazione, dall'altro finisce per attirare contro l'Unione Sovietica le ire di un Occidente dominato ormai  dalla politica rigida e intransigente del presidente statunitense Reagan e dalla sua alleata europea, la "lady di ferro" inglese, Margaret Thatcher.
La Polonia e Solidarnosc 
L'altra spina nel fianco dell'Unione Sovietica dei primi anni Ottanta è rappresentata dalla Polonia, un paese per certi versi anomalo rispetto al blocco dell'Europa orientale, soprattutto a partire dal 1978, quando l'elezione di un papa polacco, Karol Wojtyla, offriva alla Chiesa di Polonia una nuova forza, che avrebbe potuto dimostrarsi utile anche da un punto di vista politico.
Nell'estate del 1979, gli operai delle miniere di Danzica, polmone economico della nazione, danno il via a un lungo sciopero che ben presto assume la forma di una vera e propria sfida al regime; la protesta si diffonde rapidamente in tutto il paese, coordinata dal sindacato libero Solidarnosc e dal suo leader, Lech Walesa.
Il regime in un primo tempo adotta un atteggiamento conciliante e "morbido", riconoscendo il sindacato:  la rivolta, tuttavia, non si placa e, allo scopo di riportare l'ordine e forse anche di scongiurare un intervento armato sovietico, il partito mette in atto, nel dicembre 1981, un'operazione repressiva, proclamando lo stato d'assedio e insediando un Consiglio militare di salvezza nazionale alla cui presidenza viene posto il generale Jaruzelski.
Viene imposto il coprifuoco, la censura e il blocco delle comunicazioni con l'estero. Il sindacato Solidarnosc viene soppresso e tutti i suoi principali esponenti, compreso Lech Walesa, finiscono in prigione.
I provvedimenti eccezionali vengono revocati alla fine dell'anno, ed è a questo punto che entra in gioco il ruolo "politico" della Chiesa cattolica, che, attraverso il primate monsignor Glemp, ha assunto in numerose circostanze il ruolo di interlocutore di Jaruzelski e di polo di aggregazione dell'opposizione al regime.
Proprio per questo suo ruolo la Chiesa cattolica paga un prezzo molto alto: nell'ottobre 1984 padre Jerzy Popieluzko, un sacerdote molto vicino a Solidarnosc, viene rapito, torturato e ucciso da alcuni funzionari dei servizi segreti, che, all'insaputa di Jaruzelski, tentano in questo modo di suscitare una rivolta popolare per costringere il generale a ripristinare lo stato di guerra.
L'America Latina: il ritorno alla democrazia 
Gli anni Ottanta si aprono all'insegna dell'instabilità del continente latino-americano, sottoposto, nel suo complesso, al travaglio di una sanguinosa lotta politica tra le dittature militari insediatesi negli anni Sessanta e Settanta (e sostenute più o meno direttamente dagli Stati Uniti), e l'opposizione clandestina. La pesante crisi economica che attanaglia gli stati latino-americani scava un solco sempre più profondo tra l'opinione pubblica e i governi: la resistenza popolare minaccia sempre più da vicino la sopravvivenza stessa delle giunte militari, e queste reagiscono con una violenta politica repressiva, che non esita a ricorrere al sequestro e all'eliminazione fisica dei dissidenti.
In Argentina, solo nel 1983, all'avvento di un nuovo regime democratico, viene alla luce in tutta la sua gravità ed evidenza il fenomeno dei cosiddetti desaparecidos (scomparsi): migliaia di individui fatti "sparire" e poi barbaramente uccisi dalla giunta militare per la loro opposizione al regime.
Gradualmente, però, quasi tutti gli stati del Sudamerica intraprendono negli anni Ottanta la difficile strada verso la democrazia e, a una a una, le dittature lasciano il posto a governi democraticamente eletti: è il caso di Brasile, Perù, Bolivia, Guatemala, Uruguay, Ecuador, Argentina e, da ultimo, anche del Cile, che nel 1990 riesce finalmente a liberarsi della dittatura del generale Pinochet iniziata 15 anni prima.
Tale evoluzione politica è tuttavia alquanto fragile, sia perché non sempre si accompagna a un effettivo ricambio della classe dirigente, sia per il permanere degli enormi problemi economici e sociali legati al sottosviluppo. Questi paesi sono infatti caratterizzati da un elevato grado di dipendenza economica, da un alto tasso di inflazione e da tensioni sociali dovute soprattutto a povertà, sovrappopolamento, diseguaglianze sociali e criminalità.
Il tratto distintivo dell'economia di tutti questi Stati è poi l'enorme debito estero lasciato in eredità dai regimi dittatoriali, che vi erano ricorsi per sostenere le spese militari e per agevolare il processo di industrializzazione.
L'India verso lo sviluppo 
Nell'ottobre 1984 muore in un attentato Indira Gandhi, la grande statista indiana che, proseguendo la politica di suo padre Nehru, stava cercando di strappare l'India alla piaga del sottosviluppo. Grazie a una profonda rivoluzione agricola fondata su un completo rinnovamento delle tecniche, la Gandhi era riuscita a portare l'India all'autosufficienza alimentare e aveva anche avviato un consistente processo di industrializzazione.
Tuttavia ciò non era bastato a risolvere definitivamente il grave problema della fame, dovuto anche a un fortissimo incremento demografico: circa metà della popolazione indiana vive ancora oggi sotto la soglia di povertà, con strutture sanitarie carenti e un altissimo grado di analfabetismo. A uccidere Indira Gandhi è una sua guardia del corpo di nazionalità sikh (una minoranza etnica separatista contro la quale la Gandhi ha sempre mantenuto un atteggiamento fortemente repressivo). Le succede suo figlio Rajiv Gandhi, che proseguirà sulla stessa strada finché nel 1991 non cadrà anch'egli vittima di un attentato.

 

Nuovi conflitti in Africa

La minaccia dell'integralismo islamico 
A partire dall'avvento del regime khomeinista in Iran, in tutto il mondo arabo si assiste a una progressiva crescita dei movimenti islamici.
Questi tendono a proporsi sempre più come centri di mobilitazione politica e a sostituire con la loro ideologia il tradizionale nazionalismo arabo, considerato dalle frange più radicali un retaggio dell'epoca coloniale.
I movimenti oltranzisti islamici bandiscono una vera e propria guerra santa (jihad) volta alla diffusione dell'islàm nel mondo come dottrina non soltanto religiosa ma anche politica.
Tra gli stati più interessati dal radicalismo islamico vi è l'Egitto, retto dal moderato Hosni Mubarak. In questo paese i gli attentati compiuti dai militanti islamici contro forze dell'ordine e turisti stranieri costringono le autorità a imporre lo stato d'assedio in vaste zone del paese, e lo stesso Mubarak subisce, nel giugno 1995, un attentato dal quale esce miracolosamente illeso.
La situazione in Algeria 
In Algeria l'integralismo islamico ha scatenato una vera e propria campagna di terrore. Il paese è retto fin dal 1962 dal Fronte di liberazione nazionale, protagonista della guerra di indipendenza dalla Francia e unico partito ammesso dalla Costituzione.
Nel 1989 il regime avvia un processo di transizione verso il pluralismo e nel dicembre 1991 sono indette libere elezioni politiche. Al termine del primo turno elettorale risulta già chiaramente evidente la schiacciante vittoria del Fronte islamico di salvezza (Fis); tuttavia, per evitare la definitiva assunzione del potere da parte di questo movimento fondamentalista, il governo algerino decide di annullare il secondo turno delle elezioni, mettendo fuori legge il Fis e arrestando gran parte dei suoi dirigenti.
Questo "golpe bianco" però, lungi dall'allontanare il rischio di un'espansione islamica nel paese, determina la radicalizzazione della lotta politica e l'instaurarsi di uno stato di terrore.
Guerra e terrore 
Gli integralisti islamici, defraudati di una vittoria politica ormai sicura, reagiscono con una violenta e sanguinosa guerra contro il governo e contro tutti gli stranieri, sia turisti sia residenti nel paese, accusati di fiancheggiare il regime e favorirne la sopravvivenza. Migliaia di cittadini stranieri vengono uccisi (tra essi sette marinai italiani sgozzati nel sonno nel luglio 1994); ma vengono colpiti anche intellettuali e uomini di cultura, colpevoli di diffondere un'ideologia diversa dall'islàm.
Il governo, da parte sua, scatena una violenta controffensiva nei confronti dei  principali centri dell'integralismo islamico nel paese. Il 31 gennaio 1994, con la nomina a presidente dell'Algeria del generale Liamine Zéroual, diviene ufficiale la presa diretta del potere da parte delle forze armate.
Nel gennaio 1995, quando otto partiti dell'opposizione si incontrano a Roma per mettere a punto una possibile base di intesa, le vittime di questa guerra sono già 40 000. Gli accordi di Roma, accettati anche dal Fis, prevedono un'alternanza democratica nella gestione del potere e la costituzione di un governo di transizione per la ripresa del processo elettorale interrotto nel 1992.
Le frange più oltranziste del Fronte islamico di salvezza si oppongono però a ogni trattativa e così la violenza prosegue senza esclusione di colpi.
Non sono soltanto i pochi stranieri rimasti in Algeria a vivere nel terrore di rappresaglie, ma tutti i professionisti, gli operatori culturali, gli insegnanti, i giornalisti, tutti coloro, insomma, che non contribuiscono a divulgare il "verbo" dell'integralismo islamico: la paura è ormai diventata parte integrante della loro vita quotidiana.
A metà del 1995 si diffondono voci su presunte trattative in corso, finalmente, tra il governo e il Fis, in vista di una progressiva normalizzazione della vita politica ed economica di un paese ormai sull'orlo del baratro.
L'indipendenza dell'Eritrea 
Il 1993 vede la nascita di un nuovo stato nel Corno d'Africa: è l'Eritrea, impegnata da più di trent'anni in una guerra d'indipendenza dall'Etiopia.
Nel 1991 dopo la caduta, in Etiopia, del regime comunista di Menghistu Hailé Mariam, che aveva rovesciato con un colpo di stato il negus Hailè Selassiè nel 1974, l'Eritrea aveva già proclamato di fatto l'indipendenza dall'Etiopia, ottenendo anche un riconoscimento internazionale. Per dare però una base giuridica al nuovo stato, il 23-25 aprile 1993 si tiene un referendum popolare, che approva quasi all'unanimità (99%) l'indipendenza del paese.
Permangono tuttavia numerose incognite sul futuro politico ed economico di questo nuovo stato in un'area "calda" come il Corno d'Africa.
Il finanziamento internazionale per la ricostruzione del paese non è stato in grado di garantire alle autorità il livello sperato; il ritorno dei profughi, inoltre, ha aggravato la disoccupazione e creato forti tensioni sociali.
Quanto alla politica estera, l'Eritrea si sforza di intrattenere buone relazioni con la vicina Etiopia e con il Sudan, mentre, al contrario, i rapporti con il mondo arabo sembrano essersi fortemente incrinati a causa della cooperazione avviata con Israele in tema di sicurezza e di sviluppo dell'agricoltura.
La guerra civile in Somalia 
La repubblica somala, nata nel 1960, aveva avuto fin dall'inizio una vita difficile e quasi subito si era trasformata in un regime dittatoriale retto dal generale Siad Barre. Nel 1990 i movimenti di guerriglieri antigovernativi, appoggiati dall'Etiopia, riescono a sconfiggere Barre, che fugge all'estero.
Ben presto si crea però una frattura all'interno del movimento di liberazione tra Ali Mahdi, nominato presidente ad interim, e Mohamed Farah Aidid, capo di una fazione rivale, che cerca di usurpare il potere. Da questo momento la Somalia, già economicamente molto arretrata e afflitta da frequenti carestie, viene travolta da una sanguinosa guerra civile in cui si affrontano non soltanto le due fazioni opposte, ma diversi partiti, bande ed eserciti rivali, che spadroneggiano nella capitale Mogadiscio e in tutto il paese, mentre il governo centrale viene di fatto esautorato ed è ridotto a una pura ombra.
Le condizioni della popolazione si fanno più drammatiche, poiché le bande rivali impediscono l'afflusso degli aiuti umanitari inviati dalle Nazioni unite.
L'operazione "Restore Hope" 
Nel gennaio 1993 il presidente americano George Bush, sotto l'egida dell'Onu, lancia l'operazione "Restore Hope" (Restituire la speranza), cioè l'invio di Caschi blu con il compito di consentire l'approvigionamento della popolazione. La missione di pace, tuttavia, fallisce sia per le difficoltà legate alla violenza della guerra civile, sia per contrasti ai vertici della forza multinazionale. Nel febbraio 1995 anche gli ultimi marines americani lasciano la Somalia.
Il paese è ormai in mano alle varie bande di miliziani che si aggirano seminando terrore e morte a bordo di speciali camionette chiamate in gergo "taniche". L'Occidente ha ammesso la propria sconfitta e, anzi, ogni stato ha consigliato il rimpatrio dei propri cittadini presenti nel territorio della Somalia.
Alto, infatti, è il tributo di sangue pagato dagli stranieri, e in particolare dai giornalisti recatisi per lavoro sul suolo somalo: ricordiamo, per l'Italia, la giornalista Ilaria Alpi e l'operatore tv Marcello Palmisano. Ancora una volta, come è avvenuto in Bosnia, la comunità internazionale si scopre pressoché impotente di fronte alla drammatica crisi che sta devastando un paese.
La guerra civile in Ruanda 
Quella che si consuma in Ruanda (ma anche, seppure con meno fragore, nel Burundi) nel 1994 non è soltanto una guerra civile, ma un vero e proprio genocidio, perpetrato con un odio e un accanimento che hanno radici profonde nella storia del paese.
I lunghi anni di colonizzazione prima tedesca (1897-1916) poi belga (1916-1962) hanno sopito, ma non risolto, la secolare rivalità tra le tre popolazioni locali, twa, tutsi e hutu. Quest'ultima, tradizionalmente dedita all'agricoltura, rappresenta l'80% circa della popolazione, ma ha sempre avuto un ruolo subordinato rispetto al gruppo tutsi che, con l'appoggio dei colonizzatori belgi, deteneva tutte le leve del potere.
I tutsi vantavano anche una superiorità "morale": essi discenderebbero infatti da Cam, figlio di Noè, e, in quanto camiti, si considerano "superiori" rispetto ai primi occupanti di quella regione (twa e hutu), di stirpe bantu.
Le autorità coloniali si erano sempre schierate dalla parte dei tutsi, fino a quando, negli anni Cinquanta, questi cominciarono ad avanzare pretese indipendentistiche; i belgi passarono allora a sostenere gli hutu, e questo voltafaccia creò nel paese profondi squilibri sociali, che rinfocolarono l'odio etnico.
Dopo l'indipendenza, ottenuta nel 1962, il potere, sia politico sia militare, è passato nelle mani degli hutu, che lo gestiscono in maniera pressoché totalitaria, escludendo completamente i tutsi. Questi allora costituiscono, in esilio, un movimento di opposizione, il Fronte patriottico ruandese (Fpr) che, a partire dal 1990, sferra continui attacchi contro obiettivi hutu in Ruanda.
La situazione precipita improvvisamente il 6 aprile 1994, quando in un attentato viene abbattuto l'aereo presidenziale con a bordo il presidente del Ruanda, Juvénal Habyarimana, e quello del Burundi, Cyprien Ntaryamira. La guardia presidenziale e l'esercito attuano un immediato golpe militare e avviano un programma di violenta repressione, che si basa sulla sistematica eliminazione fisica dei dissidenti tutsi.
Massacri e fughe 
Si combatte casa per casa, e migliaia e migliaia di persone vengono mutilate o uccise per lo più a colpi di machete, per poi essere seppellite in fosse comuni.
Non meno drammatica è la situazione dei profughi (più di un milione su una popolazione totale di sette milioni di persone), ammassati in campi del vicino Zaire e della Tanzania, e decimati da carestie ed epidemie.
Anche in questo caso l'intervento internazionale, limitato all'invio di aiuti umanitari, si dimostra essere assolutamente tardivo e inefficace: il mondo assiste impotente a questo nuovo massacro, anche se l'Onu istituisce appositamente un tribunale internazionale per giudicare i cosiddetti "crimini contro l'umanità".
Alla fine del 1994 il nuovo presidente Pasteur Bizimungu, nominato dal Fpr, cerca di avviare il processo di ricostruzione del paese incoraggiando il ritorno dei profughi, ma la situazione di questo martoriato e poverissimo angolo di Africa è ben lungi dall'essersi completamente normalizzata.
La fine della segregazione razziale in Sudafrica 
Nell'intricato panorama africano costituito da guerre e da lotte contro il sottosviluppo, gli anni Novanta registrano comunque un'importante conquista politica e sociale: la nascita della "nuova repubblica sudafricana", fondata non più sul principio della discriminazione razziale (apartheid), ma sull'uguaglianza e sulla democrazia.
Da quarantasei anni la Costituzione che reggeva la repubblica sudafricana si fondava su una rigida separazione tra bianchi e neri: questi ultimi, che rappresentano la grande maggioranza della popolazione, non godevano dei diritti politici, non erano ammessi nei locali e negli uffici frequentati dai bianchi, in alcune regioni non disponevano neanche di un'anagrafe centrale che fornisse loro i semplici documenti comprovanti la loro stessa esistenza.
La discriminazione razziale investiva ogni aspetto della vita quotidiana, relegando i neri in quartieri-ghetto ai margini delle città e rendendo difficile per essi anche la ricerca di un lavoro che non si configurasse come mero sfruttamento della persona.
Tutto questo aveva creato forti tensioni sociali: gli attentati terroristici si susseguivano a ritmi sempre più incalzanti e per cercare di tenere a freno le rivolte dei neri il governo doveva ricorrere a forme di repressione che spesso sfociavano in veri e propri bagni di sangue.
Dal punto di vista economico, inoltre, il paese era fiaccato da una grave crisi interna e dagli embarghi internazionali, seppure parziali, decretati nel 1985 per punire le autorità sudafricane della loro politica segregazionista.
De Klerk e Mandela 
Fin dal 1987 erano cominciate delle trattative segrete tra il presidente De Klerk e Nelson Mandela, leader dell'African national congress (Anc), il principale partito di opposizione. Ai due va il merito di aver riconosciuto la necessità di far uscire il paese dal tunnel nel quale era precipitato e di aver compreso che questo poteva essere possibile solo a prezzo di un compromesso. Per questo entrambi vengono insigniti, nel 1993, del premio Nobel per la pace.
Già nel 1990 De Klerk dà inizio alla politica di liberalizzazione, abbattendo l'una dopo l'altra le principali leggi su cui si fondava il regime di apartheid.
Nel novembre 1993 viene stilata una Costituzione provvisoria che prevede l'insediamento di un governo di transizione, in attesa di libere elezioni, fissate per il mese di aprile 1994.
De Klerk e Mandela, ormai praticamente alleati dopo decenni di accesa rivalità (Mandela era rimasto in prigione per 27 anni, durante i quali aveva tuttavia continuato a rappresentare il principale punto di riferimento dell'opposizione al regime), devono tuttavia guardarsi ora da temibili avversari: da un lato l'estrema destra bianca e conservatrice, che non intende rinunciare ai propri privilegi, dall'altra l'Inkhata, il partito etnico zulu, che considera Mandela un traditore della causa dei neri.
Malgrado le difficoltà sia politiche sia amministrative (quasi tutti i neri sono sprovvisti di documenti di identificazione), il 27 aprile 1994 si tengono, in un clima abbastanza tranquillo, le prime elezioni libere e multirazziali della storia del Sudafrica. La vittoria va all'African national congress di Mandela, che ottiene il 62,65% dei suffragi; il partito di De Klerk ottiene invece il 26,4% e l'Inkhata il 10,5%. Nessuna delle altre formazioni raggiunge il 5%.
Il 9 maggio 1994 Nelson Mandela viene nominato presidente della repubblica. Egli stesso designa come suoi vicepresidenti Thabo Mbeki (presidente dell'Anc dall'agosto 1993) e Frederik De Klerk, il grande rivale di un tempo divenuto oggi uno degli artefici della transizione del paese verso un regime democratico e senza discriminazioni nei confronti delle persone di colore.
Il "nuovo Sudafrica"  
Il governo del "nuovo" Sudafrica è largamente dominato dall'African national congress, che può contare su 252 seggi parlamentari su 400: una maggioranza sufficiente a garantire l'avvio di una concreta opera di democratizzazione del paese e di superamento dei violenti contrasti razziali che per quasi mezzo secolo hanno dilaniato il tessuto sociale dello stato.
La nuova Costituzione sancisce undici lingue ufficiali, contro le due (afrikaans e inglese) che da sempre hanno dominato la vita civile e politica del paese. Se questa modifica costituzionale è indice della tolleranza del nuovo regime, è però anche sintomo dell'estrema eterogeneità della popolazione sudafricana: la scommessa di Mandela è anzitutto quella di costruire uno stato in cui tutte le varie componenti etniche possano sentirsi tutelate e rappresentate.
Occorre poi una politica economica che affronti i gravi problemi di disoccupazione e di sottoccupazione, creando nuovi e numerosi posti di lavoro, equilibrando i salari e ridistribuendo le aree da adibire all'agricoltura.
Infine, è necessario allestire un serio apparato sociale e assistenziale, che garantisca a ogni cittadino uguaglianza di diritti e di doveri soprattutto nel campo dell'istruzione e della sanità.
I problemi, perciò, non sono finiti. Gli squilibri sono talmente profondi che non è facile risolverli in maniera indolore. Il cammino sarà lungo, ma il Sudafrica ha già vinto la sua prima sfida

 

 

L'America di Reagan

L'elezione a presidente di Reagan 
Quando, nel novembre 1980, il repubblicano Ronald Reagan, fino al 1966 attore cinematografico, diviene il 40° presidente, l'immagine internazionale degli Stati Uniti è ai suoi minimi storici.
Sia l'impotenza americana di fronte all'invasione russa dell'Afghanistan, sia, soprattutto, la vicenda degli ostaggi statunitensi da un anno nelle mani degli iraniani hanno infatti compromesso profondamente l'immagine pubblica di un paese che non è ancora riuscito a superare la cocente sconfitta subita nella guerra del Viet Nam.
E, quel che è peggio, tale perdita di credibilità viene sottolineata non soltanto da avversari e alleati esteri, ma anche dalla stessa opinione pubblica statunitense, che accusa di eccessiva debolezza l'amministrazione uscente del presidente Jimmy Carter (1976-1980).
Il "reaganismo" 
Su questo sentimento di orgoglio ferito fa leva l'agguerrita campagna elettorale condotta da Reagan, candidato del partito repubblicano, che promette al paese una "riscossa" in grado di riportarlo al rango di prima superpotenza, garante dell'ordine mondiale. Il popolo degli Stati Uniti risponde a questi forti richiami al patriottismo e ai valori tradizionali concedendo a Reagan un vero trionfo elettorale, che quattro anni dopo, in occasione delle successive elezioni presidenziali, si amplificherà fino a divenire una sorta di plebiscito.
Reagan rimarrà dunque alla Casa Bianca per otto anni, determinando un profondo mutamento di rotta nella storia americana e mondiale.
Il nuovo presidente avvia subito un programma per molti versi antitetico rispetto a quello del suo predecessore. In politica interna egli intende procedere al ridimensionamento dell'apparato burocratico e a una drastica riduzione della spesa pubblica, soprattutto di quella destinata alle istituzioni pubbliche e assistenziali (scuola, sanità, sussidi alla disoccupazione ecc.).
Il rilancio dell'economia è affidato a una politica totalmente liberista, che si basa sull'intraprendenza individuale e sull'ossequio alle leggi del mercato, nello sforzo di limitare il più possibile ogni forma di intervento statale e di assistenzialismo.
Il modello neoliberista reaganiano si basa infatti sul presupposto che la spesa pubblica impiegata per finanziare interventi sociali e assistenziali da un lato crea inflazione (uno dei grandi flagelli economici degli anni Settanta), dall'altro sottrae consistenti fondi agli investimenti produttivi.
Questa linea economica, che verrà comunemente definita "reaganismo", diverrà una sorta di simbolo degli anni Ottanta e segnerà un vero e proprio punto di rottura rispetto al modello dello stato sociale che era nato negli anni della ricostruzione postbellica, per sostenere le economie piegate dalla partecipazione alla lunga guerra mondiale.
Lo scudo spaziale 
Contemporaneamente Reagan mira a potenziare l'apparato difensivo americano, attraverso la cosiddetta Iniziativa di Difesa Strategica (SDI), più nota come Progetto dello Scudo Spaziale.
Si tratta di un complesso sistema difensivo basato sull'impiego di satelliti di osservazione e di sofisticate armi spaziali in grado di intercettare e abbattere i missili intercontinentali prima che essi giungano all'obiettivo prefissato.
Tale sistema avrebbe dovuto portare, secondo Reagan, alla progressiva eliminazione delle armi nucleari, perché ciascuna delle superpotenze sarebbe protetta dal proprio scudo stellare.
La politica estera di Reagan 
In politica estera, Reagan si assume l'arduo compito di far superare agli americani  ogni complesso d'inferiorità e imposta subito i rapporti con l'Unione Sovietica su un piano di "rigido confronto".
Per punire il Cremlino dell'invasione dell'Afghanistan approva una serie di misure che vanno dalla mancata ratifica del trattato Salt II sugli armamenti nucleari, concluso a Vienna due anni prima, alla sospensione delle forniture all'Urss di beni di prima necessità, in particolare grano.
Il primo quadriennio dell'amministrazione Reagan vede dunque un deciso irrigidimento della politica dei blocchi contrapposti: tale linea verrà notevolmente ammorbidita durante il secondo mandato presidenziale di Reagan (1984-1988), anche grazie alla politica riformistica intrapresa dal leader sovietico Gorbaciov, che nel frattempo si era insediato al Cremlino.
La politica estera di Reagan vede  inoltre un'accentuazione delle spinte interventistiche nelle aree più "calde" del globo: nella tormentata regione del Centro-America, egli sostiene massicciamente i movimenti anticomunisti del Nicaragua, che dal 1979 si fronteggiano in una sanguinosa guerra civile con il governo  sandinista appoggiato dall'Urss. Tale situazione perdurerà fino al 1990, quando il governo sandinista verrà sconfitto alle elezioni da una coalizione di partiti moderati.
Raegan svolge inoltre un'efficace azione di dissuasione nei confronti della Libia, nazione considerata tra le nazioni ispiratrici del terrorismo arabo internazionale.
In due occasioni, nel 1986 e nel 1988, è addirittura la VI Flotta degli Stati Uniti a dirigersi minacciosamente verso il Mediterraneo e a mettere in atto raid punitivi per ritorsione contro gli attentati terroristici e per cercare di ottenere la chiusura di impianti libici sospettati di produrre armi chimiche.
In particolare nel suo secondo mandato, grazie soprattutto, lo ripetiamo, ai migliorati rapporti con l'Unione Sovietica di Gorbaciov, Reagan va gradualmente stemperando la precedente linea politica volta a una sostanziale affermazione di forza, e si adopera per il mantenimento della pace mondiale e per il superamento di alcune crisi regionali.
I vertici con Gorbaciov tenutisi a Ginevra (1985), Reykjavik (1986), Washington (1987) e Mosca (1988) approdano a importanti accordi per la riduzione degli armamenti in Europa.
Un contributo decisivo Reagan dà anche alla transizione verso la democrazia nelle Filippine, dove nel febbraio 1986 termina la ventennale dittatura di Ferdinand Marcos, iniziata nel 1965.

Le Filippine e il ritorno alla democrazia

All'inizio degli anni Ottanta il presidente delle Filippine Ferdinand Marcos, che da un periodo di vent'anni tiene l'arcipelago sotto il giogo di un regime dittatoriale inefficiente e corrotto, perde gradualmente l'appoggio degli Usa, tradizionali alleati, e della Chiesa cattolica, che rappresenta uno dei principali punti di riferimento interni.
L'opposizione si raccoglie attorno a Corazón (Cory) Aquino, vedova del leader liberale Benigno Aquino, fatto uccidere presumibilmente da Marcos.
Nel febbraio 1986, dopo una contestata vittoria elettorale ottenuta attraverso una serie di brogli, il dittatore cede di fronte ai crescenti disordini popolari e, di conseguenza, alla defezione di alcuni suoi collaboratori e abbandona il paese.
La guida del governo viene assunto da Cory Aquino, tuttavia la transizione verso la democrazia risulta essere tutt'altro che facile: per due anni si susseguono numerosi tentativi di colpo di stato operati sia dai nostalgici del dittatore Marcos sia dalla guerriglia comunista e islamica. Soltanto nel 1988 il nuovo corso riesce finalmente a consolidarsi, anche grazie al decisivo appoggio degli Stati Uniti e alla morte in esilio di Marcos.

 

 

L'Urss di Gorbaciov

La successione di Breznev 
Nell'Unione Sovietica all'inizio degli anni Ottanta regna il più assoluto immobilismo politico: il protrarsi di problemi ai suoi confini e il conservatorismo della cosiddetta nomenklatura (classe dirigente) allontanano ogni ipotesi di riforma interna. Alla fine del 1982 muore Leonid Breznev e il potere passa prima nelle mani di Yuri Andropov, quindi, alla morte di quest'ultimo (nel febbraio 1984), a Konstantin Cernenko, non a caso capo della corrente "brezneviana" interna al Pcus (il partito comunista sovietico).
L'immagine internazionale dell'Urss va progressivamente deteriorandosi, anche a causa della propaganda reaganiana, nella quale l'Unione Sovietica è rappresentata come l'impero del male.
In seguito al fallimento dei negoziati di Ginevra sugli euromissili (i missili, cioè, posti sul suolo europeo), in Germania Federale, Gran Bretagna e Italia cominciano a essere installati i Pershing 2 e i Cruise americani, che dovrebbero servire a ristabilire l'equilibrio nucleare in Europa infranto dal massiccio schieramento dei missili sovietici SS20.
In poco più di un anno, quindi, l'Urss ha dovuto affrontare due successioni al vertice e lo smacco di vedere accrescere l'apparato missilistico della Nato in Europa. Ai suoi confini non sembrano destinate a risolversi a breve termine le gravi questioni dell'Afghanistan e della Polonia. È da questa situazione di sostanziaIe stallo che l'Urss si affaccia al 1985, l'anno che rappresenta un vero spartiacque nella sua storia.
L'Urss delle riforme  
Nel marzo 1985, alla morte del conservatore Constantin Cernenko, viene eletto segretario del Pcus Michail Gorbaciov. Questi eredita una situazione sull'orlo del collasso: l'economia è fortemente arretrata, sia dal punto di vista tecnologico sia da quello produttivo; il sistema distributivo è afflitto da disfunzioni che rendono difficile l'afflusso delle merci in tutto il paese e favoriscono quindi l'affermazione del mercato nero; il mancato ricambio della classe dirigente e la rigidità del sistema burocratico hanno ormai determinato il diffondersi su larga scala di fenomeni di corruzione e di clientelismo nell'apparato statale.
Anche l'immagine internazionale dell'Urss risente del profondo divario socio-economico che separa il modello socialista da quello capitalista, il quale, per di più, sta vivendo negli anni Ottanta il suo momento di massimo sviluppo. Il ruolo di grande potenza mondiale che l'Unione Sovietica aveva consolidato negli anni Settanta in corrispondenza alla crisi americana seguita alla guerra del Viet Nam, va ora ridimensionandosi e il fallimentare intervento in Afghanistan è l'esempio migliore di questa fase di debolezza internazionale dell'impero sovietico.
Di fronte a tale situazione Gorbaciov decide di avviare un coraggioso programma di riforme che faccia uscire il Paese dalla stagnazione dell'epoca brezneviana e che, pur senza ripudiare formalmente il modello socialista, rinnovi profondamente la vita politica ed economica dell'Unione  Sovietica.
Perestrojka e glasnost 
Le parole d'ordine dell'era di Gorbaciov sono perestrojka (ristrutturazione, rinnovamento) e glasnost (trasparenza): egli, cioè, vuole giungere a un completo rinnovamento della società sovietica attraverso un programma riformistico improntato alla trasparenza, ovvero a un rapporto tutto nuovo tra classe dirigente e opinione pubblica.
Questo rapporto non dovrà più fondarsi, come succedeva in passato, sulla repressione del dissenso, bensì sulla comunicazione, sulla libertà di parola e di critica, sulla ricerca del consenso che nasce dalla comprensione.
Il "nuovo corso" gorbacioviano 
Dal punto di vista politico, si assiste anzitutto a un  ricambio al vertice del partito e alla riabilitazione di molti intellettuali ostili al passato regime (Sacharov e Solzenìcyn, tanto per citare solo i nomi più illustri).
Viene poi avviata una lunga serie di riforme costituzionali volte a democratizzare lo stato superando l'identificazione tra esso e il partito comunista: per la prima volta Gorbaciov consente la formazione di gruppi politici diversi all'insegna di un pluralismo che non ha precedenti dalla rivoluzione del 1917; viene così ammesso il concetto di competizione elettorale per l'ammissione in Parlamento.
L'obiettivo di Gorbaciov e dei riformatori è quello di trasformare l'Unione Sovietica in una sorta di repubblica presidenziale, retta da un presidente investito di ampi poteri ed eletto direttamente dal popolo. Lo stesso Gorbaciov  viene eletto presidente dell'Urss nel 1990.
Altrettanto importante è la vera e propria rivoluzione che Gorbaciov intraprende per modernizzare l'economia sovietica e metterla, per quanto possibile, al passo coi tempi. Egli accantona il modello collettivistico socialista e imposta una linea di politica economica più orientata al mercato; favorisce l'iniziativa individuale concedendo la possibilità di costituire imprese private; liberalizza il prezzo di alcuni prodotti agricoli; conduce una vera e propria guerra contro il clientelismo e la corruzione nella gestione dell'economia.
La nuova distensione 
Sul piano internazionale, invece, l'era di Gorbaciov si caratterizza per un deciso riavvicinamento tra le due grandi potenze, che delinea uno scenario completamente nuovo nei rapporti Est-Ovest. Il ritiro delle truppe sovietiche dall'Afghanistan, avvenuto nel 1988, e, successivamente, l'insieme degli accordi economici e militari con gli Usa di Reagan (e poi di Bush) per la riduzione degli armamenti strategici consentono finalmente al mondo di uscire dall'incubo della guerra atomica.
Gorbaciov dimostra di voler abbandonare completamente la logica dei blocchi contrapposti e capovolge la linea di politica estera che da decenni mirava a fare di Mosca il centro di un vero e proprio impero politico-militare.
Questo si fondava non solo sul controllo diretto dell'Europa orientale (secondo la concezione brezneviana della "sovranità limitata" degli stati che la compongono), ma anche su una serie di punti di contatto in tutto il mondo: Cuba, Mongolia, Yemen del Sud, Viet Nam, Corea del Nord, Afghanistan, Etiopia.
La debolezza di tale sistema politico-militare rispetto al blocco occidentale consisteva proprio nella mancanza di consenso interno, per cui Mosca era costretta a un uso ininterrotto della forza per impedirne la disgregazione.
Gli effetti della politica internazionale sovietica 
Il capovolgimento della politica estera sovietica perseguito da Gorbaciov esplica i suoi effetti anche all'interno di alcuni di questi paesi-satellite: lo Yemen del Sud, per esempio, si riunifica al Nord dando vita, il 22 maggio 1990, a uno stato unico; le due Coree avviano un principio di dialogo; il Viet Nam riprende i contatti con Cina e Stati Uniti, i due paesi contro i quali aveva più combattuto nei decenni precedenti.
Anche l'incontro con papa Giovanni Paolo II (dicembre 1989) dà la misura della volontà del Cremlino di abdicare al ruolo tradizionale di grande potenza  anticattolica e antioccidentale, e di proporsi come un possibile partner sia politico sia economico dell'Occidente.
La credibilità e la popolarità internazionale del nuovo corso sovietico è essenziale per Gorbaciov, sia per accrescere il suo prestigio personale, e cercare in tal modo di neutralizzare le forti resistenze interne riguardo il suo programma, sia per poter approfittare di nuove occasioni di crescita economica grazie alla cooperazione con l'Occidente.
D'altra parte Gorbaciov è ben consapevole che il collasso economico dell'Urss può essere evitato soltanto se gran parte delle somme spese finora per finanziare la sua politica di potenza saranno dirottate su un programma di modernizzazione dell'economia. Per poter far questo, non si può prescindere da un clima di distensione fra Est e Ovest.
L'esplosione dei nazionalismi 
Sul finire degli anni Ottanta gli sforzi di Gorbaciov  vanno via via assumendo l'aspetto di una lotta contro i mulini a vento. Certamente non è facile capovolgere 70 anni di vita politica ed economica immobilizzata e burocratizzata e tanto meno trasformare dall'interno (ossia senza l'intervento coercitivo di forze anche solo politiche esterne) un'economia collettivistica in una di mercato.
Proprio la rigidità del sistema e l'assenza di un ceto imprenditoriale fanno sì che non esista in Unione Sovietica una classe sociale preparata a fare da protagonista del cambiamento.
Non è certo interessata a riforme in senso democratico e liberista la nomenklatura sovietica, timorosa di perdere i propri privilegi. Neanche i ceti popolari, però, vedono di buon occhio queste trasformazioni che necessariamente, almeno a breve termine, non sono accompagnate da un maggiore benessere. Anzi, l'apertura verso il mercato e la liberalizzazione dei prezzi provocano la disgregazione delle vecchie strutture economiche senza che sia ancora possibile consolidare le nuove.
Ne risulta una situazione di forte instabilità: tutte le merci, persino i generi di prima necessità, sono difficilmente reperibili in commercio e, quando lo sono, hanno prezzi altissimi. In questa situazione Gorbaciov perde progressivamente l'appoggio delle masse popolari, la cui ostilità si salda con quella della classe dirigente conservatrice.
Le difficoltà vengono poi amplificate dalle spinte autonomiste che provengono da ogni parte dell'impero sovietico.
Le difficoltà della nuova politica 
La perdita di autorità del potere centrale fa venir meno il collante necessario a tenere insieme popolazioni estremamente diverse per etnia, religione e storia. Il rinnovamento politico in senso democratico viene sempre più spesso fatta coincidere, da storici e cronisti, con le tendenze separatiste delle repubbliche e il processo, una volta avviato, sembrerebbe essere inarrestabile.
Le prime a proclamare l'indipendenza (1990-1991) sono le tre repubbliche Baltiche - Estonia, Lettonia e Lituania - che erano state annesse all'Urss con il patto tedesco-sovietico del 1939.
Il fatto crea un precedente che spinge molte altre repubbliche ad avviarsi sulla strada dell'autonomia da Mosca, e in alcuni casi tale processo si accompagna all'esplosione di violente guerre civili tra gruppi etnici diversi che convivono nella stessa repubblica: è il caso di armeni e azeri in Azerbaigian.
Dopo qualche tentativo di usare la forza per piegare le repubbliche ribelli (in Georgia nel 1989, in Lituania nel 1991), Gorbaciov  propone loro un trattato che concede una maggiore autonomia, ma il precipitare degli eventi in seguito al colpo di stato dell'estate del 1991 farà subito accantonare il progetto.

 

 

La caduta del comunismo

La Polonia 
La situazione della Polonia era sempre stata anomala rispetto a quella degli altri Paesi dell'Est, soprattutto a causa della presenza di una radicata tradizione cattolica, con cui il regime comunista aveva sempre dovuto fare i conti.
Il generale Jaruzelski, al potere dal 1981, dopo un primo periodo all'insegna della repressione, governa il Paese in modo complessivamente moderato. Nel 1987, sull'onda delle riforme che stanno trasformando l'Urss di Gorbaciov, è costretto a imprimere una svolta democratica al suo regime: dopo aver riconosciuto ufficialmente il sindacato Solidarnosc, che aveva continuato a vivere nella clandestinità e a rafforzarsi anche grazie all'aiuto della Chiesa cattolica, è costretto a indire una consultazione elettorale fondata sul principio della libera competizione fra partiti, almeno per l'assegnazione di una parte dei seggi parlamentari.
Le elezioni si tengono il 4 giugno 1989 e vedono la sconfitta del Poup (il Partito comunista polacco) e il trionfo di Solidarnosc. Il 24 agosto viene designato il primo capo di governo non comunista: il popolare scrittore e giornalista cattolico Tadeusz Mazowiecki.
L'anno seguente, però, si verifica all'interno di Solidarnosc una scissione tra due formazioni, guidate rispettivamente da Mazowiecki e da Lech Walesa, il leader storico del sindacato e dell'intero movimento di opposizione al regime. È proprio Walesa che, nelle elezioni presidenziali del dicembre 1990, viene eletto presidente della repubblica polacca.
L'Ungheria 
In Ungheria si verificano nel 1988 dei tumulti popolari che chiedono la riabilitazione di Imre Nagy e degli altri uomini politici giustiziati dai sovietici nel 1956. II partito acconsente a queste richieste, esautora il capo dello Stato Janos Kádár e dichiara formalmente la completa indipendenza dall'Urss.
Gradualmente le truppe del patto di Varsavia, che si trovavano in Ungheria dal 1956, lasciano il paese. Vengono aperte le frontiere e consentita la libera circolazione ai cittadini.
Nell'ottobre 1989 il Congresso delibera che il partito comunista si trasformi in Psu (Partito socialista) e chieda l'adesione all'Internazionale socialista.
Comincia così il lento processo di democratizzazione della vita politica, che culmina, il 25 marzo 1990, nelle prime elezioni libere e multipartitiche.
Dalle urne esce vincitrice una formazione di centro-destra, il Forum democratico, mentre gli ex comunisti non riescono a superare il 10% delle preferenze.
La Bulgaria 
In Bulgaria la protesta popolare, esplosa nell'autunno del 1989, si intreccia con una lotta di potere all'interno del partito comunista. Nel mese di novembre i dirigenti riformisti del partito costringono alle dimissioni l'anziano capo dello stato Todor Zivkov, sostituendolo con il ministro degli esteri Petar Mladenov, che da tempo tramava contro di lui. Anche altri esponenti della vecchia guardia vengono allontanati.
Questo sostanziale ricambio della classe dirigente prelude alla concessione di una nuova Costituzione (luglio 1991), che fa della Bulgaria una repubblica democratica parlamentare. Nell'ottobre 1991 si tengono le prime libere elezioni, che sanciscono la vittoria del partito di opposizione "Unione delle forze democratiche". Nel gennaio 1992, infine, un esponente dello stesso partito diventa presidente della repubblica.
La rivoluzione in Romania 
Se negli altri Paesi dell'Est europeo il trapasso dal comunismo alla democrazia avviene in modo relativamente incruento, in Romania la rivoluzione prende fin dall'inizio una piega violenta e, per certi versi, ambigua.
Qui il dittatore Nicolae Ceausescu (detto il Conducator) aveva instaurato fin dal 1965 un dispotico regime autoritario basato sul suo potere personale e su una certa indipendenza dall'Unione Sovietica. La volontà di affermare rigidamente, in campo economico, il principio dell'autarchia aveva in pratica ridotto alla fame la popolazione.
I primi disordini scoppiano il 16 dicembre 1989 a Timisoara, città della Transilvania a maggioranza ungherese. Ceausescu risponde con una violenta repressione, ma i suoi sforzi finiscono per infrangersi contro la resistenza popolare e contro la defezione dell'esercito, che si schiera apertamente dalla parte degli insorti.
Solo la Securitate, la temibile polizia segreta rumena, resta fedele al dittatore, ma la sproporzione di forze è troppo grande, e così, dopo un tentativo di fuga, Ceausescu e sua moglie vengono catturati e giustiziati al termine di un processo sommario.
Il precipitare degli eventi nel giro di pochi giorni e soprattutto l'immediato appoggio dato dall'esercito agli insorti ha fatto sorgere qualche dubbio tra gli storici sulla matrice esclusivamente popolare di questa rivoluzione e ha fatto pensare che in realtà la rivolta potesse essere stata preparata da alcuni dirigenti del partito comunista rumeno, anche perché a loro è passata quasi subito la guida dell'insurrezione.
Dopo la morte di Ceausescu, comunque, il governo viene assunto da un Fronte di salvezza nazionale capeggiato da Ion Iliescu, Petre Roman e Dimitri Mazilu. Le successive elezioni politiche confermano l'appoggio popolare al Fronte e particolarmente a Iliescu, che viene eletto presidente della repubblica.
La Cecoslovacchia 
In Cecoslovacchia, dopo l'invasione sovietica del 1968, l'opposizione al regime oppressivo di Gustav Husak è guidata dal movimento Charta 77 (così chiamata perché fondata nel 1977), che raccoglie alcuni intellettuali progressisti guidati dallo scrittore Vaclav Havel. Proprio Havel è l'artefice principale di quella che verrà chiamata la rivoluzione di velluto, perché portata a termine senza alcuno spargimento di sangue.
I moti popolari scoppiati nell'agosto 1989 portano a una completa revisione degli avvenimenti del 1968 da parte dei nuovi dirigenti del partito comunista subentrati alla vecchia guardia.
Essi, però, non si dimostrano in grado di gestire la transizione: Husak viene costretto al ritiro e alla carica di capo dello stato viene chiamato Vaclav Havel.
Il vecchio Alexander Dubcek, il simbolo della primavera di Praga soffocata dai carri armati sovietici nel 1968, dopo vent'anni di esilio torna finalmente in patria e assume l'incarico di presidente del Parlamento (Dubcek morirà in un incidente stradale nel 1992).
Il "nuovo corso" viene sancito anche dalle elezioni del giugno 1990, che vedono la vittoria del partito di Havel, presente con la lista Forum civico.
I conflitti tra Boemia, Moldavia e Slovacchia 
La nuova Cecoslovacchia, però, si trova subito a dover affrontare un grave problema: le tre grandi regioni che la compongono - Boemia, Moldavia e Slovacchia - sono molto diverse quanto a tradizioni e sviluppo economico. La Slovacchia, in particolare, da sempre più povera e meno industrializzata, risente più delle altre del passaggio alla democrazia e dell'avvio di un'economia di mercato. Inoltre non beneficia di un consistente afflusso di capitali esteri dopo la rivoluzione di velluto, come accade invece per Boemia e Moldavia.
Il malessere popolare e l'ostilità verso il liberismo economico, perciò, è qui molto più forte che nelle altre regioni cecoslovacche, e di questo si avvantaggiano gli ex comunisti di Vladimir Meciar, che nelle elezioni svoltesi nel giugno 1992 ottengono in Slovacchia un ottimo risultato, mentre in Boemia e Moldavia la vittoria va alla lista della destra liberale di Vaclav Klaus.
La spaccatura tra le due parti del paese non potrebbe essere più netta.
Tuttavia, a differenza di quanto avverrà in altre aree europee, il dissidio viene risolto in maniera del tutto incruenta. Dopo lunghe trattative, il 1° gennaio 1993 viene ufficializzata la scissione, con la creazione di due stati autonomi e indipendenti: la Repubblica ceca, con capitale Praga, e la Slovacchia, con capitale Bratislava.

Dove il comunismo resiste: il caso della Cina
Il crollo dei regimi comunisti nell'Europa dell'Est ha risparmiato solo due stati: la Cina e Cuba. Anche in queste due "isole" del socialismo reale, però, le difficoltà politiche ed economiche sono una testimonianza eloquente del fallimento del modello comunista.
In Cina l'anziano leader Deng Xiao-Ping ha avviato, fin dai primi anni Ottanta, una politica di riforme che ha progressivamente introdotto nella vita economica concetti del tutto estranei al modello socialista ortodosso: possibilità dei privati di ricavare utili dalla produzione agricola; gestione delle imprese improntata al raggiungimento di un profitto; impulso ai consumi privati ecc.
A questa modernizzazione economica, tuttavia, non si è accompagnata un'analoga  apertura politica verso la democrazia. Ciò ha provocato un crescente malessere, che è esploso nel maggio 1989. Il movimento studentesco occupa per settimane, col sostegno popolare, l'immensa piazza Tien-an-men, finché il 15 maggio, il governo decide di sgomberare la piazza con la forza.
Negli scontri rimangono uccisi centinaia di giovani. È questa una delle pagine più buie della storia cinese del dopoguerra.

Il modello comunista di Fidel Castro
A Cuba, invece, dopo la dissoluzione dell'Urss, che rappresentava il più importante punto di riferimento politico ed economico per l'isola, il regime di Fidel Castro subisce un vero e proprio tracollo economico e finanziario.
Anche a causa del rafforzamento del trentennale embargo americano, la popolazione è ormai alla fame: scarseggiano i generi alimentari, non vi sono sbocchi occupazionali, la moneta locale (il peso) vale poco o nulla anche per gli acquisti locali. Comincia dunque, nell'estate 1994, un massiccio esodo di clandestini verso la California, che provoca l'irrigidimento dei già tesi rapporti tra Usa e Cuba. Solo dopo lunghe trattative i due paesi raggiungono un accordo temporaneo, che tuttavia non rimuove completamente le cause del problema.
Nonostante tutto, però, il popolo cubano sembra nel complesso continuare ad avere piena fiducia nel proprio leader Fidel Castro, il quale si troverà sempre più a dover far quadrare i conti dell'economia di un paese dissestato per poter difendere l'ideologia socialista.

 

La riunificazione tedesca

Cade il muro di Berlino 
Il simbolo più evidente del superamento della divisione del mondo in blocchi contrapposti concepita a Yalta dopo la fine della seconda guerra mondiale è la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della Germania.
Anche nella Germania orientale il rinnovamento politico operato in Urss da Michail Gorbaciov incoraggia un particolare fermento popolare; questo esplode definitivamente nel maggio 1989, quando, in seguito alla riapertura della frontiera austro-ungherese voluta dal governo di Budapest, migliaia di cittadini della Germania Est si riversano, attraverso l'Ungheria, nei confinanti paesi dell'Europa occidentale.
Le autorità non possono ricorrere alla forza per porre fine all'esodo, sia per non provocare un bagno di sangue, sia a causa dell'atteggiamento di apertura mantenuto dal Cremlino.
Nel tentativo di calmare la folla e di salvare il regime, il 18 ottobre 1989 viene destituito Erich Honecker, segretario del partito comunista  e presidente della repubblica; al suo posto viene nominato Egon Krenz. Questi, il 9 novembre dello stesso anno, annuncia che il confine tra le due Germanie può essere attraversato liberamente; ne scaturisce un'incontenibile esplosione di entusiasmo, e nella notte tra il 9 e il 10 novembre il muro di Berlino, simbolo storico della divisione della città, viene preso d'assalto dalla popolazione sia dell'est sia dell'ovest, che comincia ad abbatterlo mostrando forte entusiasmo.
Helmut Kohl e la battaglia per la riunificazione 
Dopo la caduta del muro, gli avvenimenti si susseguono precipitosamente. A seguito delle pressioni popolari, Krenz è costretto a  dimettersi. Il suo successore, Hans Ulrich Modrow, convoca il 18 marzo 1990 le prime elezioni libere nella Germania Est, che danno un esito indubbiamente favorevole alla riunificazione del paese.
Alla causa della riunificazione, intanto, lavora instancabilmente anche il cancelliere della Germania Ovest, Helmut Kohl. Il 18 maggio egli conclude con il nuovo primo ministro tedesco-orientale Lothar de Maizière un Trattato di stato che istituisce l'unione economica, monetaria e sociale tra le due Germanie.
Nel successivo mese di luglio Kohl, sempre più deciso a concludere la riunificazione, si reca a Mosca per ottenere l'assenso di Gorbaciov alla costituzione di uno stato unico e alla sua permanenza nella Nato, in cambio della rinuncia della Germania unita a produrre e disporre di armi chimiche, batteriologiche o nucleari. Nel frattempo il cancelliere cerca di dissipare le apprensioni del mondo occidentale nei confronti del nuovo colosso tedesco promuovendo, insieme all'allora presidente francese François Mitterrand, il processo di integrazione europea.
Il 12 settembre, infine, le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale - Usa, Urss, Francia e Gran Bretagna - firmano a Mosca il trattato che consente la riunificazione e concede piena sovranità alla nuova Germania unita. La cerimonia formale di riunificazione viene celebrata a Berlino il 3 ottobre 1990 e il 2 dicembre, Helmut Kohl diventa il primo cancelliere della Germania riunificata.

Le difficoltà della transizione
In quasi tutti i paesi dell'a1Europa orientale il passaggio da un'economia a pianificazione centralizzata a un'economia di mercato ha creato forti scompensi.
Il processo, infatti, non è stato portato avanti con gradualità, ma quasi sempre in maniera pressoché repentina, anche perché lo imponevano le condizioni poste dagli investitori internazionali per concedere aiuti e prestiti a questi paesi.
L'improvvisa liberalizzazione, però, ha comportato sostanzialmente un peggioramento della situazione economica, in termini di produzione, di occupazione, di aumento dell'inflazione, e anche di scarsa disponibilità di beni di consumo.
A ciò si aggiunge il fatto che in tutti questi paesi non vi è stato un vero ricambio della classe dirigente: le leve del potere economico sono state prese da quella stessa classe di professionisti che si era formata nel vecchio regime e che sola aveva la competenza necessaria per gestire il nuovo corso  dell'economia.
I nuovi manager, i veri beneficiari delle privatizzazioni delle aziende di Stato, sono quasi sempre espressione di quegli stessi gruppi che già rivestivano un ruolo politicamente ed economicamente importante. D'altra parte, come abbiamo visto, in alcuni stati il passaggio alla democrazia è stato "pilotato" proprio da dirigenti e burocrati del Partito comunista, che avevano perfettamente compreso la necessità di "riciclarsi" e avevano saputo indirizzare in questa direzione la loro azione politica. Questi due motivi - insoddisfazione delle masse popolari in seguito alla crisi economica e scarso ricambio della classe dirigente - sono probabilmente alla base dei successi elettorali che, dopo il 1992, gli ex comunisti hanno registrato in alcuni paesi: Lituania, Polonia, Ungheria.
Non si tratta, in realtà, di un passo indietro, bensì di un sintomo da un lato di un malessere popolare diffuso e molto evidente, dall'altro di come queste rivoluzioni, che sembrava dovessero rappresentare una svolta epocale, non abbiano tagliato completamente i ponti con il passato.

 

Eltsin e la fine dell'Urss

La svolta politica del 1991 
Nell'agosto 1991 un gruppo di alti dirigenti del Partito comunista tenta un colpo di stato contro Gorbaciov, tenendolo prigioniero per tre giorni, insieme alla sua famiglia, nella residenza estiva. Il golpe viene però sventato dalla grande mobilitazione popolare, che si raccoglie attorno alla figura di Boris Eltsin, che da tempo contesta l'operato del presidente Gorbaciov.
Eltsin rifiuta in particolare il tentativo di modificare la società sovietica dall'interno della sua attuale realtà politica e considera troppo lenta e prudente la linea riformista di Gorbaciov.
Il ruolo fondamentale che Eltsin svolge nei drammatici giorni del golpe, catalizzando non soltanto l'opinione pubblica ma persino una larga fetta delle forze armate, finisce in pratica per fare di lui il vero arbitro della situazione, anche dopo la liberazione di Gorbaciov.
Nel giro di pochi mesi, la situazione precipita. Eletto a suffragio universale presidente della Repubblica Russa, Eltsin mette "in stato di sospensione" il partito comunista - che Gorbaciov aveva cercato di rinnovare senza tuttavia smantellarlo del tutto - mentre in altre repubbliche il partito viene addirittura dichiarato fuori legge.
Quasi tutte le repubbliche che Stalin aveva raccolto in federazione dichiarano la propria indipendenza: dopo le repubbliche baltiche, è la volta anche di Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Azerbaigian, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan.
La Comunità di stati indipendenti 
Il 9 dicembre 1991 i rappresentanti di Russia, Ucraina e Bielorussia dichiarano fallito ogni tentativo di dar vita a una federazione sul tipo dell'ex Unione Sovietica e il 21 dicembre viene istituita la Csi (Comunità di stati indipendenti), che raggruppa 11 delle 15 repubbliche ex sovietiche.
Il nuovo organismo politico, dai contorni piuttosto incerti, è tuttavia molto fragile e di fatto egemonizzato dalla Russia, che è riuscita nel suo tentativo di sfruttare le spinte indipendentiste e nazionaliste dell'impero sovietico per ridurre all'impotenza Gorbaciov. I frequenti contrasti tra le repubbliche della Csi impediscono l'adozione di una linea comune sul piano politico ed economico. Finisce così l'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche e il 25 dicembre 1991 Michail Gorbaciov si dimette dalla presidenza di uno stato che di fatto non esiste più.
La Russia di Eltsin 
Nella repubblica russa  la vita politica è caratterizzata da un confronto ininterrotto tra il presidente Eltsin, che avvia una serie di riforme economiche liberiste, e il Parlamento, formato in prevalenza da ex comunisti conservatori, ostili al suo programma di riforme.
Il referendum indetto da Eltsin  il 25 aprile 1993 per sottoporre il proprio mandato alla verifica popolare gli riconosce un ampio consenso (61,8%) e anche la sua politica economica, malgrado il rincaro dei beni di consumo, ottiene l'approvazione del popolo (56,2%).
Forte di questi dati, Eltsin convoca un'Assemblea costituente per mettere a punto una nuova costituzione che faccia della Russia una repubblica presidenziale con un parlamento bicamerale in sostituzione del Congresso. Il 21 settembre 1993 il contrasto tra presidente e Parlamento sfocia in guerra aperta: Eltsin dichiara sciolto il Soviet Supremo e indice per il mese di dicembre elezioni legislative anticipate.
Il Parlamento reagisce destituendo Eltsin e nominando presidente il suo vice, nonché avversario, Aleksandr Rutskoj. Eltsin gode dell'appoggio internazionale e inoltre le forze armate sono dalla sua parte: all'inizio di ottobre questo nuovo tentativo di colpo di stato si conclude con la vittoria di Eltsin.
Nel dicembre 1993 si tengono le elezioni legislative e un nuovo referendum voluto da Eltsin per sondare l'appoggio popolare alla nuova Costituzione. L'esito del referendum è favorevole al presidente, seppure di stretta misura, mentre meno favorevole è il risultato delle elezioni legislative: il partito di Eltsin non va oltre una risicata maggioranza relativa, mentre si afferma nettamente la destra ultranazionalista e razzista di Vladimir Zhirinovskij e anche il partito comunista ottiene un buon risultato.
Eltsin e l'Occidente 
Inizialmente Eltsin mantiene nei confronti dell'Occidente una politica di distensione: l'appoggio internazionale è determinante per la sua sopravvivenza politica, ed Eltsin deve fare di tutto per vincere le perplessità dell'amministrazione americana nei suoi confronti.
Il banco di prova è la trattativa sulla riduzione degli armamenti strategici: nel giugno 1992 Eltsin stipula con il presidente americano George Bush un importante accordo, seguito, nel gennaio 1993, dalla firma del trattato Start 2, con il quale i due paesi si impegnano a ridurre drasticamente i rispettivi arsenali atomici. Resta tuttavia senza soluzione il problema delle potenze nucleari dell'ex Urss (Ucraina, Bielorussia e Kazakistan), le quali chiedono pesanti contropartite in cambio dello smantellamento delle loro testate nucleari.
Alla prospettiva di un allargamento dell'Alleanza Atlantica ai paesi dell'Europa orientale Eltsin oppone un netto rifiuto: è questo un evidente sintomo del nuovo irrigidimento da parte del presidente russo nei confronti dell'Occidente e del progressivo riemergere, per quanto ancora piuttosto velato, della logica dei blocchi contrapposti.
La guerra in Cecenia 
La situazione degenera ulteriormente nel dicembre 1994, quando Eltsin decide di intervenire militarmente in Cecenia, la regione caucasica a maggioranza musulmana sunnita, che nel novembre 1991 aveva proclamato la propria indipendenza.
A motivare questo intervento armato sono sia la paura di creare un pericoloso precedente secessionista in una terra in cui le spinte nazionalistiche sono ancora molto forti, sia il timore di vedere instaurarsi, proprio ai confini russi, una repubblica islamica che potrebbe rappresentare una spina nel fianco per tutta la regione.
Tuttavia, quella che per Eltsin avrebbe dovuto essere una guerra-lampo si rivela un'operazione bellica molto lunga e sanguinosa. La resistenza popolare e militare, raccolta attorno all'autoproclamatosi presidente ceceno Djokhar Dudaev, è inaspettatamente forte e l'esercito ceceno è ben organizzato. L'Armata Rossa entra nella capitale, Grozny,  il 22 dicembre 1994, e il 19 gennaio 1995 viene assaltato il palazzo presidenziale. Dudaev fugge sulle montagne circostanti da dove continua a dirigere la resistenza, e così l'"operazione Cecenia" rischia di tramutarsi per la Russia in ciò che era stato l'Afghanistan per l'Unione Sovietica: uno smacco militare che in più  getta sulla Russia di Eltsin l'ombra di un nuovo imperialismo.

 

La crisi in Iugoslavia

La fine della federazione iugoslava 
Fin dalla metà degli anni Settanta nell'ambito della federazione voluta dal maresciallo Tito all'indomani della seconda guerra mondiale la convivenza tra le varie popolazioni, diverse per etnia e religione, si era fatta alquanto difficile. Nel 1974 una riforma costituzionale aveva concesso alle sei repubbliche che formavano la federazione (Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Macedonia) un'ampia autonomia tanto politica quanto economica. Da quel momento le sei repubbliche avevano cominciato a sviluppare una politica autonoma dal governo federale, che le aveva sempre più allontanate le une dalle altre e aveva accentuato il divario tra le repubbliche settentrionali (Slovenia e Croazia), più ricche e aperte ai contatti con l'Europa centrale e occidentale, e le altre repubbliche, più isolate ed economicamente arretrate. La morte del maresciallo Tito, avvenuta nel 1980, determina una brusca accelerazione di questo processo di disgregazione: dopo un breve periodo di transizione, nel quale le repubbliche cercano di giungere a un nuovo equilibrio all'interno della federazione, scoppiano i primi contrasti etnici che porteranno, attraverso uno dei conflitti più sanguinosi dal 1945 a oggi, alla definitiva scomparsa dello stato.
La secessione di Slovenia e Croazia 
Sono proprio le più progredite repubbliche del nord a dare il via al processo di dissoluzione. Nel settembre 1989 la Slovenia approva una serie di riforme costituzionali volte a garantirle un'indipendenza di fatto dal governo federale. Analogo provvedimento viene preso subito dopo anche dalla Croazia. Entrambe le repubbliche proclamano ufficialmente la propria indipendenza nel giugno 1991. Immediata la reazione del governo federale (dominato dai serbi), che manda l'esercito a stringere d'assedio le repubbliche ribelli.
Gli scontri si susseguono per diversi mesi con il loro sanguinoso tributo di vite umane, mentre, nel frattempo, si fanno evidenti le mire autonomistiche della Bosnia-Erzegovina.
Il governo federale decide allora di allentare la presa su Slovenia e Croazia - che verranno riconosciute dalla Comunità europea nel gennaio 1992 e successivamente ammesse anche all'Onu - e di concentrare i propri sforzi, sia politici sia militari, sul fronte bosniaco.
La guerra in Bosnia: le cause 
La repubblica di Bosnia-Erzegovina, che il 15 novembre 1991 proclama la propria indipendenza dal governo federale, si trova fin dall'inizio a dover combattere due guerre diverse: quella contro l'esercito federale di Belgrado e quella tra i tre gruppi etnici (serbi, croati, musulmani bosniaci) che compongono la sua popolazione.
I due conflitti di fatto si intersecano per l'alleanza tra i serbi di Belgrado (capitale della repubblica di Serbia) e i serbo-bosniaci, che rappresentano il 32% della popolazione della Bosnia e che condividono con i loro fratelli di Belgrado il sogno di formare una "grande Serbia", uno stato, cioè, che riunisca tutti i territori serbi presenti nelle repubbliche ex iugoslave.
La pulizia etnica 
Questo disegno viene tenacemente perseguito, a danno soprattutto dei musulmani di Bosnia, con la forza delle armi e con la feroce politica della "pulizia etnica", ossia l'eliminazione, da parte di un gruppo etnico dominante in un determinato territorio, degli appartenenti agli altri gruppi. La pratica della pulizia etnica, che richiama purtroppo alla mente le atrocità perpetrate dai nazisti in nome della "purezza della razza", nasce dal radicalizzarsi di un tipo di nazionalismo che non mira più, come nell'Ottocento, alla creazione di stati nazionali sempre più ampi, ma che punta anzi alla frammentazione in entità politiche ed economiche sempre più piccole, su base esclusivamente etnica.
La politica internazionale e l'aggressione serba 
La comunità internazionale si trova impreparata e indecisa di fronte a questo massacro. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu approva nel maggio 1992 l'embargo totale nei confronti della Serbia, ritenuta responsabile di aggressione ai danni della Bosnia, e il 23 settembre la espelle dall'assemblea generale delle Nazioni Unite. Solo nel marzo 1993 viene approvata una risoluzione che autorizza l'uso della forza per far rispettare la cosiddetta "zona di non volo" sui cieli della Bosnia, al fine di impedire gli attacchi dell'aviazione serba.
I serbo-bosniaci, intanto, consolidano ed estendono progressivamente le loro posizioni. Nel maggio 1993 Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia e Spagna elaborano un piano che riconosce di fatto le conquiste territoriali serbe istituendo sei "zone di sicurezza" controllate dai Caschi blu inviati dall'Onu e destinate a costituire altrettanti "ghetti" per la popolazione musulmana.
L'offensiva serba non si ferma neanche davanti a queste aree (enclaves), che vengono sistematicamente accerchiate, sfiancate dall'assedio, bombardate senza alcun riguardo alla vita dei civili e quindi conquistate: oltre a Sarajevo (capitale della Bosnia), cadono in questo modo Srebrenica, Gorazde, Tuzla e Bihac (su quest'ultima città vengono gettate addirittura bombe al napalm, che non venivano più utilizzate dalla guerra del Viet Nam).
L'impotenza della comunità internazionale è evidente anche sul piano diplomatico, malgrado i ripetuti sforzi per arrivare a un accordo. Dopo la costituzione (18 marzo 1994) della Federazione croato-musulmana di Bosnia, l'ex presidente americano Jimmy Carter perora personalmente presso le autorità dell'autoproclamata repubblica serba di Bosnia un piano di pace internazionale, che prevede l'assegnazione alla neonata federazione croato-musulmana del 51% del territorio bosniaco, mentre il restante 49% verrebbe assegnato ai serbo-bosniaci. I serbi, tuttavia, non danno un assenso definitivo a questo piano e così, dopo una tregua durata quattro mesi, gli scontri armati riprendono a infuriare nel corso della primavera del 1995.
La svolta nella guerra 
Nel luglio 1995 si verifica una nuova, drammatica svolta nella guerra: l'intervento armato della Croazia, che da un lato intende riprendersi i territori che le sono stati sottratti dai secessionisti serbi della regione della Krajina, dall'altro appoggia la resistenza dei musulmani di Bosnia contro i serbi.
In poche settimane l'esito della guerra è capovolto: sotto i colpi dell'esercito croato i serbi vengono travolti e messi in fuga su vari fronti del conflitto. Migliaia di profughi serbi subiscono la stessa sorte che l'esercito aveva riservato prima ai musulmani di Bosnia.
Dal punto di vista militare, la guerra subisce una svolta; ciò che invece non cambia è la feroce violenza che si abbatte sulla popolazione, di qualunque gruppo etnico: nulla sembra riuscire a fermare un massacro che ha ormai assunto i contorni di un genocidio.
Nel mese di agosto 1995, l'ennesima strage di civili provocata dalla caduta di una granata su un affollato mercato di Sarajevo provoca la reazione militare della Nato, che comincia a bombardare pesantemente le basi serbo-bosniache minacciando di proseguire finché le truppe serbe non si saranno allontanate di almeno 20 km da Sarajevo.
È la prima volta nella sua storia che l'Alleanza atlantica sferra un attacco militare di questo genere e l'adozione della linea dura sembra finalmente produrre qualche risultato. Il 26 settembre 1995 viene raggiunto all'Onu un primo compromesso tra serbi, croati e musulmani sul futuro della Bosnia.
Alle trattative fa seguito una tregua militare che lascia aperta la strada verso una pace solida e duratura.

 

L'America di Clinton

Il tramonto del reaganismo 
Il 3 novembre 1992 si tengono negli Stati Uniti le elezioni presidenziali: il candidato del partito democratico, Bill Clinton, sconfigge nettamente, con il 43% delle preferenze, il presidente uscente, il repubblicano George Bush, che ottiene il 38% dei voti.
È la fine di un'epoca. Gli otto anni di permanenza di Ronald Reagan alla Casa Bianca (1980-1988) seguiti dai quattro anni di Bush (1988-1992) hanno davvero cambiato il volto degli Stati Uniti, rafforzandone il ruolo esterno a prezzo, però, di una grave recessione interna.
Dopo la scomparsa della minaccia sovietica e la vittoriosa guerra del golfo, gli Usa rappresentano ormai l'unica superpotenza del mondo.
George Bush è stato l'uomo della vittoria contro il dittatore iracheno Saddam Hussein, ma la sua presidenza ha coinciso con il periodo di più lenta crescita economica attraversato dagli Stati Uniti dalla fine della seconda guerra mondiale.
Le ingenti spese militari hanno pesato enormemente sul debito pubblico, che è divenuto altissimo anche se il "reaganismo" economico, come abbiamo visto in precedenza, aveva limitato al massimo tutte le voci di spesa sociale.
La politica economica decisamente liberista ha rilanciato la piccola e media impresa, ma ciò non si è tradotto in un miglioramento del tenore di vita della popolazione; il tasso di disoccupazione, anzi, ha raggiunto livelli preoccupanti.
Dal punto di vista sociale, nessuno dei gravi problemi che affliggono gli Stati Uniti ha poi trovato soluzione: più che mai aperti sono rimasti i nodi dell'assistenza sanitaria e della previdenza sociale, assicurata a meno di trentacinque milioni di abitanti del paese (su una popolazione attiva di oltre centoventi milioni di persone). Anche la criminalità, comune e organizzata, ha continuato a imperversare in tutte le grandi città statunitensi, dove si assiste spesso anche a conflitti razziali tra la popolazione bianca e quella immigrata: quest'ultima, infatti, incontra ancora oggi grandi difficoltà a inserirsi a pieno titolo nel tessuto sociale americano.
L'ascesa del partito democratico 
Questa situazione ha alimentato nell'opinione pubblica un diffuso malcontento: mentre si riconosce alla lunga amministrazione repubblicana il merito di aver riaffermato la supremazia internazionale degli Stati Uniti, la si incolpa di aver eccessivamente trascurato i problemi interni. Per tutta la campagna elettorale, perciò, la popolarità di Bush subisce un calo progressivo e inesorabile, a tutto vantaggio del candidato del Partito democratico, l'ex governatore dell'Arkansas Bill Clinton.
L'esito delle elezioni presidenziali appare dunque ampiamente scontato: tutti i sondaggi della vigilia danno per certa la vittoria di Clinton. E, una volta tanto, la storia darà ragione ai sondaggi: il 20 gennaio 1993 Bill Clinton si insedia alla Casa Bianca come 42° presidente degli Stati Uniti d'America.
La presidenza di Bill Clinton 
Il programma del nuovo presidente è quasi completamente imperniato sull'esigenza di cambiamento della politica economica e sulla necessità di abbandonare gli eccessi provocati dallo sfrenato liberismo economico che hanno caratterizzato l'era repubblicana.
L'obiettivo primario di Clinton è quello di rilanciare l'economia attraverso incentivi alla produzione industriale e alle esportazioni, oltre che con un ampio programma di spese pubbliche, in particolare nel settore della sanità.
Un piano senza dubbio ambizioso, che però deve fare i conti con un pauroso disavanzo pubblico lasciato in eredità dalla precedente amministrazione.
Di fronte alle difficoltà oggettive, tuttavia, l'atteggiamento di Clinton, sicuro e rassicurante in campagna elettorale, si fa via via più incerto e contraddittorio.
Se vogliamo tentare un bilancio dei primi anni della presidenza Clinton, dobbiamo ammettere che una ripresa economica c'è stata, ma che nel complesso l'opinione pubblica non ne ha tratto beneficio. Il Pil (prodotto interno lordo) è aumentato, ma più nei settori che tradizionalmente "consumano" la ricchezza (sanità, ristorazione ecc.) che non in quelli che la producono (industria).
Il tasso di disoccupazione è sceso, ma si tratta per lo più di lavoro precario, a tempo parziale o determinato, con insufficienti garanzie contrattuali in materia di retribuzione e di contribuzione previdenziale e assistenziale.
Tra i lavoratori regolari a tempo pieno, invece, uno su cinque, secondo dati ufficiali diffusi dall'amministrazione, ha percepito nel 1994 un reddito annuo inferiore alla soglia ufficiale di povertà, mentre uno studio comparato ha accertato che il salario medio di un panettiere statunitense è stato pari, sempre nel 1994, al sussidio di disoccupazione di un cittadino tedesco.
Le questioni sociali 
Quanto ai problemi sociali, permane irrisolto il grave nodo della riforma sanitaria, uno dei grandi cavalli di battaglia di Clinton durante la campagna elettorale. Inizialmente affidato a una commissione presieduta dalla first lady Hillary Clinton, che è anche uno dei più brillanti e noti avvocati d'America, il progetto è stato accantonato nel settembre 1994 a causa dell'ostruzionismo svolto dal Congresso.
Segna il passo anche la lotta alla criminalità; anzi, per la prima volta l'opinione pubblica si trova a dover fare i conti, oltre che con la criminalità comune, anche con sanguinosi attentati terroristici, che non si limitano più a colpire soltanto gli interessi americani all'estero, come era avvenuto finora, ma che seminano morte e distruzione sul suolo stesso degli Stati Uniti. È il caso dell'attentato compiuto alle Torri Gemelle del World Trade Center di New York, effettuato nel febbraio 1993 da estremisti islamici, e di quello dell'aprile 1995 a Oklahoma City, che ha provocato più di duecento morti; quest'ultimo attentato, il più grave mai avvenuto in tutti gli Stati Uniti, è opera di un gruppo paramilitare di orientamento neonazista.
Le difficoltà dei democratici 
Tutto questo fa scendere inesorabilmente la popolarità del presidente Clinton, come testimoniano le elezioni del cosiddetto "mid-term" (metà mandato), tenutesi l'8 novembre 1994 per il rinnovo della Camera, di un terzo del Senato e di trentasei governatori su cinquanta.
I democratici subiscono un vero e proprio tracollo elettorale e, per la prima volta in quarant'anni, perdono la maggioranza al Congresso: il presidente democratico si troverà quindi a dover "convivere" con un Congresso a maggioranza repubblicana, e questo non gli faciliterà certo la vita.
Non va meglio per i governatorati: esce sconfitto dalle urne persino il celebre Mario Cuomo, governatore uscente dello Stato di New York e personalità di spicco del Partito democratico, battuto dal repubblicano George Pataki, un "uomo nuovo" della politica che ha impostato tutta la sua campagna elettorale sul ristabilimento dell'ordine e sul ripristino della pena di morte nello stato.
Un cenno, infine, agli scandali che contribuiscono a offuscare l'immagine del presidente. Oltre agli scandali "rosa" relativi a presunte relazioni extraconiugali di Clinton (episodi che possono far sorridere noi europei, ma che hanno un'importanza notevole nella scala di valori dell'americano medio), va ricordato il cosiddetto "affare Whitewater": si tratta di presunti illeciti che, secondo alcuni, i coniugi Clinton avrebbero compiuto nella gestione del complesso immobiliare Whitewater, i cui proventi sarebbero serviti a finanziare la campagna elettorale dell'allora governatore dell'Arkansas, Bill Clinton appunto.
La politica internazionale di Clinton 
Se all'interno la ripresa si fa attendere, le cose non vanno molto meglio per gli Usa sul piano internazionale.
Dopo i fasti seguiti ai successi conseguiti nella guerra del golfo, gli Stati Uniti tendono ad abbandonare il ruolo di "gendarmi" del pianeta e ad assumere invece quello di "paladini" della pace nel mondo. La caduta del comunismo e il "profondo rosso" del bilancio federale impongono una riduzione dell'impegno militare degli Usa: Clinton annuncia perciò che la sua linea di politica estera sarà limitata a missioni di pace nelle zone "calde" del globo.
Il bilancio di tali azioni di pace, però, sarà, almeno nel primo biennio presidenziale di Clinton, alquanto fallimentare.
Valgano per tutti i due casi più eclatanti: la Somalia e la Bosnia. In Somalia il ritiro del contingente militare statunitense assume le sembianze di una indecorosa ritirata. Questa "figuraccia", tuttavia, è costata agli Stati Uniti la morte di trenta militari e una spesa di due miliardi di dollari.
In Bosnia, l'atteggiamento altalenante tenuto per anni da Clinton, incerto tra l'adozione delle "maniere forti" e la tentazione di abbandonare il problema agli europei, non giova certo alla soluzione di una delle crisi più profonde del dopoguerra. Di fronte alla tragedia della guerra in Bosnia, le missioni diplomatiche dimostrano la loro inadeguatezza e, purtroppo, la loro inutilità, e soltanto nell'estate del 1995, quando gli Stati Uniti decidono di adottare la linea "dura" appoggiando i massicci raid aerei della Nato su obiettivi militari serbi, la situazione sembra sbloccarsi.
Incongruenze nella politica estera 
Nel complesso, tuttavia, la politica estera di Clinton sembra improntata a una certa improvvisazione, che lascia trasparire l'assenza di una vera regia. Mentre si usa, per esempio, il pugno di ferro contro Cuba, colpita da un embargo trentennale che ha ridotto la popolazione alla fame, viene ratificata alla Cina l'importante clausola commerciale di "nazione più favorita", svincolando di fatto i rapporti economici dalla pregiudiziale del rispetto dei diritti umani.
Tale discontinuità e incertezza in politica estera non rinvigorisce certo l'immagine internazionale di Clinton, il quale, anche nei colloqui con il presidente russo Eltsin, dà l'impressione di non riuscire sempre a tenergli testa.
L'egemonia degli Stati Uniti si sposta sul piano commerciale: nella prima parte del suo mandato, Clinton riesce a portare a termine importanti accordi economici come quello di libero scambio con Canada e Messico (Nafta), di cooperazione nell'area Asia-Pacifico (Apec) e l'accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio internazionale (Gatt, poi sostituito dal Wto).
La fine dei lunghi embarghi contro il Sudafrica e il Viet Nam hanno poi aperto nuovi mercati alle grandi industrie statunitensi (General Motors, Coca-Cola), che rappresentano veri e propri gruppi di pressione politica.
Nel complesso, l'amministrazione Clinton sembra caratterizzarsi, in politica estera, per un minore interventismo politico, parzialmente compensato da una maggiore pressione economica.
Nelle elezioni presidenziali tenutesi il 5 novembre 1996 il presidente Clinton si vedrà riconfermato nel suo incarico con una netta maggioranza di voti.

 

Medio Oriente: anni Ottanta

Gli accordi di Camp David 
Nella seconda metà degli anni Settanta al grave problema della questione medio-orientale, imperniata sul conflitto arabo-israeliano per l'assetto territoriale della Palestina e sulla condizione dei profughi palestinesi,  si era aggiunto il problema del Libano, dilaniato dalla guerra civile e divenuto terreno di scontro tra musulmani filopalestinesi e cristiano-maroniti sostenuti da Israele.
Per cercare di giungere a una composizione del conflitto tra stato d'Israele e mondo arabo, il presidente americano Jimmy Carter convoca nel settembre 1978 il primo ministro israeliano Menahem Begin e il rais (presidente) egiziano Anwar el-Sadat nella sua residenza estiva di Camp David. I tre siglano uno storico accordo che pone fine a trent'anni di inimicizia tra Egitto e Israele e che sembra concretizzare le speranze in una prossima e definitiva risoluzione di tutta la questione medio-orientale. L'intesa rappresenta una sorta di preliminare al trattato di pace (che verrà stipulato nel marzo successivo), subordinato al ritiro delle truppe israeliane dal Sinai; stabilisce, inoltre, il ritiro delle forze dell'Onu dall'area del conflitto e definisce alcuni principi-base per futuri accordi tra Israele e gli altri stati arabi, nell'ottica di una totale pacificazione del Medio Oriente.
Ben presto, però, appaiono in tutta la loro evidenza i limiti del trattato di Camp David: esso, infatti, si limita a regolare uno solo degli elementi del conflitto, quello dei territori contesi tra Egitto e Israele, ma non affronta le vere radici  della questione medio-orientale, in particolare la creazione di uno stato palestinese autonomo. Il governo israeliano su questo aspetto sembra irrigidirsi in una posizione di assoluta intransigenza: conferma che i territori di Giudea e Samaria, meglio conosciuti con il nome di Cisgiordania, appartengono storicamente a Israele; emana un'apposita legge (agosto 1980) con la quale proclama Gerusalemme capitale indivisibile di Israele e infine ordina (dicembre 1981) l'annessione del territorio occupato del Golan siriano.
L'attentato a Sadat 
Il riavvicinamento tra Egitto e Israele in seguito agli accordi di Camp David viene avvertito come una sorta di tradimento da parte degli stati arabi oltranzisti, indispettiti anche dal sostegno che Sadat nei suoi ultimi giorni di presidenza decide di dare al deposto scià dell'Iran. Il rais, che anche in politica interna ha avviato una riforma dello stato in senso marcatamente liberista attirandosi l'odio dell'opposizione di sinistra, è ormai solo di fronte alle minacce interne che vanno a saldarsi con quelle dei palestinesi e degli altri popoli arabi.
Il 6 ottobre 1981, mentre assiste a una parata militare al Cairo, Sadat viene ucciso da un commando di militari. 
Il potere viene assunto dal suo vicepresidente, Hosni Mubarak,  che, pur mantenendo una posizione moderata, prende in qualche modo le distanze dal suo predecessore, cercando di riguadagnare il consenso interno e riaprendo il dialogo con l'opposizione. In politica estera interrompe la linea di progressivo avvicinamento all'Occidente, ristabilendo i rapporti diplomatici con l'Unione Sovietica e cercando di riallacciare i contatti con la Lega araba, nella quale l'Egitto viene riammesso nel 1987.
La rivoluzione islamica in Iran 
Fin dalla primavera del 1978 tutto l'Iran è scosso da tumulti e manifestazioni popolari che chiedono a gran voce la cacciata dello scià Rheza Pahlevi e il ritorno dell'ayatollah Khomeini, l'anziano capo religioso che dal suo esilio francese continua instancabilmente a predicare l'avvento di una rivoluzione  islamica purificatrice.
Nel gennaio 1979, l'aggravarsi della situazione interna, ormai sull'orlo dell'insurrezione popolare, convince lo scià della necessità di assicurare un trapasso incruento: col pretesto di un viaggio diplomatico, Reza Pahlavi lascia l'Iran con tutta la famiglia reale, dopo aver nominato un consiglio di reggenza e affidato il governo a Shapur Baktiar.
Il 31 gennaio l'ayatollah Khomeini torna trionfalmente a Teheran e assume di fatto le redini del potere, benché formalmente, deposto Baktiar, il governo passi nelle mani prima di Mehdi Bazargan, poi di Abulassan Bani Sadr.
Khomeini instaura un regime teocratico duro e intransigente, ispirato alle più rigide prescrizioni del Corano, fomentando nel popolo un cieco e pericoloso fanatismo religioso-politico. Il nuovo regime entra subito in rotta di collisione con gli Stati Uniti, accusati da Khomeini di essere il grande Satana e, alla fine del 1979, la situazione sembra precipitare quando un commando di sedicenti "studenti" islamici fa irruzione nell'ambasciata statunitense a Teheran e sequestra 52 diplomatici Usa. Solo dopo un anno di frenetiche trattative, il nuovo presidente statunitense Reagan riuscirà a ottenere la liberazione degli ostaggi.

Il fondamentalismo islamico
Si tratta di un'ideologia politico-religiosa che caratterizza i movimenti islamici di tendenza più radicale. È fondata sul presupposto dell'esistenza di un legame diretto tra i precetti religiosi desunti dal Corano e l'organizzazione politica dello Stato. Dato che il Corano contiene la Legge divina, sacra e immutabile, annunciata dal profeta Maometto, allora lo Stato, che è identificabile con la comunità dei credenti uniti dalla medesima fede, è tenuto a uniformarsi a essa in tutte le sue manifestazioni: istituzioni politiche, ordinamenti giuridici, linee-guida di politica economica ecc.
Ogni forma di laicizzazione della vita pubblica, ovvero di separazione della politica dai princìpi religiosi dell'islàm, è giudicata come una sorta di intervento di Satana ed è perciò dannosa e da combattere. In particolare, i fondamentalisti si oppongono con forza all'importazione di modelli e comportamenti di derivazione occidentale, che potrebbero corrompere l'identità islamica.
I movimenti integralisti, finanziati e fomentati soprattutto dall'Iran, aspirano inoltre alla diffusione dell'islàm a livello mondiale e per la realizzazione di questo progetto non esitano a far ricorso alla strategia del terrorismo internazionale. I loro attentati sono rivolti soprattutto contro gli Stati Uniti, considerati il regno di Satana, e contro i loro alleati.
La guerra Iran-Iraq 
A rendere più complicata la situazione dell'Iran si aggiunge una controversia con l'Iraq per la sovranità sulle acque dello Shatt el-Arab, contesa che nel settembre 1980 degenera in guerra aperta; la posta in gioco è la supremazia nella regione del golfo Persico e, più in generale, in tutto il mondo arabo.
Se nei primi due anni di conflitto l'Iraq, armato dall'Occidente che lo considera un baluardo contro il dilagare del fanatismo islamico, sembra avere la meglio, nel 1982 si riorganizza la controffensiva iraniana e la guerra mantiene un andamento incerto destinato a trascinarsi per molti anni.
Il prolungarsi del conflitto, oltre a mettere in ginocchio le economie dei due paesi belligeranti, si ripercuote negativamente sull'intero mondo arabo che, anche in questa circostanza, non riesce ad assumere una posizione unitaria: sostengono l'Iraq i paesi arabi moderati, in particolare Arabia Saudita, Giordania e Marocco: dalla parte dell'Iran si schierano Siria, Libia, Algeria e Olp.
In due fasi distinte riprese, nel 1983 e nel 1987, la guerra minaccia direttamente le installazioni petrolifere del golfo Persico, tradizionale luogo di approvigionamento energetico dell'Occidente.
Nell'estate del 1987 gli Stati Uniti (cui si aggregano Francia, Gran Bretagna e Italia) decidono di intervenire, assumendo al contempo l'incarico di scortare le petroliere in transito nel golfo.
La decisione americana scatena la furiosa reazione iraniana, che bandisce una vera e propria "guerra santa" nel tentativo di impedire l'intervento della flotta statunitense, ignorando la risoluzione dell'Onu che impone un immediato cessate il fuoco in tutta la regione.
La tensione sale per tutta la prima metà del 1988, finché, nel mese di agosto, una mediazione del segretario dell'Onu Perez de Cuellar ottiene una tregua seguita da immediate trattative di pace.
La guerra, durata otto sanguinosi anni, finisce così, senza vincitori né vinti.
La guerra in Libano 
Indipendente dal 1946, il Libano aveva goduto per circa un ventennio di una posizione privilegiata nell'ambito del mondo arabo, grazie a un particolare regime fiscale che attirava ingenti capitali esteri e a una politica estera moderata e filo-occidentale.
Gli squilibri cominciano dopo il conflitto arabo-israeliano del 1967, che provocò una massiccia immigrazione palestinese nel Libano, ulteriormente amplificatasi nel 1970 dopo l'espulsione dei palestinesi dai territori giordani.
L'Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) fissa qui il proprio quartier generale e proprio dal Libano meridionale dirige i suoi attacchi contro Israele, esponendo di conseguenza la regione alle controffensive israeliane.
A questa situazione si salda una sanguinosa guerra civile, in atto a partire dal 1975, tra la maggioranza musulmana (scissa al suo interno nei due gruppi degli sciiti e dei drusi), alleata dei palestinesi, e la minoranza cristiano-maronita, la quale detiene quasi completamente le principali leve del potere.
L'infuriare della guerra apre la strada alla presenza delle truppe straniere nel paese: fin dal 1976, la Siria ha occupato la parte orientale del Libano, mentre nel 1982 Israele ha avviato l'operazione Pace in Galilea, vera e propria invasione del Libano meridionale che si pone come obiettivo dichiarato lo smantellamento definitivo del quartier generale dell'Olp a Beirut, la capitale.
Il governo libanese chiede l'intervento di una forza multinazionale di pace: aderiscono all'invito Francia, Stati Uniti, Italia e, in seguito, Gran Bretagna, ma nemmeno l'intervento internazionale riesce a pacificare la regione.
Nel 1983 il presidente libanese Amin Gemayel stipula con Israele un trattato di pace per effetto del quale deve essere disposto il ritiro delle truppe israeliane dal Libano meridionale. La situazione, tuttavia, resta inalterata visto il perdurare dei conflitti tra Israele, Siria e alcune fazioni libanesi, nonché dei dissidi interni all'Olp tra la componente filosiriana e quella fedele a Yasser Arafat.
La forza multinazionale di pace viene definitivamente ritirata nel 1984 e, di fronte al precipitare della situazione, il presidente Gemayel impugna il trattato di pace con Israele e chiede l'intervento della Siria. Questa svolge un ruolo per certi versi ambiguo e contraddittorio e, pur non riuscendo a far tacere le armi né tra cristiani e musulmani né tra i diversi gruppi musulmani, si avvia, soprattutto dopo il ritiro delle truppe israeliane avvenuto nel 1985, a divenire il vero arbitro della situazione libanese.

 

Medio Oriente: anni Novanta

La guerra del golfo 
Alla fine del conflitto con l'Iran, l'Iraq vede rafforzata la sua potenza militare, ma fortemente compromessa la sua situazione economica.
Da questo punto di vista, un'ulteriore e grave minaccia viene dalla decisione del piccolo ma ricchissimo emirato del Kuwait di incrementare la produzione di greggio, in palese violazione degli accordi assunti dall'Opec (l'organizzazione che riunisce gli stati produttori di petrolio). Il Kuwait comincia infatti a estrarre enormi quantità di petrolio dai giacimenti di Rumalia, una regione di confine sulla quale l'Iraq avanza da tempo rivendicazioni territoriali.
Una tale politica da parte del Kuwait rischia davvero di dare il colpo di grazia alla già disastrata economia irachena, perché, aggravando la sovrapproduzione di petrolio, determina un ulteriore ribasso dei prezzi dei materiali energetici, che rappresentano il 90% delle risorse economiche dell'Iraq.
"Tempesta nel deserto" 
Il 2 agosto 1990 Saddam Hussein, rais dell'Iraq, invade il Kuwait, occupandone la capitale e i giacimenti petroliferi. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu adotta dapprima una serie di sanzioni economiche contro l'Iraq, che arrivano fino all'embargo totale; quindi, il 29 novembre, viene approvata (con i soli voti contrari dello Yemen e di Cuba, e con l'astensione della Cina) una risoluzione che legittima l'uso della forza se le truppe irachene non abbandoneranno il Kuwait entro il 15 gennaio 1991.
Scaduto l'ultimatum senza che Saddam Hussein dia segno di voler recedere dal suo proposito di annessione dell'emirato, il presidente americano George Bush (successore ed erede politico di Ronald Reagan) dà il via all'operazione "Tempesta nel deserto". La forza multinazionale alleata, il cui comando militare è affidato agli Stati Uniti, sferra un violento attacco nella notte tra il 15 e il 16 gennaio, bombardando massicciamente e a più riprese la capitale Bagdad.
Saddam Hussein tenta di legare la sua invasione del Kuwait alla questione palestinese e lancia ripetutamente missili contro Israele, sperando in una reazione dello stato ebraico. Egli mira a provocare il distacco dei paesi arabi dalla compagine antirachena, chiamandoli a una sorta di guerra santa contro l'Occidente. Israele, però, su sollecitazione di Bush, non reagisce.
L'offensiva degli alleati prosegue incessantemente fino alla fine di febbraio, quando Saddam Hussein abbandona il Kuwait e firma la resa dell'Iraq.
Le conseguenze del conflitto 
Da quel momento il rais di Bagdad rivolge tutti i suoi sforzi alla repressione interna: egli deve infatti fronteggiare continui tentativi di colpi di stato da parte di oppositori del regime e il separatismo della minoranza sciita nelle regioni meridionali del Paese, e dei curdi a nord.
La violenza con cui Saddam Hussein perseguita gli sciiti, e soprattutto i curdi, spinge l'Onu, nell'estate 1992, a creare due zone aeree protette, corrispondenti ai territori abitati da queste popolazioni, dove l'aviazione irachena non potrà volare: lo scopo è quello di impedire i continui e feroci bombardamenti di quelle regioni.
Saddam Hussein, però, vìola ripetutamente queste e altre risoluzioni prese dell'Onu, impedendo, per esempio, agli osservatori internazionali di compiere le ispezioni previste dal trattato di pace e minacciando nuovi tentativi militari di annessione del Kuwait.
Il perdurare di questa situazione determina, nel corso del 1993, nuovi scontri armati: Usa, Gran Bretagna e Francia bombardano a più riprese alcuni obiettivi militari posti nel sud del paese, mentre l'aviazione americana colpisce la sede dei servizi segreti a Bagdad.
È la popolazione irachena, intanto, a pagare lo scotto più pesante della guerra: l'embargo internazionale ha ormai messo in ginocchio l'economia dello Stato e la propaganda del regime serve sempre meno a far dimenticare al popolo problemi gravi come la carenza di generi alimentari e di medicine.
La questione palestinese 
L'inizio degli anni Novanta porta nell'annosa guerra tra israeliani e palestinesi una ventata di ottimismo.
Le due parti in conflitto sembrano infatti ammorbidire le loro reciproche posizioni e voler finalmente giungere a una seria trattativa di pace. Nel giugno 1992 le elezioni politiche israeliane sono vinte dal Partito laburista.
Il nuovo primo ministro, Yitzhak Rabin, si mostra subito più disponibile del suo predecessore Shamir: vista l'impossibilità di reprimere l'intifadah (la cosiddetta "rivolta delle pietre" messa in atto dalla popolazione palestinese dei territori occupati) che infuria dal 1987 a Gaza e in Cisgiordania, Rabin si rende conto che non è più possibile negare il diritto dei palestinesi all'autodeterminazione e che, per giungere un accordo, occorre riconoscere l'Olp e ammetterla ai negoziati di pace.
Il leader dell'Olp Yasser Arafat, da parte sua, professa l'abbandono della pratica terroristica e limita i suoi obiettivi politici all'instaurazione di uno stato palestinese indipendente nei territori di Gaza e Cisgiordania.
E così, dopo lunghe trattative segrete svoltesi in Norvegia, il 13 settembre 1993 le due parti firmano a Washington, alla presenza del presidente americano Bill Clinton, una storica "Dichiarazione di principio sull'autogoverno palestinese". Essa prevede il ritiro dai territori occupati di Gaza e Gerico dell'esercito israeliano, che continuerà comunque a essere responsabile della sicurezza della zona, e soprattutto degli insediamenti ebraici che vi sono collocati.
Il trattato prevede inoltre l'elezione di un Consiglio palestinese e il passaggio graduale di tutti i poteri civili (fisco, sanità, istruzione, servizi sociali) all'amministrazione autonoma palestinese. Quest'ultima viene poi estesa anche alla Cisgiordania dall'accordo firmato da Peres e Arafat il 24 settembre 1995.
Una battuta d'arresto verso la pace 
Le fazioni estremistiche sia israeliane sia palestinesi si oppongono tuttavia a questi accordi, che considerano una sorta di "tradimento" degli ideali palestinesi: si susseguono, perciò, numerosi e sanguinosi attentati terroristici, che rischiano spesso di vanificare tutti gli sforzi compiuti sulla strada della pace.
Il 1° luglio 1994 Yasser Arafat rientra a Gaza dopo ventisette anni di esilio a Tunisi e viene acclamato presidente del nuovo stato palestinese. Si trova "tra l'incudine e il martello": viene contestato dagli integralisti del potente movimento Hamas, e deve rassicurare le autorità israeliane sulla sua capacità di rispettare gli accordi e di impedire il riacutizzarsi del terrorismo.
La pace in Medio Oriente è ancora incerta, ma il trattato del settembre 1993, perfezionato da quello del settembre 1995, rappresenta una svolta storica.
Il premio Nobel per la pace 1994 viene attribuito alle tre personalità che hanno reso possibile questa svolta: Itzhak Rabin, premier di Israele, Shimon Peres, ministro degli esteri israeliano, e Yasser Arafat.
Il 4 novembre 1995 Itzhak Rabin è assassinato da Yigal Amir e il giorno successivo Shimon Peres è nominato premier. Nel maggio 1996 è eletto Benjamin Netanyahu, che congela il processo di pace dei predecessori.

 

 

Nuove tensioni nel mondo

L'intervento sovietico in Afghanistan  
Se gli anni Settanta avevano rappresentato, nel complesso, un momento di relativa distensione tra Usa e Urss, grazie ad alcuni accordi commerciali e militari e all'apertura politica dimostrata nei confronti dell'Unione Sovietica dalla Germania di Willy Brandt, gli anni Ottanta si aprono all'insegna di una nuova tensione bipolare, caratterizzata dalla corsa agli armamenti e dallo scontro ideologico e propagandistico.
In questi anni si formano i nuovi governi conservatori in Gran Bretagna, guidati da Margaret Thatcher, e soprattutto negli Stati Uniti, con i due mandati quadriennali consecutivi del presidente repubblicano Ronald Reagan. E sono anche gli anni nei quali nel blocco sovietico si manifestano le prime crepe.
Nel dicembre 1979 l'Armata Rossa invade il vicino Afghanistan, con lo scopo di abbattere con la forza delle armi il governo comunista di Afizullah Amin (che muore durante l'operazione), sostituendolo con un governo-fantoccio dipendente direttamente da Mosca, capeggiato da Babrak Karmal.
I vari governi che si erano succeduti a Kabul (capitale dell'Afghanistan) a partire dal colpo di stato comunista del 1978 non erano infatti riusciti a stroncare la resistenza del movimento islamico, che, col favore dell'opinione pubblica, minacciava di strappare l'Afghanistan dall'orbita sovietica.
Tuttavia, quella che nelle intenzioni del Cremlino avrebbe dovuto configurarsi come una rapida e pressoché indolore operazione politica, si rivela quasi subito una sorta di boomerang: da un lato infatti si scontra con l'agguerrita resistenza della popolazione afghana che si trasforma in un'instancabile guerriglia contro le truppe di occupazione, dall'altro finisce per attirare contro l'Unione Sovietica le ire di un Occidente dominato ormai  dalla politica rigida e intransigente del presidente statunitense Reagan e dalla sua alleata europea, la "lady di ferro" inglese, Margaret Thatcher.
La Polonia e Solidarnosc 
L'altra spina nel fianco dell'Unione Sovietica dei primi anni Ottanta è rappresentata dalla Polonia, un paese per certi versi anomalo rispetto al blocco dell'Europa orientale, soprattutto a partire dal 1978, quando l'elezione di un papa polacco, Karol Wojtyla, offriva alla Chiesa di Polonia una nuova forza, che avrebbe potuto dimostrarsi utile anche da un punto di vista politico.
Nell'estate del 1979, gli operai delle miniere di Danzica, polmone economico della nazione, danno il via a un lungo sciopero che ben presto assume la forma di una vera e propria sfida al regime; la protesta si diffonde rapidamente in tutto il paese, coordinata dal sindacato libero Solidarnosc e dal suo leader, Lech Walesa.
Il regime in un primo tempo adotta un atteggiamento conciliante e "morbido", riconoscendo il sindacato:  la rivolta, tuttavia, non si placa e, allo scopo di riportare l'ordine e forse anche di scongiurare un intervento armato sovietico, il partito mette in atto, nel dicembre 1981, un'operazione repressiva, proclamando lo stato d'assedio e insediando un Consiglio militare di salvezza nazionale alla cui presidenza viene posto il generale Jaruzelski.
Viene imposto il coprifuoco, la censura e il blocco delle comunicazioni con l'estero. Il sindacato Solidarnosc viene soppresso e tutti i suoi principali esponenti, compreso Lech Walesa, finiscono in prigione.
I provvedimenti eccezionali vengono revocati alla fine dell'anno, ed è a questo punto che entra in gioco il ruolo "politico" della Chiesa cattolica, che, attraverso il primate monsignor Glemp, ha assunto in numerose circostanze il ruolo di interlocutore di Jaruzelski e di polo di aggregazione dell'opposizione al regime.
Proprio per questo suo ruolo la Chiesa cattolica paga un prezzo molto alto: nell'ottobre 1984 padre Jerzy Popieluzko, un sacerdote molto vicino a Solidarnosc, viene rapito, torturato e ucciso da alcuni funzionari dei servizi segreti, che, all'insaputa di Jaruzelski, tentano in questo modo di suscitare una rivolta popolare per costringere il generale a ripristinare lo stato di guerra.
L'America Latina: il ritorno alla democrazia 
Gli anni Ottanta si aprono all'insegna dell'instabilità del continente latino-americano, sottoposto, nel suo complesso, al travaglio di una sanguinosa lotta politica tra le dittature militari insediatesi negli anni Sessanta e Settanta (e sostenute più o meno direttamente dagli Stati Uniti), e l'opposizione clandestina. La pesante crisi economica che attanaglia gli stati latino-americani scava un solco sempre più profondo tra l'opinione pubblica e i governi: la resistenza popolare minaccia sempre più da vicino la sopravvivenza stessa delle giunte militari, e queste reagiscono con una violenta politica repressiva, che non esita a ricorrere al sequestro e all'eliminazione fisica dei dissidenti.
In Argentina, solo nel 1983, all'avvento di un nuovo regime democratico, viene alla luce in tutta la sua gravità ed evidenza il fenomeno dei cosiddetti desaparecidos (scomparsi): migliaia di individui fatti "sparire" e poi barbaramente uccisi dalla giunta militare per la loro opposizione al regime.
Gradualmente, però, quasi tutti gli stati del Sudamerica intraprendono negli anni Ottanta la difficile strada verso la democrazia e, a una a una, le dittature lasciano il posto a governi democraticamente eletti: è il caso di Brasile, Perù, Bolivia, Guatemala, Uruguay, Ecuador, Argentina e, da ultimo, anche del Cile, che nel 1990 riesce finalmente a liberarsi della dittatura del generale Pinochet iniziata 15 anni prima.
Tale evoluzione politica è tuttavia alquanto fragile, sia perché non sempre si accompagna a un effettivo ricambio della classe dirigente, sia per il permanere degli enormi problemi economici e sociali legati al sottosviluppo. Questi paesi sono infatti caratterizzati da un elevato grado di dipendenza economica, da un alto tasso di inflazione e da tensioni sociali dovute soprattutto a povertà, sovrappopolamento, diseguaglianze sociali e criminalità.
Il tratto distintivo dell'economia di tutti questi Stati è poi l'enorme debito estero lasciato in eredità dai regimi dittatoriali, che vi erano ricorsi per sostenere le spese militari e per agevolare il processo di industrializzazione.
L'India verso lo sviluppo 
Nell'ottobre 1984 muore in un attentato Indira Gandhi, la grande statista indiana che, proseguendo la politica di suo padre Nehru, stava cercando di strappare l'India alla piaga del sottosviluppo. Grazie a una profonda rivoluzione agricola fondata su un completo rinnovamento delle tecniche, la Gandhi era riuscita a portare l'India all'autosufficienza alimentare e aveva anche avviato un consistente processo di industrializzazione.
Tuttavia ciò non era bastato a risolvere definitivamente il grave problema della fame, dovuto anche a un fortissimo incremento demografico: circa metà della popolazione indiana vive ancora oggi sotto la soglia di povertà, con strutture sanitarie carenti e un altissimo grado di analfabetismo. A uccidere Indira Gandhi è una sua guardia del corpo di nazionalità sikh (una minoranza etnica separatista contro la quale la Gandhi ha sempre mantenuto un atteggiamento fortemente repressivo). Le succede suo figlio Rajiv Gandhi, che proseguirà sulla stessa strada finché nel 1991 non cadrà anch'egli vittima di un attentato.

 

L'Unione Europea

L'integrazione europea 
Sul finire degli anni Settanta subisce una forte accelerazione il tentativo, da parte degli stati dell'Europa occidentale, di fare della Cee (Comunità economica europea) un'organizzazione internazionale che favorisca la pace e lo sviluppo del continente, rendendola competitiva rispetto ai due colossi (Usa e Urss) che, dalla fine della seconda guerra mondiale, dominano il mondo.
Il 1979 vede la nascita di due nuovi strumenti di coordinamento economico-politico tra gli stati membri della Comunità (Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca). Il primo di questi strumenti è il Sistema monetario europeo (Sme): si tratta di un complesso meccanismo che stabilisce i rapporti di cambio fra le monete dei vari paesi, consentendone le oscillazioni solo entro limiti prefissati. Tutte le monete vengono poi rapportate all'Ecu, una moneta di conto che non esiste materialmente, ma che ha un valore di riferimento.
Il secondo strumento è di carattere politico: è il Parlamento europeo, un'assemblea sovranazionale eletta a suffragio universale da tutti i cittadini degli stati membri della Cee e che esercita un'attività per lo più consultiva.
Attraverso il Sistema monetario europeo e il Parlamento europeo si cerca di rendere il più possibile omogeneo lo sviluppo economico e politico dei singoli stati, oppressi dalla grave crisi economica degli anni Settanta.
Dalla CEE all'Unione Europea 
Proprio questa recessione, causata anche dal repentino aumento dei prezzi del petrolio e delle materie prime, provoca profondi squilibri tra gli stati, che reagiscono in maniera diversa, a seconda del grado di sviluppo e delle caratteristiche economiche di ciascuno.
Tali squilibri tendono ad approfondirsi con l'adesione alla Cee di tre nuovi membri: nel 1981 è il turno della Grecia, mentre la Spagna e il Portogallo vi entrano nel 1986. Risalta a questo punto nettamente il divario tra i paesi dell'Europa settentrionale e quelli dell'area mediterranea, economicamente più depressi e meno industrializzati, e ciò rende piuttosto difficile l'adozione di politiche unitarie fra gli stati.
Per cercare di riequilibrare, almeno parzialmente, la situazione, si procede, nel 1986, alla ratifica dell'Atto unico europeo, un documento che mira a favorire una maggiore integrazione fra i diversi paesi: esso infatti prefigura, tra l'altro, la costituzione di un mercato unico nel quale, aboliti i controlli alle frontiere, sia assicurata una libera circolazione di persone, merci, capitali e servizi.
Tale area di libera circolazione, inizialmente prevista per l'inizio del 1993, è entrata in vigore, per quanto riguarda la libera circolazione delle persone, solo nel marzo 1995, e riguarda unicamente sette paesi: Germania, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Spagna e Portogallo. L'Italia e la Grecia, che avevano chiesto di parteciparvi, non sono state invece ammesse, almeno in un primo tempo, perché in ritardo con gli impegni assunti con i partner europei.
Nel 1995, intanto, altri tre paesi - Austria, Finlandia e Svezia - entrano nell'Unione Europea (nuova denominazione, dal novembre 1993, della Cee). Il cammino verso l'integrazione è però sempre più in salita: sia le difficoltà economiche sia le tendenze nazionalistiche, esplose nell'Europa dell'Est (e non del tutto assenti anche in Occidente), fanno privilegiare gli interessi nazionali su quelli comunitari. Il colosso economico rappresentato dalla Germania riunificata esercita ormai un'egemonia indiscussa sull'articolato mosaico europeo: il marco tedesco si impone come moneta di riferimento, sconvolgendo spesso i mercati valutari con il suo irrefrenabile apprezzamento.
Il trattato di Maastricht 
Sottoscritto nel febbraio 1992 - poco prima, cioè, che sull'Europa si abbattesse la scure di una nuova, e più pesante, fase di recessione economica - il trattato di Maastricht rappresenta una tappa decisiva nella costruzione di un'Europa comunitaria. Con esso i vari stati nazionali ribadiscono la loro volontà di arrivare a una più stretta collaborazione economica, adottando una moneta unica e una banca centrale comune, e stabilendo tempi e criteri per giungere a questo obiettivo. Viene poi prefigurata l'introduzione di una sorta di "cittadinanza europea", con la quale i cittadini comunitari potranno godere di particolari diritti politici e sociali.
La grande novità del trattato, però, è quella di prevedere una "politica estera di sicurezza comune" (Pesc). Per la prima volta, dunque, l'Unione europea si propone concretamente un obiettivo non strettamente economico nell'ottica di un maggiore coordinamento delle rispettive linee di politica estera.
Il rispetto degli accordi di Maastricht crea però una serie di problemi: in molti paesi dell'Unione europea una parte dell'opinione pubblica accetta con molta difficoltà l'idea di intaccare l'autonomia degli stati nazionali e, inoltre, i paesi economicamente più forti temono di dover sostenere costi eccessivamente elevati per favorire lo sviluppo delle nazioni a economia depressa.
Si fa strada a più riprese l'idea di far procedere il cammino verso l'integrazione su due binari: uno per le nazioni più forti (il cosiddetto "nocciolo duro" formato dall'asse franco-tedesco e dal Benelux) che hanno le carte in regola per rispettare il trattato di Maastricht nei termini previsti; l'altro per le nazioni più deboli, che ancora non sono riuscite ad adeguarsi ai criteri fissati a Maastricht (l'Italia farebbe parte di questo secondo gruppo).
L'idea di una "Europa a due velocità", tuttavia, indebolirebbe non poco la forza dell'Unione Europea come compagine unitaria, capace di porsi come punto di riferimento economico e politico nel mondo intero. D'altra parte il divario economico, in alcuni casi di un certo rilievo, tra i vari stati è una realtà dalla quale non è possibile prescindere, e che viene anzi progressivamente aggravata dal ruolo sempre più condizionante svolto dall'economia e dalla moneta tedesca, anche dopo la riunificazione delle due Germanie. Il problema resta dunque più che mai aperto.

Il governo dell'Europa
Gli organi di governo dell'Unione Europea sono Parlamento europeo, Consiglio, Commissione, Corte di giustizia e Corte dei conti. Il Parlamento europeo, formato da deputati eletti ogni cinque anni dai cittadini degli stati membri, ha poteri deliberativi e di controllo della Commissione. Il Consiglio, che si occupa di coordinare la politica economica generale, è composto dai ministri (uno per ogni stato) competenti nelle materie che di volta in volta sono oggetto di discussione: ambiente, lavoro ecc.
La Commissione è formata da commissari nominati dai rispettivi governi, che restano in carica quattro anni ed esplicano funzioni esecutive, ciascuno nel proprio settore. Il Consiglio e la Commissione emanano regolamenti, risoluzioni, direttive o pareri. La Corte di giustizia, composta da giudici nominati concordemente dagli stati ogni sei anni, decide sulle controversie tra gli stati o giudica i ricorsi presentati contro provvedimenti del Consiglio o della Commissione. La Corte dei conti, composta da dieci membri designati dal Consiglio, controlla i conti della Comunità e di ogni organismo da essa costituito.
La Gran Bretagna dopo la Thacher 
Nel novembre 1990 termina in Gran Bretagna, dopo undici anni, l'era di Margaret Thatcher, costretta alle dimissioni da una mozione di sfiducia presentata da alcuni membri del suo stesso partito. La rigidità ultraliberista della sua politica economica e l'intransigente spirito antieuropeista della "lady di ferro" erano infatti diventati sempre più impopolari sia all'interno sia presso i partner comunitari.
Come successore della Thatcher viene nominato John Major, anch'egli esponente del Partito conservatore, ma fautore di una linea politica più moderata e meno incline allo scontro sociale. Major si trova subito a dover gestire una situazione economica difficile, caratterizzata da una notevole ripresa produttiva, a prezzo, però, di profondi squilibri sociali: la disoccupazione tocca punte del 15% e larghe aree del paese (in particolare le Highlands scozzesi e la regione di Liverpool-Manchester) si trovano in una condizione di profonda depressione economica, tanto che per la prima volta la Cee concede loro gli aiuti straordinari previsti per le aree più povere d'Europa.
Lo sforzo del governo Major è dunque quello di limitare gli eccessi del "thatcherismo" pur restando nel solco di un'economia di mercato, e nel contempo di rassicurare gli altri stati della Cee sulla reale volontà della Gran Bretagna di partecipare a pieno titolo al processo di integrazione europea.
Il problema dell'Irlanda del Nord 
Il maggiore risultato conseguito da Major è l'avvio a soluzione del problema nordirlandese. Da 25 anni, infatti, perdura nell'Ulster un doppio conflitto: da una parte l'Ira (l'Esercito repubblicano irlandese) combatte la sua guerriglia terroristica contro il governo di Londra; dall'altra infuria la guerra civile tra la comunità cattolica e nazionalista, fautrice dell'unificazione con l'Eire, e quella protestante, che non intende separarsi dalla Gran Bretagna.
Dopo lunghe trattative ufficiose tra Major e Gerry Adams, leader del Sinn Feinn (braccio politico dell'Ira), si giunge, il 31 agosto 1994, alla storica dichiarazione con la quale l'Ira annuncia un cessate il fuoco unilaterale, condizione preliminare alla stipulazione di un accordo con le autorità inglesi.
In base a tale accordo la Gran Bretagna non avrà più il controllo totale dell'Ulster e la Repubblica d'Irlanda si impegnerà a non annettersi, per il momento, le sei contee dell'Irlanda del Nord, il cui governo verrà affidato a una forma di sovranità congiunta e ogni decisione sul futuro dell'Ulster dovrà essere presa dalla popolazione stessa.
Si tratta finalmente di un primo, significativo passo verso un riassetto definitivo della martoriata regione irlandese.
La Francia da Mitterrand a Chirac 
A partire dal 1986 in Francia i socialisti del presidente Mitterrand subiscono un progressivo declino elettorale, a vantaggio dei partiti di centro-destra sostenitori di una politica economica di tipo neoliberista. Mitterrand, rieletto alla presidenza della repubblica nel 1988, si trova dunque costretto al cosiddetto "regime di coabitazione" con un governo di diverso orientamento politico, e questo comporta alcuni problemi: secondo la Costituzione francese, infatti, il presidente, che è eletto direttamente dal popolo, oltre a nominare personalmente i membri del governo è anche il capo delle forze armate, e ciò gli conferisce il diritto di esercitare una forma di supervisione sulla politica estera e di difesa nazionale. Vi è dunque il rischio reale che venga a crearsi un conflitto tra il governo e il presidente.
Il carisma e il prestigio, anche internazionale, di Mitterrand, oltre che la sua sensibilità politica, gli consentono comunque di aggirare le difficoltà; egli si trova però a guidare la Francia confrontandosi non solo con il centro-destra di ispirazione neogollista, ormai maggioritario nel paese, ma anche con l'emergente Fronte nazionale di Jean-Marie Le Pen, un movimento di estrema destra razzista e xenofobo, che fa leva soprattutto sul malcontento popolare e sulle tensioni sociali presenti nelle regioni a più forte tasso di immigrazione.
L'era di Mitterrand - scomparso nel gennaio 1996 - termina dopo quattordici anni di permanenza all'Eliseo, nel maggio 1995, quando le elezioni presidenziali sanciscono la vittoria di Jacques Chirac, sindaco di Parigi ed esponente del partito neogollista Rassemblement pour la république.
Il nuovo presidente sancisce fin dall'inizio un profondo mutamento di rotta rispetto a Mitterrand: ne sono esempio la linea politica fortemente interventista nei confronti della guerra bosniaca e, soprattutto, la ripresa dei test nucleari al largo della Polinesia, interrotti dal suo predecessore nel 1992 in nome della difesa dell'ambiente e della messa al bando di tutte le armi nucleari. La decisione di Chirac di riprendere gli esperimenti susciterà un coro di proteste da parte dell'opinione pubblica e dei governi di tutto il mondo.
L'Occidente tra immigrazione e razzismo 
Un altro grave problema che l'Unione europea si trova a dover fronteggiare è quello del crescente tasso di immigrazione, per lo più clandestina, proveniente dalle nazioni extracomunitarie.
Il divario tra paesi ricchi e paesi poveri, tra nord e sud del mondo (ma spesso anche tra est e ovest del pianeta), va infatti accentuandosi, e migliaia di persone provenienti da ogni parte della Terra affrontano viaggi massacranti, in condizioni di massimo rischio e senza alcuna prospettiva certa per il futuro, pur di raggiungere l'Europa occidentale.
Questo fenomeno, andando a innestarsi direttamente sulla grave crisi economica e occupazionale che caratterizza l'Europa dei primi anni Novanta, determina in alcune fasce di popolazione una reazione irrazionale, apertamente xenofoba e razzista, che raggiunge livelli allarmanti soprattutto in Germania, in Francia e in Italia. Ciò che preoccupa maggiormente è che tale tendenza è spesso sostenuta da movimenti politici di estrema destra che hanno un notevole seguito nell'opinione pubblica.
Di fronte a queste massicce ondate migratorie, che determinano un innegabile e concreto disagio sociale, tutti i paesi dell'Europa occidentale cercano anzitutto di creare barriere in grado di reprimere o di rendere difficile l'afflusso e la permanenza sul proprio territorio degli immigrati extracomunitari.
Del resto nessuna politica di rigore sul fronte dell'immigrazione clandestina può avere successo se non è accompagnata da un equo programma di sostegno nei confronti dei paesi più poveri; un sostegno che non deve limitarsi a un semplice contributo economico, ma che deve prevedere concrete misure in grado di favorire dall'interno la crescita politica ed economica di quegli stati.

 

Fonte: http://files.achillefolgieri.webnode.com/200000288-66f8467f28/Storia%20Contemporanea.doc

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