Storia di Milano

 


 

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Storia di Milano

Prefazione

Abbiamo un buon numero di scrittori della storia e della erudizione patria; eppure pochi sono i Milanesi, anche scegliendo gli uomini colti, i quali abbiano un'idea della storia del loro paese. Questa generale oscurità ci dispiace, e tavolta ancor ci pregiudica; ma gli ostacoli che dovremo superare per acquistare la notizia, sono tanti e sì difficili, che, affrontati appena, ci sgomentano; e, trattine alcuni pochi eruditi per mestiere, i quali si appiattano a vivere fra i codici e le pergamene, non vi è chi ardisca di vincerli. Il Calchi, l'Alciati, il Corio han qualche nome. Sono preziosi monumenti de' secoli barbari gli scritti di Arnolfo, dei due Landolfi, di sire Raul, di Bonvicino da Ripa, del Fiamma, di Giovanni da Cermenate, di Bonincontro Morigia e di Pietro Azario. Abbiamo le Memorie di Andrea Biglia, di Giovanni Simonetta, di Donato Bossi, del Merula, del Bugatti, di Bonaventura Castiglioni, di Gianantonio Castiglioni, del Puricelli, del Bescapè, del Ripamonti, di Francesco Castelli, del Benaglia, di Paolo Morigia, del Besozzi, del conte Gualdo Priorato, del Somaglia, del Torri, del Besta, di Andrea de Prato e di altri, i quali, o hanno scritta la storia dell'età loro in Milano, ovvero hanno illustrato il sistema politico del nostro governo, o in altro modo hanno lasciato memorie dello stato della città al loro tempo. Negli anni a noi più vicini il Grazioli, il Lattuada, il Sormani molto hanno travagliato per porre in chiaro le cose della nostra città. Una singolar menzione d'onore merita da ogni buon cittadino, e da me particolarmente, il signor conte Giorgio Giulini, uomo che ha consacrata e logorata la sua vita, per dar luce ai sei più tenebrosi secoli della nostra istoria, con una ostinata fatica di molti anni, e tale, che, superando le sue forze fisiche, lo ha ridotto a languire più mesi, indi a terminare i suoi giorni.

 

Chiunque prenderà nelle mani la voluminosa opera di quel benemerito cavaliere, non potrà giudicarne con equità, se prima non distingua l'antiquario dallo storico; il primo cerca di sviluppare la verità di tutti gli antichi fatti, e non ne omette alcuno quand'abbia soltanto la probabilità che debba un giorno servire anche a una privata famiglia, e dispone in ordine un vastissimo magazzino di memorie; il secondo trasceglie dalla serie dei fatti antichi i soli importanti e caratteristici, li collega, e presenta quindi al lettore un seguito di pitture, atte a stamparsi facilmente nella memoria, dilettevoli ed utili a contemplarsi. Il conte Giulini non ha pensato mai di pubblicare la storia di Milano: egli ha pubblicato tutte le memorie opportune a servire alla storia, alle private e pubbliche ragioni, alla curiosa erudizione generalmente; ed io credo che l'antica stima ch'ebbi per lui, per la bontà del suo carattere, non mi seduca punto se dico che in quell'opera si ammira la sagacità e la giustezza della sua mente nell'esatta sua critica; la quale se talvolta sembra venir meno, ciò è di raro, e se ne vede facilmente la cagione. In mezzo però a tanta copia di autori non ne abbiamo ancora uno il quale, con chiarezza, metodo e discernimento, sviluppi il filo della nostra storia, e c'instruisca sugli oggetti più importanti della nostra antichità. Questa verità mi ha determinato a tentare l'impresa: e se alla buona mia volontà avrà corrisposto il talento, potrò compiacermi d'aver posto nelle mani degli uomini che cercano d'istruirsi, un'opera in due volumi, che però non li sbigottisca colla mole, e non pretenda una difficile attenzione per oggetti indifferenti, e per mezzo di cui non siamo più noi Milanesi forestieri in casa propria. La più bella parte della specie nostra, e la più amabile potrà essa pure, forse utilmente, passare qualche ora, riflettendo sulle vicende trascorse, e ricercarne le occulte cagioni se non colla energia, che è propria dell'uomo, colla dilicata finezza che il cielo ha a lei concessa a preferenza. Nell'educazione della nascente speranza della patria, potrà forse aver luogo la notizia de' nostri antenati e delle rivoluzioni accadute. Tale almeno è stata la lusinga che mi ha fatto intraprendere questo lavoro. Se oltre la comune utilità dell'oggetto, anche il tedio superato per riuscirvi può disporre il lettore all'indulgenza, io ardisco aspirarvi. Di cento fatti esaminati, talvolta ne ho trascelto un solo, ed ho fatto il possibile per non trasmettere al lettore la noia ch'io ho dovuta sopportare.


Posso assicurare i miei lettori che niente ho asserito prima di esaminare, e niente ho scritto che non mi paia vero. Ho rappresentati gli oggetti quali gli ho veduti. Non sempre in ciò sono d'accordo co' nostri autori: ciascuno ha i propri principii e un modo suo proprio di sentire; e per essere di buona fede, non debbo inquietarmi se non sono dell'opinione comune. Molte idee nuove ed opposte a quanto, ripetendo, hanno scritto finora i nostri eruditi, si troveranno in quest'opera, sull'antichità, sui diversi Stati, e intorno alcuni supposti privilegi di Milano. Molti de' principi che hanno signoreggiato sulla nostra patria, si vedranno rappresentati da me con colori diversi dagli usati sinora; perché, combinando i fatti, ho cercato di cavare da essi le opinioni, anziché trascrivere i giudizi già pronunziati. Non rispondo che in un'opera vasta per se medesima non mi possa esser corso qualche errore di fatto; e quale è mai l'opera dell'uomo che sia sicura di non averne! Rispondo bensì che ho fatto quanto era possibile alla mia diligenza per non lasciarvene. Chi vorrà essere minutamente istrutto delle antichità milanesi, non potrà certamente divenirlo colla sola lettura di questo libro; ma, dopo di esso, converrà che ricorra agli autori originali, e con essi si addomestichi: ma per le persone che cercano soltanto sgombrare le tenebre, ed acquistare una conveniente istruzione delle cose della patria, questo libro può bastare, e per essi veramente ho travagliato.


Il linguaggio della storia è quello della verità: sacra, augusta verità, nemica di quella cinica invidiosa maldicenza che cerca di trovare la malignità nella debolezza: nemica della licenza, turbolenta, declamatrice, che, incautamente affrontando ogni opinione, tenta di svellerla, per ambizione di nuove dottrine, a cui sacrifica il proprio e l'altrui ben essere: verità, donna e signora delle menti assennate, che placidamente si annunzia e porta gradatamente la face dell'evidenza, senza offendere gli occhi con passaggero balenare d'una efimera luce. Questa amabile e virtuosa verità, darà l'anima al mio stile; e due sentimenti son certo che i giudiziosi miei lettori vi troveranno costantemente, amore del vero, ed amore della patria. Avrei tralasciato di porre il mio nome a quest'opera, se i fatti si potessero credere ad un incognito, come si possono esaminare i ragionamenti senza bisogno di sapere chi gli abbia tenuti. Ho rappresentato lo stato de' nostri maggiori, senza fiele e senza adulazione. Ho rispettato la patria e i miei lettori, e non presento loro favole illustri. Ho imparzialmente dipinte la grandezza e la depressione; la oscurità e la gloria; il vizio e la virtù, quali mi sono presentati nella successione de' tempi. Destiamoci ora noi per trasmettere ai posteri, costumi ed azioni che la storia possa narrar con piacere, senza bisogno di alcun ornamento.


Capitolo I

Antichità di Milano sino alla devastazione di Attila, seguìta nell'anno 452

 

L'origine di una città antica si perde comunemente nella oscurità de' tempi favolosi, e ascende sino a que' rimoti secoli dai quali a noi non è trapassato monumento alcuno, e perciò debbono considerarsi come secoli isolati e inaccessibili alla nostra curiosità. Tale si è la fondazione della città di Milano, di cui Plinio, Giustino e Livio fanno menzione, con autorità però sempre dubbia; perché trattasi di un avvenimento accaduto più secoli prima che questi autori scrivessero, e presso di un popolo che probabilmente ignorava persino l'arte della scrittura con cui passare a' posteri la notizia de' fatti. Conviene però queste opinioni conoscerle, e brevemente esaminarle, per separare dalla massa delle tradizioni quella porzione che sia più credibile.
Gli scrittori latini concordemente fanno discendere gli abitatori dell'Insubria dai Galli, che, superate le Alpi, si collocarono in questa pianura; e perciò quella che oggidì chiamasi Lombardia,dai Romani ebbe il nome di Gallia Cisalpina. Questa generale opinion degli antichi viene confermata ancora al dì d'oggi dalla pronuncia del dialetto popolare. La stessa lingua italiana presso gli abitanti di qua dalle Alpi, da Genova a Brescia, e da Torino a Piacenza, viene pronunciata con vocali ed accenti affatto forestieri all'Italia, per modo che, chiunque sia avvezzo al parlare di Napoli, di Roma, della Toscana o d'altra parte d'Italia, giudicherà piuttosto Francesi, che Italiani i Lombardi che parlano il loro dialetto; il che rende verosimile l'origine più sopra accennata. Dico l'origine, perché se bastasse un lungo soggiorno a lasciare una così durevole diversità, noi dovremmo avere assai più parole ed accenti teutonici che non abbiamo, sebbene la lunga dominazione de' Longobardi e l'invasione loro sia accaduta in secoli a noi più vicini.

 

Fonte: http://itiaho.altervista.org/Library/My_eBooks/Verri_Pietro/Storia_Milano1.doc

Autore del testo: Pietro Verri

 

Pietro Verri nasce a Milano nel 1728 da una famiglia nobile e conservatrice. Passa la sua infanzia e la sua adolescenza in vari istituti religiosi finché, nel 1749, non manifesta la sua ribellione nei confronti dell'ambiente nel quale era cresciuto. Contrariato dalla decisione del padre di fargli intraprendere gli studi giuridici, nel '59 parte come volontario per la Guerra dei Sette Anni ma, non riuscendo a sopportare l'ambiente militare, si congeda l'anno dopo. A Milano, insieme con il fratello Alessandro, Paolo Frisi, Cesare Beccaria, Carli e Secchi, fonda un'accademia, la Società dei Pugni, che per due anni, dal 1764 al 1766, redige la rivista “Il Caffè”, un periodico di stampo illuministico tra i più vivaci ed innovativi dell'ambiente milanese: un periodo di fervido lavoro per il Verri, il quale si dedica sia alla redazione degli articoli per Il Caffè, sia alla composizione di opere varie, tra cui "Il Discorso sulla felicità" (1763). Sciolto il gruppo della rivista, il Verri comincia a lavorare per l'amministrazione austriaca, un lavoro che non lo gratifica né da un punto di vista personale, né da un punto di vista ideale, anche se, proprio in questo periodo, riprende a scrivere moltissimo. Lo scoppio della Rivoluzione francese riaccende in lui le speranze e l'invasione napoleonica lo porta a ricoprire cariche nella Municipalità provvisoria, nonostante il suo atteggiamento poco incline al giacobinismo. Muore nel 1797.

 

fonte: http://www.itchiavari.it/lettere/letteratura_italiana/1700/Verri/Verri-Biografia.doc

autore del testo non indicato nel documento di origine

 

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